Dati bibliografici
Autore: Erich Auerbach
Tratto da: Studi su Dante
Editore: Feltrinelli, Milano
Anno: 1966
Pagine: 174-221
"Figura," che ha lo stesso tema di “fingere,” “figulus,” “fictor” ed “effigies,” significa all'origine “formazione plastica” e si trova per la prima volta in Terenzio (Eun., 317) che di una fanciulla dice: "nova figura oris" [singolare forma di viso]. Circa allo stesso tempo dovrebbe risalire il frammento di Pacuvio 270-1 (Ribbeck, Scaen, Roman, Poesù Fragm., I, p. 110):
Barbaricam pestem subinis nostris optulit
Nova figura factam...
[presentò alle nostre aste una peste straniera di aspetto singolare].
È probabile che Plauto non conoscesse la parola; egli usa due volte "fictura" (Trin., 365, Mil., 1189), sia pure, in entrambi i casi, in un senso che esprime piuttosto l'attività formativa che il suo risultato; più tardi la parola diventa molto rara. La menzione della parola "fictura" ci fa subito osservare una particolarità di "figura": essa è derivata direttamente dal tema (Ernout-Meillet, Dict. étym. de la langue latine, p. 346) e non dal supino come "natura" e altri nomi con terminazione simile. Si è pensato a un'analogia con "effigies" (Stolz-Schmalz, Lat, Gramm; 5 ediz., p. 219): in ogni caso questa particolare formazione dà alla parola qualche cosa di vivace e di mosso, di incompiuto e di giocoso, e in ogni caso il suo aspetto fonetico ha un'alta eleganza che affascinò molti poeti. Può essere un caso che le due attestazioni più antiche parlino di "nuova figura"; ma è un caso significativo, perché l'aspetto della novità e della trasformazione dà la sua impronta a tutta la storia della parola.
Questa storia comincia per noi con la grecizzazione della cultura romana nell'ultimo secolo prima di Cristo, e nei suoi inizi hanno una parte decisiva tre scrittori: Varrone, Lucrezio e Cicerone. È vero che non si può più precisare ciò che essi hanno ripreso dalla perduta produzione anteriore; ma il contributo di Lucrezio e di Cicerone è così peculiare, e sempre così originale, che si può attribuire loro un forte apporto personale nella creazione del significato.
Varrone ha meno originalità degli altri. Se in lui "figura" significa a volte "apparenza esteriore" e anche "contorno," cominciando quindi a staccarsi dal senso primitivo, dal ristretto concetto della raffigurazione plastica, ciò sembra riportarsi a un processo generale, sulle cui cause torneremo a parlare. In Varrone questa evoluzione non è neppure molto accentuata. Egli studia le etimologie, conosce l'origine della parola ("fictor cum dicit fingo figuram imponit": De ling: lat.; 6, 78 [l'artigiano nel dire la parola "fingo," impone una "figura" sull'oggetto]) e così, quando egli usa il termine per esseri viventi e oggetti, esso contiene per lo più l'idea della formazione plastica. È difficile dire fino a che punto essa fosse ancora operante: per esempio quando egli dice che nell'acquisto degli schiavi non si considera soltanto la "figura," ma anche la qualità, come l'età per i cavalli, la fecondità per i galli, l'aroma per le mele (ivi 9, 93); o quando dice che una stella ha cambiato "colorem, magnitudinem, figuram, cursum" (citazione in Agostino, De civ. Dei, 21, 8); o quando confronta (De ling. lat; 5, 17) i pali biforcuti di una palizzata con la "figura" della lettera V. Siamo del tutto fuori del campo della plastica quando si parla delle forme delle parole. Egli dice per esempio (De ling. lat., 9, 21): noi abbiamo preso dai Greci nuove forme di vasi; perché si rifiutano le nuove forme lessicali, “formae vocabulorurn," come se fossero velenose?
Et tantum inter duos sensus interesse volunt, ut oculis semper aliquas figuras supellectilis novas conquirant, contra auris expertes velint esse?
[Vogliono che vi sia un distacco così netto tra i due sensi sicché essi possano guardare in giro in cerca di qualche foggia di suppellettile nuova ai loro occhi, mentre gli orecchi desiderano esserne ignari?]
Qui siamo già molto vicini all'idea che ci siano figure anche per il senso dell'udito; va anche detto che Varrone, come del resto tutti gli autori latini che non possiedono come gli specialisti di filosofia una terminologia precisa, alternano tranquillamente "figura" e "forma, n prese in senso generale. Propriamente "forma" indica la forma nel senso di "stampo" (moule in francese) e sta a "figura" come la forma cava sta al rilievo plastico che ne esce; ma in Varrone si trovano raramente tracce di questo senso: un caso se ne può avere forse nel frammento in Gellio iII, 10, 7: "semen genitale fit ad capiendam figuram idoneum" [Il seme genitale diventa adatto a prendere figura].
La vera novità che si trova per la prima volta in Varrone e che oscura il significato primitivo ricorre nel campo della grammatica, come abbiamo visto. In Varrone si trova per la prima volta "figura" come formazione grammaticale, derivazione, forma flessiva. "Figura multitudinis" è in lui la forma del plurale; "alia nomina quinque habent figuras" (9, 52) significa: altri sostantivi hanno cinque forme di declinazione. Quest'uso ha avuto una notevole fortuna (cfr. Th. L. L., figura, III A 2a, col. 730 e 2e col. 734); anche "forma" era molto usata nello stesso senso, a cominciare già da Varrone, ma sembra che "figura" fosse il termine più usato e preferito dai grammatici latini. Come fu possibile che le due parole, e soprattutto "figura" che morfologicamente ricordava bene la sua origine, potessero passare così presto a un significato meramente astratto? Ciò fu dovuto alla grecizzazione della cultura romana. Il greco, il cui lessico scientifico-retorico era incomparabilmente più ricco, aveva un gran numero di parole per il concetto di figura: μορϕή, ειδος, σϰήμα, τύπος, πλάσις, per indicare soltanto le principali; l'elaborazione filosofica e retorica dell'uso linguistico platonico-aristotelico aveva assegnato a ciascuna di queste parole la propria sfera e in particolare aveva distinto con chiarezza fra μορϕ e ήειδς da una parte, σϰήμα dall'altra: μορϕή e ειδος è la forma o idea che informa la materia, σϰήμα la figura meramente sensibile di questa forma; la testimonianza classica in proposito è Aristotele, Metafisica, VII, 3 p. 1029 dove, nel quadro dell'esposizione dell’ούσια; la μορϕή è indicata come σϰήμα τής ιδέας; e cosi in lui si trovano anche σϰήμα, meramente sensibile, come una delle categorie della qualità e l'accostamento di σϰήμα con μέϒεϑος, ϰινησις e ϰρώμα che abbiamo già trovato in Varrone. Era naturale che in latino per μορϕή e ειδος si prendesse "forma," che di per sé conteneva la nozione del modello; a volte si trova anche "exemplar"; per σϰήμα invece si usava per lo più “figura." E siccome σϰήμα in quanto "aspetto esteriore," si era largamente esteso nella terminologia scientifica greca - in grammatica, retorica, logica, matematica, astronomia -, in tutti questi campi il latino adoperò "figura"; a fianco e al di sopra del significato originario della plastica non andò tuttavia completamente perduto, giacché con "figura" furono resi anche τύπος "impronta" e πλάσις, πλασμα, "opera plastica," come voleva il tema fig. Dal senso di τύπος derivò figura come "impronta del sigillo," che in metafora ha una storia illustre, da Aristotele, De mem. et rem., 450 a 31 ή ϰίνησις ένημαίνετα οιον τύπον τινϰ τού αξσδήματοϛ (il movimento implica una qualche impressione della cosa sentita), attraverso Agostino, Epist., 162, 4 e Isidoro, Ditf., 1,528, fino a Dante "come figura in cera si suggella," Purg., X, v. 45 o Par., XXVII, v. 62. Per la sua tendenza a designare ciò che è generale, conforme a legge ed esemplare (cfr. l'accostamento con νομιϰώϛ in Aristotele, Pol., B, 7 p. 1341 b 31) τύποϛ ebbe influenza su "figura" anche al difuori della. sfera delia plastica, e ciò a sua volta contribuì a confondere il limite già sottile che separava "figura" e "forma." La connessione con parole come πλάσις rafforzò la tendenza di "figura" a espandersi nella direzione di "statua," "immagine," "ritratto," tendenza che probabilmente esisteva fin dagli inizi ma che si faceva strada lentamente; essa invase il campo di "statua" e anche quello di "imago," "effigies," "species," "simulacrum." Se dunque si può dire, in complesso, che nell'uso linguistico latino "figura" sta per σϰήμα, con ciò non si esaurisce la forza della parola, potestas verbi: "figura" è più ampia di σϰήμα: non soltanto a volte è più plastica, ma anche più agile, ha maggiore capacità d'irradiazione. È vero che la parola greca è più dinamica del nostro" schema.": in Aristotele si chiamano σϰήμα i gesti mimici. degli uomini, in particolare quelli degli attori; σϰήμα non esclude affatto il senso di forma mossa; ma "figura" sviluppò molto 'più largamente questo elemento del moto e della trasformazione.
Lucrezio impiega "figura," nel senso filosofico greco, in una maniera estremamente peculiare, libera e significativa. Il punto di partenza è il concetto di figura in generale, e si trova in tutte le gradazioni, dal senso decisamente plastico ("manibus tractata figura," 4, 503) a quello di puro contorno geometrico (2, 778; 4, 503); egli trasferisce anche il concetto dalla sfera plastica e ottica a quella acustica, quando parla (4, 556) della "figura verborum." L'importante passaggio dalla figura alla sua imitazione, dall'originale alla copia, si coglie con particolare evidenza nel passo che tratta della somiglianza dei figli con i genitori, della mescolanza dei semi e dell'ereditarietà; dei figli che sono "utriusque figurae," del padre e della madre, che spesso riproducono "proavorum figuras" e così via: "inde Venus varias producit sorte figuras" ( 4, 1223) [donde Venere produce a caso varie figure]. Si vede qui come il gioco fra originale e copia poteva riuscire bene proprio e soltanto con "figura"; "forma" e "imago" erano troppo determinate nell'uno o nell'altro senso; "figura" è più concreta e più agile di "forma" e conserva l'individualità dell'originale con maggior purezza di "imago." Va però tenuto presente, qui e anche in seguito quando si parla di poeti, che "figura" in tutte le forme della declinazione offre un eccellente trisillabo per chiudere l'esametro. Una versione particolare del senso di "copia" si trova nella dottrina lucreziana delle immagini che come pellicole ("membranae") si staccano dalle cose e vagano nell'aria; e la dottrina democritea dei "Bildfilmen" (Diels), degli eidola intesi materialisticamente che Lucrezio chiama "simulacra," "imagines," "effigias" e a volte "figuras": e cosi in lui si trova anche, per la prima volta, "figura" nel significato di "visione di sogno," "immagine fantastica," "ombra del morto."
Queste sono già varianti molto vive, che ebbero una notevole fortuna; originale, copia, falsa immagine, sogno sono significati che restano sempre legati a "figura." Ma all'impiego più geniale della parola Lucrezio arriva per un'altra strada. Si sa che egli rappresenta la cosmogonia democriteo-epicurea, in cui il mondo è composto di atomi.
Egli chiama gli atomi "primordia," "principia," "corpuscula," "elementa," "semina," e con espressione affatto generale anche "corpora, quorum concursus motus ordo positura figura" (1, 685 e 2, 1021) [corpi la cui combinazione, il cui movimento, ordine, posizione, figura] producono le cose. Gli atomi sono bensì molto piccoli, ma materiali e formati; essi hanno figure infinitamente diverse; e accade così che egli stesso li chiami molto spesso "figurae"; e che inversamente, come fa a volte anche il Diels, spesso si possa tradurre "figuràe" con ''atomi." Gli infiniti atomi sono in moto incessante, trascorrono nel vuoto, si uniscono e si respingono a vicenda: è una danza di figure. Quest'uso della parola non sembra ricorrere al difuori di Lucrezio; il Thesaurus riporta solo un altro passo, di Claudiano, In Rufin., 1, 17, ossia della fine del IV secolo. In questo campo limitato, dunque, la sua creazione più originale restò inefficace; ma fra tutti gli autori che ho esaminato studiando "figura," Lucrezio ha dato senza dubbio il contributo personalmente piri geniale, se non storicamente più importante.
Nell'uso ciceroniano della parola, più frequente ed estremamente più duttile, sono rappresentate tutte le variazioni del concetto di figura, suggeritegli dall'attività politica, pubblicistico-retorica, giuridica e filosofica; esso rivela anche il suo carattere amabile, impulsivo e debole. Spesso egli riferisce la parola all'uomo, talvolta in tono patetico:
portentum atque monstrum certissimum est, esse aliquem humana specie et figura, qui tantum immanitate bestias vicerit, ut... (Pro Q. Rosaio, 63)
[È cosa veramente portentosa e mostruosa che un individuo appartenente per forma e figura al genere umano debba essere tanto più crudele delle bestie da...];
e "tacita corporis figura" (Pro Q. Roscio, 20) è la figura muta che già nell'aspetto rivela il mascalzone. Anche le membra e gli organi interni, gli animali, gli utensili, le stelle, insomma tutto ciò che è sensibile ha "figura," anche gli dei e l'universo nel suo complesso; l'aspetto sensibile e anche la parvenza espressi in greco da σϰήμα sono ben resi quando egli dice che il tiranno ha soltanto la "figura hominis," e delle idee astratte di Dio dice che sono senza "figura" e "sensus." Raramente il termine è distinto da "forma" (per esempio De nat, deor., 1, 90, cfr. sopra, nota 7), e l'uso di entrambi non è limitato alla sfera ottica e plastica; egli parla della "figura vocis," anche di una "figura negotii" e molto spesso delle "figurae dicendi." Naturalmente anche le forme geometriche e stereometriche hanno una "figura." Invece è pochissimo sviluppato in lui il senso di" figura" come "copia." Veramente in De mli. deor., 1, 71 si dice che Cotta, uno degli interlocutori, capirebbe meglio l'espressione "quasi corpus" degli dei "si in cereis fingeretur aut fictilibus figuris" [se fossero figure lavorate con la cera o con l'argilla] e in De div. l, 23 è nominata la "figura" di una roccia che sarebbe simile a un piccolo Pan; ma questi esempi non bastano, perché parlano appunto della "figura" dell'argilla e della pietra, non di quella di chi è raffigurato. Gli "schemi" democritei che si staccano dai corpi, cui abbiamo accennato parlando di Lucrezio, sono da lui chiamati “imagines” (" a corporibus enim solidis et a certis figuris vult fluere imagines Democritus": De div., 2, 137 ; [è opinione di Democrito che i fantasmi derivino da corpi solidi e da figure ben definite]; e le immagini degli dei sono in lui per lo più "signa," mai "figurae." Si può citare come esempio un maligno scherzo contro V erre, 3, 89: Verre voleva rubare una preziosa statua, in una città siciliana, ma s'innamorò della moglie del suo ospite: "contemnere etiam signum illud Himerae iam videbatur quod eum multo magis figura et lineamenta hospitae delectabant” [pareva disprezzare ora persino la statua di Imera poiché la figura e i lineamenti della moglie dell'ospite lo deliziavano assai di più]. Nulla si trova di innovazioni audaci come quella degli elementi fondamentali di Lucrezio, e il contributo di Cicerone sta soprattutto nell'avere introdotto, adattato e reso disponibile per la lingua dei· dotti, il concetto concreto di "figura." Egli Io adopera principalmente negli scritti filosofici e retorici, con particolare frequenza nello scritto sulla natura degli dei, cercando di ottenere qualche cosa che noi oggi chiameremmo un concetto totale di figura. Non è soltanto la sua nota tendenza all'ampiezza retorica che lo spinge a non accontentarsi della sola "figura" e ad accumulare più termini simili, intesi a esprimere una totalità: "forma et figura, conformatio quaedam et figura totius oris et corporis, habitus et figura, humana species et figura, vis et figura" [forma e figura, certe fattezze e la figura di tutto il volto ed il corpo, abito e figura, aspetto umano e figura, forza e figura], e molti altri nessi simil. È innegabile il suo sforzo di arrivare a una concezione complessiva dei fenomeni, e doveva riuscire a trasmetterne qualche cosa nel lettore romano. Tuttavia né il suo talento né il suo atteggiamento eclettico gli permettevano di fondare e formulare con energia questo concetto della figura, e cosi il suo sforzo restò inefficace: ci dobbiamo contentare di apprezzare l'ampiezza e l'equilibrio dello stile. Un altro punto è molto più importante per l'ulteriore evoluzione di "figura": in Cicerone e nell'Auctor ad Herennium essa si trova per la prima volta come espressione tecnica della retorica, per designare gli σϰήματα o ϰαραχιήρες λέξεως i tre livelli dello stile che in Ad Her., 4, 8, 11 sorto· definiti "figura gravis," "mediocris" e "attenuata," e nel De or., 3, 199 e 212 "plena," "mediocris" e "tenuis." Invece Cicerone non usa ancorala parola (come osserva esplicitamente il Vetter, autore della voce figura nel Th, L. L., ivi 731, 80 sgg.) come espressione tecnica per le perifrasi e gli ornamenti, ossia per i modi propriamente "figurati." Egli li conosce e li descrive ampiamente ma non li chiama ancora "figurae," come si farà più tardi: li definisce per lo più "formae et lumina orationis" [forme e ornamenti del discorso], dunque anche qui con un'espressione pleonastica. Per il resto egli usa la formula "figura dicendi" - più spesso "forma et figura dicendi" -, anch'essa di solito senza un'esatta determinazione tecnica, semplicemente per indicare il tipo e il modo di oratoria; cosi in generale, quando vuol dire che ce ne sono innumerevoli tipi (De or., 3, 34), come anche in senso individuale, quando dice di Curione: "suam quandam expressit formam figuramque dicendi" (ivi, 2, 98), [lo ha detto come se fosse la forma e la figura preferita dei suoi discorsi] : cosi che gli studenti delle scuole retoriche, per le quali gli scritti retorici di Cicerone acquistarono presto valore canonico, si abituarono a questa formula.
Alla fine dell'età repubblicana “figura" era così stabilmente: entrata nel patrimonio della lingua colta e filosofica, e il primo secolo dell'impero continuò ad allargare le possibilità di significato e d'impiego della parola. Il gioco di originale e copia, il senso implicante il mutamento di forma e la fallace imitazione dell'immagine sognata furono particolarmente elaborati dai poeti, come è facile capire. Già Catullo (Attis, 62) ha il passo caratteristico: "quod enim genus figurae est ego quod non obierim? " [vi è forse un genere di figura che io non abbia conosciuto?) Properzio dice (3, 24, 5): "mixtam te varia laudavi semper figura" [ho lodato spesso nella tua figura la fusione di vari elementi], oppure (4, 2, 21): "opportuna meast cunctis natura figuris" [la mia natura è adatta ad ogni figura]; nella bella chiusa del Panegyricas ad Messalam, dove si parla della forza trasformatrice della morte, si trova "mutata figura"; e Virgilio descrive (Aen., 10, 641) la falsa immagine in cui Turno crede di vedere la figura di Enea: "morte obita qualis fama est volitare figuras" [come quelle figure che secondo la credenza vanno volando intorno dopo la morte]. Ma la fonte più generosa, per l'uso di "figura" implicante mutamento, è naturalmente Ovidio. È vero che egli usa liberamente anche "forma," quando il verso richiede un bisillabo, ma per lo più si ha "figura," ed egli dispone di una mirabile varietà di combinazioni: dice "figuram mutare," "variare," "vertere,” "retinere," "inducere," "sumere," "deponere," "perdere." Questa piccola raccolta può dare un 'idea della ricchezza del suo uso:
... tellus ... partimque figuras / rettulit antiquas (Met., 1, 436);
... se mentitis superos celasse figuris (ivi, 5, 326);
sunt qui bus in plures ius est transire figuras (ivi, B, 730);
... artificem simulatoremque figurae / Morphea (ivi, 11, 634);
ex aliis alias reparat natura figuras (ivi, 15, 253);
animam ... in varias doceo migrare figuras (ivi, .15, 172);
lympha figuras / datque capitque novas (ivi, 15, 308).
[La terra ... restaurò in parte le antiche figure;
si dice che gli dei siano apparsi sotto mentite spoglie;
ce ne sono che hanno il diritto di assumerne molte;
Morfeo forgiatore e imitatore della figura umana;
la natura costruisce forme partendo da altre forme;
secondo il mio insegnamento, l'anima migra da una figura all'altra;
l'acqua dà e riceve nuove forme];
Anche l'immagine del sigillo è ottimamente rappresentata:
Utque novis facilis signatur cera figuris
Nec manet ut fuerat nec formas servar easdem,
Sed tamen ipsa eadem est... (ivi, 15, 169 sgg.)
[Come la cera cedevole riceve il segno di nuove figure
senza rimanere qual'era, senza conservare le forme precedenti
pur rimanendo sostanzialmente la stessa...]
In Ovidio si trova inoltre "figura" già nel senso molto chiaro di "copia": per esempio Fasti, 6, 278 "globus immensi parva figura poli" [un globo, piccola figura dell'immenso universo], o Her., 14, 97 e Pont., 2, 8, 64; come "lettera dell'alfabeto," senso che del testo si è già visto in Varrone: "ducere consuescat multas manus una figuras" (Ars, 3, 493) [che una sola mano si assuefaccia a tracciare molte figure]; e infine come posizione nel gioco amoroso: "Venerem iungunt per mille figuras" (Ars, 2, 679) [ si congiungono in mille forme di amplessi]. In lui "figura" ha sempre un aspetto mosso, mutevole, molteplice e tendente all'inganno. Con molta arte la parola è usata anche dal poeta dell'Astronomia, Manilio, nel quale "figura" oltre che con i significati già visti compare come "segno celeste" e "costellazione" (accanto a "signum" e "forma"). Come "immagine di sogno" essa ricorre in Lucano e Stazio.
Molto diverso dall'uso di questi poeti e anche da quello dei retori che vedremo è l'uso dell'architetto Vitruvio. In lui "figura" è la forma architettonica e plastica, o la sua imitazione o il contorno; in lui non c'è traccia del senso d'inganno e di mutamento: nel suo· linguaggio "figurata similitudine" (7, 5, 1) non significa "mediante illusione" ma "mediante creazione formativa di una somiglianza." Spesso "figura" vuol dire "schizzo," "piano" ("modice picta operis futuri figura," 1, 2, 2), e "universae figurae species" e anche "summa figuratio" è la forma complessiva di un- edificio o di una persona (che egli spesso mette a confronto dal punto di vista della simmetria). Nonostante l'occasionale impiego matematico "figura" (e anche "fingere n) ha in lui e negli altri scrittori tecnici contemporanei un valore saldamente plastico e concreto; per esempio in Festo, p. 98, "crustulum cymbi figura” [una torta a forma di barca], in Celso "venter reddit mollia, figurata" (2, 5, 5) [il ventre crea immagini molli e figurate], in Columella "ficos comprimunt in figuram stellarum floscularumque" (12, 5, 5), [lavorano i fichi in forma di stelle e di fiorellini]. Anche in questa particolarità la massima varietà d'uso si trova in Plinio il Vecchio, che apparteneva a un altro strato sociale e culturale e nel quale sono rappresentate tutte le gradazioni del concetto di forma e di specie. Nell'interessante inizio del libro 35, dove egli lamenta la decadenza della ritrattistica, si può ottimamente seguire il passaggio da figura a ritratto: "Imaginurn quidem pictura, qua maxime similes in aevum propagantur figurae " [I ritratti attraverso i quali venivano tramandate nel tempo le figure assai vicine alla loro realtà], e un po' più avanti, quando parla dei libri illustrati con ritratti, la cui tecnica di produzione era stata inventata da Varrone:
imaginum amorem flagrasse quondam testes sunt... et Marcus Varro... insertis... septingentorum illustrium... imaginibus: non passus intercidere figuras, aut vetustatem aevi contra homines valere, inventar muneris etiam diis invidiosi, quando immortalitatem non solum dedit, verum etiam in omnes terras misit, ut praesentes esse ubique credi possent.
[che la passione per i ritratti dominasse una volta... ne è testimone anche Marco Varrone... che inserì nelle sue opere ritratti di 700 personaggi illustri e non permettendo che le loro figure scomparissero o che il tempo prevalesse contro gli uomini fu l'inventore d'un dono, degno di essere invidiato dagli dei. Egli non solo concesse l'immortalità agli uomini, ma li fece conoscere in tutto il mondo, sì da farli credere presenti dovunque.]
Della letteratura giuridica del I secolo sono attestati alcuni rari passi· in cui "figura" vale "vuota forma esteriore" e anche "parvenza": Dig., 28, 5, 70 "non solum figuras sed vim quoque condicionis continere" (Proculus) (non solo contengono le figure ma anche la forza della loro condizione] e Dig., 50, 16, 116 "Mihi Labeo videtur verborum figuram sequi, Proculus mentem " (Javolenus) (mi pare che Labeone abbia seguito la figura delle parole, ma Proculo la loro intenzione].
Ma il fatto più notevole e decisivo per l'evoluzione della parola nel I secolo fu l'elaborazione del concetto di figura retorica, che troviamo trattato nel libro 9 di Quintiliano. La cosa era più antica, era greca, ed era già stata introdotta in latino da Cicerone, come abbiamo visto; ma Cicerone non usava ancora in questo senso "figura" e pare inoltre che nel frattempo l'incessante discussione su questioni retoriche avesse molto raffinato la tecnica figurale. Non si può precisare con esattezza quando la cosa fu indicata per la prima volta con questa parola; forse ciò avvenne subito dopo Cicerone, come ]asciano supporre il titolo di un libro (De figuris sententiarum) di Anneo Cornuto, conservatoci da Gellio 9, 10, 5 e osservazioni e allusioni dei due Seneca e di Plinio il Giovane. Ciò del resto era ovvio, perché l'espressione greca era σχήμα. In generale si deve supporre che l'uso tecnico-scientifico della parola si fosse sviluppato più presto e più largamente di quanto risulta dagli scritti conservati; che per esempio delle figure del sillogismo (gli σχήματα σνλλοϒισμύ risalgono allo stesso Aristotele) si fosse parlato in latino molto prima di Boezio o del libro pseudoagostiniano delle categorie.
Nell'ultima parte del libro VIII e nel libro IX dell'lnstitutio oratoria, Quintiliano offre dunque un'esposizione approfondita della dottrina dei tropi e delle figure, che da un lato rappresenta, come sembra, una discussione riassuntiva di opinioni e lavori precedenti, dall'altro diventò la base per le successive ricerche sull'argomento. Egli distingue i tropi dalle figure: il tropo è il concetto più limitato e si riferisce soltanto all'uso improprio di parole e forme del discorso; la figura invece è quella formulazione del discorso che si allontana dall'uso comune e più ovvio. Nel caso della figura non si tratta di usare certe parole in luogo di altre parole, come in tutti i tropi; si possono fare figure anche con parole impiegate nel senso proprio e nella disposizione propria. In sostanza ogni discorso è una formazione, una figura, ma si deve usare il termine soltanto per formazioni di particolare costruzione poetica o retorica, e distinguere cosi il tipo di espressione semplice "carens figuris," (άσχηματιστός) e quello figurato ("figuratus," έσχηματισμένος). La distinzione fra tropo e figura è ottenuta a fatica. Lo stesso Quintiliano è spesso incerto se assegnare all'uno o all'altra una forma di discorso; l'uso linguistico posteriore decise spesso di considerare "figura" come il concetto superiore, comprendente il tropo, e definiva quindi figurata ogni espressione impropria o indiretta. Egli definisce e descrive come tropi la metafora, la sineddoche ("mucronem pro gladio"; "puppim pro navi"), la metonimia (Marte per guerra, Virgilio per l'opera di Virgilio), l'antonomasia (il Pelide per Achille) e molti usi simili; distingue le figure in quelle che riguardano il contenuto e quelle che riguardano le parole ("figurae sententiarum" e "verborum"). Come "figurae sententiarum" elenca: la domanda retorica con l'implicita risposta; i vari modi di prevenire le obiezioni (prolcpsis); la simulata confidenza verso i giudici, gli ascoltatori o anche verso gli avversari; la prosopopea, con cui si introducono a parlare altre persone, per esempio l'avversario, o personificazioni come la Patria; l'apostrofe solenne; la rappresentazione icastica di un fatto, "evidentia" o "illustratio"; le varie forme dell'ironia; l'aposiopesi o "obticentia" o "interruptio," quando si "inghiottisce" qualche cosa; il pentimento simulato per qualche cosa che si è detto, e molti altri esempi simili; ma soprattutto quella figura che a quel tempo era considerata la più importante e che più di tutte sembrava meritare il nome di figura: l'allusione dissimulata nelle sue varie forme. Era stata elaborata una tecnica raffinata per esprimere o insinuare una cosa senza dirla apertamente, quando si voleva tenerla occulta o almeno non enunciarla per ragioni politiche o tattiche o semplicemente per ottenere maggiore efficacia. Quintiliano parla della grande importanza che l'esercizio di questa tecnica aveva nelle scuole di retorica e dice che si inventavano casi appositi, le "controversiae figuratae,” per perfezionarsi e brillare in questa pratica. Come figure di parole egli cita infine i solecismi intenzionali, le ripetizioni retoriche, le antitesi, le assonanze, l'omissione di una parola, l'asindeto, il climax e simili.
La sua esposizione dei tropi e delle figure, di cui qui abbiamo riassunto soltanto i punti principalissimi, è corredata di numerosi esempi e di ricerche speciali sulla natura e la distinzione delle singole forme; essa occupa gran parte dei libri VIII e IX. Si tratta di un sistema elaborato, di una dottrina alla quale si attribuiva il massimo valore, ed è da supporre che Quintiliano occupasse fra i retori una posizione relativamente libera e che rifiutasse gli eccessi di pedanteria. L'arte delle locuzioni improprie, perifrasiche, allusive, insinuanti e dissimulanti, con cui l'oggetto doveva essere adornato oppure trattato con maggiore efficacia o perfidia, aveva acquistato nella retorica della tarda antichità una perfezione e un'elasticità che per noi è quasi incomprensibile e curiosa e che spesso ci appare anche insulsa: quelle locuzioni si chiamavano "figurae." La teoria delle figure del discorso ebbe grande importanza, come è noto, anche nel medioevo e nel rinascimento; per i teorici dello stile dei secoli XII e XIII serviva da fonte principale lo scritto Ad Herenniumi.
Con ciò chiudiamo la storia del significato di "figura" nell'antichità pagana; alcune innovazioni nel campo della grammatica, della retorica e della logica derivano naturalmente dai significati che abbiamo indicato, e ne abbiamo anche citato qualche esempio. Acquistò importanza storica il senso che i Padri della Chiesa seppero dare alla parola sulla base dell'evoluzione che abbiamo seguito nelle pagine precedenti.
Il nuovo e peculiare significato che la parola acquista nel mondo cristiano si trova per la prima volta, e molto spesso, in Tertulliano. Per spiegarne il contenuto dovremo esaminare alcuni passi.
Nello scritto Adversus Marcionem, 3, 16 Tertulliano parla di Hosea, figlio di Nun, che da Mosè è chiamato Giosuè (da 4 Mos., 13, 16):
...et incipit vocari Jesus... Hanc prius dicimus figuram futurorum fuisse. Nam quia Jesus Christus secundum populum, quod sumus nos, nati in sacculi desertis, introducturus erat in terram promissionis, melle et lacte manantem, id est vitae eternae possessionem, qua nihil dulcius; idque non per Moysen, id est, non per legis disciplinam, sed per Jesum, id est per Evangelii gratiam provenire habebat (forma latino-volgare per "doveva accadere"), circumcisis nobis petrina acie, id est Christi praeceptis; Petra enim Christus; ideo is vir, qui in huius sacramenti imagines parabatur, etiam nominis dominici inauguratus est figura, Jesus cognominatus.
[E cominciarono a chiamarlo Gesù... E diciamo anzitutto che questa è una prefigurazione del futuro. Poiché infatti Cristo stava per introdurre un nuovo popolo, cioè noi, nati nel deserto di questo mondo nella terra promessa ricca di latte e miele, cioè in possesso della vita eterna di cui nulla è più dolce; e ciò non poteva realizzarsi attraverso Mosè, cioè attraverso la disciplina della legge, ma attraverso Gesù, cioè attraverso la grazia del V angelo, essendo stati noi circoncisi da un coltello di pietra, cioè dai precetti di Cristo che è pietra; perciò il grande uomo che veniva preparato come figura di questo sacramento, fu consacrato nella realtà del suo corpo col nome del Signore, e fu chiamato Gesù.]
Si tratta qui della denominazione Giosuè-Gesù come processo profetico che preannuncia fatti successivi. Come Giosuè, e non Mosè, condusse il popolo d'Israele nella terra promessa della Palestina, così è la grazia di Gesù, e non la legge ebraica, che porta il "secondo popolo" nella terra promessa della beatitudine eterna. L'uomo che apparve come preannuncio profetico di questo mistero ancora celato, "qui in huius sacramenti imagines parabatur," fu introdotto sotto la "figura" del nome divino. La denominazione Giosuè-Gesù è dunque una profezia reale o una figura anticipatrice del futuro: "figura" è qualche cosa di reale, di. storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch'essa reale e storica. Il rapporto reciproco dei due fatti è reso riconoscibile attraverso una concordanza o somiglianza; così, per esempio; Tertulliano dice (Adv. Marc., 5, 7): "Quare Pascha Christus, si non Pascha figura Christi per similitudinem sanguinis salutaris et pecoris Christi?" [Per quale altro motivo la Pasqua è Cristo, se non perché la Pasqua è figura di Cristo nella sua somiglianza col sangue apportatore di salute e col gregge di Cristo?] Spesso bastano somiglianze appena adombrate nella struttura dei fatti o nelle circostanze che li accompagnano per rendere riconoscibile la "figura"; per poterla sempre trovare occorreva una determinata volontà esegetica. Quando, per. esempio (ivi, 3, 17 o Ado, Iudaeos, 14), i due capri del sacrificio di 3 Mos., 16, 7 sgg. sono interpretati come figure della prima e della seconda venuta di Cristo; o quando da Adamo come "figura Christi" è desunta Eva come "figura Ecclesiae" (De anima 43; cfr. anche De monogamia 5):
Si enim Adam de Christo figuram dabat, somnus Adamae mors erat Christi dormituri in mortem ut de iniuria (ferita) perinde lateris eius vera mater viventium figuraretur Ecclesia.
[Se Adamo era una figura di Cristo, il sonno d'Adamo era la morte di Cristo che si sarebbe addormentato nel sonno della morte perché dalla ferita del suo costato venisse figurata la Chiesa, vera madre dei viventi.]
Dell'origine di questo intento esegetico torneremo a parlare. Il' tipo d'interpretazione mirava a vedere nelle persone e nei fatti dell'Antico Testamento figure o profezie reali della redenzione del Nuovo. Va osservato a questo proposito che Tertulliano rifiuta esplicitamente di ridurre, con l'interpretazione figurale, la validità letterale e storica dell'Antico Testamento. In lui c'è anzi una decisa opposizione contro eventuali eccessi dello spiritualismo; egli non vuole affatto intendere l'Antico Testamento come mera allegoria: esso ha sempre un senso letterale reale, e anche là dove c'è una profezia figurale la figura ha una realtà storica pari a quella di ciò che essa profetizza. La figura profetica è un fatto storico-concreto, ed è adempiuta da fatti storico-concreti. Tertulliano usa in questo senso l'espressione "figuram implere" (Adv. Mare., 4, 40 "figuram sanguinis sui salutaris implere") [adempiere la figura del sangue suo redentore] o "confirmare" (De fuga in pers., 11: "Christo confirmante figuras suas") [col Cristo che conferma le sue figure]: d'ora in poi indicheremo le due cose con "figura" e "adempimento."
È noto; in generale, l'energico realismo di Tertulliano. Per lui la "figura," nel senso immediato, è una parte della sostanza, che egli identifica con la carne (Adv. Mare., 5, 20). In un passo di poco precedente (4, 40) parla del pane nell'eucaristia:
Corpus illum suum fecit "hoc est corpus meum" dicendo, "id est figura corporis mei." Figura autem non fuisset, nisi veritatis esset corpus. Ceterum vacua res, quod est phantasma, figura capere non posset. Aut si propterea panem corpus sibi finxit, quia corporis carebat veritate, ergo panem debuit tradere pro nobis. Faciebat ad vanitatem Marcionis, ut panis crucifigeretur. Cur autem panem corpus suum appellar, et non magis peponem, quem Marcion cordis loco habuit? Non intelligens veterern fuisse istarn figuram corporis Christi, dicentis per Ieremiam (11, 19): "Adversus me cogitaverunt cogitatum dicentes, 'Venite, coniiciamus lignum in panem eius,' scilicet crucem in corpus eius."
[Creò il suo corpo dicendo: "Questo è il mio corpo, cioè la figura del mio corpo." Né ci sarebbe stata una figura se non ci fosse stato un vero corpo: una cosa vuota, un fantasma, non avrebbe potuto concretarsi in figura. Se egli perciò affermò che il pane era il suo corpo perché il suo corpo mancava di realtà egli dovette veramente darci del pane. Dobbiamo perciò concludere, seguendo l'assurdo proposito di Marciane, che il pane andava crocifisso? Ma perché Cristo chiama pane il suo corpo e non, poniamo, mellone, il quale fornisce a Marciane l'immagine del cuore? Sfuggi a costui quanto antica sia questa figura del corpo di Cristo che dice, per bocca di Geremia (II, 19): "Escogitarono espedienti contro di me dicendo: 'Venite, mettiamo del legno sul suo pane,' cioè la croce sul suo corpo.”]
Queste frasi vivaci - nel seguito, con energia non minore, il vino, "figura sanguinis," è inteso come "probatio carnis" [prova della carne J sulla base di Gen., 49, 11 e Isaia, 63, 1 - danno l'idea più chiara della concretezza dei due poli dell'interpretazione figurale di Tertulliano; spirituale è sempre soltanto l'intelligenza, "intellectus spiritalis," che riconosce la "figura" nell'adempimento. I profeti non hanno affatto parlato solo per immagini, egli dice (De resurr, carnis, 19 sgg.), altrimenti non sarebbe possibile riconoscere le immagini; molto va inteso proprio alla lettera, come anche nel Nuovo Testamento:
nec omnia umbrae, sed et corpora; ut in ipsum quoque Dominum Insigniora quaeque luce clarius praedicantur; nam et virgo concepit in utero, non figurate; et peperit Emanuelem nobiscum Jesum Christum, non oblique.
[Né si tratta di ombre soltanto, ma anche di corpi, sicché anche a proposito del Signore si annunciano cose più chiare del giorno. Così la Vergine concepì realmente e non soltanto metaforicamente e partorì l'Emanuele, il Signore con noi, Gesù Cristo nella realtà della carne.]
E rivolge il suo zelo contro coloro che "in imaginariam significationem distorquent" la resurrezione dei morti, che è annunciata con chiarezza. Si trovano molti passi di questo genere, nei quali egli combatte le tendenze spiritualistiche di gruppi contemporanei. Il suo realismo appare anche piri netto nel rapporto tra figura e adempimento, perché l'una o l'altro sembrano avere talora un più alto grado cli concretezza storica. Quando, per esempio, nella frase Adv. Marc., 4, 40
an ipse erat, qui tamquam ovis coram tendente sic os non aperturus figuram sanguinis sui salutaris implere concupiscebat?
[non era lui che desiderò ardentemente di adempiere la figura del suo sangue redentore, sottomettendosi in silenzio ai suoi persecutori come la pecora alla mano di chi la tonde?]
la figura sembra una mera similitudine, il servo di Dio come agnello; o quando un'altra volta la legge nel suo insieme è contrapposta a Cristo come adempimento (ivi, 5, 19 "de umbra transfertur ad corpus, id est de figuris ad veritatem" [viene trasferito dall'ombra al corpo, cioè dalla figura alla verità]) sembra forse che la similitudine nel primo caso e l'astratto "nel secondo attribuiscano alla figura una minor forza di realtà. Ma non mancano neppure esempi in cui la figura sembra avere maggior forza sensibile. In De bapt.; 5, per esempio, dove lo stagno di Bethesda compare come figura del battesimo, troviamo la frase:
figura ista medicinae corporalis spiritalem medicinam canebat, ea forma qua semper carnalia in figura spiritalium antecedunt.
[questa figura di medicina corporea parlava d'una medicina spirituale, seguendo le regole che vuole che le cose carnali precedano quali figure quelle spirituali.]
Ma l'uno e l'altro, lo stagno di Bethesda e il battesimo, sono un oggetto o un processo concreto e reale: spirituale è soltanto l'interpretazione o l'effetto; giacché anche il battesimo, come aggiunge subito lo stesso Tertulliano (ivi, 7), è un'azione carnale:
sic et in nobis carnaliter currit unctio, sed spiritaliter proficit; quomodo et ipsius baptismi carnalis actus, quod in aqua mergimur, spiritalis effectus, quod delictis liberamur
[così l'unzione scorre nella realtà della nostra carne, ma crea vantaggi spirituali; carnale è l'atto dello stesso battesimo, poiché siamo immersi nell'acqua, spirituale l'effetto, poiché veniamo liberati dalle colpe.]
Da questi esempi si sente che anche nei primi casi citati Tertulliano intende l'agnello non metaforicamente ma concretamente, che prendeva la legge non soltanto in senso astratto ma considerava il tempo della legge come una condizione storica. Talvolta accade anche che due affermazioni stiano tra loro nel rapporto di figura e adempimento, per esempio, De fuga in persecuzione, 11:
certe quidem bonus pastor animam pro pecoribus ponit; ut Moyses, non domino adhuc Christo relevato, etiam in se figurato, ait: Si perdis hunc populum, inquit, et me pariter cum eo disperde (Esodo, 32, 32). Ceterum, Christo confirmante figuras suas, malus pastor est, ecc. (Giov., 10, 12)
[certamente il buon pastore rischia la vita per il gregge; perciò Mosè prima della rivelazione di nostro signore Gesù Cristo; di cui egli era figura, disse: Se mandi in rovina il mio popolo disperdi anche me con esso... Del resto, Cristo stesso dice a conferma delle sue figure...]
ma entrambe le affermazioni sono avvenimenti storci, e per di più non sono tanto esse quanto Mosè e Cristo che stanno tra loro in rapporto di figura e adempimento. Spesso, come in uno degli esempi sopra citati, l'adempimento è definito "veritas," e la figura, corrispondentemente, "umbra" o "imago"; ma entrambi i termini, ombra e verità, sono astratti solo in riferimento al significato prima celato e poi rivelato, ma concreti in riferimento alle cose o alle persone che portano in sé il significato. Mosè non è meno storico e reale perché è "umbra” o "figura" di Cristo, e Cristo, l'adempimento, non è un'idea astratta ma è storico e reale. Le figure storico-reali sono da interpretare spiritualmente ("spiritaliter interpretari") ma l'interpretazione si riporta a un adempimento carnale, ossia storico ("carnaliter adimpleri": De resurr; 20), giacché, appunto, la verità si è fatta storia o carne.
Dal IV secolo in poi la parola "figura" e il modo d'interpretazione che vi è connesso appaiono completamente sviluppati in quasi tutti gli scrittori ecclesiastici latini. Talvolta anche la comune allegoria è definita "figura" secondo l'uso che più tardi diventerà generale: Lattanzio, Div. Inst., 2, 10, intende il sud e il nord come "figurae vitae et mortis," come il giorno e la notte nel senso di vera e falsa fede; ma subito interviene il riferimento cristiano all'anticipazione e adempimento:
etiam in hoc praescius futurorum Deus fecit, ut ex iis verae religionis et falsarum superstitionum imago quaedam ostenderetur.
[anche in questo conscio del futuro, Dio fece sì che venisse mostrata un'immagine tratta dalle cose della vera religione e delle false superstizioni.]
E così "figura" compare spesso nel senso di "significato più profondo" in riferimento al futuro: le sofferenze di Gesti "non fuerunt inania, sed habuerunt figuram et significationem magnam" [non furono vane, ma ebbero grande figura e significato]; e in questo contesto egli parla delle opere divine in generale, "quorum vis et potentia valebat quidem in praesens, sed declarabat aliquid in futurum" (ivi, 4, 26) [la cui forza, il cui potere erano validi nel presente, ma annunciavano qualcosa nel futuro]. Questo intendimento domina anche la sua escatologia che, secondo una speculazione allora largamente diffusa, intende i sei giorni della creazione come sei millenni che ora sarebbero giunti quasi alla fine; il regno millenario è prossimo (ivi, 14):
saepe diximus minora et exigua magnorum figuras et praemonstrationes esse; ut hunc diem nostrum, qui ortu solis occasuque finitur, diei magni speciem gerere, quem circuitus annorum mille determinar. Eodem modo figuratio terreni hominis caelestis populi praeferebat in posterum fictionem.
[abbiamo spesso affermato che le cose minori, le cose comuni sono figura e annunciazione delle grandi, così come questo nostro giorno, definito dall'alba e dal tramonto, somiglia al gran giorno, determinato dal trascorrere d'un millennio. Allo stesso modo il destino figurale dell'uomo sulla terra consegnava ai posteri la parabola del popolo celeste.]
Nella maggior parte degli autori di questo periodo l'interpretazione figurale con i suoi esempi più famosi è pane quotidiano, si può dire, al pari della contrapposizione di "figura" e "veritas." Ma a volte - per esempio nel commento biblico di Origene - si trova anche un'interpretazione più fortemente spiritualistica, allegorica e morale. In un passo che tratta del sacrificio di Isacco - il quale per altro è uno dei più noti esempi di interpretazione figurale realistica - nel traduttore latino di Origene, Rufino (PG 12, 209 B; l'originale greco è perduto), si trova quanto segue:
Sicut in Domino corporeum nihil est, etiam tu in his omnibus corporeum nihil sentias: sed in spiritu generes etiam tu filium Isaac, cum habere coeperis fructum spiritus, gaudium, pacem.
[Come non c'è nulla di corporeo in Dio, così occorre che tu escluda l’elemento corporeo da tutte queste cose e generi anche tu nello spirito tuo il figlio Isacco, quando comincerai a possedere il frutto dello spirito, il gaudio e la pace.]
È vero che neppure Origene è mai così astrattamente allegorico come per esempio Filone: anche in lui i fatti dell'Antico Testamento toccano vivamente e direttamente il lettore reale e la sua vita reale; ma quando si legge, per esempio, la sua bella spiegazione del cammino di tre giorni nell'Esodo (op. cit., pp. 313 sgg.) si avverte molto chiaramente la prevalenza del lato mistico e morale su quello propriamente storico. Nella diversità fra l'interpretazione. piuttosto storico-realistica di Tertulliano e quella piuttosto allegorico-morale di Origene si rivela un conflitto, noto anche da altre fonti, che si svolgeva in seno al primo cristianesimo: gli uni miravano a volgere in senso meramente spirituale il contenuto della nuova dottrina; soprattutto il contenuto dell'Antico Testamento, e a velarne in qualche modo il carattere storico, mentre gli altri volevano conservare la sua piena storicità, pur additandone tutti i significati profondi. In occidente quest'ultima tendenza riuscì incondizionatamente vittoriosa, benché anche l'altra non perdesse mai la sua influenza, come mostra se non altro la penetrazione della dottrina dei significati molteplici della Scrittura; la quale, pur lasciando sussistere il senso letterale o storico, spezza il nesso che lo lega alla prefigurazione, anch'essa reale, affermando in sostituzione dell'interpretazione prefigurale e accanto ad essa altre interpretazioni meramente astratte. Nel contrasto fra le due tendenze, che in complesso si concluse a favore dell'interpretazione vivacemente figurale, ebbe una parte decisiva Agostino, la cui spiritualità era di natura troppo vivace e storica per contentarsi dell'allegoria meramente astratta.
Che in Agostino vivesse tutta la tradizione antica si può vedere anche in questa occasione, nel suo uso della parola "figura." Essa indica un concetto di portata generale, con i molteplici aspetti desunti dalla tradizione: designa staticità e movimento, contorno e forma plastica, è impiegata per il mondo e la natura in generale e per il singolo oggetto, definisce 'l'esteriorità sensibile, accanto a "forma," "colore" e simili (Epist., 120, 10 o 146, 3), ma anche ciò che è mutevole di contro all'Essere eterno; in questo senso egli interpreta I Cor., 7, 31:
Peracto quippe iudicio tunc esse desinet hoc coelum et haec terra, quando incipiet esse coelum novum et terra nova. Mutatione namque rerum non omni modo interitu transibit hic mundus. Unde et apostolus dicit: Praeterit enim figura huius mundi, volo vos sine sollicitudine esse. Figura enim praeterit, non natura (De civ., 20, 14).
[Quando il giudizio sarà compiuto anche il cielo e la terra cesseranno di essere, ed un nuovo cielo cd una nuova terra cominceranno. Ma il mondo trapasserà nel mondo nuovo per trasformazione degli elementi senza loro totale distruzione. Perciò anche l'apostolo dice: La figura di questo mondo trapasserà, voglio che non ve ne diate pensiero: la figura passa, però, non la natura.]
"Figura" compare inoltre come simulacro pagano, come sogno o visione, come forma matematica: ci sono tutte le sfumature note. Ma il suo uso di gran lunga più frequente è quello che indica la profezia reale. Agostino riprende esplicitamente l'interpretazione figurale del1' Antico Testamento, la raccomanda con energia per la predica e per la missione (per esempio De catichizandis rudibus, 3, 6) e anche la svolge ulteriormente; nella sua opera troviamo al completo tutte le interpretazioni: l'arca di Noè è "praefiguratio Ecclesiae" (De civ., 15, 27); Mosè è in vari modi "figura Christi" (per esempio De civ., 10, 6 o 18, 11); il "sacerdotium" di Aronne è "umbra et figura aeterni sacerdotii" (ivi, 17, 6); Agar, la schiava, è figura dell'Antico Testamento, della "terrena [erusalem," mentre Sara è figura del Nuovo Testamento, "supernae Jerusalem, civitatis Dei" (ivi, 16, 31; 17, 3; Expos. ad. Gal., 40); Giacobbe ed Esaù, "figuram praebuerunt duorum populorurn in Christianis et Iudeis" (De civ., 16, 42); i re unti di Giuda "(Christi) figuram prophetica unctione gestabant" (ivi, 17, 4). E questi sono soltanto pochi esempi; tutto l'Antico Testamento, almeno nelle figure e nei fatti decisivi, è oggetto di unitaria interpretazione figurale; anche là dove le parole e le profezie letterali sono spiegate nel loro senso riposto, come per esempio il cantico di Anna (I Sam., 2, 1-10) in De civ., 17, 4, per lo più l'interpretazione non è soltanto allegorica, ma figurale; il cantico di ringraziamento di Anna per la nascita del figlio Samuele è spiegato come figura della trasformazione del vecchio regno e sacerdozio terrestre in quello nuovo, celeste, ed essa stessa diventa “figura Ecclesiae”.
Agostino si oppone con la massima energia contro l'interpretazione puramente allegorica delle Sacre Scritture e contro l'opinione che l'Antico Testamento sia una sorta di scrittura ermetica, comprensibile soltanto mediante un'interpretazione che escluda il senso storico-letterale e l'intelligenza comune: ogni credente può penetrare come per gradi fino al suo eccelso contenuto:
Sancta Scriptura parvulis congruens nullius generis rerum verba vitavit, ex quibus quasi gradatim ad divina atque sublimia noster intellectus velut nutritus assurgeret,
[la Sacra Scrittura come suole adattarsi alla mente dei pargoli, così non disdegna parole di nessun genere, allo scopo di poter nutrire il nostro intelletto e di aiutarlo a salire gradualmente verso cose divine e sublimi],
egli dice (De trin., I, 2), e con riferimento anche più chiaro al problema figurale che qui discutiamo:
Ante omnia, frater, hoc in nomine Domini admonemus et praecipimus, ut quando auditis exponi sacramentum Scripturae quae gesta surit, prius illud quod lectum est credatis sic gestum quomodo lectum est; ne substrato fundamento rei gestae quasi in aere quaeratis aedificare (Serm., 2, 6 sgg.).
[Anzitutto, fratelli, vi ammoniamo e ordiniamo in nome del Signore, che quando udite l'esposizione del mistero delle Scritture che narra di cose avvenute, crediate effettivamente nella verità storica dell'avvenimento di cui leggete, altrimenti, corrodendo le basi storiche di esso rischierete di costruire nel vuoto.]
Anche secondo la sua concezione, che da tempo era quella tradizionale, l'Antico Testamento è pura profezia reale; ed egli si richiama per questo, con maggiore energia di altri, ad alcuni passi delle epistole di Paolo su cui dovremo ritornare. Le osservazioni della legge, "quas tamquam umbras futuri sacculi nunc respuunt Christiani, id tenentes, quod per illas umbras figurate promittebatur" [che i cristiani ora respingono quali ombre dell'avvenire mantenendo però ciò che esse promettono loro figuralmente], e i sacramenti, "quae habuerunt promissivas figuras" [che contennero figuralmente delle promesse], sono da prendere alla lettera, e proprio nel senso che la loro indubitata realtà storico-corporea è stata sostituita dall'adempimento cristiano, inteso e rivelato non meno storicamente e spiritualmente, e, come vedremo tra poco, da una nuova promessa, più completa e più chiara; e quindi il cristiano deve attenersi "non ad Iegem operum, ex qua nemo iustificatur, sed ad legem fidei, ex qua iustus vivit" (De spir. et litt., 14, 12) [non alla legge delle opere, poiché questa non giustifica nessuno, ma alla legge della fede, della quale vive il giusto]. Gli antichi ebrei,
quando adhuc sacrificium verurn, quod fideles norunt, in figuris praenuntiabatur, celebrabant figuram futurae rei; multi scientes, plures ignorantes (Enarr. in Psalm., 39, 12)
[quando ancora il sacrificio vero, noto ai fedeli, veniva preannunciato nelle figure, essi celebravano la figura d'un avvenimento futuro; molti di loro erano consapevoli di ciò, ma più numerosi erano quelli che l'ignoravano];
gli odierni ebrei, e qui echeggia il tema che più tardi ricorrerà in tutta la polemica con gli ebrei, nella loro ostinata cecità si rifiutano di riconoscerlo:
Non enim frustra Dominus ait Judaeis: si crederetis Moysi, crederetis et mihi; de me enim ille scripsit (Giou., 5, 46): carnaliter quippe accipiendo legem, et eius promissa terrena rerum coelestium figuras esse nescientes (De cio., 20, 28).
[Poiché il Signore non parlò invano quando disse agli ebrei: Se presterete fede a Mosè, crederete anche in me, giacché egli scrisse di me... essi però interpretarono carnalmente la legge senza comprendere che le promesse terrene non erano altro che figure delle cose celesti.]
Ma l'adempimento delle "cose celesti" non è ancora avvenuto; e appare quindi, in Agostino e anche più chiaramente in alcuni suoi predecessori, che la contrapposizione di due poli, figura e adempimento, è sostituita a volte da un'attuazione in tre gradi: la Legge o la storia degli ebrei come "figura" profetica per la venuta di Cristo; l'Incarnazione come adempimento di questa "figura"; e infine l'attuazione futura di questi avvenimenti come adempimento finale. "Vetus enim Testamentum est promissio figurata, Novum Testamentum est promissio spiritualiter intellecta," [L'Antico Testamento è promessa sotto forma di figura, il Nuovo Testamento è promessa compresa secondo lo. spirito], si legge in Serm., 4, 9, e anche più chiaramente (Cantra Faustinum, 4, 2):
Temporalium quidem rerum promissiones Testamento Veteri contineri, et ideo Vetus Testarnentum appellaci nemo nostrum ambigit; et quod aeternae vitae promissio regnumque coelorurn ad Novum pertinet Testamentum: sed in illis ternporalibus figuras fuisse futurorum quae implerenrur in nobis, in quos finis saeculorum obvenit, non suspicio mea, sed apostolicus intellectus est, dicente Paulo, cum de talibus loqueretur: Haec autem... (segue I Cor., 10, 6 e 11).
[Non c'è nessun dubbio per noi che l'Antico Testamento contenga promesse di cose temporali e che perciò si chiami Antico Testamento e che la promessa della vita eterna e il regno dei cieli appartenga al Nuovo Testamento; ma. che nelle cose temporali vi fossero figure di avvenimenti futuri di cui saremmo stati l'adempimento noi, destinati ad andare incontro alla fine del mondo, non è mia arbitraria opinione, ma l'interpretazione degli apostoli, come dice Paolo, a proposito di queste cose: tutto ciò...].
Benché qui l'adempimento finale sia considerato immediatamente prossimo, è tuttavia chiaro che si tratta di due promesse, una apparentemente temporale, celata nell'Antico Testamento, ed una esplicitamente sovraternporale nel Vangelo. In tal modo la dottrina del quadruplice significato delle Scritture riceve un carattere molto più accentuatamente realistico e storicamente concreto, in quanto tre dei quattro significati acquistano un senso concretamente storico, e sono tra loro collegati, mentre soltanto uno resta puramente morale-allegorico, come spiega Agostino nello. scritto De gen. ad litt., 1, 1: "In libris autem omnibus sanctis intueri oportet, quae ibi aeterna intimentur (fine del mondo e vita eterna, senso analogico), quae facta narrentur (senso storico-letterale), quae futura praenuntientur (senso figurale strettamente inteso, nell'Antico Testamento la profezia reale della venuta di Cristo), quae agenda praecipiantur vel moneantur (senso morale)"; [In tutti i libri sacri bisogna prestare attenzione a ciò che in essi è legato alla vita eterna, a ciò che i fatti narrano, a ciò che annuncia avvenimenti futuri, agli ordini e ai consigli che si possono ricavare circa le nostre azioni].
Sebbene egli respinga lo spiritualismo astrattamente allegorico e tutta la sua interpretazione dell'Antico Testamento sia desunta dalla sua concreta storicità, Agostino possiede tuttavia un'idealità che trasferisce l'avvenimento concreto, per quanto esso sia interamente mantenuto, a1 di fuori del tempo, in quanto "figura," e nella prospettiva della sovratemporalità e dell'eternità. Queste idee erano implicite nell'oggetto dell'incarnazione del Verbo, erano suggerite dall'interpretazione figurale della storia, e si manifestarono molto presto; quando per esempio Tertulliano dice (Adv. Marc; 3, 5) che in Isaia, 50, 6 "dorsum meum posui in flagella" [affidai il mio dorso alle percosse] (Vulgata: "corpus meum dedi percutientibus") il futuro è rappresentato come già avvenuto e il passato è rappresentato in senso figurale, egli aggiunge che in Dio non c'è alcuna "differentia ternporis." Ma non pare che altri, fra i precursori e i contemporanei, abbiano sviluppato questa idea così profondamente e completamente come Agostino. Il contrasto che qui Tertulliano avverte soltanto a causa della forma di perfetto dell'affermazione è sottolineato più volte e a fondo da Agostino; per esempio De civ., 17; 8: "Scriptura Sancta etiam de rebus gestis prophetaas quodammodo in eo figuram delineai: futurorum"; [la Sacra Scrittura anche nelle profezie di cose avvenute delinea in certo modo una figura di cose future]; oppure, a proposito di una discrepanza fra il Salmo 113 In exitu e la narrazione corrispondente dell'Esodo (Enarr. in Psalm., 113, 1):
ne arbitremini nobis narrari praeterita, sed potius futura praedici (...) ut id, quod in fine saeculorum manifestandum reservabatur, figuris rerum atque verborum praecurrentibus nuntiaretur.
[non crediate che noi narriamo cose passate, noi prediciamo il futuro... affinché ciò che si sarebbe dovuto rivelare soltanto alla fine dei secoli, venga annunciato in figure di eventi e di parole a coloro che precorsero gli eventi.]
E lo spiritò in cui viene concepita l'omnitemporalità delle figure appare illuminato meglio che. altrove in un passo che pure non si riferisce espressamente all'interpretazione figurale:
Quid enim est praescientia nisi scientia futurorum? Quid autern futurum est Dea qui omnia supergreditur tempora? Si enim scientia Dei res ipsas habet, non sunt ei futurae sed praesentes; et per hoc non praescientia, sed tantum scientia dici potest (De div. quaest, ad simpl., II qu. 2 n. 2).
[Che altro vuol dire prescienza se non conoscenza del futuro? Ma cosa è mai il futuro per Dio che trascende ogni tempo? Se la scienza divina contiene queste cose, esse sono per lui il presente non il futuro, perciò non si può parlare di prescienza, ma di scienza, nel suo caso.]
Per le missioni del IV e del V secolo l'interpretazione figurale aveva grande utilità pratica; essa è continuamente impiegata nella predica e nell'insegnamento, anche se spesso è mescolata con interpretazioni puramente allegoriche o morali. Un manuale scolastico dell'esegesi figurale e morale sono le Formulae spiritalis intelligentiae del vescovo Eucherio di Lione, formatosi a Lerins (inizi del V secolo) ; al VI secolo risalgono gli Instituta regularia divinar: legis del quaestor sacri palatii Junilius (P.L. 68), versioni di uno scritto greco influenzato dalla scuola di Antiochia; nel primo capitolo si trova il seguente principio:
Veteris Testamenti intentio est Novum figuris praenuntiationibusque monstrare; Novi autern ad aeternae beatitudinis gloriam humanas mentes accendere.
[L'intento dell'Antico Testamento è di tendere verso il Nuovo Testamento per mezzo di figure ed anticipazioni; quello del Nuovo Testamento di infiammare le menti degli uomini alla gloria della beatitudine eterna.]
Un esempio pratico che mostra come l'ammaestramento figurale venisse impiegato nei confronti dei nuovi convertiti è dato per esempio dalla spiegazione del sacrificio pasquale nel secondo sermone del vescovo Gaudenzio da Brescia (P. 20, 855 A), che contiene un'espressione forse inconsapevole del prospettivismo temporale di queste interpretazioni, quando è detto che la "figura" (anteriore nel tempo) è non "veritas," ma "imitatio veritatis." Spesso si trovano anche interpretazioni figurali curiose e ricercate, e dappertutto s'immischia l'allegoria puramente astratta e morale; ma la concezione fondamentale, che l'Antico Testamento è una prefigurazione storicamente concreta del Vangelo, così nel suo insieme come nei principali esempi singoli, è diventata solida tradizione.
Torniamo qui nuovamente alla ricerca semantica e vediamo come "figura" sia arrivata al nuovo significato nei Padri della Chiesa. I primi scritti della letteratura antico-cristiana sono in greco, e la parola che in essi indica la "profezia reale" - per esempio nell'epistola di Barnaba – è τύπος. Ciò porta a supporre - e forse il lettore ci avrà già pensato leggendo alcune delle nostre citazioni, per esempio i passi di Lattanzio - che "figura" arrivasse al nuovo contenuto direttamente dal· suo significato generale di "formazione," di "figura" in senso largo, e in realtà l'ipotesi è suggerita proprio dall'uso linguistico dei più antichi scrittori ecclesiastici latini: quando per esempio si trova spesso che persone o fatti dell'Antico Testamento "gerunt" o "gestant" "figuram Christi" ("Ecclesiae," "baptismi," ecc.) [portano in loro una figura di Cristo, della Chiesa, del battesimo, ecc.], che il popolo ebreo "figuram nostram portat," [è figura di noi], che la Sacra Scrittura "figuram delinear futurerum" [delinea una figura di avvenimenti futuri], in questi casi la parola può · essere tradotta con "figura" presa in senso generale. Ma intanto interviene anche l'idea dello σχήμα, della perifrasi metaforico-retorica, del velame e della trasformazione e anche dell'inganno, secondo l'elaborazione della poesia e della retorica precristiana. Il contrasto fra "figura" e "veritas," l'interpretare ("exponere") e rivelare ("aperire,” "revelare ") le figure, l'identificazione di "figura" e "umbra," di "sub figura" e "sub umbra" (per esempio "ciborum" o più in generale "legis," sotto la cui "figura" è celato qualche cosa di diverso, di futuro e di vero): tutto ciò rivela nel nuovo concetto di "figura," che è una "praefigurano," il sopravvivere dell'uso retorico-metaforico, con la sola differenza che dal mondo meramente nominalistico delle scuole retoriche e dal mito semigiocoso di Ovidio esso è passato nella sfera reale e in pari tempo spirituale, ossia esprime qualche cosa di autentico, di significativo e di esistenziale. Anche la contrapposizione di figure della parola e figure del contenuto, che abbiamo visto in Quintiliano, era stata ripresa nella distinzione fra "figurae verborum," parole profetiche, similitudini ecc., e "figurae rerum," profezie reali vere e proprie. Nello stesso tempo l'oscillazione della "potestas verbi" nel senso nuovo si è spinta molto oltre. Troviamo "figura" come "significato più profondo," per esempio in Sedulio ("ista res habet egregiam figurarn," Carm. Pasch., 5, 248 sgg. [questo fatto ha un significato straordinario]) e in Lattanzio (v. sopra p. 194); come "inganno" o "figura illusoria" (Filastrius, 61, 4 "sub figura confessionis christianae," [dando essi a credere di essere cristiani,] o Sulpicio Severo, De vita b. Martini, 21, 1, del diavolo, "sive se in diversas figuras spiritalis nequiriae transtulisset" [sia che si fosse trasformato in diverse figure di malvagità spirituale], o Leone il Grande, Epist.; 98, 3, · PL 54, 955 A, "lupum pastorali pelle nudantes qua prius quoque figura tantummodo convincebatur obtectus" [strappando al lupo la pelle del pastore del quale aveva assunto or ora la figura proteggendosi sotto di essa in modo convincente]); come "discorso vuoto" o "ingannatore" ("per tot figuras ludimur," Prudenzio, Peristeph., 2, 315, [ci prendono in giro con tutte queste figure] o Rufino, Apol., adv. Hier., 2, 22, "qualibus (Ambrosium) figuris laceret" [figure con cui laceri Ambrogio]); anche come "discorso" o "parola" semplicemente ("te ... incauta violare figura" Paolino di Nola, Carm., 11, 12 [temevo di offenderti con un incauto discorso]); e infine anche in variazioni del nuovo significato che non consentono una traduzione adeguata: nel carme De actibus apostolorum del suddiacono Aratore, del VI secolo, PL 68, si trovano i versi "tamen illa figura, qua sine nulla vetus" (cioè Veteris Testamenti) "subsistit littera, hac melius novitate manet" (2, 361) [tuttavia quella figura senza la quale non una sola lettera dell'Antico Testamento esiste si adatta meglio ora alla novità del Nuovo Testamento]; e all'incirca allo stesso tempo risale un passo dei carmi del vescovo Avito di Vienne (Carm., 5, 254, MG Auct. ant. VI 2), dove si parla del giudizio universale: come Dio nell'uccisione dei primogeniti in Egitto ha risparmiato le case segnate di sangue, così egli voglia poi anche riconoscere i credenti dal segno dell'eucaristia e risparmiarli: "Tu cognosce tuam servanda in plebe figuram" (In quel popolo che deve essere salvato riconosci la tua figura]. Infine bisogna anche accennare che accanto alla contrapposizione fra "figura," da un lato, e adempimento, verità, dall'altro, appare anche un'altra contrapposizione, quella fra "figura" e "historia "; "historia," o anche "littera," è il senso letterale ovvero il fatto narrato; "figura" è lo stesso senso letterale o il fatto riferito all'adempimento futuro in esso celato, e anche questo è "veritas," cosi che qui "figura" appare dunque come termine intermedio fra "Iittera-historia" e "veritas." Qui "figura" è all'incirca equivalente a "spiritus" o “intellectus spiritalis,” il quale è talvolta indicato anche con "figuralitas," come nel seguente passo della C ontinentla V ergiliana di Fulgenzio (90, 1): "sub figurali tate historiae plenum hominis monstravimus statum" [sotto la figura della storia abbiamo mostrato la piena condizione dell'uomo]. Naturalmente anche "figura" e "historia" possono spesso stare l'una per l'altra ("ab historia in mysterium surgere" [dalla storia sollevarsi al mistero] dice Gregorio Magno, In Ezech., 1, 6, 3) e più tardi sia "historiare" che "figurare" significano "rappresentare figurativamente," "illustrare"; ma il primo verbo è usato soltanto nel senso letterale, l'altro anche in senso traslato per "interpretare allegoricamente."
"Figura" non è la sola parola usata in latino per la profezia reale; molto spesso si trovano le espressioni riprese dal greco "allegoria" e in particolare "typus"; "allegoria" indica in generale ogni significato più profondo, non soltanto la profezia reale. Tertulliano usa "allegoria" quasi come equivalente di "figura," ma molto più di rado, e in Arnobio (Adv. nati on es, 5, 32) si trovano contrapposte "historia" e "allegoria"; "allegoria" era confortata anche da Gal., 4, 24. Eppure "allegoria" non è sempre adoperata come equivalente di "figura," perché non abbraccia il contenuto di "figura" in senso proprio; non sarebbe possibile scrivere "Adam est allegoria Christi." Invece "typus" resta in secondo piano rispetto a "figura" soltanto perché è parola straniera; ciò che d'altra parte è molto importante perché quanti parlavano latino (o più tardi una lingua romanza) sentivano in "figura," più o meno consapevolmente, tutti i concetti che erano racchiusi nell'evoluzione del suo significato, mentre "typus" restava un segno di derivazione estranea e non vitale. Per quanto poi riguarda le parole latine impiegate per "profezia reale" accanto a "figura" o in sua sostituzione, o che potevano adattarsi a quest'uso, esse sono le seguenti: "ambages," "effigies," "exemplum," "imago," "similitudo," "species" e "umbra." "Ambages" sta a sé perché è un peggiorativo; "effigies" è troppo ristretta, in quanto "copia," e a quanto pare dimostrò scarsa forza di espansione, anche rispetto a "imago": le altre rendono in vario modo il significato di "profezia reale," ma non in modo esauriente, Sono tutte usate saltuariamente, più spesso "imago" e "umbra." "Imagines," nell'uso assoluto senza genitivo, si chiamavano nelle case romane i ritratti degli antenati; nell'uso cristiano il termine fu applicato ai ritratti dei santi, cosi che l'evoluzione semantica di "imago" prese una direzione diversa; tuttavia l'uomo, secondo la Vulgata, era creato "ad imaginem Dei," e pertanto "imago" continuò per lungo tempo a far concorrenza a "figura," sia pure in quei soli passi delle epistole apostoliche (Col., 2, 17; Ebr., 8, 5 e 10, 1); ricorre molto spesso, ma si tratta piuttosto di un'accezione metaforica del concetto di profezia reale che di questo concetto stesso. In ogni caso nessuna di queste parole abbracciava così completamente come "figura" gli elementi del concetto: l'aspetto creativo-formativo, il mutamento nell'essere che resta se stesso, il gioco fra copia e originale; e non sorprende quindi che il termine di uso più frequente, più generale e più pregnante fosse "figura."
Nell'ultimo capitolo ci siamo allontanati più volte, senza volerlo, dallo studio prettamente semantico; ciò perché lo stesso contenuto che la parola esprime negli scrittori patristici ha bisogno di essere spiegato. Questo contenuto è tale che si pone naturalmente il compito di esaminarne meglio l'origine, di distinguerlo da contenuti affini e di esaminare la questione del suo significato storico e della sua efficacia storica.
Per giustificare l'interpretazione figurale i Padri della Chiesa si richiamano spesso ad alcuni passi della primitiva tradizione cristiana, derivanti per lo più dalle epistole di S. Paolo. Il più importante è I Cor., 10, specialmente v. 6 e 11, dove gli ebrei del deserto sono definiti τύποι ήμών [figure di noi stessi], e dove della loro sorte è detto: ταύτα δέ τυπιχώς συνέβαινεν έχείνοις [ queste cose accaddero loro come figure]; accanto a questo si trova spesso citato anche Gal., 4, 21-31, dove Paolo spiega ai Galati da poco battezzati, che per influsso ebraico si vogliono far circoncidere, la differenza fra Legge e Grazia, fra Antico e Nuovo Patto, fra servitù e libertà, sulla base dell'opposizione fra Agar-Ismaele e Sara-Isacco, interpretando come profezia reale il racconto della Genesi in rapporto con Isaia 54, 1; o anche Col., 2, 16 sgg., dove si tratta delle vivande rituali e dei giorni festivi degli ebrei, dei quali è detto che sono soltanto l'ombra di cose che dovevano avvenire, ma il corpo è Cristo; Rom., 5, 12 sgg. e I Cor; 15, 21, dove Adamo è detto τύπος del Cristo futuro, entrambe le volte con riferimento all'opposizione fra Legge e Grazia; II Cor.; 3, 14, dove si parla del velo, χάλυμνα, che è steso sulla Scrittura quando la leggono gli ebrei; e infine anche Ebr., 9, 11 sgg., dove il sacrificio del sangue di Cristo è presentato come adempimento dell'antico sacrificio del Sommo Sacerdote.
Come si vede, sono quasi tutti passi di S. Paolo. Che l'interpretazione figurale avesse una funzione importante fin dal principio, nella missione, si può desume-re anche da vari passi degli Atti degli Apostoli (per esempio 8, 32). Il procedimento più naturale ed esauriente sarebbe di intendere che i nuovi ebrei cristiani avessero ricercato nelle Sacre scritture ebraiche profezie di Gesù e conferme delle sue opere e che avessero lasciato nella tradizione le interpretazioni così trovate; tanto più che per essi era corrente l'idea che il Messia sarebbe stato un secondo Mosè, che il riscatto da lui operato sarebbe stato un secondo esodo dall'Egitto, nel quale si sarebbero ripetuti i miracoli del primo. Ma l'esame dei passi sopra citati, soprattutto se visti nell'insieme dell'opera di Paolo, indica che in lui quelle concezioni ebraiche erano connesse con uno spirito assolutamente opposto al cristianesimo ebraico, e dal quale essi traggono proprio il loro significato peculiare. I passi delle epistole apostoliche che contengono interpretazioni figurali sono scritti tutti nel vivo della lotta per la missione pagana, spesso addirittura con un fine difensivo e polemico contro gli attacchi degli ebrei cristiani e le loro persecuzioni; ed hanno_ quasi tutti lo scopo di spogliare l'Antico Testamento del suo carattere normativo e di concepirlo come mera ombra del futuro. Tutta l'interpretazione figurale verte sul fondamentale tema paolino dell'opposizione fra Legge e Grazia, fra la giustificazione attraverso le opere e la fede: l'antica legge è superata e accantonata, essa è ombra e τύπος; la sua fedeltà alla legge è diventata inutile e rovinosa da quando Cristo col suo sacrificio ha portato l'adempimento e il riscatto; non le opere conformi alla legge giustificano il cristiano, ma la fede; e nel suo senso ebraico e giudaistico della legge l'Antico Testamento è la lettera che uccide, mentre i veri cristiani servono il Nuovo Patto, lo spirito che rende vivi; questa era la dottrina di Paolo, e il fariseo di un tempo, lo scolaro di Gamaliele, interroga con insistenza proprio l'Antico Testamento per trovarvi sostegno per le sue idee. Per lui esso si trasforma tutto da un libro di Legge e da una storia di Israele in una sola grande promessa e nella preistoria di Cristo, dove nulla ha un significato definitivo ma tutto è un'anticipazione che ora si è adempiuta; dove tutto è "scritto per noi" (I Cor., 9, 10, cfr. Rom., 15, 4), e .dove appunto i fatti, i sacramenti e le leggi più importanti e più sacri sono anticipazioni e figurazioni provvisorie di Cristo e del Vangelo: "et enim Pascha nostrum immolatus est Christus" (I Cor., 5, 7) [E anche Cristo, nostra Pasqua, fu immolato].
In questo modo il suo spirito, che congiungeva esemplarmente le forze pratico-politiche della fede con quelle poeticamente creatrici, trasformava la concezione ebraica della resurrezione di Mosè nel Messia in un sistema di profezia reale in cui il risorto adempie e supera in pari tempo l'opera del precursore; e così l'Antico Testamento guadagnava in nuova attualità drammatico-concreta ciò che perdeva di forza di legge e di peculiarità storico-popolare. Paolo non fece un'interpretazione continuata dell'Antico Testamento, ma i pochi -passi sull'esodo dall'Egitto, su Adamo e Cristo, su Agar e Sara ecc. rivelano a sufficienza quale fosse la sua concezione. Le successive lotte attorno all'Antico Testamento provvidero affinché la sua concezione e la sua interpretazione non andassero perdute; è vero che l'influsso degli ebrei cristiani fedeli alla legge diminuì rapidamente, ma in compenso si rafforzò l'opposizione degli avversari che volevano mettere del tutto da parte l'Antico Testamento o darne soltanto un'interpretazione astrattamente allegorica, in un modo che avrebbe privato il cristianesimo del contesto della storia universale provvidenziale, della concretezza intimamente reale e quindi anche, in parte, della sua grande e generale forza di convinzione. In 'questa lotta contro quanti spregiavano o svuotavano l'Antico Testamento il metodo della profezia reale si dimostrò nuovamente efficace e si affermò proprio nel senso della promessa cristiana.
A questo proposito va ricordato anche un altro punto, che nella successiva; larga diffusione del cristianesimo acquistò importanza soprattutto nella parte occidentale e settentrionale dei paesi mediterranei. Attraverso l'interpretazione figurale l'Antico Testamento si trasformò, come si è detto, da un libro di legge e da uria storia del popolo d'Israele in una serie di figure di Cristo e della redenzione, quale la troviamo più tardi nella processione dei profeti del teatro medioevale o nelle raffigurazioni cicliche della plastica medioevale nell'Europa occidentale e centrale. In questa forma e in questo contesto, dal quale erano scomparsi la storia nazionale e il carattere etnico ebraici, l'Antico Testamento poteva essere accolto, per esempio, dai popoli celtici e germanici; esso era una parte componente dell'universale religione della redenzione, e un pezzo necessario della visione della storia universale, tanto grandiosa quanto unitaria, che ad essi veniva trasmessa insieme con questa religione. Nella sua forma originaria, come libro di leggi e storia di un popolo così estraneo e lontano, esso sarebbe rimasto inaccessibile per loro. Questa, senza dubbio, è una constatazione a posteriori, che certo non si presentava ai primi apostoli fra i pagani e ai primi Padri della Chiesa. Essi non dovettero neppure affrontare tanto presto il problema perché i primi pagani convertiti vivevano fra gli ebrei della diaspora e, grazie al considerevole influsso esercitato da questi ultimi e alla grande recettività della popolazione ellenistica del tempo per le esperienze religiose, avevano avuto una lunga familiarità con la storia e la religione degli ebrei. Ma quella osservazione non è meno importante per il fatto che poteva essere fatta solo retrospettivamente. L'Antico Testamento, come storia ebraica e legge ebraica, ha preso vita molto tardi nel cristianesimo europeo, solo dopo la Riforma; dapprima esso arrivò ai popoli convertiti come "figura rerum" e profezia reale, come preistoria di Cristo, e trasmise loro in tal modo un concetto fondamentale della storia universale che aveva un'alta forza di penetrazione appunto perché era così strettamente legato con la fede e che rimase l'unico in vigore per quasi un millennio. Ma a cagione di ciò il tipo di concezione contenuto nell'interpretazione figurale doveva diventare uno dei principali elementi strutturali della sua immagine della realtà e della storia, e anzi della sua concretezza. Questa considerazione ci porta ad affrontare il secondo dei compiti enunciati all'inizio del capitolo, cioè a definire più esattamente l'interpretazione figurale e a distinguerla da altre forme d'interpretazione affini.
L'interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l'altro, mentre l'altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi, come si è già sottolineato più volte, nella corrente che è la vita storica, mentre solo l'intelligenza, l’"intellectus spiritualis," è un atto spirituale; un atto spirituale che considerando ciascuno dei due poli ha per oggetto il materiale dato o sperato dell'accadere passato, presente o futuro, non concetti o astrazioni; questi sono affatto secondari perché anche la promessa e l'adempimento sono fatti reali e storici che in parte sono accaduti nell'incarnazione del Verbo, in parte accadranno nel suo ritorno. È vero che nelle concezioni dell'adempimento finale intervengono anche elementi puramente spirituali, perché "il mio regno non è di questo mondo"; ma sarà pur sempre un regno reale, non una costruzione astratta e sovrasensibile; questo mondo perirà soltanto come "figura," non perirà la sua "natura" (cfr. sopra, pp. 196-97), e la carne risorgerà. L'interpretazione figurale pone dunque una cosa per l'altra. in quanto l'una rappresenta e significa l'altra, e in questo senso essa fa parte delle forme allegoriche nell'accezione piri larga. Ma essa è nettamente distinta dalla maggior parte delle altre forme allegoriche a noi note in virtù della pari storicità tanto della cosa significante quanto di quella significata. Nella loro grande maggioranza le allegorie che si trovano nella letteratura Q nelle arti plastiche rappresentano per esempio una virtù (come la sapienza) o una passione (invidia) o un'istituzione (diritto), o in ogni caso la sintesi più generale di un fenomeno storico (la pace, la patria): mai la piena storicità di un fatto determinato. Sono di questo genere le allegorie della tradizione tardo-antica e medievale che dalla Psicomachia di Prudenzio, per esempio, va fino ad Alano di Lilla e al Roman de la Rose. Allo stesso modo, o se si vuole all'inverso, si svolgono le interpretazioni allegoriche di fatti storici, che di solito vengono spiegati come occulte rappresentazioni di dottrine filosofiche. Era di questo tipo il metodo allegorico con cui l'interpretazione figurale restò in continua concorrenza nell'esegesi della Bibbia: il metodo di Filone e della scuola catechetica di Alessandria da lui influenzata. Esso si fonda su una tradizione che allora era già molto antica e largamente diffusa. Da 'gran tempo varie scuole filosofiche si erano impadronite con fini illuministici dei miti greci, in particolare di quelli omerici ed esiodei, e li avevano interpretati come rappresentazioni dissimulate dei propri sistemi fisico-cosmologici; più tardi si aggiunsero altri influssi diversi, non 'più solamente illuministici, ma anche etici, mistici e metafisici; tutte le numerose sette e dottrine segrete della tarda antichità coltivavano l'interpretazione allegorica di miti, segni e testi, facendo passare sempre più in secondo piano il lato fisico e cosmologico rispetto a quello morale e mistico. Lo stesso Filone, che secondo la tradizione costruì la sua filosofia come commento alla Sacra Scrittura, ne interpretava· i vari fatti come le diverse fasi dello stato dell'anima e del suo rapporto col mondo intelligibile; nelle sorti di Israele, nel loro complesso, come in quelle delle singole figure egli vedeva contenuto allegoricamente il movimento dell'anima colpevole, bisognosa di salvezza, nella caduta, nella speranza e nella redenzione finale. Come si vede, questa è un'interpretazione puramente spirituale ed extrastorica. Nella tarda antichità essa ebbe grandissima influenza, se non altro perché a sua volta essa era soltanto la forma più elevata di un grandioso movimento spiritualistico che aveva il suo centro ad Alessandria; non soltanto i testi e i fatti, ma anche i fenomeni immediati del mondo naturale, come le stelle, gli animali, le pietre, venivano spogliati a quel tempo della loro realtà sensibile e intesi allegoricamente, talvolta anche un po’ figuralmente. Il metodo spiritualistico-morale-allegorico fu ripreso dalla scuola catechetica di Alessandria, trovò un notevole rappresentante in Origene e fu continuato nel medioevo, come è noto, accanto a quello figurale. Eppure esso è nettamente distinto da quest'ultimo, benché ci fossero varie forme miste. Anch'esso trasforma l'Antico Testamento; anche in esso la legge e la storia d'Israele perdono la loro impronta nazionale e popolare; ma al suo posto subentra una costruzione dottrinale mistica o etica e il testo viene molto piri privato della sua concretezza e svuotato storicamente. Questo tipo d'interpretazione conservò a lungo le sue posizioni e nella dottrina dei quattro significati delle Scritture determinò in tutto e per tutto uno dei quattro sensi, quello morale, e spesso anche un altro, quello analogico. Eppure io credo, senza tuttavia poterlo dimostrare rigorosamente, che da solo, ossia senza l'appoggio dell'interpretazione figurale, esso non avrebbe acquistato influenza sui popoli convertiti. La sua efficacia contiene sempre qualche cosa di erudito e di mediato, e anche di astruso, quando non interviene qualche mistico notevole a infondergli vigore. Per la sua origine e per la sua natura esso è ristretto a una cerchia relativamente piccola cli persone colte e iniziate, le sole che vi possono trovare soddisfazione e nutrimento. La profezia reale figurale invece, che aveva tratto per necessità il suo valore attuale da una situazione storica determinata, dal distacco del' cristianesimo dal giudaismo e dalle condizioni date della missione fra i pagani, aveva una funzione storica: essa si conquistava la fantasia e gli intimi sentimenti dei popoli grazie al potere di penetrazione che è insito in un'interpretazione unitaria e finalistica della storia universale e dell'ordine provvidenziale del mondo. Col suo successo essa apriva la strada anche a forme meno concrete di allegoresi, come quella alessandrina. Ma per quanto questo e altri metodi esegetici spiritualistici siano forse più antichi di quello figurale degli apostoli e dei Padri della Chiesa, essi sono tuttavia innegabilmente forme tarde, mentre l'interpretazione figurale con la sua viva storicità, pur senza essere certo alcunché di primitivo e di originario, rappresentava sempre un nuovo inizio e una nuova nascita.
Oltre alla forma allegorica testé considerata ci sono altri modi di rappresentare una cosa per mezzo di un'altra, che potrebbero essere paragonati alla profezia figurale: le cosiddette forme simboliche o mitiche che sono spesso considerate tipiche delle civiltà primitive e che comunque s'incontrano spesso in queste civiltà; su di esse sono venuti alla luce molti materiali, negli ultimi tempi, e il lavoro cli cernita e di valutazione è ancora in fase cosi arretrata, che se ne deve parlare con cautela. L'aspetto caratteristico di queste forme, che furono riconosciute e descritte per la prima volta dal Vico, è che l'oggetto significato deve essere sempre qualche cosa di estremamente importante e sacro per gli interessati, determinante per la loro vita t il loro pensiero, e che esso non è soltanto espresso e per così dire imitato nel segno, nel simbolo, ma è ritenuto presente e contenuto in esso, cosi che il simbolo stesso può rappresentare l'oggetto agendo e soffrendo; un'influenza esercitata su di esso è considerata come un'influenza sull'oggetto simboleggiato e in questa sua qualità gli sono attribuiti poteri magici. Queste forme simboliche o mitiche esistevano ancora nei paesi mediterranei della tarda antichità, ma per lo più avevano perduto la loro forza magica e si erano attenuate in allegorie; proprio come i resti che ne sopravvivono nelle nostre civiltà moderne, per esempio nei simboli giuridici, nell'araldica e nei segni della sovranità; è vero, d'altronde, che nella tarda antichità come anche oggi nuovi contenuti universalmente validi si creano sempre nuovi simboli con forza magico-realistica. Le forme simboliche o mitiche hanno molti punti di contatto con l'interpretazione figurale; al pari di questa esse pretendono di interpretare e ordinare la vita nel suo complesso, e sono pensabili soltanto nell'ambito di · sfere religiose o affini; ma appaiono subito evidenti anche le differenze. Nel simbolo è necessariamente implicata una forza magica, nella "figura" no; questa a sua volta deve essere sempre storica, il simbolo no. Ovviamente anche il cristianesimo ha simboli magici; ma la "figura" come tale non appartiene ad essi. In realtà le due forme sono quanto mai diverse in quanto la profezia reale si riporta all'interpretazione storica, ed è essenzialmente interpretazione di un testo, mentre il simbolo è un'interpretazione immediata della vita e, all'origine, soprattutto della natura. In questa contrapposizione l'interpretazione figurale è quindi un prodotto di civiltà tarde, molto più mediato, complicato e carico di storia che il simbolo o il mito; anzi da questo punto di vista essa contiene qualche cosa di antichissimo, giacché occorreva che un'alta civiltà arrivasse alla sua fase culminante e che già sotto certi aspetti fosse superata per poter produrre un fenomeno come l'interpretazione figurale.
Cosi delimitata, rispetto all'allegoria da un lato e rispetto alle forme mitico-simboliche dall'altro, la profezia figurale si presenta sotto un duplice aspetto: nuova e giovanile in quanto interpretazione - sicura nelle sue finalità, creatrice e concreta - della storia universale; antichissima in quanto tarda esegesi di un testo venerando, cresciuto nei secoli e carico di storia. L'aspetto vivace e giovanile le dette la forza di convinzione quasi inaudita con cui essa conquistò non soltanto le tarde civiltà del Mediterraneo, ma anche i popoli relativamente giovani dell'occidente e del nord; quello primitivo trasmise a questi popoli e alla loro comprensione storica un elemento singolarmente recondito che ora noi cerchiamo di spiegarci più a fondo. La profezia figurale contiene l'interpretazione di un processo terreno per mezzo di un altro; il primo significa il secondo, e questo adempie il primo. Entrambi restano accadimenti interni alla storia; ma in questa concezione contengono entrambi qualche cosa di provvisorio. e di incompiuto; essi rimandano l'uno all'altro, e tutti e due rimandano a un futuro che è ancora da venire e che sarà il processo vero e proprio, l'accadimento pieno e reale e definitivo. Ciò non vale soltanto per la prefigurazione dell'Antico Testamento, che annuncia l'Incarnazione e la proclamazione del Vangelo, ma anche per queste, che infatti non sono ancora l'adempimento finale e a loro volta sono la promessa della fine dei tempi e del vero regno di Dio. Così l'avvenimento, in tutta la sua realtà concreta, resta pur sempre una similitudine, occulta e bisognosa di interpretazione, sebbene la direzione generale dell'interpretazione sia data dalla fede. In questo modo ogni avvenimento terreno non consegue la portata praticamente definitiva che è propria tanto della concezione ingenua quanto di quella modernamente scientifica del fatto compiuto: esso resta aperto e dubbio, si riferisce a qualche cosa che è ancora celato, e la posizione dell'uomo vivente nei suoi riguardi è quella della prova, della speranza, della fede e dell'attesa. La provvisorietà degli avvenimenti nella concezione figurale è anche radicalmente diversa da quella implicita nella concezione moderna dell'evoluzione storica: mentre in questa la provvisorietà degli avvenimenti è oggetto di un'interpretazione progressiva e graduale sulla linea orizzontale, mai interrotta, degli avvenimenti successivi, in quella l'interpretazione è sempre oggetto d'indagine dall'alto, verticalmente, e i fatti non sono considerati nel loro nesso, ininterrotto ma staccati l'uno dall'altro, visti isolatamente, in considerazione di un terzo fatto promesso e ancora avvenire. E mentre nella concezione moderna dello sviluppo il fatto è sempre autonomamente assicurato, ma l'interpretazione è decisamente incompleta, nell'interpretazione figurale il fatto resta sottoposto a un'interpretazione che nel complesso è già assicurata: essa si orienta secondo un modello del fatto che è riservato al futuro e che finora è stato soltanto promesso. Questa formulazione, che ricorda idee platonizzanti, del modello situato nel futuro e imitato nelle figure - si pensi all'espressione "imitati o veritatis," cfr. sopra, p. 202 - ci porta ancora oltre. Ogni modello futuro, benché ancora incompiuto come fatto, è infatti già completamente adempiuto in Dio, e lo è stato da sempre nella sua provvidenza. Le figure, in cui Dio lo ha celato, e l'Incarnazione, nelle quali egli ha rivelato il suo intendimento, sono quindi profezie di qualche cosa che esiste in ogni tempo e che soltanto agli uomini resta ancora celato finché verrà il giorno che essi vedranno spiritualmente e fisicamente, "revelata facie," il Redentore. Le figure dunque non sono soltanto provvisorie; in pari tempo esse sono anche la forma provvisoria di alcunché di eterno e sovratemporale; non si riferiscono soltanto al futuro pratico ma anche, da sempre, all'eternità e sovratemporalità; si riferiscono a qualche cosa che va interpretato, che si adempirà nel futuro pratico ma che è sempre già adempiuto nella provvidenza divina, nella quale non c'è differenza di tempi; questo eterno è già figurato in esse, ed esse sono dunque tanto realtà provvisoria e frammentaria quanto realtà sovratemporale dissimulata. Ciò appare soprattutto evidente nel sacramento del sacrificio, nella Cena, "pascha nostrum," che è "figura Christi." Questo sacramento, che è tanto figura come simbolo, e che era esistito storicamente da lungo tempo, fin dalla sua prima istituzione nell'Antico Testamento, mostra nella massima purezza l'aspetto concretamente presente, provvisorio e recondito come pure quello eterno e sovratemporale che è insito nelle figure.
L'interpretazione figurale o, perché la definizione sia più completa, la concezione figurale degli avvenimenti ebbe una larga diffusione e una profonda influenza fino al medioevo e oltre. La cosa non è sfuggita agli studiosi; non soltanto opere teologiche che trattano della storia dell'ermeneutica, ma anche le ricerche di storia dell'arte e della letteratura si sono imbattute in rappresentazioni figurali e le hanno discusse. Ciò vale soprattutto, naturalmente, per la storia dell’arte nel campo dell'iconografia medievale e per la storia della letteratura nel campo del dramma religioso medievale. Ma a quanto pare non si è colto il lato peculiare del problema; la struttura figurale o tipologica o real-profetica non viene nettamente distinta da altre forme, allegoriche o simboliche, di rappresentazione. Uno spunto nel: senso giusto si trova nell'istruttiva dissertazione di T. C. Goode su Gonzalo de Berceo, EZ. Sacrificio de la Misa (Washington, The Catholic University of America, 1933); e una visione chiara dei fatti, ma senza riferimenti alle questioni di fondo, offre H. Pflaum che già nel suo scritto sulla disputa religiosa nella poesia europea del medioevo [Die religiose Disputation in der europdischen Dichtung des Mittelalters] (Genève-Firenze 1935) si era trovato di fronte al problema figurale; recentemente (Romania, LXIII, 519 sgg.) egli ha correttamente interpretato· alcuni versi antico-francesi fraintesi dall'editore e ha restituito il testo sulla base della sua giusta comprensione di figure. Forse altri contributi mi sfuggono, ma certo una trattazione approfondita del problema non esiste: eppure essa mi sembra indispensabile per poter capire quella mescolanza di senso della realtà e di spiritualità, per noi così difficilmente accessibile, che caratterizza il medioevo europeo. L'interpretazione figurale restò operante nella maggior parte dei popoli europei fino al XVIII secolo; se ne trovano le tracce non solo in Bossuet, come è ovvio, ma ancora secoli più tardi negli scrittori religiosi che il Groethuysen cita nel suo libro sulla nascita dello spirito borghese in Francia. Una visione chiara della sua sostanza e quindi una chiara distinzione dalle forme affini ma diversamente strutturate renderebbe nel complesso più acuta e più profonda la comprensione di documenti tardo-antichi e medievali e servirebbe anche a risolvere difficoltà particolari. I temi che ricorrono così spesso sugli antichi sarcofaghi cristiani e nelle catacombe non saranno figure della resurrezione? Oppure, per citare un esempio dalla grande e importante opera del Mâle, la leggenda di Maria Egiziaca del museo di Tolosa, da lui descritta (op. cit., pp. 240 sgg.), non sarà una figura del popolo d'Israele che muove dall'Egitto, e non andrà pertanto interpretata nel senso che nel medioevo generalmente si dava del salmo In exitu Israel de Aegypto?
Ma le interpretazioni particolari non esauriscono il significato della concezione figurale. A nessuno studioso del medioevo può sfuggire che essa costituisce la base generale dell'interpretazione medioevale della storia, e che spesso essa interviene anche nell'intendimento della semplice realtà quotidiana. Tutto l'analogismo che penetra in ogni campo dell'attività spirituale del medioevo è strettissimamente collegato· con la struttura figurale: l'uomo stesso, come immagine di Dio, acquista nell'interpretazione della trinità, da Agostino, De trinitate, fino all'incirca a Tommaso, S. th: 1, 45, 7, il carattere di una "figura trinitatis." Non mi è del tutto chiaro fino a che punto le concezioni estetiche siano determinate figuralmente: ossia fino a che punto l'opera d'arte sia vista come "figura" di una realtà non ancora raggiunta e adempiuta. Nel medioevo la questione dell'imitazione artistica della natura suscitava poco interesse teorico; e tanto più dominava, in compenso, l'idea che l'artista, quasi figura di Dio creatore, attuasse un modello "vivente nel proprio spirito. È chiaro che queste sono idee di origine neoplatonica. Nei testi di cui attualmente dispongo - mancano le opere principali della letteratura specialistica - non trovo alcun dato decisivo per stabilire in che misura questo modello e l'opera d'arte che ne nasce siano figure di una realtà e verità che ha in Dio il suo adempimento. Ma voglio citare alcuni passi che mi trovo casualmente sottomano e che in qualche modo accennano in quella direzione. In un articolo sulle raffigurazioni dei capitelli dell'abbazia di Cluni (Deutsche Vierteljahrsschrift, 7, p. 264) L. Schrade cita una spiegazione di Remigio di Auxerre per la parola "imitari": "scilicet persequi, quia veram musicam non potest humana musica imitari" [cioè venir dietro, poiché la musica umana non può imitare la vera musica]. Al fondo di questa spiegazione c'è certamente l'idea che la pratica artistica è imitazione o umbratile raffigurazione di una realtà vera e anch'essa sensibile (la musica dei cori celesti). Nel Purgatorio Dante loda le opere d'arte create da Dio stesso, che rappresentano -esempi di virtù e di vizi, per la loro compiuta verità sensibile, di fronte alla quale l'arte umana e persino la natura impallidiscono (Purg., X e XII); la sua invocazione ad Apollo (Par., I) contiene i versi:
o divina virtù, se mi ti presti
Tanto che l'ombra del beato regno
Segnata nel mio capo io manifesti...
(vv. 22-24)
Qui la sua poesia è definita come un'"umbra" della verità impressa nel suo spirito, e la sua teoria dell'ispirazione contiene a volte espressioni che possono essere spiegate nello stesso senso. Tutti questi sono soltanto accenni: uno studio che cercasse di mettere in chiaro il rapporto fra motivi neoplatonici e figurali nell'estetica del medioevo dovrebbe poggiare su una più larga base di materiali. Ma questa discussione avrà almeno mostrato che è molto proficuo distinguere radicalmente· la struttura figurale da altre forme di immagini. All'ingrosso si può affermare che in Europa il metodo figurale risale a influssi cristiani, quello allegorico a influssi antico-pagani, e anche che il primo è per lo più applicato a soggetti cristiani, l'altro preferibilmente a soggetti antichi. Non sarà neppure sbagliato dire che la concezione figurale è in prevalenza cristiano-medioevale, mentre quella allegorica, che prende per modelli autori pagani della tarda antichità o autori non intimamente cristianizzati, tende a manifestarsi allorché si rafforzano gli influssi antichi, pagani o fortemente mondani. Ma queste osservazioni sono troppo generali e imprecise, perché la grande massa di fenomeni in cui per un millennio le civiltà si compenetrano non ammette ripartizioni così semplici, Ben presto s'interpretano figuralmente anche temi profani e pagani; Gregorio di Tours, per esempio, usa la leggenda dei Sette dormienti come figura della Resurrezione, così come di solito vengono interpretati il risveglio di Lazzaro e il salvataggio di Giona dalla balena. Nell'alto medioevo vengono ammessi nell'interpretazione figurale le Sibille, Virgilio e le figure dell'Eneide, e persino personaggi del ciclo bretone (per esempio Galaad nella Queste del Saint Graal), e sorgono i piri svariati intrecci di forme figurali, allegoriche e simboliche. Tutte queste forme si trovano anche, riferite a temi antichi così come a quelli cristiani, nell'opera che conclude e riassume la civiltà medievale, nella Divina Commedia. Ma vorrei cercare di dimostrare che in essa le forme figurali sono decisamente prevalenti e decisive per tutta la struttura del poema.
Ai piedi della montagna del Purgatorio Dante e Virgilio incontrano un vecchio di aspetto venerando; il cui volto è illuminato, come se fosse esposto al sole, dalle quattro stelle che significano le virtù cardinali. Egli chiede severamente se la loro venuta sia legittima, e dalla risposta di Virgilio - che prima ha fatto inginocchiare Dante - risulta che egli è Catone Uticense. Poi, dopo averlo informato della sua missione divina, Virgilio continua così:
Or ti piaccia gradir la sua venuta;
Libertà va cercando ch’è e sì cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, ché non ti fu per lei amara
In Utica la morte, ove lasciasti
La veste ch'al gran dì sarà sì chiara.
(Purg., I, vv. 70-75)
Poi Virgilio ricerca il suo favore ricordando Marzia, la moglie di un tempo. Catone respinge questo argomento con immutata severità; il desiderio della "donna del ciel" (Beatrice) è sufficiente: e ordina a Virgilio di lavare il viso a Dante, per togliergli il sudiciume dell'Inferno, e di cingerlo di un giunco. Catone ricompare poi alla fine del secondo canto, dove spinge per la loro strada, con parole severe, le anime testé sbarcate ai piedi del fiume che sono cadute nell'oblio ascoltando il canto di Casella.
Dio ha dunque designato Catone Uticense alla funzione di custode ai piedi del Purgatorio: un pagano, un nemico di Cesare, un suicida. Ciò è molto sorprendente, e già i primi commentatori, come Benvenuto da Imola, se ne meravigliavano. Dante cita pochissimi pagani che Cristo ha liberato dall'Inferno; e tra essi si trova un nemico di Cesare, i cui alleati, gli uccisori di Cesare, si trovano insieme con Giuda nelle fauci di Lucifero; uno che essendo un suicida non dovrebbe essere meno colpevole di quelli che furono violenti con se stessi e che per la stessa colpa soffrono terribilmente nel settimo cerchio dell'Inferno. Il dubbio è sciolto dalle parole di Virgilio, il quale dice che Dante cerca la libertà, che è così cara come tu sai bene, tu che per essa disprezzasti la vita. La storia di Catone è isolata dal suo contesto politico-terreno, proprio come gli esegeti patristici dell'Antico Testamento facevano per le singole figure di Isacco, Giacobbe ecc., ed è diventata "figura futurorum.” Catone è una “figura,” o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel Purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità di quell’avvenimento figurale. Infatti la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto “umbra futurorum”: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire e in vista della quale anche qui resiste ad ogni tentazione terrena; di quella libertà cristiana da ogni cattivo impulso che porta all'autentico dominio su se stesso, appunto quella libertà per raggiungere la quale Dante è cinto del giunco dell'umiltà, finché la conquisterà realmente sulla sommità della montagna e sarà coronato signore di se stesso da Virgilio. È la libertà eterna dei figli di Dio, che disprezzano ogni cosa terrena; la liberazione dell'anima dalla servitù del peccato, di cui qui è introdotta come "figura" la libera scelta catoniana della morte di fronte alla servitù politica. Che Dame arrivasse a scegliere Catone per questa parte si può capire se si pensa alla posizione superiore e imparziale che egli aveva negli scrittori romani, come modello esemplare di virtù, di giustizia, di pietà e di amore per la libertà. Dante trovava il suo elogio così in Cicerone e in Virgilio come in Lucano, in Seneca e in Valerio Massimo, e poté fargli soprattutto impressione, massime in un poeta dell'imperium, il virgiliano "secretosque pios, his dantem iura Catonem" [in disparte si trovano le anime dei giusti, a cui dà leggi Catone] (Aen., VIII, v. 670). La sua grande ammirazione per Catone risulta da vari passi del Convivio; e l'idea che il suo suicidio dovesse essere giudicato in modo speciale si trovava già espressa in Cicerone, in un passo citato da Dante nella Monarchia (2, 5), e proprio nel contesto, per lui così importante, degli esempi di virtù politica romana; egli vuole mostrare che la dominazione romana è legittima grazie alla sua virtù, che essa serve al diritto e alla libertà di tutto il genere umano; è il capitolo dove si trova l'affermazione: "Romanum imperium de fonte nascitur pietatis" [l'impero romano nasce dalla fonte della giustizia].
Dante crede a una concordanza predestinata fra la redenzione cristiana e la monarchia universale romana; proprio nel suo caso non sorprende che l'interpretazione figurale sia applicata a un romano pagano: anche altrove egli prende da questi due mondi, senza distinzione, i suoi simboli, le sue allegorie e le sue figure. Catone è senza dubbio una "figura"; non un'allegoria come i personaggi del Romanzo della rosa, ma una figura nel senso da noi descritto, e precisamente una figura adempiuta, già diventata realtà. La Commedia è una visione che vede e proclama come già adempiuta la realtà figurale, e il punto peculiare è proprio che essa collega precisamente nel senso dell'interpretazione figurale, in maniera precisa e concreta, la realtà contemplata nella visione con i fatti storico-terreni. La persona di Catone, quale uomo severo, giusto e pio, che in un momento significativo del suo destino e della storia provvidenziale del mondo ha anteposto la libertà alla vita, è conservata in tutta la sua forza storica e personale: non diventa un’allegoria della libertà, ma resta Catone di Utica, l'uomo che Dante vedeva nella sua individuale personalità; ma dalla sua provvisorietà terrena, nella quale egli considerava come il bene supremo la libertà politica come gli ebrei la stretta osservanza della legge, egli è sollevato nella condizione dell'adempimento definitivo, dove ciò che conta non sono più le opere terrene della virtù civile, ma il "ben dell'intelletto," il bene supremo, la libertà dell'anima immortale nella visione di Dio.
Cerchiamo di osservare la stessa cosa in un caso un po' più difficile. Virgilio è stato considerato da quasi tutti gli antichi commentatori come l'allegoria della ragione, della ragione umana e naturale che porta al giusto ordine terreno ossia, secondo le idee di Dante, alla monarchia universale. Gli antichi commentatori non trovavano difficoltà in un'interpretazione meramente allegorica perché essi non sentivano, come noi, un contrasto fra allegoria e poesia vera. Gli interpreti moderni si sono spesso opposti a questa interpretazione e hanno messo in luce l'aspetto poetico, umano, personale della figura di Virgilio, senza tuttavia poterne negare il "significato" e metterlo in perfetta concordanza con l'aspetto umano. Recentemente si è cercato da varie parti (da un lato L. Valli, per esempio, dall'altro il Mandonnet), e non soltanto per Virgilio, di tornare a sottolineare fortemente il significato puramente allegorico o simbolico, mettendo in disparte come "positivistico" o "romantico" il senso storico. Ma qui non c'è alcun aut-aut fra senso storico e senso recondito: c'è l'uno e l'altro. È la struttura figurale che conserva il fatto storico mentre lo interpreta rivelandolo, e che lo può interpretare soltanto se lo conserva.
Agli occhi di Dante il Virgilio storico è in pari tempo poeta e guida. È una guida come poeta, perché nel suo poema, nel viaggio agli Inferi del giusto Enea, sono profetizzati e celebrati l'ordinamento politico che Dante considera esemplare, la "terrena Jerusalem," e la pace universale sotto l'impero romano; perché nel suo poema è cantata la fondazione di Roma, sede predestinata del potere temporale e spirituale, in vista della sua futura missione. Soprattutto egli. è una guida, come poeta, perché tutti i grandi. poeti posteriori furono infiammati e ispirati dalla sua 'opera; Dante non esprime "tutto ciò soltanto in propria persona, ma introduce anche un altro poeta, Stazio, per proclamare con più efficacia la stessa cosa; lo stesso motivo riecheggia anche nell'incontro con Sordello e forse nel tanto discusso verso su Guido Cavalcanti (lnf., X, v. 63). Virgilio è una guida come poeta perché al di là della sua profezia temporale ha anche annunciato, nella quarta Egloga, l'ordine eterno e sovratemporale, la venuta di Cristo, che era tutt'uno col rinnovamento del mondo temporale: sia pure senza sospettare il significato delle proprie parole, ma in modo tale che questa luce potesse infiammare i posteri. Inoltre egli era una guida · come poeta perché aveva descritto il regno dei morti e quindi era una guida per il regno dei morti, conoscendo la strada. Ma egli era destinato a fare da guida non soltanto come poeta, bensì anche come romano e come uomo: egli non possiede solo la bella parola, non solo l'alta sapienza, ma proprio le qualità che lo rendono capace di guidare e che distinguono il suo eroe Enea e Roma in generale: "iustitia" e "pietas." La piena perfezione terrena, che autorizza ed elegge a guidare fino alle soglie della visione della perfezione divina ed eterna, è impersonata per Dante già nel Virgilio. storico, il quale è da lui considerato una “figura” per il personaggio, ora adempiuto nell’aldilà, del poeta-profeta che fa da guida. Il Virgilio storico è "adempiuto" dall'abitante del Limbo, dal compagno dei grandi poeti antichi che per desiderio di Beatrice si assume il compito di guidare Dante. Come egli un tempo, da romano e da poeta, aveva fatto discendere Enea per consiglio divino nell'oltretomba, affinché egli conoscesse il destino del mondo romano, come la sua opera era diventata una guida per i posteri, cosi ora egli è chiamato dalle potenze celesti a una funzione di guida non meno importante: perché non è dubbio che Dante vede se stesso in una missione importante quanto quella di Enea: egli è chiamato ad annunciare al mondo dissestato l’ordinamento giusto, che gli viene rivelato nel suo cammino. E Virgilio è chiamato a mostrargli e a spiegargli il vero ordinamento terreno, le cui leggi giungono ad esecuzione nell'aldilà, la cui sostanza è adempiuta nell'aldilà - anche nella direzione del loro fine, della comunità celeste dei beati che egli ha presagito nel' suo poema -, ma non fino nell'interno del regno di Dio, perché il senso del suo presentimento non gli è stato rivelato durante la sua vita terrena e, senza questa illuminazione, egli è morto da infedele; Dio non vuole che si giunga cosi nel suo regno: egli può condurre Dante soltanto fino alla soglia del regno, soltanto fino a quel limite che la sua poesia giusta e nobile permetteva di riconoscere. "Tu per primo, dice Stazio a Virgilio, mi hai mostrato la strada del Parnaso e delle sue fonti; e poi mi hai illuminato appresso a Dio. Hai fatto come uno che va di notte e porta il lume dietro di sé: a se stesso non giova, ma istruisce chi lo segue. Grazie a te sono diventato poeta, grazie a te fui cristiano." Cosi, come nella sua persona e nella sua influenza terrena, Virgilio aveva guidato alla salvezza Stazio, cosi ora, figura adempiuta, egli guida Dante: anche barite ha ricevuto da lui il bello stile della poesia, da lui è salvato dalla perdizione eterna e guidato sulla via della salvezza; e come un tempo aveva illuminato Stazio senza vedere egli stesso la luce che portava e diffondeva, cosi ora egli guida Dante fino alla soglia della luce, che conosce ma che personalmente non può guardare.
Virgilio non è dunque l'allegoria di una qualità, di una virtù, di una capacità o di una forza, e neppure di un'istituzione storica. Egli non è né la ragione né la poesia né l'impero. È Virgilio stesso. Ma non al modo in cui poeti posteriori hanno cercato di rendere una persona umana avviluppata nella sua situazione storica: per esempio come Shakespeare ha rappresentato Cesare o Schiller Wallenstein. Questi presentano i loro personaggi storici nella loro stessa vita terrena, fanno risorgere davanti ai nostri occhi un'epoca notevole della loro vita e cercano di ritrovare il suo senso direttamente in essa. Per Dante il senso di ogni vita è interpretato, essa ha il suo postò nella storia provvidenziale del mondo che per lui è interpretata nella visione della Commedia, dopo che nei suoi tratti generali essa era già contenuta nella rivelazione comunicata ad ogni cristiano. Così nella Commedia Virgilio è bensì il Virgilio storico, ma d'altra parte non lo è più, perché quello storico è soltanto "figura" della verità adempiuta che il poema rivela, e questo adempimento è qualche cosa di più, è più reale, più significativo della “figura.” All'opposto che nei poeti moderni in Dante il personaggio è tanto più reale quanto più è integralmente interpretato, quanto più esattamente è inserito nel piano della salute eterna. E all'opposto che negli antichi poeti dell'oltretomba, i quali mostravano come reale la vita terrena e come umbratile quella sotterranea, in lui l'oltretomba è la vera realtà, il mondo terreno è soltanto "umbra futurorum," tenendo conto però che l'"umbra" è la prefigurazione della realtà ultraterrena e deve ritrovarsi completamente in essa.
In effetti ciò che qui si è detto per Catone e Virgilio vale per tutta la Commedia. Essa è fondata in tutto e per tutto sulla concezione figurale. Nel mio studio su Dante, poeta del mondo terreno (1929) ho cercato di mostrare che nella Commedia Dante ha voluto "presentare tutto il mondo terreno-storico... già sottoposto al giudizio finale di Dio e quindi già collocato nel luogo che gli compete nell'ordine divino, già giudicato, e non in modo tale che nelle singole figure, nella loro sorte escatologica finale, il carattere terreno fosse soppresso o anche soltanto indebolito, ma in modo da mantenere il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico, e da identificarlo con la sorte eterna. (v. p. 79 [del presente volume]). Per questa concezione, che si trova già in Hegel e sulla quale si fondava la mia interpretazione della Commedia, mi mancava a quel tempo la precisa base storica; nei capitoli introduttivi del libro essa era più intuita che riconosciuta. Ora io credo di avere trovato questa base: è appunto l'interpretazione figurale della realtà, che domina le concezioni del medioevo europeo, sia pure in lotta continua con le tendenze meramente spiritualistiche e neoplatoniche; secondo essa la vita terrena è bensì assolutamente reale, della realtà di ogni carne in cui è penetrato il Logos, ma con tutta la sua realtà è soltanto "umbra" e "figura" di ciò che è autentico, futuro, 'definitivo e vero, di ciò che, svelando e conservando la figura, conterrà la realtà vera. In questo modo ogni accadimento terreno non è visto come una realtà definitiva, autosufficiente, e neppure come anello di una catena evolutiva in cui da un fatto o dalla concorrenza di più fatti scaturiscano fatti sempre nuovi, ma viene considerato innanzi tutto nell'immediato nesso verticale con un ordinamento divino di cui esso fa parte e che in un tempo futuro sarà anch'esso un accadimento reale; e così il fatto terreno è profezia o "figura" di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente all'occhio di Dio e nell'aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo, o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata. L'opera di Dante è il tentativo di una sintesi insieme poetica e sistematica, vista a questa luce, di tutta la realtà universale. All'uomo abbandonato alla confusione terrena e minacciato di rovina - questa è la cornice della visione - viene in aiuto la grazia delle forze celesti. Fin dalla prima giovinezza egli godeva di una grazia particolare perché era destinato a un compito particolare; di buon'ora aveva potuto vedere la rivelazione incarnata in un essere vivente, in Beatrice - e qui, come spesso, la struttura figurale e il neoplatonismo si compenetrano a vicenda - che gli aveva accordato una particolare distinzione, sia pure velatamente, da viva col saluto degli occhi e della bocca, e morendo in una maniera inespressa e misteriosa. La morta, ora beata, che era stata per lui la rivelazione incarnata, trova ora per l'uomo smarrito l'unica via di salvezza che ci sia; essa è la guida che, prima indirettamente e in Paradiso direttamente, gli mostra l'ordine rivelato, la verità delle figure terrene. Quel che egli vede e impara nei tre regni è realtà vera, concreta, tale appunto che vi è contenuta e interpretata la "figura" terrena; vedendo, ancora vivo, la verità adempiuta, egli è personalmente salvato e nello stesso tempo diventa capace di annunciare al mondo la sua visione e di indicargli la retta via.
La comprensione del carattere figurale della Commedia non offre certo un metodo universalmente valido per spiegare tutti i passi controversi ma essa fornisce alcuni principi per l'interpretazione. Si può essere certi che ogni personaggio storico o mitologico che appare nel poema deve significare qualche cosa che ha uno stretto rapporto con ciò che Dante sapeva della sua esistenza storica o mitica, e precisamente il rapporto di adempimento e figura; ci si deve guardare dal togliere al personaggio tutta la sua esistenza storico-terrena per assegnargli soltanto un valore allegorico-concettuale. Ciò vale in particolare per Beatrice. Dopo che nel XIX secolo si era troppo accentuata la concezione romantico-realistica dell'umanità di Beatrice, con la tendenza a fare della Vita Nova una specie di romanzo sentimentale, ora per reazione si cerca di dissolverla completamente in concetti teologici sempre più precisi. Anche qui non è questione di un aut-aut. Per Dante il senso letterale o la realtà storica di un personaggio non contraddice il suo significato più profondo, ma ne è la figura; la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta. La Beatrice della Vita Nova è una persona- storica: essa è realmente apparsa a Dante, lo ha realmente salutato, più tardi gli ha realmente negato il saluto, lo ha deriso, ha pianto un'amica perduta e il padre ed è realmente morta. È vero che questa realtà poté essere reale soltanto nell'esperienza di Dante, giacché un poeta forma e trasforma nella sua coscienza ciò che gli accade, e bisogna prendere le mosse solo da quel che vive nella sua coscienza, non da una realtà esteriore. E bisogna altresì tenere presente che per Dante anche la Beatrice terrestre è fin dal primo giorno della sua apparizione un miracolo mandate dal cielo, un'incarnazione della verità divina. La realtà della sua persona terrena non è dunque desunta da certi dati di una tradizione storica, come nel caso di Virgilio o di Catone, ma dalla propria esperienza, e questa esperienza la faceva apparire a Dante come un miracolo. Ma un'incarnazione, un miracolo, sono cose che accadono realmente i miracoli accadono soltanto sulla terra, e l'incarnazione è carne. Gli studiosi moderni, per i quali la concezione medioevale della realtà è una cosa estranea, sono stati indotti a non tenere distinte la figurazione e l'allegoria e per lo più hanno capito soltanto la seconda. Persino un così capace interprete teologico come il Mandonnet (op. cit., pp. 218-9) conosce soltanto due possibilità: Beatrice può essere o una pura allegoria (e questa è la sua opinione) o la petite Bice Portinari che provoca la sua ironia. Anche senza tener conto che questo giudizio disconosce la natura della realtà poetica, è soprattutto sorprendente che egli veda un abisso così profondo fra realtà e significato. Forse che la "terrena Jerusalem" non è una realtà storica perché è "figura aeternae Jerusalem"?
Nella Vita Nova Beatrice è dunque una persona vivente della reale esperienza di Dante, così come nella Commedia essa non è un "intellectus separatus," un angelo, ma una persona umana beata il cui corpo risorgerà il giorno del giudizio. D’altra parte non c'è alcun concetto teologico di scuola che possa realmente comprenderla del tutto; diversi fatti della Vita Nova non convengono ad alcuna allegoria, e per la Commedia c'è in più anche la difficoltà di distinguerla con esattezza da varie altre figure del Paradiso come gli apostoli esaminatori o san Bernardo. Per questa via non si può affatto comprendere in maniera soddisfacente la particolarità del suo rapporto con Dante. I più vecchi commentatori vedevano di solito in Beatrice la teologia, i più moderni hanno proceduto con metodi più precisi; ma ciò provoca eccessi ed errori: anche il Mandonnet, che applica a Beatrice il concetto di "ordre surnaturel" desunto dalla contrapposizione con Virgilio, diventa troppo pedante nelle suddivisioni, commette errori" e forza i concetti. La funzione che Dante le assegna appare del tutto chiara nelle sue azioni e nelle definizioni della sua persona. Essa è figura o incarnazione della rivelazione (Inf., Il, vv. 76 -sgg. "sola" ·per cui / l'umana specie eccede ogni contento / di quel ciel che ha minor li cerchi sui"; Purg., VI, v. 45 "che lume fia tra il vero e l'intelletto"); che la grazia divina manda per amore (Inf., II, v. 72) all'uomo per salvarlo, e che diventa per lui guida alla "visio Dei." Il Mandonnet dimentica di dire che si tratta appunto di un'incarnazione della rivelazione divina, non della rivelazione semplicemente, benché egli citi i passi corrispondenti della Vita Nova e di Tommaso, nonché l'apostrofe sopra citata: "O donna di virtù, sola per cui" ecc. Non si può apostrofare in questo modo l'"ordine soprannaturale" come tale, ma soltanto la sua rivelazione incarnata, ossia quella del piano divino della redenzione che è appunto il miracolo in virtù del quale gli uomini sono sollevati al disopra di tutte le altre creature terrene. Beatrice è incarnazione, è "figura" o "idolo Christi " (i suoi occhi rispecchiano la sua duplice natura; Purg., XXXI; v. 126) e dunque è anche una persona umana. Queste spiegazioni naturalmente non bastano per esaurire la sua umanità; il suo rapporto con Dante è tale che non può essere espresso a fondo per mezzo di considerazioni dogmatiche. Le nostre spiegazioni devono soltanto mostrare che l'interpretazione teologica, sempre utile e indispensabile, non ci costringe affatto ad escludere la realtà storica di Beatrice: al contrario.
Concludiamo così, per questa volta, la nostra ricerca su "figura.” Il nostro scopo era di mostrare come una parola nel suo sviluppo semantico possa penetrare in una situazione storica, e come allora ne nascano strutture che sono efficaci per molti secoli. Quella situazione storica che spinse san Paolo all'attività missionaria fra i pagani indusse ad elaborare l'interpretazione figurale e la preparò ad esercitare quell'influenza che essa ebbe nella tarda antichità e nel medioevo.