Dati bibliografici
Autore: Gianfranco Fioravanti
Tratto da: De l'antiquite tardive au Moyen Age. Études de logique aristotélicienne et de philosophie grecque, syriaque, arabe et latine offertes à Henri Hugonnard-Roche
Editore: Vrin, Paris
Anno: 2014
Pagine: 581-590
Il testo del Convivio in cui Dante descrive in termini generali le caratteristiche della allegoria e delle sue diverse specie è stato frequentemente visto come centrale per una interpretazione della Commedia, ma contemporaneamente determinarne l’esatto significato è stato fonte di innumerevoli difficoltà per gli studiosi dell’Alighieri. La trattazione, infatti, è tutt'altro che lineare e sembra confondere piani che inizialmente erano stati presentati come distinti: in primo luogo l’allegoria come capacità di costruire un testo dotato di sensi che vanno al di là di quello letterale, e l’allegoresi, come capacità di interpretarli in maniera corretta; in secondo luogo l’allegoria dei poeti, che nasconde la verità sotto il manto delle favole, e l’allegoria dei teologi di cui Dante non fornisce i connotati distintivi, ma che, per tutti i medievali, ha la verità del senso letterale come fondamento imprescindibile. Consideriamo la prima distinzione: essa viene enunciata, sia pure di sfuggita, nel primo trattato del Convivio: «E questo (scil. l’interpretazione delle canzoni) non solamente darà diletto buono ad udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture» . Ma all’inizio del secondo trattato, quando Dante parla del diverso significato che ha l’allegoria per i poeti e per i teologi copre con la stessa parola due procedimenti tra loro diversi: i teologi, infatti, non possono essere se non coloro che dalle cattedre di teologia sono autorizzati ad interpretare la Sacra Scrittura di cui non sono affatto gli autori; il loro lavoro è dunque un lavoro di allegoresi . E per quanto riguarda i poeti (cioè i grandi poeti latini, Ovidio e Virgilio, essenzialmente)? Come aveva già detto chiaramente Macrobio, essi avevano composto opere cariche di significati più profondi rispetto alla lettera, e questo essendone pienamente consapevoli: si tratta dunque di allegoria in senso stretto . Quanto alla seconda distinzione Dante, nel momento stesso in cui differenzia l’allegoria dei poeti da quella dei teologi, la inserisce in uno schema, quello dei quattro sensi della Scrittura, che è in tutto e per tutto di stampo teologico. Come ha visto con assoluta chiarezza Albert Russell Ascoli, la confusione tra i due procedimenti c la contaminazione dei due schemi dipende da una situazione del tutto particolare: nell’interpretazione allegorica delle due prime canzoni del Convivio autore e interprete dell’allegoria coincidono nella persona di Dante . In questo egli si differenzia dai teologi che non sono gli autori dei testi che commentano, ma si differenzia anche dai poeti che non sono in genere gli interpreti dei testi che hanno composto. Come in molti altri casi Alighieri utilizza qui categorie tradizionali della cultura in cui vive, rimodellandone e anche forzandone le caratteristiche, per farne un veicolo capace di esprimere la irripetibile eccezionalità delle proprie esperienze: egli solo, infatti, si trova nella condizione di spiegare agli altri quale sia stato il vero senso di quella situazione di vita che il suo testo insieme vela ed esprime: «Intendo mostrare la vera sentenza di quelle (scil. le canzoni), che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché nascosa sotto figura d’allegoria» . Il discorso sull’allegoria presente nel Convivio, allora, solo apparentemente si presenta come una teoria generale e, lo sottolinea ancora Albert Russel Ascoli, è difficilmente utilizzabile per una interpretazione ed una valutazione del carattere allegorico della Commedia. Stando così le cose un lavoro pit modesto, ma a quel che mi sembra tuttora non intrapreso espressamente, potrebbe essere quello di vedere qual è la forma di allegoresi con cui Dante, nel Convivio, interpreta se stesso. La prima e piuttosto sconcertante scoperta è che, quando egli introduce nella trattazione testi di poeti a conferma delle sue argomentazioni, non li sottopone affatto a quella allegoresi di cui aveva parlato nel primo capitolo del secondo trattato. Nella descrizione delle varie età della vita in cui l’anima nobile dimostra le sue diverse ed appropriate doti, Dante, per esemplificare i caratteri della giovinezza, ricorre all’Eneide, il testo allegorizzabile ed allegorizzato per eccellenza, dove gli interpreti, da Fulgenzio in poi, avevano istituito una corrispondenza tra le vicende narrate nei vari libri del poema e le successive vicende della vita umana: le peripezie di Enea costituivano appunto l’integumentum, l’involucrum sotto cui scoprire verità universali concernenti l’anima e la sua storia . Il sesto libro, soprattutto, era stato visto nel XII secolo come il luogo in cui più che altrove il racconto poetico rimandava a contenuti filosoficamente profondi. Come dice Bernardo Silvestre: «Quia profundius philosophicam veritatem in hoc volumine declarat Vergilius, ideo non tantum summam, vero etiam verba exponendo in eo diutius immoremur» . E infatti, nel suo commento, ogni elemento, sia esso una persona, o un luogo specifico, o un semplice dato paesaggistico, assume un significato coerente con l’interpretazione generale della discesa di Enea agli inferi come una discesa del sapiente verso le realtà mondane «non ut in eis intentionem ponat, sed ut, corum cognita fragilitate, eis abiectis, ad invisibilia penitus se convertat». Ad esempio l'approdo delle navi troiane al bosco sacro di Diana Trivia e al tempio di Apollo, dopo che Palinuro è scomparso in mare ed Enea stesso ha preso il timone, viene così ritrascritto: «Relicto errabundo visu incipit rationalis spiritus voluntatem suam ratione... regere et applicare studiis eloquentiae». In questo contesto i boschi sacri di Trivia rappresentano le arti del trivio e i tetti dorati del tempio di Apollo le «quattuor artes matheseos in quibus philosophia continetur». E si potrebbe continuare . Niente di tutto questo nel Convivio: nella corrispondenza che viene istituita tra i libri quarto, quinto e sesto dell’Eneide e la giovinezza vissuta da chi possiede un’anima nobile non si va oltre la lettera del testo di Virgilio: Enea vi compare come un personaggio storico le cui azioni sono niente di più che una esemplificazione delle virtù, «lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza», appropriate a questa età della vita, senza che ad esse sia sotteso alcun significato allegorico . Ancor pit significativo il caso delle Metamorfosi ovidiane e del racconto dell’alleanza tra Cefalo di Atene e Eaco re di Egina. Dante parla espressamente di «favola», ma nella sua trattazione dell’episodio non c'è traccia di alcun «manto» che nasconda alcuna verità sotto alcuna «bella menzogna», anzi, dalla narrazione, a differenza di quel che avverrà nella Commedia, sono espunti proprio tutti gli elementi favolosi (le formiche trasformate in uomini): rimane un fatto storico (proprio nel senso della historia letterale) in cui Eaco dimostra quelle doti di prudenza, giustizia, larghezza e affabilità che sono o dovrebbero essere caratteristiche della vecchiaia . Lo stesso vale per la menzione di Anteo e della sua lotta con Ercole (Cv III iii 7-8). Anche qui il racconto dei poeti era stato visto come involucro di una verità più profonda: nella interpretazione di Fulgenzio, Anteo era stato presentato come la figura della libido e Ercole come quella della virtus . Dante invece, citando addirittura, accanto ad Ovidio e Lucano, non meglio identificate «storie d’Ercule» sembra voler raccontare un fatto storico, caso particolare di una legge più generale («ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo nello luogo dove è generato») , Il caso di Anteo mi sembra getti una qualche luce anche sull’unico esempio che il Convivio fornisce della allegoria dei poeti: quello relativo al personaggio di Orfeo. La persona e la vicenda del mitico poeta teologo hanno ricevuto, nella cultura medievale, molteplici interpretazioni che lo hanno perfino visto come figura di Cristo: Dante però, come ha giustamente sottolineato Baranski, non prende in considerazione la storia della morte di Euridice e della discesa agli Inferi del poeta, ma solo il racconto dei meravigliosi effetti del suo canto: «come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere e li arbori e le pietre a sé muovere» (Cv II I 3) . Più ancora che le Metamorfosi di Ovidio il punto di partenza sembrano essere i versi dell’Ars Poetica di Orazio, dove si ha già un inizio di interpretazione della favola che poi un filone dell’esegesi medievale accentuerà: gli animali feroci domati e gli alberi e le pietre mossi dal suono della cetra sono gli uomini bestiali e “silvestri” che la forza della parola di Orfeo condusse ad una pacifica e civile coesistenza. Questa sottolineatura del carattere politico della azione del poeta-filosofo: è particolarmente presente in un testo di Tommaso che Dante può aver conosciuto, e cioè il commento al De Anima, dove l’Aquinate scrive: «Et iste Orpheus primo induxit homines ad habitandum simul et fuit pulcherrimus contionator, ita quod homines bestiales et solitarios reduceret ad civilitatem ;et propter hoc dicitur de eo quod fuit optimus citharedus in tantum quod faceret lapides saltare, id est ita fuit pulcher contionator quod homines lapideos emolliret» . L’interpretazione dantesca non si lascia ricondurre in toto a questo filone. Sicuramente, però, pur allargando il quadro e conferendo ad ogni savio uomo i poteri di persuasione c di umanizzazione posseduti da Orfeo («che vuol dire come lo savio uomo con lo strumento della sua voce faccia mansuescere e umiliare li crudeli cuori e faccia muovere alla sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte... e sono quasi come pietre»), essa presuppone egualmente l'esistenza storica del personaggio e della sua azione . Anche in questo caso la fabula (o meglio, per dirla con Macrobio, la narratio fabulosa) non rimanda ad una verità filosofica più profonda (una notio sacrarum rerum per usare ancora le parole di Macrobio), ma semplicemente alla verità di una 4istoria. Esiste infine un breve passo del Convivio che mi sembra particolarmente significativo per il nostro tema, là dove Dante batte in breccia l'idea che «tempo si richiede a nobilitade» (Cv IV xv 3): la pretesa secondo cui il padre di Dardano sarebbe stato Giove viene definita «favola» solo per esser lapidariamente liquidata (e insieme ad essa, almeno implicitamente, altre «favole» poetiche) con l'affermazione generale che delle favole «filosoficamente disputando, curare non si dee» . Tutto l’opposto di ciò che aveva detto Bernardo Silvestre quando, tracciando la linea di divisione tra la sacra pagina e la filosofia aveva posto sotto il segno di quest’ultima proprio gli integumenta poetici, la «oratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum» . In questo Dante è pienamente inserito nella cultura universitaria che aveva bandito dalla trattazione e dalla discussione filosofica ogni forma di aequivocatio e di multivocatio (proprio i termini usati dalla generazione precedente per sostenere che la verità spesso non può essere espressa da un'unica designatio) . E, come ben sappiamo, il Convivio vuole essere un’opera filosofica. Non è dunque qui che potremo trovare né una esaltazione né una emulazione del poeta-philosophus di cui aveva parlato Bernardo Silvestre nel suo commento ai primi sei libri dell’Eneide . In cosa dunque consiste l’allegorica esposizione che Dante promette all’inizio del Convivio? In via preliminare colpisce lo spazio assai più ampio riservato al commento letterale rispetto a quello allegorico (nove capitoli su quindici nel commento alla prima canzone, dieci su quindici nel commento alla terza). Anche qui la distanza dall’allegoresi dei poeti è abbastanza evidente e del resto il predominio del commento letterale trova una giustificazione teorica proprio nell’ambito della trattazione generale dell’allegoria, lì dove Dante presenta tutta una serie di argomentazioni a sostegno del fatto che «sempre lo senso litterale dee andare innanzi» . Ma anche la parte relativamente modesta riservata all’allegoresi riserva qualche sorpresa. Partiamo dalle affermazioni esplicite di Dante sulla allegoricità delle sue canzoni. Esse si trovano in testi che spiegano il perché sia della allegoria (cioè il motivo per cui egli, scrivendo, ha usato la forma allegorica) che della allegoresi (cioè il motivo per cui ha sentito il bisogno di interpretare questa allegoria). All’inizio del Convivio Dante si scusa di esser lui stesso materia della propria narrazione adducendone due motivazioni necessarie, la prima delle quali è «quando sanza ragionare di sé grande infamia non si può cessare». Nel caso specifico egli teme «la infamia di tanta passione avere seguita quanta concepe chi legge le sopranominate canzoni in me avere segnoreggiata, la quale infamia si cessa per lo presente di me parlare, lo quale mostra che non passione, ma vertù sia stata la movente cagione» (Cv I II 16). Qui, sia pure in termini molto generali, viene appunto argomentata la necessità di una allegoresi: le canzoni non sono state originate da una passione dei sensi rivolta verso una donna, come può sembrare dal loro dettato letterale, ma da amore intellettuale e quindi virtuoso. Ma se leggiamo attentamente i paragrafi che introducono la seconda canzone, Amor che nella mente mi ragiona, ci troviamo di fronte alla affermazione che proprio la canzone, non una sua interpretazione, ha avuto il compito di liberare Dante dalla accusa di aver abbandonato per leggerezza l’amore di Beatrice: «Dico che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato : per che a torre via questa riprensione nullo migliore argomento era che dire quale era quella donna che m’avea mutato... Impresi dunque a lodare questa donna... e cominciai a dire: Amor che nella mente mi ragiona». La spiegazione del primo verso è ancora più esplicita in questo senso: «Onde acciò che questa natura si ‘chiama mente, dissi Amore ragionare nella mente per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione» . Fin dall’inizio, dunque, l'oggetto della lode è qualcosa di più di una donna empirica di cui ci si può innamorare in maniera diciamo così normale, attraverso «gli spiriti degli occhi» (Cv II ii 12) e non attraverso l’esercizio della «ultima e nobilissima parte dell'anima che per mente s'intende» (Cv III ii 16). Si tratta invece di una donna del tutto particolare: non solo è cosa «visibilmente miraculosa» che può convincere gli uomini della possibilità dei miracoli di Cristo e dei Santi (Cv III vii 17), non solo è stata ordinata fin dall’eternità nella mente divina, ma addirittura è, come le sostanze separate, incapace di essere colta a pieno dal nostro intelletto «per difetto della virtù dalla quale trae quello ch’ei vede» (Cv III iv 9) cioè per il venir meno della fantasia, che, ricordiamolo, per la cultura poetica del tempo di Dante e per Dante stesso, è la facoltà fondamentale per la nascita e il mantenimento di ogni amore rivolto a donne fisicamente reali.
Nella esposizione della canzone è certamente presente una allegoresi: il «sol che tutto il mondo gira» della lettera non è il sole sensibile, ma, con una trasposizione tutt'altro che originale, quello intelligibile, cioè Dio, l’amore che ragiona nella mente di Dante è lo studio assiduo, gli occhi e il riso della donna sono le dimostrazioni e le persuasioni della Filosofia e così via . E però la donna di cui si tessono le lodi, fin dall’inizio della canzone, c di conseguenza fin dall’inizio del commento letterale, sembra esser già qualcos'altro: è un po’ la stessa cosa che accade all’inizio del De Consolatione philosophiae dove la matrona veneranda dagli occhi ardenti e acuti oltre il normale, vecchissima, ma dall’incarnato vivace, ora di statura normale e ora alta fino al cielo, che solo in seguito il prigioniero riconoscerà come la Filosofia, fin dalla sua prima apparizione è certamente predestinata ad esserne la figura. Il fatto è che nella seconda canzone, a differenza che nella prima, il presunto senso letterale o “storico” non racconta nessuna storia, nemmeno una storia interiore da reinterpretare. Si tratta piuttosto di una “loda” dove l’allegoria riempie già abbondantemente di sé la lettera. Rivolgiamoci allora, in conclusione, all’allegoresi di Voi ch'intendendo il terzo ciel movete. Qui effettivamente Dante può affrontare un’allegoria del tutto insospettabile secondo il senso letterale della canzone e può interpretarla mostrando il meccanismo con cui è stata costruita, o meglio, con cui lui stesso l'ha costruita (e forse sta qui il «sottile ammaestramento a così parlare» di Cv I ii 7). Si tratta della trasposizione complessiva dei dicci cieli nelle dieci scienze che occupa i capitoli XIII e XIV del secondo trattato. Lo strumento messo in azione è in sé abbastanza semplice e di applicazione generale: si tratta infatti di trovare, per due o più realtà diverse, uno o pit elementi comuni che permettano di renderle in qualche modo interscambiabili per analogia. Tutta l'abilità dell’allegorizzatore sta allora nell'individuare il numero maggiore possibile di somiglianze, anche là dove nessuno mai avrebbe pensato di trovarle, e bisogna dire che in questo Dante dimostra una virtuosità fuori del comune .
Ma questa complessa macchina serve poi a dare il significato “vero” di due soli versi della canzone e precisamente il primo e l’ultimo della prima stanza: coloro che intendendo muovono il terzo cielo, vista l’interscambiabilità tra il cielo di Venere e la Retorica, non sono le Intelligenze-Angeli che hanno immesso in Dante il nuovo amore per la donna gentile, ma «Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me nello amore, cioè nello studio di questa donna, gentilissima Filosofia» e il raggio che nella interpretazione letterale veicolava l’influsso del «bel pianeta che d’amar conforta» è in realtà la scrittura retorica, visto che «in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra » (Cv II xv 1). Dopo di che Dante si sbarazza del senso allegorico in un unico capitolo, il quindicesimo ed ultimo, dicendo che esso coincide con quello letterale, tranne là dove si parla di una donna e dei suoi occhi, che stanno per la Filosofia e le sue dimostrazioni, di uno «spiritel d'amore», che sta per lo studio necessario alla loro acquisizione (stessa interpretazione di quelle presenti nella seconda canzone), e delle angosce di sospiri che corrispondono a quel «labore di studio e lite di dubitazioni» in cui all’inizio si imbatte chiunque intraprenda la strada della conoscenza filosofica. E questo gli riesce facile perché, nonostante le affermazioni programmatiche in cui afferma di voler seguire l’allegoria dei poeti, l’unica allegoria effettiva (in sé abbastanza scontata per chiunque avesse un minimo di conoscenza del De Consolatione philosophiae) è quella che identifica la donna della prima canzone con la Filosofia; tutto il resto viene, per dir così, da sé . Del resto già nella narrazione della sua “conversione” filosofica, narrazione che precede l’interpretazione allegorica, Dante stesso aveva fatto capire che questa avrebbe dovuto essere la chiave di lettura: «e imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso» (Cv I xii 6). A questo punto è quasi inevitabile porsi un interrogativo finale: dopo tutto lo spazio e l’importanza che le è stata riconosciuta, in che senso la lettera può continuare ad esser definita «fittizia»? È possibile che stia proprio qui il punto di forza dell'appello di Dante alla allegoria dei poeti, e che la storia del contrasto tra il vecchio amore per Beatrice e quello nuovo ‘per una nuova donna gentile e passionata di misericordia sia il manto di una favola, la bella menzogna sotto cui si nasconde la verità? Ma nei paragrafi che introducono il commento letterale della canzone e in cui Dante racconta le circostanze che hanno dato luogo alla sua composizione, la donna gentile e la sua compassione appaiono come un fatto che si colloca con assoluta precisione in un tempo determinato . Non solo, ma si rimanda il lettore al racconto della Vita Nova: qui l’incontro con colei che sarebbe diventata il nuovo amore era carico di precisazioni, come il levare il viso verso l’alto, dove la donna lo stava guardando da una finestra, che, anche se in teoria allegorizzabili (come abbiamo visto a proposito di cieli e scienze ed altro, tutto poteva esserlo) non sono state allegorizzate. C'è infine un passo del Convivio abbastanza curioso ed intrigante su cui vale la pena di attirare l’attenzione: prima della seconda interpretazione, quella allegorica, Dante riscrive le circostanze che sarebbero state all’origine della canzone e del suo significato vero: non l’incontro con la donna gentile per le strade di Firenze, ma quello con la Filosofia, prima nei libri di Boezio e di Tullio e poi nelle aule degli Studia di Santa Maria Novella e di Santa Croce. A questo punto egli si trova davanti una domanda non formulata espressamente, ma più che legittima: perché mai, mettendola in versi, hai mostrato la tua condizione «sotto figura d’altre cose»? Perché, insomma, velare quello che si sarebbe potuto benissimo esprimere direttamente? La risposta di Dante è insieme chiara ed imbarazzata: i potenziali lettori della canzone non erano «tanto bene disposti che avessero si leggiere le non fittizie parole apprese, né sarebbe data per loro fede alla sentenza vera come alla fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fossi a quello amore che non si credea di questo» . Dunque, l’innamoramento per la donna gentile non solo è stato reale, ma addirittura di pubblico dominio nel piccolo mondo del gossip fiorentino, mentre evidentemente non altrettanto noto o almeno credibile era, al momento della composizione della canzone, il nuovo amore per la Filosofia . In conclusione: o la canzone ha usato fin dall’inizio il linguaggio del conflitto dei pensieri d’amore come metafora, oppure (cosa che mi sembra più plausibile) è stata reinterpretata allegoricamente quando la donna gentile era ormai un ricordo; ma in entrambi i casi ha alle spalle non una fictio, ma un'effettiva esperienza amorosa. Solo che le esperienze di vita assumono sempre per Dante un carattere particolare ed eccezionale: l’amore per la donna gentile si è fuso in lui con un nuovo amore capace di farlo assurgere aduna realtà più alta. Si apre così, dopo quella «fervida e passionata», un’età «temperata e virile» dove l'Alighieri è chiamato a compiti che, sotto il segno universale della Filosofia, oltrepassano ormai la cerchia “comunale” dei suoi antichi lettori e ammiratori.