Dati bibliografici
Autore: Angelo Carboni
Tratto da: I quaderni di cultura del Liceo-Ginnasio Galvani. Nel VII centenario della nascita di Dante
Numero: 3
Editore: Liceo-Ginnasio Galvani, Bologna
Anno: 1965
Pagine: 357-362
Il problema del rapporto poesia-teologia, nella Divina Commedia, non è nuovo: dell'importanza di esso si sono reso conto bene gli studiosi e commentatori di Dante, dai più antichi esegeti (tra cui i primissimi, il Boccaccio e il figlio del Poeta, Piero) ai più profondi ed acuti critici dell'età moderna e contemporanea: dal Vico al Croce, dal De Sanctis al Parodi, dal Gioberti al Tommaseo al Busnelli. Ben note sono le posizioni del Croce che, nel suo lavoro «La poesia di Dante» - ponte di passaggio obbligato nella storia della critica dantesca del Novecento - troppo unilateralmente limita (coerente con i principi della sua estetica intuizionistica e della sua metodologia distinzionistica) il valore e il significato della poesia dottrinale della Commedia, pericolosamente scindendo dramma liturgico da dramma umano, lo sfondo allegorico e teologico dai concreti risultati poetici, ove predomina il «sentire» dell'Alighieri. Non si ignorano, d'altro canto, gli equivoci e gli arbitri registrabili, in direzione opposta, sulla linea dell’esegesi allegorizzante coltivata, con suggestivi (anche se poco persuasivi) frutti, dal Pascoli al Valli; mentre a tale indirizzo si richiama con più cautela, l'interpretazione etico-spiritualistica del Pietrobono, ferrato dantologo, ma anche fine lettore di poesia, sì che già in lui si avverte il positivo sviluppo di un gusto esegetico mirante ad accertare e illuminare la vitalità di sensi propriamente poetici ma riconnettendoli – come a necessaria matrice - all'humus della dottrina, della cultura, del pensiero; ciò che la critica crociana respingeva nella zona inferiore della non-poesia.
Non è comunque un caso che l'intelligenza della poesia dantesca si arricchisse e si rinnovasse anche al di fuori del solco di una trattazione propriamente critica: così nel 1920, lo stesso anno in cui il Croce elaborava e concludeva la sua interpretazione dantesca (edita poi nell'anno successivo) appariva a Londra l'opera di T. S. Eliot, The Sacred Wood, dove è compreso un saggio su Dante in cui l'accento batte sulla necessità di una interpretazione integrale della sua poesia, nelle sue varie componenti dinamiche, dall'allegoria alla visione, dall'emozione alla struttura, intendendosi dell'Alighieri la facoltà mirabile che assume il pensiero non dall'esterno in astratto, ma come sostanza di visione, trattando la filosofia non come teoria o «un suo proprio commento» ma «in termini di percezione». Fertile suggerimento, attraverso cui non era più assurdo il tentativo di spiegare come anche le intuizioni di base teologica si fossero talora mirabilmente sviluppate e, per così dire, incarnate nella poesia.
La critica più qualificata, che ha affrontato, dopo i ricordati lavori di Croce e di Eliot, l'opera di Dante, ha in genere riconosciuto l'opportunità, anzi la necessità, di tener conto dei sostrati filosofici e teologici di quella poesia, per meglio accertarne la vitalità e l'altezza.
E dovremo almeno ricordare, tra i critici delle più giovani generazioni, Giovanni Getto, che, in un saggio dedicato appunto ad approfondire i rapporti tra Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante, mira a verificare e dimostrare, con un'organica ricerca su caratteri e valori tonali, come «la sorgente lirica da cui scaturiscono temi e motivi e il ritmo stesso dell'ultima cantica consista in' una intuizione essenzialmente teologica».
Una più ampia ricognizione - estesa alle tre cantiche – ha compiuto, sull’argomento, Giovanni Fallani, che sta percorrendo l’Italia ad illustrare l’opera dantesca, in questo VII centenario. Egli integrando una salda preparazione acquista nel campo delle discipline religiose, con la sua fine sensibilità di studioso delle arti figurative, ha potuto tentare un sistematico ripensamento dei problemi giovandosi, nella disamina, delle sue specifiche competenze, oltre che di una attenta e aggiornata cultura dantesca.
Il «Ritratto di Dante teologo» è, dell'indagine complessiva, la necessaria propedeutica, dove lo studioso, muovendo da un'attenta ricostruzione della cultura teologica dantesca, conclude sottolineando nel capolavoro dell'Alighieri il compiersi di quella reductio artium ad theologiam che costituì, in un certo senso, la suprema aspirazione della cultura medioevale, e che pervenne a realizzarsi, con grandiosità unica ed universale respiro, in un'opera di cui la religione cristiana è senza dubbio centro di vitale animazione.
Di sommo interesse sarà sempre il rapporto poesia-teologia, studiato sotto l'angolazione di più complessi e sollecitanti motivi strutturali, come il tema angelologico, la simbolica pronuncia delle Beatitudini, al termine e al passaggio di ogni cornice del Purgatorio, così come il ricorrere, in ciascuna· di esse, di un episodio del Vangelo, relativo alla vita di Maria: nessi e corrispondenze che, seppur di evidente estrazione teologica e mistica, riconducono ai modi e alle ragioni della poesia. A noi sembra che la riflessione critica debba portarsi a verificare i modi e le forme o immaginate dal poeta per dare alle sue meditazioni religiose un interesse reale di poesia. L'elemento teologico non si aggiunge al fatto per convenzione decorativa: il pathos degli uomini e degli ambienti si tramanda e si imprime in noi per l'umanità e lo stile e il ritmo vibrante del mondo sacro. Ed ecco che stile e ritmo vibrante ci riportano al centro dell'ars, mediante cui sentimento e genio di Dante assumono e trasfigurano gli «elementi obiettivi» in poesia, segnata dal suo inconfondibile sigillo. Così, pur riconoscendo l'importanza che ha la sapienza teologica nell'ardua e misteriosa gestazione del mondo poetico dantesco, non accederemo all'ipotesi di «poesia della teologia», né, per contro, arretreremo all'antica distinzione del Vico, che in Dante vedeva il teologo e il poeta l'uno contro l'altro armato. Ma forse anche questa figurazione dovrà riportarsi al suo più intimo valore di emblema; sconfitta nella lettera, negli esterni dati dell'acquisizione dottrinale, la teologia più splendidamente rivive, come suprema istanza d'Iddio, nella parola del Poeta, destinata dal Creatore a resistere nella memoria degli uomini.
Il Poema dantesco, secondo l'affermazione dell'autore, è polisenso: cioè di più sensi; ma, principalmente, ne emergono due: letterale ed allegorico. Secondo la lettera, esso - dice lo stesso Poeta - descrive lo stato delle anime dopo la morte; allegoricamente è l'uomo in quanto, per la libertà dell'arbitrio, meritando e demeritando, alla giustizia del premio o della pena è sottoposto.
E il Fornaciari aggiunge, ampliando, che la Divina Commedia, presa allegoricamente, è l'immagine della vita umana nei tre stati del vizio, dell'emendazione e della perfezione.
I dannati rappresenterebbero gli uomini viziosi in tutti i gradi del peccato; le anime purganti gli uomini che, con la penitenza e con l'orazione, si emendano gradatamente dei peccati stessi, finché rinnovata in sé, in qualche modo, la primiera innocenza battesimale, e, seguendo le virtù morali, godono la perfetta o vita attiva, simboleggiata nel Paradiso terrestre. I Beati, finalmente, raffigurano gli uomini che, dopo aver virtuosamente operato, tenendo per guida le tre virtù teologali, sono giunti alla felicità della vita contemplativa, goduta nel Celeste Paradiso.
E da qui emerge chiaro che il senso della Divina Commedia è altamente morale e spirituale, come afferma Dante stesso, nella lettera a Can Grande, in cui dice, fra l'altro, «fine di tutto e cli ciascuna parte del Poema essere quello cli rinnovare gli uomini viventi in questa vita dallo stato della miseria e condurli allo stato della felicità».
E qui non è fuor di luogo ricordare che il Poema dantesco fu concepito infatti nel 1300, e propriamente nell’anno del Primo Giubileo, mentre le campane del Laterano, con suono invitante alla penitenza ed al perdono, chiamavano i peccatori alla lieta speranza.
Ed era questo lo scopo per cui Bonifacio VIII, vedendo il cadere del suo secolo, fra le strette di dure convulsioni spirituali e sociali, invitava tutti alla visita delle Basiliche Romane per la purificazione e la riconquista della grazia divina.
Dante fu scosso dall'eco misteriosa di quella diana spirituale, e concepì il Divino Poema, che doveva essere come l'espressione della evoluzione psicologica della sua vita verso quella perfezione e redenzione, che poi dovevano, al dir di Carducci, renderlo, a loro volta, il Sommo Poeta del Medio Evo e, più ancora, il Poeta per eccellenza della gente latina e del Cristianesimo.
Infatti, la visione del Regno della Morte, si inizia il Venerdì Santo del 1300, e cioè
…da quel dì che fu detto «Ave»;
(Par., c. XVI, v. 34)
e il viaggio, che ha principio mentre lo giorno se n'andava, dura 36 ore per la discesa nell'inferno, donde ne uscì al mattino del 27. E, dopo 21 ore di faticosa salita, raggiunge il Purgatorio, verso l'alba; finché, dopo altre 80 ore, cioè quasi al 9° giorno, ascende alla gloria della visione beatifica del Paradiso, dimostrando, in ciò, i diversi movimenti dell'anima umana quaggiù, in terra. E cioè quello dello stato di colpa, la quale, nella concezione dantesca, è, a sua volta, anche pena al peccatore stesso ed è raffigurata nei tormenti infernali. Quello dello stato di espiazione, a cui è dolce la fiducia in Dio e la pace che gode l'anima in sé, anche tra le volontarie penitenze, raffigurate nelle pene espiatorie che soffrono; e, infine, quello dello stato di godimento, cui è premio la visione celeste delle cose contemplate e la certezza dell'amore di Dio, simboleggiate nella luce e nel gaudio eterno.
E, inoltre, che altro può essere la selva selvaggia ed aspra e forte se non il nero labirinto dei vizi, in cui egli, per primo si era smarrito e in cui giace, in genere ogni peccatore che non ancora giunge a districarsene?
Il colle fiorito, poi, e illuminato dai primi raggi del sole verso cui dirizza i suoi passi, simboleggia il vertice delle virtù al quale si sforza di ascendere l'anima irradiata dalla luce del sole della giustizia e dell'amore divino.
Le tre fiere, cioè la lonza, il leone, e la lupa, che cercano di sbarrargli la via verso l'ascesa, indicano, rispettivamente, le precipue e più formidabili passioni umane, cioè la lussuria, la superbia e l'avarizia, mentre infine, gli aiuti che ebbe Dante da Virgilio - suo maestro e suo autore, da cui tolse lo bello stile - lungo le vie dell'Inferno e del Purgatorio, e poi da Beatrice, nel Paradiso, raffigurano il mezzo potente dato continuamente dalla Chiesa di Gesù Cristo a coloro che vogliono svincolarsi dai grovigli della colpa e avviarsi al dilettoso colle della grazia divina.
È evidente, quindi, che il concetto del Poema dantesco non è politico, se non incidentalmente, ma altamente religioso e morale; e perciò ben gli compete l'aggettivo di «divino», che gli fu aggiunto dopo tre secoli, e proprio nel 1555, quando venne curata, in Venezia, la celebre edizione del Giolito, e cioè proprio quando, cessato il ringhiar di qualche invidioso, il Poema di Dante fu universalmente riconosciuto divino per molteplici ragioni e, in primo, pel contenuto.