Dati bibliografici
Autore: Gianfranco Contini
Tratto da: Romance Philology
Numero: IX
Anno: 1956
Pagine: 463-467
Non si esagera affermando che da quest'opuscolo, breve, animoso, elegante nell'impianto e nel dettato, intelligentissimo (non senza qualche ostentazione dell'intelligenza), e dove gioca largamente l'effetto di sorpresa, ciò che si dice altrettanto di quanto è nuovo e legittimo che di quanto per avventura possa tornare irritante, muove una ventata d'aria respirabile sul continente, per così gran parte brullo, desertico e smisurato, della bibliografia dantesca. L'apparecchiatura erudita, contratta al minimo, si rifugia quasi interamente nelle note; e risalta la cura, propria a un brillante essayist, di riuscir leggibile anche a chi non sappia né d'italiano né di latino (le citazioni, non tutte in originale, sono comunque tradotte sempre): dati esterni, d'accordo, ma che fin dalla soglia sottolineano l'intenzione dell'egregio harvardiano, di risultare non meno moderno e pragmatico che umanista. I pregi e gli stessi caratteri meno positivi che connotano l'avvincente scritto sono legati a siffatta posizione.
Finalità fondamentale del Singleton è di descrivere l'autentica poetica della Commedia e di riformare la triviale interpretazione dell'allegoria che annulla la lettera col prenderla esclusivamente in funzione di altro. Non so bene quanto giovi alla tesi che l'autore si opponga al giudizio del Croce e in generale al presunto imperialismo delle estetiche. "Si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è un sole, e s'incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere...": formalmente almeno, una simile impostazione è ineccepibile (ma anche di fatto siamo nella zona che il Singleton stesso dà al Dante-"noi" più che al Dante-"io", e perciò non può evitare d'intendere secondo quella che col Convivio definisce l'allegoria dei poeti); e ovvio diritto del critico è di giudicare a norma della sua estetica, considerando non pertinente la poetica precedente il testo, o perfino immanente ad esso. Ritrovarla è certo operazione filologicamente rilevante e, come tutte le operazioni di questa natura, in quanto serva all'accertamento del fatto, utile alla preistoria del giudizio estetico (soprattutto, ad hominem, secondo la logica crociana che identifica giudizio esistenziale e giudizio di valore); ma ciò non implica affatto che il critico desuma dalle poetiche le sue tavole categoriali. È vero il contrario: il filologo non dimette la prospettiva e, per dir così, la stereoscopia storica, dove il critico, in quanto tale, attira alla sua modernità, con perenne e costitutivo anacronismo. Data questa contemporaneità, si può anzi congetturare l'aiuto che a intendere le poetiche analogiche del medio evo possono fornire i successori del simbolismo, mettiamo, per restare all'Est americano, Pound ed Eliot: benché meglio si citerebbero grandi fatti della narrativa postromantica, da Melville a Kafka. Ma che guadagno si annette, con la nuova procedura, alla "poesia" di Dante? forse l'avvento di Beatrice o il patibulum di Lucifero, per quanto riproposti nel loro dinamico svolgimento agli occhi impregiudicati dei pellegrini e contemplatori? In realtà la rivalutazione, così opportunamente operata dal Singleton, del viaggio nella sua lettera, viaggio di un "io" determinato in un vero spazio corporeo e in un sincero tempo storico, posto che la lettera non sta per il soprasenso ma vige accanto ad esso, sarebbe idonea, precisamente, a ribadire la fiducia nel Dante plastico della tradizione, dalla quale non divergono nella sostanza né il De Sanctis né il Croce. Se novità poetiche è lecito attendere, si aspetteranno piuttosto da un'analisi dello stile che da un'indagine della "struttura", perlomeno nell'accezione adoperata dal Singleton. Ma a che pro indugiare su quella superflua polemica? Basta bene che il nuovo interprete abbia prodotto un contributo irrefutabile alla definizione della poetica dantesca.
Tale contributo, com'è di ogni cosa essenziale, si lascia definire in modo assai semplice. Dal Convivio è ripresa la distinzione tra l'allegoria dei poeti, che riduce la lettera in mera cifra, e l'allegoria dei teologi, che giustappone a un senso letterale e storico un senso allegorico o morale o anagogico, comunque mistico o spirituale. Il Convivio, asserisce persuasivamente il Singleton, è un tentativo di svolgere il primo tipo di allegoria e applicarlo alla Vita Nuova, che indubbiamente grondava di elementi simbolici e analogici, non era però allegorica: la sua stessa interruzione si può razionalizzare (e un tal genere d'ipotesi ha tutta la nostra simpatia) nell'insoddisfazione che l'esito del tentativo avrebbe suscitata nel suo autore. Ma la Commedia , volgarmente interpretata secondo l'allegoria dei poeti, s'ispira all'allegoria dei teologi: lo intendevano ancora gli ermeneuti antichi, ad esempio Benvenuto, lo dice chiaro l'epistola a Cangrande, che il Singleton con istintiva sagacia, pochi mesi prima della perfetta dimostrazione tecnica procurata da Francesco Mazzoni, tratta come documento autentico; il libro che la Commedia strutturalmente imita è il libro di Dio, la Bibbia, passibile di sensi mistici, ma la cui lettera espone frattanto fatti temporalmente accaduti. Sennonché Dio parla non solamente nella Bibbia, ma nella natura, per un vero cristiano, quale Agostino, Ugo da San Vittore o Bonaventura, tutta capace d'interpretazione simbolica: non bisogna fermarsi all'opera d'arte in quanto tale, sembra ammonire Catone nel rimproverare le anime ferme attorno a Casella, dimentiche della loro situazione di pellegrini (pellegrini nel senso di Hebr. XI 13). Di qui la distinzione, che è forse l'acutissimo dei concetti del Singleton, tra allegorismo e simbolismo dantesco: inerente il primo al libro in quanto imiti la Bibbia, il secondo in quanto esso imiti la natura, i cui oggetti sono insieme cosa e segno. Per ciò che è dell'allegoria, la saldatura tra senso alluso e senso letterale è stabilita dall'ambiguità poetica, o si dica linguistica: l'"io", che nel prologo dell’Inferno significa prevalentemente "noi", Ognuno, il genere umano, e si attua fuori d'uno spazio corporeo e d'un tempo storico, nel viaggio vero e proprio è autenticamente un "io", individuato quanto Enea o Paolo (l'epistola si preoccupa di suffragare la possibilità d'una visione), e all'individuazione del soggetto consuona la plausibilità spaziotemporale, spazio fisico e tempo irripetibile; a intervalli, cioè nei punti salienti della costruzione, ricompare entro il piano storico e irreversibile la dimensione astratta del "noi", così si dica della lonza rievocata all'entrata di Malebolge, col relativo cordone. (E qui forse converrebbe precisare, come del resto s'accennava più sopra, che i settori meramente allegorici vanno trattati alla stregua dell'allegoria dei poeti. Virgilio e Beatrice sono etichette - ma, beninteso, Dante è un realista, come giustamente lo chiama il Singleton, si capisce in quanto "realista" venga opposto a "nominalista" -, etichette dunque le quali designano volta per volta personaggi storici o simboli: le due funzioni si sommano, non s'identificano, sono periodiche e spazialmente separate; di qui il divario capitale fra l'esegeta della Bibbia e il demiurgo che la imita. Ma lasciamo nella penna, nonché entro la parentesi, gli ovvi sviluppi di quest'elementare considerazione).
Queste verità il Singleton espone nei due primi capitoli, Allegory e Symbolism (di cui il secondo, peraltro l'eccellente, è il solo inedito del libro), e nell'appendice Two Kinds of Allegory. Il terzo capitolo, The Pattern at the Center, rileva acutamente come nel capolavoro cristiano della Commedia, poema umano partecipante per analogia del poema divino, l'apparizione di Beatrice vada interpretata quale apparizione di Cristo e come quest'episodio continui organicamente la morte di Beatrice nella Vita Nuova, che altrettanto pale- semente s'ispira alla morte e all'Ascensione del Redentore. Simile analogia Beatrice-Cristo, già da lui svolta nel precedente Essay on the Vita Nuova, porrebbe per l'autore una "terza" dimensione, cioè farebbe della Commedia anche un'imitazione della storia, fatti nel loro farsi, non solo un'imitazione della natura e dei fatti nel loro esser fatti (Bibbia). La lettera, viaggio nell'aldilà, può alludere a modi della vita di qua, e questa sola sarebbe strettamente allegoria, può alludere alla storia universale (nel tempo), e questa sarebbe analogia. Non so quanti lettori si sentiranno sicuri che il passo del Breviloquium (p. 49) sulla lunghezza della Scrittura sia citabile all'uopo; a ogni modo qui, dove si è dovuta sdoppiare la dimensione biblica, siamo al limite fra struttura formale e sostanza (cristiana) di quell'imitazione biblica. Analoga sfumatura di riserva, accompagnata ad altrettanto plauso, provoca l'ultimo capitolo, The Substance of Things Seen; dove si descriverebbe, assicura la prefazione, una quarta dimensione, e forse la suprema: e in questo caso non si tratterebbe tanto d'un "quarto" elemento quanto del sopraordinato fondamento di tutto il metodo. Il Singleton vi si chiede quale sia la verità della Commedia, mosso quest'impianto della ricerca dalla sentenza aristotelica citata nella lettera a Cangrande ("Sicut res se habet ad esse, sic se habet ad veritatem"). Ma temo che lo strumento adottato per l'approssimazione, cioè un confronto col mito platonico, non si riveli il più economico a render conto, che sarebbe poi un conto storico, della soggetta materia; e al termine della laboriosa operazione può darsi che la conclusione pecchi fianco per eccesso di semplicità. La formula finale del Singleton, spiritosamente parodistica di moduli scolastici ("fides quaerens visionem", "praecedit fides, sequitur visio"), luccica più di quel che non consista originalmente. Che Brunetto, nonostante la predilezione privata del poeta, sia dannato perché la Commedia è una visione certa, di fatti su cui Dante non può nulla, è una situazione che non ha proprio niente di specifico. È notissimo che Flaubert e Tostój si sentivano determinati a scegliere il destino dei loro personaggi: la necessità oggettiva degli eventi immaginati, o si dica la loro provvidenzialità, è identica con premesse trascendentistiche o immanentistiche, teologiche o laiche. Fede e crisi ontologica (ironia) dei creatori, diciamo (accettando provvisoriamente l'opposizione del Singleton) Dante e Ariosto, sono polarità universali con cui opera la critica, che dirò religiosa, della poesia. Presso Dante, semmai, la ripartizione di giustizia e misericordia, così liberamente disposta nella lettera dell'oltremondo, significa e raffigura, secondo il senso allegorico di cui discorre l'epistola, la gratuità della decisione divina, la Grazia. Ben più portanti sono altre osservazioni del Singleton. Anzitutto, che, se la verità d'una rappresentazione artistica, giusta i Soliloqui agostiniani, è nella sua finzione e falsità, la certezza formale della Commedia è nell'"io" che espone la visione; e ciò (il Singleton evita saggiamente di tipologizzare questa fenomenologia, che non so a che risultati porterebbe applicata, per esempio, alla prima persona di un romanzo tardo-antico) precisa il precedente culturale della Commedia nel genere Urico. Di questa tradizione, tuttavia, Dante giunge a rifiutare un elemento essenziale: l'ipostasi d'Amore. Dopo il famoso capitolo XXV della Vita Nuova, che la giustifica retrospettivamente nella sua portata meramente metaforica, non si parlerebbe più d'Amore se non secondo verità filosofica (o almeno per partecipazione del vero Amore): come d'accidente in sostanza, non come di sostanza. Amore sostanziale, in accordo con tutta la mistica cristiana, è solo Dio, Deus caritas est (si veda l'ultimo verso della Commedia). Ma anche questo punto era stato trattato nell'Essay. Se va esplicitato un collegamento fra sostanza e struttura formale, direi che esso vada ritrovato in una progressiva rinuncia alla licenza dei poeti, dapprima puramente razionale (momento del Convivio), coronata dall'inveramento, anche teoreticamente superiore, dell'allegoria dei teologi, dell’imitazione biblica.
Quello che probabilmente già s'intravede da questi rilievi, è un leggero squilibrio tra esegesi generale ed esegesi particolare. Nei capitoli finali non è parso inevitabile che dall'esegesi di punti speciali, esauriente che fosse (e già avanzata nell’Essay) o meno sufficiente (Brunetto), si dovessero ricavare illazioni strutturali. Ma anche, a rovescio, in connessione con ragionamenti generali figurano esempi contestabili: proposte ingegnose, speculazioni sottili fino al cavillo; che tuttavia non scuotono affatto la solidità e fondatezza di quei ragionamenti. Lo stesso episodio di Catone, dove risulta condannata tra le distrazioni mondane anche l'operazione più eletta, non so davvero se implichi l'intenzione d'affermare l'eteronomia semantica dell'arte (mentre qualcosa di più si può forse affacciare su quella precisa canzone, su quell'Amore che ragiona nella mente, in relazione appunto con la problematica dell'ipostasi d'Amore e la doppia natura dell'allegoria). Nella fiumana non letterale di Inf. II 108, identica o allusiva per il Singleton al mare che circonda la montagna del Purgatorio, si potranno o non si potranno riconoscere, secondo il suo suggestivo accostamento, le acque della concupiscenza di cui parlano Agostino e Ugo: la sua tesi generale non ne risulta né confortata né smentita. Ciò vale a maggior ragione per i dati più risolutamente inaccettabili: la perduta strada, entro una comparazione, di Purg. I 119 come allusiva alla diritta via smarrita (p. 6, dove sono persuasivamente rilevate costanti topo- grafiche); il pelago, pure entro comparazione, di Inf. I 23 come ripresa del lago del cor, la piaggia ambigua tra 'costa' e 'riva', il corpo lasso per lo sforzo di uscire dal pelago (pp. 11-12). O si veda l'analisi della pena di Lucifero: dietro la citazione del Vexilia regis il Singleton escogita che l'inno, processionale, induca il lettore ad aspettarsi l'arrivo d'un'insegna, aspettazione delusa dall'immobilità di quell'anti-Croce che sta al centro della Terra; e questa ironia nel fatto sarebbe pure un aspetto della giustizia. Peggio: la processione (e il verbo proceder di Inf. XXXIV 37) da una parte, il verbo spirare di 4 dall'altra alluderebbero a quei termini tecnici di processio e spiratio che teologicamente designano i rapporti fra le persone della Trinità. Codesti sono accidenti di coincidenza verbale, nel critico che h specilla finezze apparenti; ma dalla natura sospetta del corollario non è lecito indurre circa il principio. È verisimile che il Singleton abbia inteso di stringere a ogni costo in unità concettuale idee generali e trovate insorte nel corso delle sue letture e riletture, dantesche e patristiche. Non importa: importa che in così esiguo spazio egli abbia saputo riunire tante verità generali e tante novità e ipotesi di lavoro speciali. E interessa ch'egli si disponga a riprendere il discorso fra breve. Venendo da lui, sarà ancora presumibilmente un discorso che muterà lo stato della questione; che, nell'eventualità più modesta, sarà discutibile, intendo, secondo etimologia, degno di essere discusso, come non si può ripetere di troppi lavori.