Dati bibliografici
Autore: Giuseppe Cremascoli
Tratto da: Dante e la Bibbia
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1988
Pagine: 153-172
Quando Guglielmo d'Auxerre definiva la fede come acquiescere primae veritati super omnia propter se, si riferiva, certo, a una fase molto avanzata dell'itinerario in Dio del credente, quasi a un preannuncio della condizione del secolo futuro, quando le ombre e gli enigmi lasceranno il posto alla fruizione della Verità. Nel tempo presente, la quies non sembra un dono da molti goduto, e anche «il cristianesimo medievale» - come scrive il Manselli - «è pervaso da un’inquietudine intellettuale, la cui importanza ci sembra ancora ben lungi dall'essere stata sufficientemente approfondita e compresa». Qui si tenta di fissare un momento cli questo travaglio, all'epoca dei profondi rivolgimenti subiti dalla cultura europea dalla rinascita del XII secolo ai primordi dell'Umanesimo e in uno specifico ambito: lo scontro tra l'abitudine a interpretare il testo biblico secondo i canoni dell'allegoria e della lectio spiritualis, e le esigenze della dialettica e della ratio, sempre più trionfanti in parallelo con l'accoglienza data all'aristotelismo nella teologia cristiana. Di questa vicenda Dante è una figura sicuramente emblematica, essendo theologus […] nullius dogmatis expers testimone di tutte le inquietudini della vicenda cristiana al tramonto dell'età medievale.
Quanto all'allegoria nell'interpretare il sermo Dei, tutti sanno che si fatta di un metodo fondato nella Bibbia stessa e praticato sin dagli inizi della storia cristiana, parallelamente allo sforzo di spiegare la natura di questa lectio e i motivi per cui doveva essere compiuta. Tommaso d’Aquino presenterà una dottrina di straordinaria chiarezza su tutta questa materia, ma prima della sua lucida sintesi erano già stati indicati parecchi aspetti del problema, lungo i secoli della letteratura cristiana. Punto di partenza è la constatazione che Dio si rivela in abdito et obscure, come nota Ugo di S. Vittore, ponendo una quaestio a cui anche altri rispondono mutuando il pensiero di Origene e di Agostino, nel quale sono riecheggiati certi topoi della teologia pagana. La profondità del mistero custodisce l'intimo della divina realtà di fronte a chi, altrimenti, la accoglierebbe con leggerezza, profanazione ed empietà. Sarebbe, quindi, errarto fermarsi alla lettera della Parola rivelata, e al piccolo, talora oscuro ambito da essa definito. Tutto va oltrepassato per giungere alla sostanza profonda della realtà, dato che - come nota Gregorio Magno - «per quaedam enigmata sermo divinus animae torpenti et frigidae loquitur et de rebus, quas novit, latenter insinuar ei amorem, quem non novit». Sarebbe assurdo ed empio rifiutare questo viaggio nell'allegoria, nella segreta speranza di sciogliere il mistero riducendolo alla capienza del nostro intelletto. Abelardo aveva riconosciuto come obscurissima la profezia di Ezechiele e si era proposto di scrutare «immensum [...] abyssum profunditatis Geneseos», affrontando però - almeno secondo S. Bernardo - la profondità del mistero senza riconoscere che esistono «verba ineffabilia, quae non licet homini loqui».
La necessità di superare l’integumentum litterae e di interpretare il sermo Dei secondo i canoni dell'allegoria, risulta evidente di fronte a certi passi biblici che, presi uti sonant , risultano carichi cli contraddizioni o, addirittura, di palese immoralità. Riccardo di S. Vittore teorizza a lungo sui «Scripturarum loca [...] quae iuxta litteram stare non poterant», rammaricandosi perché spesso i Padri, in tali difficoltà, avevano rinunciato allo sforzo dell'interpretazione o si erano sbrigati troppo in fretta, con un sistema accolto, magari per riverenza, anche dagli esegeti dei secoli successivi. In realtà questa negligenza dei Padri ha delle lodevoli eccezioni, se ricordiamo la chiarezza con cui S. Gerolamo parla di turpitudo litterae quanto alla vicenda di Thamar, ed esorta a scostarsene onde ascendere ad decorem intelligentiae spiritalis . Il Venerabile Beda trova necessario ricorrere alla lectio spiritualis anche di fronte a testi in cui si leggono fatti sicuramente più limpidi della vicenda di Thamar. Dando l'esposizione allegorica del libro di Samuele, egli rileva l'inopportunità di fermarsi al senso letterale, laddove si legge che Eleana aveva due mogli. Commentando il fatto egli nota, con commovente candore, che ben difficilmente degli ecclesiastici, votati al celibato, potrebbero sentirsi edificati di fronte a tali casi di bigamia. Incagli di questo genere possono, forse, avere ispirato anche la letteratura esegetica sul Cantico dei cantici, sterminala e sempre volta a contenuti rigorosamente spirituali, al punto che un Commento attribuito a Tommaso d'Aquino, ma quasi sicuramente di Aimone di Auxerre, giunco alle espressioni ciel capitolo VIII, afferma risolutamente: «ex his verbis intelligitur totum hoc Carmen divinum esse et spirituale, et nihil in se habere quod iuxta litteram intelligi possit».
Nella certezza della necessità di interpretare allegoricamente il senno Dei, gli scrittori cristiani si posero decisamente su questa via, influendo in modo considerevole anche sulla letteratura extrabiblica, ove tale categoria della cultura fu accolta assieme ai criteri che attorno ad essa erano stati formulati. È qui il caso di citare Dante, che di ogni canzone, nel Convivio, afferma: «ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade», dopo aver proclamato, quanto ai vari significati, che «sempre lo litterale dee andare innanzi [...], sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico». Tra le norme di particolare rilievo fissate dagli autori cristiani in tema di interpretazione allegorica, ricordiamo, per l'età patristica, quella espressa da S. Agostino, secondo il quale deve essere inteso in modo figurato, nella Bibbia, tutto ciò che non concorre direttamente alla conoscenza della fede e all'edificazione dei costumi. Ulrico di Strasburgo riecheggerà questo testo agostiniano, parlando esplicitamente di ciò che nella Bibbia suona a prima vista, inutile o addirittura favorevole al crimine: un amico problema per il quale - come s'è visto - S. Gerolamo aveva parlato della turpitudo litterae. Meno preoccupato di quest'ottica in negativo da cui riflettere in tale materia, Tommaso d'Aquino - pur cosi fermo nella volontà di tener presenti gli ambiti e le esigenze del senso letterale - sembra giustificare, in alcuni famosi passi, la tendenza a porre il più ampio ventaglio di possibilità interpretative, quando disquisisce su tutto ciò che potest divinae Scripturae aptari. Messo al sicuro il fondamento della lettera, si deve ammettere che l'esegeta può da esso partire alla scoperta anche d: significati non intesi e non previsti nell'atto in cui veniva stilato il testo biblico. Essi erano, però, ben presenti e noti allo Spirito santo, l'autore principale della Scrittura, che nella parola ispirata infonde ben più di quanto gli interpreti possano intuire e discernere. Vi sono anche, nella Bibbia, pagine di loro natura allegoriche e non accompagnate dal relativo commento, come certe parabole narrate dal Signore. Pascasio nota il fatto e, con espressione un po' singolare, afferma che proprio per questo «inbecillitas humani ingenii varia sibi fingit intelligentiarum ac diversa dogmata». Sta di fatto che è quasi impossibile descrivere anche solo per cenni le infinite forme di questa varietà e le strade tentate per rendere ricco cd esuberante il discorso dell'allegoria. L'aspetto più sorprendente. in questa vicenda, sta forse nel puntiglio con cui gli esegeti medievali cercarono ad ogni costo di moltiplicare i possibili significati del testo sacro, teorizzando anche su categorie interpretative nuove rispetto a quelle fissate dalla tradizione. M. D. Chenu studia il caso di Garnier de Rochefort, da lui presentato come un testimone della decadenza dell'allegoria, secondo il quale altri sei significati vanno aggiunti al senso letterale: i tre della tradizione e l'enfatico, l'antonomastico, lo specifico. Su questa base era facile accanirsi per far in modo che personaggi, luoghi. numeri e oggetti fossero caricati di molteplici e svariati colori semantici. Anche Gioacchino da Fiore - così portato all'ampiezza degli orizzonti interpretativi e al gusto della profezia - indugia in alcuni casi su personaggi a cui attribuisce potere di evocare una infinità di cose, magari nel tentativo di delineare, in questo modo, l'articolarsi nel tempo e nell'eternità del piano di Dio. È così che Sara simboleggia la tribù di Levi, la Chiesa dei chierici, quella dei monaci, la Chiesa greca, quella latina, l'insieme di quanti gioiscono per la pace nella Gerusalemme celeste. Persino i dettagli di oggetti in qualche modo legati alla Bibbia o in essa nominati appaiono rivestiti di molteplici possibilità evocative. Questo avviene soprattutto nelle Distinctiones, enciclopedie delle possibili allegorizzazioni di vocaboli del testo biblico. Cito, fra di esse, la Summa Abel di Pietro Cantore – così chiamata dalla prima parola che appare nell'ordine alfabetico - nella quale, sempre citando versetti biblici, si mostra che la montagna può simboleggiare Cristo, il collegio degli Apostoli, le conventicole ereticali, il diavolo, i frutti delle tribolazioni, i prelati della Chiesa. Non per nulla Alano di Lilla, proponendosi nelle Distinctiones di esporre i significati delle metafore e di portare alla luce i contenuti reconditi dei tropi, ricorda che nel linguaggio biblico «vocabula a propriis significationibus peregrinantur». In taluni casi, anzi - si è tentati di dire - si tratta di vere e proprie scorribande e verso mete imprevedibili, se Onorio Augustodunense, commentando la vicenda di Davide e Betsabea, vide raffigurato nel primo Gesù Cristo, nella seconda la Chiesa, e nel povere Uria - ahimè - il diavolo. Naturalmente in questa massa di allegorie si possono intravedere precisi filoni e ambiti in cui esse venivano utilizzate. È da ricordare, anzitutto, la predicazione, che ebbe una grande fioritura nel XII secolo anche nelle forme popolari, nelle quali l'allegoria poteva essere utilizzata per l'istruzione dei fedeli, presentando in forme concrete ed accessibili sia i contenuti della fede che le norme morali. Nei sermoni ai chierici l'allegoria era soprattutto orientata a suscitare la devozione e la pietà. La Smalley apprezza questa letteratura omiletica del XII secolo e si rifiuta di coinvolgerla nella condanna che si pronuncia di solito sul decadente simbolismo e sugli eccessi dell'allegorismo medievale, difetti che si riscontrano, se mai, nei sermoni di epoca più tarda, spesso sciatti r: di seconda mano. Ad ogni modo anche in questo campo si allestirono manuali e strumenti di consultazione, tanto che alcune raccolte di Distinctiones e certi commentari della seconda metà del XIII secolo furono esplicitamente preparati per uso dei predicatori. Ebbe successo l'opera di Nicola de Byard, che compose due repertori per la predicazione, offrendo nelle Distinctiones tutta una serie di citazioni bibliche e nella Summa de abstinentia 252 titoli su problemi morali, ove il discorso si arricchisce di exempla. Anche l’agiografia attinse dalla Bibbia allegoricamente interpretata schemi e modelli di discorso. I personaggi biblici divennero tipici per la vita dei santi, che operarono miracoli ricalcati su quelli compiuti dal Signore nei Vangeli. Passi della Scrittura entrarono nelle narrazioni agiografiche, con trasposizioni spesso ardite, come quando Tommaso da Celano cita la metafora del Salmo 22,7: «ego autem sum vermis et non homo», per fondare su di essa, in quanto applicata a Cristo nella Passione, l'amore di S. Francesco a tutti i piccoli esseri del creato, compresi i vermi. Vicende e personaggi biblici divennero anche punto di partenza per allegorie riferite al potere e alla vita politica. P. Riché ha recentemente mostrato che i re d'Israele furono visti come prototipi di quelli carolingi, chiamati a reggere un popolo prefigurato dall'antico Israele, i cui eroi rivivevano nella nuova aristocrazia. Anche peggiori furono i risultati quando le allegorie bibliche, anziché essere interpretate come tali o, al più, sviluppate nei loro contenuti, furono accolte: come vere e proprie prove a sostegno di tesi politiche. Trattandosi di una scacchiera cli immagini, è chiaro che il discorso poteva essere portato nelle più divergenti direzioni e piegato a difesa di tesi anche opposte. Esemplare è, a questo proposito, la vicenda subita dalla frase detta dagli apostoli a Gesù durante la Passione e riferita da Luca 22,38: «Signore, ecco qui due spade». Risultato - essa stessa - della incomprensione di frasi simboliche pronunciate da Cristo per indicare uno stato crescente di ostilità universale, prestò, poi, il fianco a interpretazioni allegoriche per dottrine di segno opposto. Nella Bolla Unam Sanctam il passo di Luca è infatti citato a sostegno della tesi che attribuisce alla Chiesa i due poteri, mentre allo stesso testo aveva fotto ricorso Enrico IV per sostenere che Gregorio VII voleva usurpare per sé sia il regno che il sacerdozio.
Troppo dunque si era chiesto all'allegoria, arrivando, con essa, lontano dalla Parola di Dio e rendendo anche più evidente il carattere asistematico della pagina scritturistica, che spesso i «novi theologi» - come scrive S. Bonaventura - «exhorrent tamquam incertam et inordinatam et tanquam quandam silvam opacam». Nel citato studio su Garnier di Rochefort, M. D. Chenu analizza acutamente il processo che aveva portato alla decadenza il sistema di discorrere con allegorie per interpretare la parola di Dio. Egli nota, anzitutto, che l'amore al simbolismo era andato innanzi al punto da non rispettare le leggi che si impongono spontaneamente quando il linguaggio imbocca questa via. E, in verità, non si tratta di leggi poi tanto peregrine, perché sgorgano dai fondamenti su cui poggia l'organizzazione del pensiero e degli strumenti che lo trasmettono, e che impongono vigilanza assidua sul genere letterario prescelto, perché nulla straripi dai giusti limiti e perché mai la fisionomia assunta da un contenuto sia confusa con quella che va attribuita ad un altro. Senza poi dire che, nel caso della Bibbia, l'analogia fidei restava pur sempre un riferimento obbligato e preciso. In tutta questa letteratura, invece, troppo spesso il transfert allegorico era stato coltivato per se stesso ccl eccessivamente amato, restando così in ombra il fatto fondamentale che esso doveva restare sempre e solo un mezzo. Il risultato fu, come s'è visto, l'impoverimento di ogni penetrazione meditativa. a favore di un tecnicismo esasperato, a cui non restava che l'imbocco di vicoli ciechi. dove gli antichi simboli non potevano in alcun modo essere vivificati. Il problema era certamente sentito, e si conoscono autori impegnati a fissare dei criteri almeno per non cadere in eccessi. Ugo di S. Vittore, ad esempio, disapprova coloro che s'impegnano fanaticamente per trovare un senso mistico o una profonda allegoria dove non esiste, come pure coloro che si ostinano a negarla, anche se c'è.
La dottrina sul senso spirituale della Scrittura troverà, però, soprattutto in Tommaso d'Aquino preziose e illuminanti chiarificazioni. Punto di partenza è, in lui, l'impegno a fissare con esattezza l'ambito della 'lettera', nel quale va incluso anche ogni aspetto traslato del discorso. Così - per usare l'esempio da lui stesso addotto - quando la Scrittura nomina il braccio di Dio, adotta una metafora ben nota anche nel linguaggio umano, che esprime - nel nostro caso - la virtus operativa dell'Onnipotente. Dante sembra riecheggiare questo passo della Summa quando dice, nel Paradiso, che la Scrittura «condescende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio e altro intende». Quel che interessa, però, l'esegesi compiuta all'interno della fede, è un altro meccanismo dei sensi biblici, possibile solo nel sermo Dei e che nasce da una visione della historta salutis nota solo in forza dell'annuncio cristiano. Tale meccanismo si basa sul fatto che i magnalia Dei si compiono gradatamente nel tempo, a tappe e secondo l'articolarsi dei due Testamenti, legati, in moltissimi personaggi ed eventi, da un rapporto come tra profezia e compimento, cosicché i gesta dell'antico Patto sono spesso per allegorianm dieta, come il lumen fidei finisce poi per chiarire. Il procedimento si compie secondo criteri difficili ad essere definiti ed anche di diverso tipo. Evidente o recondito, velato nei simboli o chiarito da fatti esterni, il piano di Dio si attua attraverso ombre e prefigurazioni, che sono profezia di eventi futuri, verso i quali freme d'attesa l'anima del credente. «Ea, quae in ventate gesta sunt, alterius sacramenti formam praefigurasse dicuntur», scrive Rabano Mauro, e, per questo, Ulrico di Strasburgo parla di una theologia aperta nel Nuovo Testamento, perché l'Agnello immolato ha sciolto i sigilli del Libro, dopo la theologia mystica dell'antico Patto, nel quale omnia in figura contingebant. All'interno di queste categorie della fede cristiana, risulta dunque che il senso spirituale è un elemento costitutivo della verità stessa della Scrittura, voluto da Dio e parte integrante dei suo messaggio all'umanità. La scoperta di tale senso non è, dunque, un'avventura dell'intelletto o un esercizio di ingegno, ma deve risultare da uno sforzo assiduo dell'esegesi del credente, il quale sa - come precisa Tommaso d'Aquino - che nella Scrittura ciò che deve seguire nel tempo è spesso prefigurato da un evento profetico, e per questo avviene che quanto è detto in senso letterale di ciò che precede può interpretarsi in senso spirituale di ciò che deve venire, mentre non può darsi il contrario. Fermarsi ostinatamente alla lettera, sarebbe - dunque - misconoscere l'attuazione del disegno di Dio, bloccare l'intellectus fidei, che aiuta a vedere in eventi o personaggi dell'antico Patto il tipo di ciò che si sarebbe compiuto nella pienezza dei tempi. Fu questo - secondo gli autori cristiani del Medioevo - l'errore dell'esegesi ebraica, che doveva per forza fermarsi alla lettera, avendo negato la fede ai tempi messianici, nei quali era diventato realtà e pienezza quanto era stato prefigurato nei simboli. Anche su questa base - come documenta lo Spicq - va spiegata la riluttanza dei commentatori dei secoli XII e XIII a praticare a fondo l'interpretazione ad litteram. Essi rifiutavano, così, il modus judaicus, privilegiando l'esegesi allegorica, che decadde però, come si è vista, quando, anziché attenersi ai limiti che la Bibbia stessa offriva dall'interno e in organicità di discorso, finì per abbassarsi a gioco poco più che retorico. A sé - ma qui non ci si può indugiare - va considerata la vicenda del «calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato», che scrisse verso la fine del XII secolo, ma il cui movimento - il gionchirnitismo - appartiene al secondo quarto del secolo successivo. La sua profezia sulla terza età, segnata dallo Spirito e dalla perfetta intelligenza spirituale della Scrittura, occupa - per essere riprovata - un breve spazio in una questione della Summa di S. Tommaso.
Maturavano intanto grandi eventi nel cammino della civiltà occidentale per la consapevolezza che la ratio andava assumendo di se stessa e del ruolo critico a cui si sentiva sempre più chiamata. Tutti sanno che il rapporto tra pensiero umano e contenuti della fede non può attuarsi che tra difficoltà e tensioni e nell'ardua fatica di precisare i rispettivi compiti e ambiti. Non sono mancati - fin dagli inizi della storia cristiana - grandi spiriti che hanno visto nello sforzo dell'intelletto verso la verità un cammino che porta alla soglia dell'incontro con Dio, e nella disputationis disciplina un aiuto per orientare «ad omnia genera quaestionum, quae in litteris sanctis sunt», come già si legge in S. Agostino. In realtà nei secoli successivi i libri sancii divennero oggetto soprattutto della lectio divina all'interno dei chiostri, ove i monaci nutrivano di essi la loro anima con lettura fervida e devota, senza insistere in una ricerca intellettuale e teorica, dalla quale sarebbe scaturita, in seguito, tanta letteratura ispirata al modello della quaestio e in ambiti di ricerca segnati da motivi offerti dal sermo Dei. Di essa la Smalley vede l'annuncio nel profetico quaeritur con cui Scoto Eriugena lega i vari brani, ricchi di argomentazioni e di discussioni, dei frammenti a noi giunti della sua esegesi al IV vangelo. Anche Aimone cli Auxerre - che scrive commenti biblici a metà del IX secolo - si pone in qualche modo in tale direzione, e del suo insegnamento abbiamo delle sintesi curate dal discepolo Eirico, giunte a noi col significativo titolo di scholia quaestionum. Dobbiamo, però, varcare la soglia del secondo millennio per constatare evidenti progressi nello sforzo di creare un'architettura logicamente delineata e definita entro cui porre e ordinare i dati della divina Rivelazione, come sono trasmessi dalla pagina biblica. Emblematico al proposito è il commento cli Lanfranco di Bee alle epistole paoline, nel quale - come osserva Sigeberto di GembJoux - l'esegesi procede secondo le norme fissate dall'ars ratiocinandi, perché l'autore «ubicumque locorum opportunitas occurrit, secundum leges dialectice proponit, assumit, concludit». Come hanno precisato gli studiosi, non è il caso di proclamare che questo commento di Lanfranco è tutto composto dialectico more, ma è certo che il linguaggio si orienta in tal senso, perché gli elaborati del pensiero vengono definiti responsio, assumptio, inductio, conclusio richiamando norme e tecniche destinate ad avere ben presto diffusione e indiscusso successo. Va anche notato che a Bec stava per trionfare l'indagine speculativa ciel grande abate Anselmo - il futuro arcivescovo cli Canterbury, considerato sovente come il padre della Scolastica - che afferma, in un passo dell'Epistola de Incarnatione Verbi, di aver cercato, nel Monologion e nel Proslogion, di dimostrare necessariis rationibus e senza ricorrere all'autorità della Scrittura, anche dei dati che vengono accolti per fede. Esiste dunque una via della ragione percorrendo la quale è possibile giungere almeno sino a un certo grado nella conoscenza della verità del Signore. Un secolo più tardi Onorio Auguscodunense mostra anzi di credere che la struttura stessa del discorso biblico coincide con gli schemi secondo i quali si articola il nostro pensiero. Essa, cioè, avrebbe, come tessuto cli base, il sillogismo, visto che «syllogismi latent in sacra Scriptum, ut piscis in profonda aqua». Compito dell'esegeta - continua Onorio, insistendo nella metafora - è cli estrarre dalla profondità della Scrittura tali contenuti a struttura sillogistica e di renderli utili al cammino della fede, così come si estrae dalle acque il pesce perché serva ad usum hominis. Sembra, dunque, qui posta in secondo piano la tipica natura del linguaggio biblico, che procede piuttosto per via di narrazione e descrive i magnalio Dei verso l'uomo ricorrendo se mai all'immagine e al traslato, nel tentativo di evocare, così, la realtà di Dio che sorpassa ogni intelletto. Nell'euforia per la consapevolezza di un riacquistato dominio sui meccanismi della ragione ben descritti ormai alla luce delle norme aristoteliche, diventava naturale ricondurvi anche i contenuti del discorso biblico e predisporre in quel quadro il cammino riservato all'indagine e al commento sui testi ciel senno Dei. Per questo - come ricorda Jacques Verger - a partire eia Guerrico di S. Quintino gli esegeti utilizzano sistematicamente la classificazione aristotelica delle quattro cause - efficiente, materiale, formale, finale - per dare ordine e struttura ai contenuti espressi nei prologhi dei loro commenti alla Bibbia. A tale schema si riferisce anche Tommaso d'Aquino quando distingue, nell'introduzione alle sue opere bibliche, l'autore del testo di cui si farà l'esegesi, la materia trattata, la forma, cioè il modo, a cui si ricorre nell'esposizione e, infine, l'utilità che il dato divino, rivelato nell'opera, può avere per il credente che vi attinge nel compiere il suo itinerario in Dio.
In questo processo di cui sono state riferite, per sommi capi, solo alcune significative testimonianze, non è apparso il nome cli Abelardo di solito citato come l'espressione più alta e più valida di questo trionfo della dialettica applicata alla lettura della pagina che accoglie la parola di Dio. Abelardo, in verità, merita sempre una menzione a parte, anche per evitare di avvolgere la sua straordinaria figura nell'insipienza della retorica e dei luoghi comuni. Dando qui per scontata e nota la grandezza del suo contributo all'intellectus fidei attraverso l'uso della dialettica e la novità della lectio per ingenium - se ha valore di testimonianza il passo della Historia calamitatum ove di essa si parla - qui si ricordano alcuni punti di particolare interesse e di singolare afflato umano da lui toccati nei molti passi ove il discorso cade sui problemi della disputationis disciplina applicata all'esegesi del sermo Dei. Sull'autorità del citato testo di S. Agostino, egli ribadisce che questa scienza «ad omnia genera quaestionum, quae in litteris sanctis sunt, penetranda et dissolvenda plurimum valet», accogliendo anche l'esortazione a superare sia il gusto della rissa che l'immaturità psicologica di chi si gloria di trarre in inganno l'avversario. Sensibilità ai risvolti umani di questa vicenda - quasi commovente nel loico Abelardo - è testimoniata anche in un passo assai significativo del suo commento all'epistola ai Romani. Ben consapevole che nel nuovo Patto s; compie ciò che era prefigurato nell'antico, egli osserva, però, che se non si considerano le testimonianze globalmente e in se stesse ma nei dettagli che le accompagnano, diventa assai arduo cogliere tale connessione tra le due fasi della historta salutis, e ci si smarrisce perché «plurimurn nostra angustatur intelligentia». Può accadere, però, che l'Apostolo stesso ci guidi nell'interpretazione, e allora - dice Abelardo - dobbiamo seguire la sua autorità. Questi passi sembrano ridurre un poco le distanze tra Abelardo e il grande antagonista S. Bernardo nella titanica lotta tra i loro diversi modi di intendere il discorso su Dio, che si sono - in fondo - sempre affrontati nel cammino della cristianità occidentale. S. Bernardo è angosciato all'idea che i contenuti della fede possano essere lasciati in balia dei piccoli ragionamenti umani, così da costringere - come dirà Nicola di Clairvaux - entro gli angusti limiti della dialettica Colui che ha il potere di fissare l'ambito di tutte le cose. Già è stato detto che S. Bernardo, isolato nella sua abbazia e intento a spiegare la Bibbia ai monaci, sembra ormai figura anacronistica nel suo secolo segnato dal grande impulso delle scuole di Nòtre-Dame e di Sainte Geneviève, e nel quale - in fondo - l'ideale monastico non riusciva più «a rappresentare senza residui il vertice dell'esperienza umana». Con tutto ciò S. Bernardo non era solo in questa lotta, se già un secolo prima di lui Otlone da Sant'Emmerano esprimeva una meraviglia quasi incredula di fronte a dialettici ita simplices da ritenere che tutti i detti delia Scrittura fossero da ricondurre alle norme della dialettica. Testimonianze di questo genere dovranno essere ricercate nelle opere degli autori che hanno preso parte a questa polemica, perché alla luce di esse si potrà forse capire il vero nodo di tale questione, che non poteva consistere semplicemente nel decidere se era utile o meno usare la ragione umana e i suoi meccanismi nel discorrere sulla Bibbia e nell'interpretarla. Gli spiriti più attenti volevano forse soprattutto far notare che il pensiero si snoda per tante strade e obbedendo a norme di diversa natura, così da rendere variamente congegnata l'architettura di ogni discorso. Sulla base di questa convinzione - del resto assai semplice e continuamente documentata - era assurda la pretesa di costringere i dati della divina Rivelazione, espressi nel linguaggio biblico prorompente di immagini e di allegorie, entro gli schemi della logica aristotelica, certamente validi ma né conosciuti né pensati quando l'autore sacro stendeva la sua pagina per testimoniare la verità di Dio. Tra i meandri di tali questioni poteva capitare ad alcuni autori di assumere, nei giudizi, atteggiamenti diversi e, almeno all'apparenza, contrastanti, come sempre quando sono molti e sottili gli aspetti alla luce dei quali i problemi devono essere considerati. Per un esempio ricordiamo Gerhoh di Reichersberg «rude polémiste [...] quoique champion d'opinions moderées», come scrive de Lubac, e anche in accesa polemico contro i maestri della nuova generazione, tra cui soprattutto Abelardo e Gilberto Porretano. Interessante - e quasi commovente - è l'atteggiamento di alcuni autori, di formazione e di anima squisitamente monastica. che si sentono oppressi dal groviglio di questioni più moleste che utili e sospirano la schola Christi ove tutto è quiete e pace, senza l'affanno delle sottigliezze e dei sofismi. Guglielmo di Saint-Thierry, ad esempio, è figura certamente significativa nella storia del monachesimo, oltre che teologo della Trinità e dell'esperienza mistica come si compie nell'uomo chiamato a partecipare alla vita stessa di Dio, e soprattutto la sua «Lettera d'oro» è una splendida testimonianza al proposito. Dei suoi scritti come esegeta biblico ricordiamo l'Expositio in epistolam ad Romanos, anche per la presa di posizione di cui si legge nel prologo: «epistolam Pauli ad Romanos multis et variis et difficillimis quaestionibus involutam suscepimus [...] suppressis quae in ea sunt quaestionum molestiis». L'assenza di tali molestie contraddistingue la schola Christi, secondo Pietro delle Celle, che, in un passo famoso, denso di sentimento ma non scevro di venature retoriche, proclama che in essa l'anima gode di quiete e di pace perché non vi trova l'inganno delle dispute, l'intrigo dei sofismi, visto che tutto si appiana e si comprende in pienezza «ubi Christus docet corda nostra verbo virtutis suae». È ancora una volta il gran terna della lectio divina intesa come via alla contemplazione e come strada maestra nel quaerere Deum, sulla base del fondamento stesso di cui prende senso la vita monastica. Il contatto con la sacra pagina scava. però, subendo, per così dire, le attrattive della scuola ad opera dei Vittorini, di Ugo soprattutto, il cui programma, esposto nel Didascalicon e attuato da Andrea e da Riccardo, trovò accoglienza presso i Maestri di Parigi. Claustrales e scholares - come nota la Smalley - i Vittorini «were able to transmit the old religious exercise from the cloister to the school», favorendo dei passaggi in forza dei quali la lectio divina finirà per essere a poco a poco sostituita, nel modo degli studi, dall'insegnamento accademico. Gli esegeti biblici giungevano alle cattedre universitarie dalle facoltà delle arti, ove la loro formazione si era compiuta attraverso il trivio e il quadrivio. Era ben preciso, quindi. l'orizzonte culturale da cui affrontavano la lettura dei testi sacri, e quasi farnie la tendenza a rinchiudere entro categorie ormai note e abituali i contenuti della divina Rivelazione. Non mancarono spiriti attenti a questo pericolo e preoccupati di segnalare l'illegittimità di una tale subordinazione, perché l'arte di Donato ha norme che non possono coincidere con quelle del senno Dei. Il problema non poteva, ad ogni modo, essere eluso, perché nasceva dall'incontro necessario tra le categorie ufficiali della cultura - il trivio e il quadrivio, appunto - e il dato della Rivelazione. Ugo di S. Vittore, in verità, aveva coniato una formula destinata ad aver fortuna, in cui proclama l'utilità di tutte le arti liberali per le studio della Scrittura e - nel contempo - il loro ruolo di scienze ausiliarie, subordinate a quella che sarà definita regina omnium scientiarum: «septem liberales artes huic scientiae [i.e. sacrae Scripturae] subserviunt». L'accento è, dunque, posto su tutte le scienze, e non solo sulla dialettica, e la precisazione sarà rimarcata soprattutto nel XIII secolo. specialmente in certi autori sensibili all'unità e all'universalità del sapere, e desiderosi cli indirizzarne tutto l'ambito verso la verità rivelata da Dio. È questa una nuova tappa del travaglio di cui sciamo ricostruendo le Iasi, nella quale non è difficile intravedere i termini di un rapporto - quello tra scienza e fede - che i secoli successivi. sino ai nostri giorni, intenderanno come sempre più difficile e non senza scontri drammatici. Per il XIII secolo citiamo alcuni nomi e testi significativi in questa vicenda. Rolando da Cremona, primo fra i domenicani ad insegnare all'Università di Parigi, nella terza questione del prologo alla Summa disquisisce puntigliosamente sul rapporto fra la sacra pagina e ciascuna delle sette arti liberali. Il discorso resta nella sfera del concreto e cerca di dimostrare come, sul piano della prassi, la conoscenza dei dati forniti dal trivio e dal quadrivio serve per risolvere tanti problemi che scaturiscono dai testi biblici. L'impostazione è forse un po' riduttiva rispetto alla sostanza del problema, almeno come si presenterà in epoche successive e in altri testi, e documenta la condizione di una cultura sentita ancora come cristiana, nella quale ogni dato poteva entrare agevolmente nel meccanismo della reductio alla scientia Dei. Altri autori affrontano, invece, problemi più specifici e alla luce di nuovi apporti filosofici e scientifici. È il caso di Roberto Grossatesta, che poteva avvalersi, per la sua lectio divina, della conoscenza del greco e forse dell'ebraico, e della possibilità cli una tecnica esegetica aperta ai contributi del nuovo Aristotele, quello della Fisica e dell'Etica. Difficile ad essere definito, in questo travaglio, è l'atteggiamento di Ruggero Bacone, nel quale diverse sensibilità e istanze, non sempre composte in armonia, creano, come dice de Lubac, «un mélange d'archaisme et de modernité». Egli deplora l'eccessivo impegno nello studio delle Sentenze a scapito del contatto assiduo col testo sacro, per il quale auspica la conoscenza delle lingue in cui esso ci è giunto, se almeno vogliamo essere sicuri del senso letterale, da cui sgorga quello spirituale. Per un ideale di esegesi, egli si rivolge però tenacemente ai Vittorini e ai primi Maestri di Oxford, e in questo senso, secondo la Smalley, resta più ancorato al passato che volto al futuro. Per l'ultima fase dell'età medievale, il grande manuale esegetico fu l'opera di Nicola da Lira, destinata a un successo immenso, carne risulta dal gran numero dei manoscritti. «Tutto calato nell'ambito, ma anche nei limiti, dell'esegesi scolastica e universitaria», esso riusciva completo e rassicurante, anche per l'impegno assunto dall'autore di dare il primato alla lettera, pur rispettando la teoria dei quattro sensi.
Fa testo a sé, nel quadro sin qui tracciato, un tipo speciale di esegesi biblica - quello di Francesco d'Assisi - che non può non aver avuto un grande influsso nella spiritualità di Dante. Si tratta - per usare un'espressione di Théophile Desbonnets - di una lettura, del Vangelo soprattutto, compiuta «'al di là della lettera ', vale a dire secondo lo spirito» e in costante riferimento alla globalità dell'annuncio, come era stato accolto dalla Regola, che doveva essere osservata sine glossa. Questa esegesi rifuggiva da ogni complicazione intellettuale e cercava la propria verifica in una prassi che, a colpo d'occhio, risultasse consona al senso profondo dell'annuncio evangelico. La verità di Dio, incarnata nella Parola, non poteva ridursi a un fatto soprattutto intellettuale, come - del resto - era già stato detto da Tommaso d'Aquino, con l'esortazione a riflettere che nella Scrittura «non tantum traduntur speculanda, sicut in geometria, sed etiam approbanda per affectum». Di fronte alla Parola di Dio, occorreva una preparazione secundum intellectum et a affectum, mentre solo la prima delle due dimensioni bastava per le altre scienze. Il tema dell'affectus aveva ispirato la grande spiritualità di Aelredo di Rievaulx, che scrive, rivolto al discepolo: «Tu autem, fili mi, non quaestionem quaeris, sed devotionem», indicando un metodo che sarà accolto in pienezza anche dall'autore del De imitatione Christi, secondo il quale nel silenzio e nella quiete l'anima devota viene a conoscere le profondità della Scrittura. Gran tema - questo - e, forse, strada maestra nel quaerere Deum.