Dati bibliografici
Autore: Etienne Gilson
Tratto da: Dante e la filosofia
Editore: Jaca Book, Milano
Anno: 2016
Pagine: 263-270
«Che strano caso quello di Dante! Un autore che si legge e si approfondisce con accanimento senza riuscire a comprenderlo». Questa disincantata osservazione contiene molto di vero, ma non tutta la responsabilità del fatto che deplora ricade su Dante. Lo spirito con cui · si affronta la sua opera ne ha anche una certa parte. Alcuni gli attribuiscono una conoscenza enciclopedica delle scienze speculative, delle scienze morali e delle arti del suo tempo. Diceva già di lui il cronista Villani: fue sommo poeta e filosofo e rettorico perfetto . Ammetto che la sua eloquenza venga uguagliata alla sua poesia, ma definirlo come poeta e filosofo supremo significa attribuirgli, oltre al genio che gli era necessario per scrivere la sua opera, quello di Tommaso d'Aquino e di Alberto Magno. Fare della Divina Commedia un tale pozzo di scienza equivale in effetti a perdervisi.
Una seconda fonte di difficoltà artificiali è la convinzione inamovibile, così frequente presso i suoi critici, che il poeta ha fatto uso di un procedimento «ultrasistematico» nella costruzione del suo poema. «Dante», scrive il P. Mandonnet, «ha spinto lo spirito di sistema sino all'inverosimile» . Forse bisognerebbe pensare che, se lo spirito di sistema che gli si attribuisce giunge sino all'inverosimile, è inverosimile attribuirglielo. E tuttavia non è quello che si fa. Nascono da qui quei Dante occultisti ed ermetici la cui opera è comprensibile solo a colui che ne possiede la chiave. Ogni iniziato, purtroppo, è sicuro della sua, e poiché non ve ne sono due che abbiano la stessa chiave, il loro dialogo sulla Divina Commedia contribuisce non poco ad offuscarne il significato.
È a questo punto che interviene, per accrescere ancor di più questa confusione, la nozione di simbolo. Coloro che considerano l'opera di Dante non solo come mirabilmente composta, come è sicuramente, ma anche, il che è tutt'altra cosa, come obbediente nella sua composizione alla legge di un sistema, si sentono in dovere di ritrovarvi dovunque le conseguenze di questo sistema. Nulla di più comodo, per riuscirvi, che attribuirle un simbolismo dalle molteplici ramificazioni, grazie al quale sarà sempre possibile attribuire al testo quel significato che esso deve presentare secondo il sistema che gli è stato attribuito. Stavolta, tuttavia, l'errore non è assurdo, perché vi è in Dante una notevole percentuale di simbolismo, e non è difficile immaginare che i suoi interpreti non siano sempre d'accordo sul significato dei suoi simboli, o anche sul luogo in cui si trovino nella sua opera; ma anche qui, sembra che le difficoltà siano state artificialmente moltiplicate senza che ve ne fosse la necessità.
Per il fatto che Dante ha usato nelle sue opere formule retoriche di cui ogni scrittore si serve necessariamente, si è concluso che egli aveva studiato, poi applicato, la tavola dei «modi» di espressione letteraria compilata da san Tommaso nei suoi commenti ai Salmi e alle Sentenze di Pietro Lombardo . Allo stesso modo, per il fatto che Dante ha accettato la distinzione, classica presso i teologi, fra senso letterale, allegorico o mistico, morale e anagogico , ci si è ritenuti autorizzati a cercare dappertutto un senso allegorico, al punto di soffocare il senso letterale sotto l'abbondanza di simboli che gli si vuol far veicolare. È evidente che in Dante vi è simbolismo e in grande abbondanza, ma se ne comprenderà molto meglio la natura a partire dal testo della sua opera e non partendo dalle regole di Ticonio. Altro è definire le regole che permettono di spiegare i diversi significati della Bibbia, come fa l'esegeta, e altro è usare queste regole, come ha fatto Dante, per creare il testo di un poema che saranno i lettori a dover spiegare.
È certo che Dante ha applicato nella sua opera il principio fondamentale degli interpreti della Bibbia. Nella Divina Commedia, come nella Scrittura, le cose hanno un significato. Possono essere cose inanimate, animali o uomini. Ora, pare che la spiegazione simbolica non debba essere della stessa natura nei diversi casi, perché le realtà simboleggianti sono esse stesse di diversa natura. Più precisamente, gli esseri umani che popolano il poema sacro, e sono designati da nomi propri, appaiono sostanzialmente diversi, quanto al loro valore simbolico, rispetto a tutte le altre realtà a cui si attribuisce un qualsiasi significato spirituale . Se ciò è vero, non si deve usare lo stesso metodo per individuare il loro significato.
Consideriamo alcuni esempi. Benché gli interpreti di Dante non siano sempre d'accordo sul significato della «selva oscura», della Lonza, del Leone e della Lupa, tutti ammettono implicitamente che il simbolismo di queste cose o di questi esseri è di natura semplice. Qualunque cosa possano significare, esse non significano che una sola cosa, che resta specificamente la stessa, per quanto varie possano esserne le modalità di applicazione. Bisogna notare, d'altro canto, che i commentatori di Dante si accordano di fatto molto meglio sul simbolismo delle cose che su quello dei personaggi della sua opera. Così, la selva oscura dell'inizio della Divina Commedia significa certamente la vita peccaminosa dell'uomo. Non ha importanza che si dica peccato, vizio, vita peccaminosa, perché il significato fondamentale resta lo stesso. E non importa nemmeno, per il nostro discorso, che si opti per il peccato originale o per il peccato attuale : anzitutto perché l'uno comporta l'altro, ma anche perché, ancora una volta, il simbolismo fondamentale resta lo stesso: il peccato.
Una simile osservazione vale per il Colle, il Sole, le tre fiere e, in generale, per gli innumerevoli simboli il cui significato si può percepire senza eccessive difficoltà. Senza dubbio, ve ne sono altri su cui non ci si è mai messi d'accordo, ma la stragrande maggioranza degli interpreti ammette che la Lonza simboleggia la lussuria, il Leone l'orgoglio, la Lupa la cupidigia o, nel senso tecnico e pieno del termine, l'avarizia . La lussuria, l'orgoglio e la cupidigia si suddividono certo a loro volta in specie diverse, ma tutte queste specie rientrano in uno stesso genere, ed è precisamente il loro genere comune a essere designato da questi simboli. Ora, il loro carattere comune è di essere delle pure finzioni, o, se si preferisce, delle semplici immagini, a cui Dante ha deciso di attribuire una volta per tutte un determinato significato.
La selva e la lupa sono fantasie poetiche, proposte dal poeta come tali, e che egli ci chiede di accogliere come tali. Ammettiamo, per facilitare le cose, che tutti i simboli di questo genere costituiscano una prima famiglia. Si può dire, pertanto, che nell'opera di Dante le finzioni simboliche sono generalmente dotate di un significato semplice, che resta univoco attraverso le molteplici applicazioni che il poeta può farne, e che si può designare, per conseguenza, con un solo termine.
In un certo senso, anche i personaggi reali introdotti da Dante nella Divina Commedia possono e devono essere considerati come investiti di un significato simbolico. Sono dei tipi visibili, significanti realtà spirituali che spesso li trascendono. Il loro caso, tuttavia, è profondamente diverso dal precedente. Assodato che l'Aquila simboleggia l'Impero, non ci si attende più nessuna sorpresa da questo simbolo, per la semplice ragione che l'essere dell'aquila in questione si riduce a quello di una immagine simbolica dell'Impero. Le cose vanno del tutto diversamente per Dante, Virgilio e san Bernardo da Chiaravalle. Ci si dice che Dante simboleggia l'homo viator, l'uomo nel pellegrinaggio della vita umana. Senza alcun dubbio, ma egli simboleggia ciò perché lo è realmente. Dietro l'affabulazione poetica della Divina Commedia noi troviamo un uomo che narra la sua storia e la sua esperienza umana, quella della liberazione dal vizio in virtù della grazia divina:
Tu m'hai di servo tratto a libertate.
(Par. XXXI, 85)
Quinci su vo per non esser più cieco.
(Purg. XXVI, 58)
Questi versi, e tanti altri che abbiamo citato o che si potrebbero aggiungere, implicano la sostanziale realtà del racconto e degli attori che vi si incontrano. Ora, anche Virgilio si comporta nella Commedia come un vivo con cui Dante ha allacciato relazioni personali e concrete, e si può dire altrettanto di san Bernardo di Chiaravalle. Il valore simbolico di questi personaggi è dunque necessariamente complesso come lo sono essi stessi, e, soprattutto, il termine simbolo non può essere applicato loro nello stesso senso di quando si trattava di pure finzioni. Non solo la lupa è la cupidigia, ma non resta più nulla di essa, salvo un'immagine, se le si toglie il suo simbolismo. In simili casi, è il significato a creare il simbolo. Nel caso di Virgilio è vero il contrario, al punto che si rischia di ingannarsi gravemente sul senso della Divina Commedia se si dimentica questo. È ben vero, infatti, che Dante ha scelto Virgilio e san Bernardo per farne dei tipi rappresentativi di realtà spirituali, e lo stesso vale per san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino, per il re Salomone, Graziano, Gioacchino da Fiore, Sigieri di Brabante e tanti altri; tuttavia qui non è il significato a creare l'essere simbolico, ma l'essere simbolico a creare il suo proprio simbolo. Insomma, ciascuno di essi simboleggia anzitutto ciò che è.
Ci si esporrebbe dunque a dei gravi errori domandandosi anzitutto: cosa simboleggia Virgilio, per interpretare il testo a partire dal simbolismo che si deciderà di attribuirgli? Questo metodo è valido per la lupa: ogniqualvolta la si incontra, è corretto decifrare subito: cupidigia; ma lo stesso metodo non è valido per Virgilio, perché questo personaggio gioca nella Divina Commedia un ruolo complesso, analogo a quello che ha veramente giocato nella vita di Dante: le sue reazioni hanno l'unità duttile, varia, spesso imprevedibile propria di quelle di un essere concreto e vivente.
Gli interpreti di Dante hanno spesso dimenticato ciò, ed hanno pertanto cercato dietro questo personaggio un simbolismo semplice e univoco, simile a quello della lupa, della lonza o dell'aquila. Cosa non si è immaginato! Si è fatto di lui l'autorità imperiale, la ragione umana, la filosofia, l'ordine della natura senza la grazia, ecc. E non. sarebbe certo difficile immaginare ancora molte altre interpretazioni, ma sarebbe una perdita di tempo, perché Virgilio, come ogni altro essere reale, non è riducibile a un qualche simbolo astratto e univoco. Vi si oppongono il suo stato civile e il suo certificato di nascita. Piuttosto che essere nato da una significazione simbolica, egli la genera. A meno di · leggere la Divina Commedia a rovescio, bisogna sempre andare da ciò che Virgilio fa e dice a ciò che Virgilio simboleggia, e non viceversa. Egli è dunque il poeta supremo, ma non la Poesia; un saggio, ma non la Sapienza; un eminente rappresentante delle virtù naturali e della prudenza morale, ma non la Filosofia. Se si pretende di ottenere una risposta di un solo termine alla domanda «cosa simboleggia Virgilio», così come avviene per le mere finzioni poetiche, questa domanda non può avere risposta. Sarà possibile dunque dare a essa una ventina di risposte, ciascuna delle quali si porrà come unica ed esclusiva delle altre, ma che saranno per ciò stesso contraddittorie. Forse sarà più opportuno rinunciare a questo gioco, nel quale gli studi danteschi hanno più da perdere che da guadagnare.
Bisognerebbe soprattutto rinunciarvi per quanto concerne Beatrice. Ho criticato, forse più severamente di quanto ve ne fosse bisogno, diverse delle interpretazioni simboliche a lei attribuite, senza proporne a mia volta nessun'altra. Si penserà forse che questo è un metodo troppo facile. Sono spiacente, ma nessuno è tenuto all'impossibile. Coloro i quali pongono come principio che Beatrice è solo una finzione poetica, hanno ragione di porre il problema del suo simbolismo come se si trattasse di quello della lupa o dell'aquila. È d'altronde quello che fanno quando cercano per lei un significato semplice e univoco, quale, ad esempio, la Teologia, la Fede, la Grazia, la Rivelazione, le virtù teologali, la Vita Contemplativa nella sua trascendenza rispetto all’azione, la Vita Soprannaturale, ecc. Queste interpretazioni simboliche, anche a volersi attenere alle più verosimili, sono in numero indefinito, ma nessuna soddisfa a tutti i dati del problema: ciascuno di coloro che le propongono, pertanto, sostiene accanitamente la sua, e non riesce né a mettersi d'accordo con quelle offerte dagli altri, né ad eliminarle.
Che fare per uscire dall'imbarazzo? Tornare alla regola aurea di Mi - chele Barbi: «Ciò che importa soprattutto è intendere la poesia di Dante»; dalla quale segue naturalmente questa seconda regola: «Ciò che è fuori della coscienza del poeta a noi non può importare». Nel caso presente, cosa vi è nella coscienza del poeta? Vi è questo, che Beatrice è l'anima beata di una donna che un tempo egli ha amato. Per Dante, l'immortalità dell'anima è una certezza assoluta: l'esistenza attuale di Beatrice è dunque per lui fuori di dubbio. Nessun dubbio al tempo stesso per lui che ella sia una beata, dotata per conseguenza di tutti i privilegi e di tutte le virtù spirituali che convengono al suo stato. Perché stupirsi del fatto che ella eserciti presso Dante le molteplici funzioni da lui attribuitele? Una eletta di Dio, sulla cui gloria egli come sappiamo medita, può essere lo strumento del suo risanamento morale e della sua salvezza religiosa; ella può agire presso di lui, perché i beati vedono chiaramente in cielo tutto quanto accade sulla terra, e possono coinvolgersi nei nostri problemi secondo quanto vuole la giustizia divina , e sebbene di solito non lo facciano, in determinate circostanze eccezionali lo fanno ; ella può intercedere per lui presso Dio, e tanto più efficacemente quanto più la sua carità è perfetta; inoltre, può essere pregata da Dante legittimamente, poiché è una santa, e tutti i santi, non solum superiores, sed etiam inferiores, devono essere pregati . Citare san Tommaso d'Aquino a sostegno di queste parole non è assolutamente necessario, se non per ricordare che questa è una tesi autenticamente cristiana: ogni cristiano sa che è così, e Dante non aveva bisogno, per saperlo, di essere quel theologus Dantes di cui si è un po' abusato.
Se questo è vero, non possiamo comprendere la Divina Commedia quale egli stesso la intendeva, a meno di trattare come finzione ciò che per lui era solo finzione, e come realtà ciò che egli ha concepito come realtà. Coloro che non condividono la fede di Dante non sono per questo dispensati dal leggere la sua opera come quella di un credente. Coloro che, pur condividendo la sua fede, non hanno quel sentimento della presenza reale dei morti che consentì a Dante di vivere in comunione spirituale con _loro, non sono per questo autorizzati a trattare Virgilio e Catone come se fossero stati per lui solo quello che possono essere per i suoi interpreti. Per evitare questo errore, si eviterà dunque di cercare una etichetta che indichi cosa Beatrice simboleggi e di ridurla al nome che designa questo simbolo. Nell'opera di Dante, che noi cerchiamo di comprendere, ella è qualcuno, non qualcosa: un essere che Dante presenta come una persona reale, il quale, poiché ha la vita, ne ha anche la complessità .
Si tratta, in effetti, di una beata che gode della visione di Dio faccia a faccia, intercede e prega per colui che l'ama, interviene per sollevarlo dalla sua caduta e lo guida verso il suo fine ultimo; una volta che ci è stata presentata così, come potrebbe non evocare le nozioni di beatitudine celeste, contemplazione, virtù teologali, fede, grazia, insomma tutte quelle che concorrono a definire la vita cristiana nella sua perfezione? Si ha dunque ragione ad individuarle e ad assodarle alla persona di Beatrice, ma non si può, senza cadere nell'arbitrario, concludere da qui che ella è il Lumen gloriae, o la Teologia, o la Vita Contemplativa o, in generale, una di queste nozioni. Non si ha nemmeno il diritto di concludere che ella sia la Vita Cristiana presa nel suo insieme. La santità di questa eletta non ci autorizza a ridurla a questo, così come la santità di san Francesco, di san Domenico e di san Bernardo non autorizza a dissolverli in siffatte astrazioni.