Dati bibliografici
Autore: Gianfranco Contini
Tratto da: Un'idea di Dante. Saggi danteschi
Editore: Einaudi, Torino
Anno: 1976
Pagine: 36-38
[…] Qui toccherebbe aprire una parentesi. Per dichiarare che la distinzione di simbolo e allegoria, così recisa presso il Singleton, sembra troppo meglio segnata in linea di diritto che in linea di fatto. Né il Singleton è il primo a riproporla nei nostri anni: tornerò a rammentare quel critico di Chrétien, il Bezzola; e la cosa è ben comprensibile come legittima difesa instaurata dagli specialisti avverso l'eradicazione di ogni lettera che non sia la lettera a opera d'una critica fondata sul sentimento puro; si aggiunga d'altra parte l'effettiva rivalutazione d'una lettera che non sia solo la lettera, cioè di valori allusivi che trascendano la semantica normale, presso quasi tutta la poetica successiva a Baudelaire, se non si voglia scavare più alto nel filone «misterioso» del romanticismo europeo. L'atteggiamento del Bezzola, come, in pectore almeno, di parecchi dantisti, è, press'a poco, quello di salvare il salvabile: abbandonare al suo tristo destino la lettera che non è la lettera, per recuperare la lettera che non è SOLO la lettera; sanguinerebbe, altrimenti, all'imponenza del sacrificio richiesto, il cuore del medievalista. In fatto, quanta lettera, che non ha più niente di letterale, si trova a essere contrabbandata! Citerò, per un esempio solo, le lunghe elucubrazioni sui numeri attribuite a Chrétien, le quali, se corrispondono genuinamente alle intenzioni scoperte dal novello iniziato, vanificano in un'insipida nullità buona parte della lettera, prima apparsa neutra e anodina. Per la verità, su questo terreno non scende il Singleton. La lettera della poesia allegorica per lui ha un valore di referto storico del quale non può essere defraudata. L'opposizione di simbolo e allegoria non è, in lui, meno infetto del veleno idealistico (ciò che non gli vieta di ricusarne come perniciosi i testi), un sostanziale (e forse davvero anacronistico) travestimento dell'opposizione di poesia e non poesia, bensì risponde a due dimensioni ben distinte del libro medievale, quantunque collegate dal principio d'imitazione. In quanto esso sia imitazione del libro sacro, ha e una lettera e un senso mistico, l'allegoria; ma in quanto esso sia mimesi del libro della natura, gli oggetti della lettera stessa si sdoppiano in loro e nel loro significato, il simbolo, così come la cosa naturale, pietra o vegetale o animale, nei lapidari ed erbari e bestiari è lei, eventualmente con la sua individuale e narrabile storia, ed è un insieme di proprietà e costumi costanti trasferibili al morale. La distinzione è molto aguzza nell'ordine teorico, anzi teoretico, ma sembra meno rilevante agli effetti dell'esegesi. Anche prescindendo (è tutto dire!) dall'esperimento, come si può attuare un'ermeneutica simbolica apprezzabilmente distinta dall'ermeneutica allegorica se non al massimo, dove ci sia sovrasenso, come ermeneutica del sovrasenso statico e del sovrasenso dinamico (che corrisponderebbe alla distinzione dantesca di scienza e storia, «doctrinae» e «historiae»)? Un'aquila è... (oltre che un'aquila simpliciter): simbolo. E un'aquila che cala ed esegue la tale operazione è... (oltre quel fatto storico): allegoria. Il vantaggio è limitato. E giova precisarne la causa. Quell'abito così rapinosamente interpretativo che l'uomo del medio evo, s'intende quando interpreta, sovrappone alla realtà, non è aderente, e così la realtà non muore asfissiata. Gli intellettuali del periodo scolastico saranno dei razionalisti, sì, ma non al modo illuministico. La corazza non si adegua per la buona ragione che, essendo la realtà totale e in qualche modo già esaurita a priori (essa infatti in qualche luogo è conosciuta tutta), non è «more geometrico demonstrata», anche se geometricamente viene ricercata brano a brano, secondo la singola e avventurosa necessità. La verità ha non una ma due fonti: se una è la ragione, l'altra è la scrittura dov'essa è già registrata, non solo la Sacra Scrittura, ma l'auctoritas; la si dimostra avvocatescamente, nella tradizione dei retori e dei sofisti; molte proposizioni dell'avversario si possono dialetticamente recuperare, talché la parola acquista una stupefacente latitudine, elasticità, semantica. E allora, lascio stare i patriarchi della speculazione, ma i filosofanti di media iniziativa, come potrebb'essere Dante, che sono, per così dire, razionalisti a breve termine, si lasciano sorprendere in palesi contraddizioni. Proprio perché s'è parlato di mimesi e di natura, vediamo a che opposte conseguenze questi concetti si lasciano trascinare da Dante. Se l'arte imita la natura e la natura imita Dio, l'arte è secondaria. Allora: è superiore il naturale all'artificiale (qui il latino), come ciò ch'è più vicino al Creatore? È la tesi, in linguistica e in retorica, del De vulgari Eloquentia, come per altri effetti della Commedia. O è maggiore nobiltà in ciò che non si trasmuta a piacimento «artificiato» (qui il volgare)? È la tesi, nello stesso settore, del Convivio. Tesi, ho detto, ma dovrei dire temi, variamente applicabili alle mutevoli necessità del ragionamento (retorico), anche se poi la finalità, giustificazione o celebrazione del volgare, sia la stessa. Ciò, mi pare, dovrebbe suggerire più di una cautela. Lo sdoppiamento di allegoria e simbolo, in quanto riconducibile alla radicale differenza di storia sacra e di storia naturale, temo che non insegni ancor molto sulla gerarchizzazione e distribuzione nello spazio mentale delle categorie reperite. In altri termini, non solo in questo settore l'effettiva poesia, ma la (congetturale) poetica di Dante difficilmente mi appare univoca. La ricostruiamo male, per la semplice ragione che non può essere ben definita.