Dati bibliografici
Autore: Massimo Verdicchio
Estratto da: Leggere Dante leggere. Allegoria e ironia nella Commedia di Dante
Editore: Puntoacapo, Pasturana
Anno: 2013
Pagine: 41-50
La questione dell'allegoria poetica è uno dei più controversi della Commedia specialmente quando è messa in contrasto con l'allegoria dei teologi, come fa Dante nella Commedia. Il problema non sarà mai risolto con soddisfazione generale perché la posta in gioco va spesso al di là di una pura questione di teoria letteraria. Non desidero riproporre qui questa controversia, ma piuttosto discutere la questione dell'allegoria mettendola in contrasto con l'analogia o la similitudine, un'altra forma poetica che di tanto in tanto è stata contrapposta all'allegoria. Ogni qualvolta che, alla Commedia, è accordato uno stato simbolico o mimetico con ovvio riferimento extratestuale, l'analogia è spesso considerata la forma dominante della rappresentazione poetica dantesca. Il modo analogico ha servito diversi padroni. Che si sia voluto attribuire una condizione teologica speciale al poema "divino" oppure applicare una poetica secolare, la figura su cui si è fatto affidamento è l'analogia. Per mezzo dell'analogia, interpretazioni varie e finanche opposte hanno trovato accesso al poema e tentato di leggerlo. Grazie all'analogia è stato possibile preservare la condizione poetica della Commedia e reprimere, allo stesso tempo, qualsiasi tentativo di riconoscimento per l'allegoria poetica. Una discussione sull'allegoria del poema deve trattare, per queste ragioni, e prima di tutto, con l'analogia e con la pretesa che essa è alla base del modello poetico della Commedia, se non di tutti i modelli poetici. È su questo punto che ora vorrei soffermarmi esaminando le prime due similitudini del poema, le più conosciute e, tuttavia, per molti aspetti, le più oscure.
Forse uno dei maggiori contributi allo studio del poema dantesco dello studioso americano, Charles Singleton, è senz'altro la sua osservazione secondo la quale gran parte delle similitudini di Dante sono in realtà soltanto delle "pseudosimilitudini". Una simile osservazione è stata fatta da Richard H. Lansing sulla prima similitudine di Inf I, 22-27, il quale commenta: "questa non è affatto una similitudine, ma piuttosto una pseudosimilitudine, poiché il nuotatore e il pellegrino sono, in effetti, la stessa persona". (Lansing 97) I versi della similitudine in questione sono i seguenti:
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimir ar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
(lnf. I, 22-27)
Tutti conoscono questi versi famosi che descrivono il senso di sollievo del pellegrino per essersi lasciato dietro la selva oscura in cui si era smarrito all'inizio del poema. La vista della montagna e il sole che splende su di essa gli rinnovano la speranza di salvezza. Il paragone descrive lo stato d'animo del pellegrino simile a quello del naufrago che una volta a riva si guarda dietro ed è sollevato per avere scampato il pericolo.
Il paragone confronta la figura del naufrago e l'animo del pellegrino. Proprio come l'uomo che ha rischiato di annegare si guarda indietro e medita sul pericolo appena sfuggito, così l'animo del pellegrino si volge indietro a guardare la selva oscura che ha appena lasciato. Se questa fosse soltanto un'analogia, sarebbe un modo elaborato di dire che il pellegrino è "sollevato", ma come fanno notare la maggior parte dei commentatori la posta in gioco è maggiore di quanto possa sembrare a prima vista. L'immagine del naufrago e del passo rimandano il lettore ad Inf XXVI e al viaggio fatale di Ulisse a cui viene sempre paragonato il viaggio di Dante. In altre parole, diversamente da un'analogia in cui lo scopo principale è semplicemente quello di descrivere un sentimento o uno stato d'animo, in questo paragone, l'enfasi sul sospiro di sollievo del pellegrino per aver scampato il pericolo sembrerebbe essere secondario agli altri significati evocati dalla metafora. Inoltre, il paragone dell'animo con il naufrago, che sembra naturale in un primo momento, non lo è ad una lettura più attenta. Se lo scopo del paragone consistesse nel mettere in evidenza il senso di sollievo del pellegrino, si potrebbe pensare a molti altri modi e migliori di farlo. Il punto del paragone sembra essere un altro. Come sempre avviene per le similitudini di Dante, questa non descrive un sentimento, ma racconta una storia. Gli elementi che costituiscono la similitudine non sono retorici, ma "significativi". Invece di un paragone fra il naufrago e l'animo la pseudosimilitudine vuole far notare che l'animo è naufragato. In altre parole, il paragone è soltanto apparente. Non c'è paragone tra l'animo come un naufrago, piuttosto vuol dire qualcosa dell'animo che non può asserire direttamente. Ritorneremo alle ragioni di questa dissimulazione, ma per il momento è importante far notare che invece cli un'analogia ci troviamo davanti ad una storia che vuole e deve essere letta. "Quei" del primo termine e "animo mio" del secondo si riferiscono entrambi al pellegrino. In altre parole, la prima metà del paragone elabora, in modo figurato, l'immagine del "lago del cor" menzionato alcuni versi prima.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
(Inf. I, 19-21, mio corsivo)
L'immagine del "lago del cor" ripropone un luogo comune della poesia lirica che risale alle Rime cli Dante e alla Vita 1111ova. Se il "lago del cor" è il luogo dove risiedono le passioni umane, dire che l'animo è appena scampato all'annegamento è un altro modo di affermare che il pellegrino è riuscito a non essere sopraffatto dalle proprie passioni. Se interpretiamo il pellegrino come il poeta della Vita 1111ova, dove simili matafore come "lago del cor" comunemente descrivono la passione del poeta per Beatrice, il paragone diventa subito più significativo. Nella Vita nuova, per descrivere il suo nuovo amore per Beatrice, Dante fa riferimento alla "camera de lo cuore" che cominciava a tremare alla vista cli Beatrice.
In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: "Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitor rnichi". (Vita nuova II, 4, mio corsivo)
Dante aspira intensamente al nuovo dio dell'amore che lo governerà d'ora in avanti per mezzo dell'amore cli Beatrice. Richiamare l'immagine del "lago del cor" all'inizio della Commedia, vuol dire riproporre lo stesso concetto ma in modo diverso. Come afferma nel Convivio, l'esperienza giovanile del poeta nella Vita nuova, un'opera che egli definisce "fervida e passionata" (Conv. I, i, 16), non è più adatta ad un'età più matura, e deve essere moderata da una meditazione poetica più razionale. La similitudine di Iif I ripropone questo giudizio sulla Vita nuova con la metafora che esprime sollievo per aver scampato a stento il pericolo di aver quasi capitolato alla passione d'amore e di aver annegato nel "lago del cor" delle passioni.
Ora possiamo commentare in modo più preciso gli ultimi versi del paragone: "Lo passo/che non lasciò già mai persona viva". Il "passo" è stato sempre letto come un riferimento alla "selva oscura" di alcuni versi prima, ed in un certo senso lo è. Tuttavia il "passo" è prima di tutto un riferimento alla passione d'amore che, come illustra l'esempio di Paolo e Francesca in Inf. V, è una passione che conduce alla morte. "Amor condusse noi ad una morte." (111/ V, 106) Infatti, non si tratta di una coincidenza che Inf: V ripeta lo stesso schema di rime di Inf. I che contiene il termine "passo". Qui abbiamo la rima "passo/lasso/basso" (26-30), in In/ V abbiamo "basso/lasso/passo" (110-14). Il termine "passo" è un riferimento specifico all'amore che costa la vita a Paolo e a Francesca.
Quand'io intesi quell'anime offense,
china' 'l viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: "Che pense?"
Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!"
(Inf. V, 109-114, mio corsivo)
I "dolci pensier" d'amore e il "disio" d'amore sono responsabili della morte degli amanti, come lo è la poesia del "dolce stil novo" che li aveva ispirati, come faccio notare nel capitolo VI. In altre parole, il paragone asserisce in forma allegorica la decisione di Dante di allontanarsi dalla poesia lirica "fervida e passionata" della sua giovinezza, tipica della Vita 1111011a. Dante ricorda qui la sua fuga miracolosa da un tipo di poesia amorosa che invece ha reclamato molte vittime fra i suoi amici poeti.
La prima "analogia" della Commedia è in realtà un'allegoria piuttosto che una pseudosimilitudine che racconta in forma allegorica la storia della fuga miracolosa di Dante dalle poetiche giovanili che caratterizzano i primi anni della sua carriera poetica. La pseudosimilitudine elabora una metafora, "il lago del cor", simbolica delle sue poetiche giovanili e racconta la storia del primo tentativo del poeta di fuggire dalla "selva oscura".
Questo però è soltanto un "primo" tentativo perché il pellegrino credendosi ben al di fuori del pericolo tenta di salire la montagna direttamente e da solo. Il secondo tentativo ci porta, come ha ben visto Singleton, alla seconda pseudosimilitudine di Inf. I.
E qual è quei che volentieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia senza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
(Inf. I, 55-60, mio corsivo)
Come nella prima pseudosimilitudine, il significato di quest'analogia è molto più profondo di quanto possa sembrare a prima vista. Se dovessimo prendere questi versi come una semplice analogia, come succede spesso, il significato sarebbe davvero semplice. La similitudine parla del pellegrino che piange ed è triste alla vista della "lupa", proprio come un avaro piange quando perde tutta la sua ricchezza. Se questa fosse solo un'analogia, sarebbe un modo complicato di descrivere lo stato mentale del pellegrino al proprio smarrimento alla vista della lupa. Come nella prima analogia, quello che ci colpisce è la singolarità del paragone. Lo smarrimento e la tristezza del pellegrino potevano essere espressi in molti altri modi senza far ricorso all'immagine di un avaro che oltre a denotare tristezza è anche un'immagine negativa.
Come nella prima pseudosimilitudine, questo paragone apparente nasconde un altro errore del pellegrino che è ora denunciato dalla versione allegorica. L'analogia con l'avaro non indica soltanto la tristezza del pellegrino ma la sua "avidità", cioè il suo desiderio di "guadagnare", non denaro naturalmente, ma fama. Come un avaro che avidamente accumula ricchezze fino al giorno in cui perde tutto, il pellegrino vuole acquisire fama di poeta in fretta fino a quando incontra la lupa, simbolo della cupidigia e dell'avarizia, che l'ostacola. A prima lettura, la lupa sembra la colpevole, l'animale malvagio che costringe il pellegrino a ritornare sui suoi passi. Ma la lupa, piuttosto, è il segno della cupidigia e dell'avarizia che mette in guardia contro i difetti e gli errori del pellegrino.
La "cupidigia" del pellegrino è la sua presunzione di proseguire da solo per raggiungere la cima della montagna. In altre parole, e coerente con il significato della prima pseudosimilitudine, questa similitudine apparente esemplifica, in chiave allegorica, il fallimento di Dante nel Convivio. Come ho fatto notare nella mia lettura cli quest'opera, e come indicherò in quella di Inf. II nel capitolo IV, la "cupidigia" del pellegrino allude alla presunzione cli Dante cli creare un'opera, il Convivio, sulla scia del modello del Tresor cli Brunetto Latini, che avrebbe insegnato ai lettori, "come l'uom s'etterna" (I,if. XV, 85), cioè, come diventare saggi e virtuosi seguendo i dettati filosofici delle canzoni che Dante insegna nel suo commento.
Nel caso cli Dante non si tratta cli ricchezze ma cli gloria poetica e del riconoscimento che gli verrebbe dal comporre un'opera che insegnasse ai suoi concittadini fiorentini come migliorare se stessi. Come nella pseudosimilitudine, il pellegrino sembra credere cli poter conquistare subito e da solo la vetta, così Dante nel Convivio prende una simile scorciatoia quando inganna o dissimula ai suoi lettori che essi possono facilmente diventare saggi e virtuosi comprendendo il significato delle canzoni spiegato dal suo commento. Come nella Vita nuova, Dante, ancora una volta, si rende conto del suo folle tentativo e interrompe l'opera. La seconda pseudosimilitudine ripropone questo insuccesso allo scopo cli sottolineare che il viaggio intrapreso dalla Commedia è l'unico che condurrà alla vera conoscenza e al conseguimento della virtù.
Le prime due pseudosimilitudini caratterizzano in chiave allegorica i due tentativi poetici precedenti del poeta e denunciano come "errore" le persone poetiche responsabili per questi errori. Nella prima pseudosimilitudine si parla del periodo giovanile del poeta che a stento riesce a fuggire alla presa mortale dell'amore passionale, come ci racconta Dante all'inizio del Convivio. Nella seconda pseudosimilitudine, con la sicurezza cli qualcuno che s'illude cli aver lasciato dietro cli sè ogni pericolo - Dante all'inizio del Convivio - il poeta prova con il commento filosofico alle sue canzoni (sulla scia cli Boezio e cli Cicerone) cli fornire ai suoi lettori la necessaria conoscenza per condurre una vita retta e virtuosa.
In Inf. I, infatti, siamo nel prologo della Commedia, la terza opera poetica cli Dante, e prima cli rivelare ai suoi lettori dove il nuovo viaggio poetico li condurrà, Dante (come aveva fatto all'inizio del Convivio) ricapitola i tentativi poetici precedenti che lo hanno portato a scrivere la Commedia. Come anche fa notare all'inizio del Convivio con riguardo alla Vita nuova, le opere o le persone poetiche precedenti non vengono ripudiate ma soltanto trascese perché considerate progenie dello stesso padre, tutte opere sorelle.
Per ritornare alla questione della similitudine nella Commedia, questi primi due esempi tratti da Inj I, rendono possibile alcune considerazioni sulla natura dell'allegoria e dell'analogia nel poema dantesco. Il rapporto di identità e differenza che caratterizza l'analogia stabilisce un paragone tra due termini che sono fondamentalmente diversi tra loro. La struttura "come... così" o "qual... tal" mette insieme termini che hanno un solo attributo .in comune. Nella prima analogia il naufrago che si volge indietro dopo aver guadagnato con successo la riva viene paragonato allo stato d'animo del pellegrino per mettere in evidenza la sua paura ma, soprattutto, il sollievo per aver fuggito la selva oscura. Lo stesso si può dire della seconda analogia che paragona il pellegrino ad un avaro per far notare il senso di smarrimento e di disperazione del pellegrino nel momento in cui incontra la lupa. Poiché vengono presentate come analogie, il lettore non stabilisce nessun' altra connessione fra i soggetti del primo e del secondo termine di paragone. È così che queste analogie sono state sempre lette - infatti, questa è proprio l'intenzione dell'autore - sebbene non sia sfuggito ai critici che non si tratta di vere e proprie analogie.
A proposito bisognerebbe fare un'ulteriore osservazione su queste due analogie che in un primo momento sembrano molto diverse. Con la prima analogia, i critici non hanno avuto difficoltà nell'identificare il pellegrino come il naufrago e leggere la figura come un'affermazione che denota un difetto nella vita spirituale del pellegrino. Le cose vanno un po' diverse con la seconda analogia dove, a quanto mi risulta, nessuna identificazione è mai stata fatta fra l'avaro e il pellegrino come figura della persona poetica del Convivio. Tuttavia, le due analogie sono simili poiché entrambe pseudosimilitudini. La differenza sta nel modo di leggerle. La prima analogia si presta più della seconda ad essere interpretata come un difetto del pellegrino, indipendentemente dal modo in cui si interpreta questa carenza. Nel secondo caso, identificare il pellegrino con l'avaro vuol dire attribuirgli un difetto che non quadra bene con la presenza della lupa di cui sembra essere la vittima apparente. Per leggere la lupa come segno della "cupidigia" del pellegrino e di conseguenza, come segno che aiuterà il Veltro di Dante ad identificare e punire casi simili di invidia e di cupidigia, è necessario modificare radicalmente le nostre idee ricevute sul poema dantesco.
Quando paragoniamo una lettura della similitudine con una lettura della pseudosimilitudine o dell'allegoria, le differenze diventano chiare. Quando la leggiamo come semplice analogia, il paragone nasconde l'errore, o il difetto, che la spiegazione allegorica, invece, mette in evidenza e denuncia. Quando leggiamo i paragoni come analogie, percepiamo soltanto il significato dello stato d'animo del pellegrino. Quando li leggiamo diversamente come allegorie esse denunciano i suoi difetti. L'analogia, in altre parole, è associata con l'errore e con la dissimulazione di questo errore. E una forma di dissimulazione. L'allegoria, invece, è associata alla rivelazione e alla denuncia di questo errore. Oppure, per metterla diversamente, l'allegoria è la demistificazione dell'analogia come errore. L'analogia è associata con l'errore non solo perché ha l'errore come contenuto, ma perché distoglie il lettore dal vero problema nascondendo l'errore, come risulta evidente dalla seconda (pseudo)analogia. Nel paragonare il pellegrino al naufrago o all'avaro, l'analogia obbliga il lettore a trascurare le somiglianze e a concentrarsi sul terzo termine - lo stato d'animo - che presumibilmente hanno in comune.
Ma, potremmo chiederci, perché Dante usa delle analogie che non sono analogie quando avrebbe potuto rendere più facile il suo ed il nostro compito adoperando delle allegorie? Perché Dante finge di scrivere delle analogie che sono soltanto delle pseudoanalogie? Una risposta a queste domande deve, prima di tutto, tener conto del contenuto delle pseudoanalogie, cioè del fatto che rivelano i limiti delle opere giovanili di Dante, della Vita nuova e del Convivio rispettivamente. Come dimostrerò nei capitoli successivi, questo insuccesso è dovuto al fatto che l'analogia è il modo poetico dominante delle prime opere di Dante. L'errore della giovane ballata che ha male interpretato la vera natura della filosofia, come pure la presunzione di Dante di insegnare ai suoi lettori le virtù della filosofia, sono inerenti al tropo dell'analogia. Nel caso della ballatetta, il giudizio basato sulle apparenze l'ha condotta (insieme a Dante) a rifiutare la consolazione della "donna gentile" nella Vita nuova e a fraintendere la vera natura dei suoi insegnamenti. Qui l'errore dipende da un modo di concepire la metafora come figura analogica di un'entità reale, creando, di conseguenza, l'illusione che sia possibile dedurre l'uno dall'altro, dato che la metafora e la realtà empirica sono una e la stessa cosa.
Questa stessa nozione è alla base del tentativo di Dante di spiegare il contenuto filosofico delle canzoni nel Convivio. Quello che Dante in quell'opera chiama dissimulazione consiste nel presunto rapporto analogico fra significato letterale e significato allegorico delle canzoni. Una volta spiegato il significato letterale, Dante pretende che il lettore possa facilmente passare a quello allegorico, proprio come egli cerca di dimostrare nel suo commento. Questa tesi è di per sé un caso di "dissimulazione", come ho già fatto notare nel capitolo precedente, e costituisce una delle ragioni per cui il Convivio non è mai stato portato a termine. L'analogia, in altre parole, è la figura dell'automistificazione responsabile per l'insuccesso delle prime opere di Dante. Nella Commedia dove questa forma poetica viene trascesa nell'affermazione della verità allegorica, l'analogia rimane come figura della mistificazione e della dissimulazione. La rappresentazione dantesca dell'automistificazione nella Commedia prende la forma dell'analogia o, per essere più precisi, della pseudoanalogia. Dall'istante in cui l'analogia introduce la sua presunta verità tramite la similitudine, la differenza tra i due termini del paragone viene denunciata come errore. L'aspetto "pseudo" della similitudine è un indice, per il lettore, che la pseudosimilitudine deve essere letta come allegoria.
Nelle mie considerazioni sulla pseudosirnilitudine nella Commedia, mi sono soffermato principalmente sui primi due esempi del poema. Analoghe similitudini, o pseudosirnilitudini, come ho fatto notare altrove, si trovano in Inf II, "E qual è quei ... tal mi fec'io" (37-42), e "Quali fioretti ... tal mi fec'io" (127-132). 25 Il significato allegorico di queste pseudosimilitudini sarà discusso nel capitolo IV, per il momento sarà sufficiente aggiungere che queste pseudosimilitudini sono simili alle due qui discusse poiché ripropongono gli errori passati del pellegrino (la prima) e della condizione del pellegrino nella Commedia (la seconda). La rassomiglianza è spiegata anche dal fatto che sia il primo che il secondo canto dell'Inferno sono i due prologhi del poema che mentre definiscono la nuova poetica della Commedia mirano a stabilire il loro rapporto con le due opere dantesche precedenti. Allo stesso tempo, esse trattano dei difetti passati del poeta esemplificati dalla stessa figura aberrante dell'analogia. E per ultimo, tutte e quattro trattano dell'io poetico e delle sue mistificazioni. Se l'analogia è il modo dell'automistificazione, la pseudosimilitudine è anche il modo in cui Dante rivela l'autoinganno e lo denuncia. Per questa ragione la pseudosimilitudine è anche uno dei modi in cui l'ironia di Dante si manifesta nell'ambito della Commedia. Nei primi due canti, l'ironia è rivolta alla persona del poeta ed alle sue opere precedenti. Nell'Inferno e nel Purgatorio, la pseudosimilitudine serve, invece, ad esporre e denunciare simili inganni in altri personaggi.
Quello che è stato detto di queste quattro pseudosirnilitudini è applicabile anche alle altre della Commedia, sia che in gioco è l'io poetico sia che l'analogia racconti la storia dell'errore dei personaggi puniti. In tutti questi casi, attraverso la demistificazione dell'analogia, Dante dimostra il potere ironico e allegorico della sua nuova poetica.