Dati bibliografici
Autore: Sergio Lora
Tratto da: Sotto il velame
Numero: 0
Anno: 1994
Pagine: 14-18
Nel lontano 1825, nel corso del quinto centenario dalla morte del poeta, parallelamente al fiorire degli studi danteschi strettamente letterari e storici, si assistette ad un graduale approfondimento della comprensione del poema dantesco ad opera di alcuni studiosi isolati, i quali, fidandosi del loro istinto, non esitarono a mettere in luce le contraddizioni e le lacune delle correnti interpretazioni accademiche, sicuri che «sotto il velame de li versi strani» si nascondeva un contenuto che consapevolmente Dante era stato costretto ad occultare all'indagine dell'Inquisizione.
La loro ricerca era avvalorata da un'antica profezia che avvertiva che l'opera di Dante sarebbe stata compresa sette secoli dopo la sua morte (1321) o, per dirla con la Bibbia, si sarebbero dovuti sollevare i 7 veli che, come nel simbolismo della mistica danza di Salomè, oscurano la verità, nuda e incorruttibile, della dottrina iniziatica in essa contenuta, nascondendola «sotto il velame de li versi strani».
La profezia pare che si stia avverando, grazie al contributo di innumerevoli studiosi, di cui seguiremo l'opera, è stata possibile l'interpretazione profonda del capolavoro dantesco.
Riteniamo importante segnalare qui di seguito le principali e più significative tappe che permisero di riportare alla luce gli aspetti più significativi, pur consapevoli del fatto che la critica accademica si ostina a sminuirne l’importanza e la serietà, il più delle volte ignorandoli completamente.
Nel 1825 Ugo Foscolo riconobbe per primo la connessione esistente fra le tesi del De Monarchia ed alcune tesi della Divina Commedia, che espose nel suo interessante libro Discorso sul testo e le opinioni prevalenti intorno alla storia ed alfa emendazione critica della Commedia di Dante. Certamente in quest'opera fu scoperta la chiave più importante per la comprensione del poema sacro, senza la quale noi non saremmo in grado di vedere nella Divina Commedia null'altro che il frutto d'una fantasia prodigiosa.
La percezione di questi significati occulti continuò per tutto il secolo e nei 1840 fu pubblicata a Londra una interessantissima opera cli un esule italiano, Gabriele Rossetti: «Il mistero dell'amor platonico nel medio evo», dove l'autore evidenziava i profondi dissidi esistenti tra Dante e la politica della chiesa ciel tempo. In esso inoltre si prospettava ripetutamente la possibilità che Dante appartenesse all'ordine dei Templari. A titolo di informazione segnaliamo che già nel 1641 il vescovo francese Spondanus aveva scritto di ritenere che Dante fosse stato «adepto templi».
Il Rossetti propose inoltre la tesi arditissima che tutta la -poesia d'amore» di Dante e dei poeti del «dolce stil novo» fosse stata composta utilizzando un «gergo convenzionale» e che, sotto l'amore per una donna, si nascondesse l'ideale iniziatico di un'associazione segreta. L'interpretazione del Rossetti appare ora, alla luce delle scoperte successive, pervasa da un'eccessiva ed unilaterale intonazione politica. Tuttavia la mole dei dati da lui raccolti e l'impulso dato per le ulteriori ricerche, avrebbero dovuto guadagnargli maggiore considerazione da parte degli studiosi ufficiali.
Dopo di lui, nel 1847, fu Michelangelo Gaetani a fare un caposaldo di questo sistema occulto, dimostrando "chi e che cosa" volesse rappresentare Dante nel «messo celeste» che viene a infrangere le porte di Dite. In seguito, alcune idee del Rossetti vennero riprese da un gesuita francese, Eugène Aroux (1854), che le espose in modo confuso ed equivoco nel suo libro Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste.
Nel 1867, Francesco Perez nella sua opera La Beatrice svelata, amplia ed approfondisce le idee del Rossetti, identificando nel simbolismo femminile dantesco la Santa Sapienza, la Santa Sophia salomonica, concetti sviluppati ulteriormente da Giovanni Pascoli nei suoi volumi: Minerva oscura ciel 1898, Sotto il velame del 1900, La mirabile visione del 1902 e Conferenze e studi danteschi del 1915 postumo; libri in cui si evidenziava il senso allegorico, morale e politico dell'opera di Dante.
I concetti del Pascoli furono ripresi ed approfonditi da un suo allievo, Luigi Valli che, come il maestro, considerò Beatrice come la «Sapienza Santa-, riuscendo però a focalizzare il complesso sistema di simmetrie tra i simbolismi della croce e dell'aquila, proponendo l'identificazione di una serie di vocaboli del gergo iniziatico dei Fedeli d'Amore.
Le sue opere sono: L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, 1922, La chiave della Divina Commedia, 1925 e la più importante e fondamentale Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore, 1928, dove approfondì e documentò la conoscenza del linguaggio convenzionale dei Fedeli d'Amore, dimostrando l'esistenza di una comunità che egli considerò come la «Setta dei Fedeli d'Amore», già prospettata in maniera abbozzata da Gabriele Rossetti.
Abbiamo visto come una piccola schiera di studiosi, ultimo Luigi Valli, abbia dapprima intravisto e poi chiaramente accertato un carattere singolare nella poesia di Dante e dei poeti suoi contemporanei. Questo fatto ci obbliga a riconoscere un misterioso punto di unione esistente tra i poeti di quel tempo, un legame che li indusse a valersi di un linguaggio segreto («parlar coverto»).
Naturalmente non basta parlare di una setta per dimostrare che ne facevano parte i poeti del «dolce stil novo». È quindi lecito chiedersi se la struttura dell'opera di Dante sia fondata su concetti, simboli e allegorie tratti dal patrimonio ideale di una sconosciuta setta medievale.
Il disagio che nasce da questi interrogativi risulta evidente a chiunque; ed è grande merito di Robert C. John l'aver condotto a termine le scoperte iniziate dal Rossetti un secolo prima.
Nel suo Dante il John dimostra che non si trattava di un'ipotetica setta, ma bensì dell'ordine dei Templari di cui Dante e gli altri Fedeli d'Amore erano adepti.
Questa dimostrazione riuscì al John mediante un'accurata valorizzazione degli studi a cui abbiamo accennato, che la critica dantesca ufficiale ha praticamente ignorati; ma anche grazie a recenti pubblicazioni riguardanti il pensiero teologico del francescano Pietro Olivi, contemporaneo cli Dante, ed agli studi compiuti su alcuni documenti inediti da E. Miller riguardanti il Concilio di Vienne del 1311-12, nel quale fu decretata la soppressione dell'Ordine dei Templari.
Abbiamo visto in precedenza che sia il Rossetti che il Valli, oltre che lo Spondanus nel secolo XVII, avevano più volte accennato alla possibilità che, nel mondo poetico di Dante, si esprimesse qualcosa di affine al templarismo. Certamente l'appartenenza all'ordine o alle confraternite dei Templari, in origine, non era cosa riprovevole. Ma in seguito le divergenze di natura politico-militare ed in parte di natura dottrinale allontanarono e talvolta opposero i Templari alla curia romana.
L'opposizione divenne radicale quando la Curia, trasferitasi ad Avignone, si fece strumento della feroce persecuzione voluta da Filippo il Bello.
Come è noto, il mezzo usuale a quei tempi per decidere la fine di qualcuno era di accusarlo d'eresia ed il Re usò largamente questo strumento non solo contro i Templari, ma anche contro i vescovi e perfino contro il papa Bonifazio VIII.
Naturalmente da quel momento il segreto divenne per i Templari ed i loro adepti una necessità assoluta, perché incombeva la minaccia del rogo.
Un altro motivo che poneva in contrasto Templari e Chiesa era il fatto che l'Ordine del Tempio aveva l'incarico di difendere i tesori reali, amministrare i crediti e manipolare importanti somme cli denaro.
Queste attività, apparentemente in contrasto con gli ideali ascetici dei monaci tenuti al voto di povertà, come pure la possibilità di legare a sé uomini appartenenti a varie classi sociali di vita feudale, rappresentarono la più ampia realizzazione di possibilità cli sacralizzare la vita temporale della cristianità, nonostante l'ostacolo delle barriere politiche e la lotta aspra tra il Papato e l'Impero.
Se il Cristianesimo aveva nella «Civitas Dei» il suo ideale, il Tempio, nella sua accezione più profonda di simbolo ciel Centro Supremo, ne era il cuore e i Templari, quali «custodi della Terra Santa», erano i rappresentanti dell'Ordine Divino sulla terra.
Uno dei principali capi d'accusa nel processo ai Templari, fu l'alleanza che essi stabilirono con un'organizzazione iniziatica mussulmana.
A ragione possiamo credere che un tale collegamento poteva essere stabilito ad opera di uomini che avessero coscienza di ciò che è al di là di tutte le specifiche forme tradizionali, vale a dire della dottrina unica che è la fonte e l'essenza di tutte le altre.
Questo fu il caso dei Templari che mantennero aperte relazioni con l'Oriente. La distruzione dell'Ordine del Tempio tuttavia non comportò una cessazione di queste relazioni, che vennero mantenute segretamente da organizzazioni iniziatiche quali la «Massoneria del Santo Graal», i «Fedeli d'Amore» e la «Fede Santa», che pare fossero ricollegate, con una filiazione più o meno diretta, all'Ordine del Tempio.
Attraverso la consultazione delle opere in precedenza citate, del Rossetti, dell'Aroux, del Valli e dello Scarlata, sul De uulgari eloquenua, e di Alfonso Ricolfi sui Fedeli d'Amore e sulle Corti d'Amore, si delinea chiaramente l'appartenenza di Dante, Boccaccio, Francesco da Barberino, Gioacchino da Fiore e Cecco d'Ascoli ai Fedeli d'Amore.
Un altro importante studio sull'argomento è rappresentato dall'opera di R. Guenon L'esoterismo di Dante, in quanto l'autore possedeva la mentalità atta ad esporre un argomento che occorre trattare se si ricerca la verità dottrinale e non ci si sofferma solamente sulla preoccupazione di fare della storia o della letteratura.
La denominazione cli Fedeli d'Amore, intesa nel senso più profondo, indica una fedeltà a qualcosa di ben diverso dal sentimento che la parola amore comunemente designa; questo amore non è nient'altro che «l'amor che muove il sole e I'altre stelle».
Si può quindi comprendere perché il grido di guerra dei Templari fosse: «Viva Dio Santo Amore».
Un altro termine che frequentemente ricorre nel linguaggio dei Fedeli d'Amore è «Donna»; esso era usato per indicare i membri stessi dell'organizzazione.
A fornire questa indicazione è lo stesso Dante che, nella Vita Nova, avverte che egli «non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pur femmina» si riferisce.
Queste espressioni simboliche appartenenti ad un linguaggio iniziatico erano già conosciute nei primi secoli del Cristianesimo, quando Valentino, maestro di Origene e di Clemente, denominava gli uomini spirituali i -Fedeli dell'amore celeste» ovvero «Donne di Cristo».
Che si trattasse di un linguaggio segreto se ne ha una chiara indicazione nel cinquantesimo sonetto del Fiore, poemetto scritto da un certo Ser Durante, che molti indicano come il vero nome cli Dante Alighieri, dove si legge:
Ma nella lettera non metter nome
di lei dirai 'Colui' di te 'Colei'
così convien cambiar le pere a pome.
Questo modo di verseggiare impiegando un linguaggio simbolico non costituiva in quel periodo un caso isolato, poiché la poesia persiana ed araba si serviva ugualmente ciel simbolismo dell'amore per esprimere contenuti cli ordine iniziatico.
A questo punto si può ben comprendere come il destino ciel mondo cristiano, costellato da odio e incomprensioni che si riversavano da ogni parte sui veri cristiani, offrisse loro una estrema possibilità di imitazione e quindi di conformità all'ordine divino.
Oggi ci si rende conto come ormai sia possibile proclamare, come ha già fatto il Toffanin, che il poema dell'Era Cristiana, la Divina Commedia, è un'opera pervasa da illuminata sacralità. Perciò si è autorizzati a pensare che il travagliato processo critico iniziato sette secoli fa sia quasi giunto alla saldatura del suo ciclo, riemergendo allo zenit della comprensione spirituale del Poema. Questa riscatta il pensiero dei Fedeli d'Amore del '300 dalla censura e dalla paura, dando voce alla perseguitata conoscenza della dottrina iniziatica che, ancora prestando fede alle parole di Dante, si nasconde «sotto il velame de li versi strani», ma si rivela a chi legge la Divina Commedia con l'intelletto d'amore (coloro che hanno «gli intelletti sani»).