Dati bibliografici
Autore: Leonardo Sola
Tratto da: Sotto il Velame
Numero: VIII
Anno: 2007
Pagine: 107-123
Per affrontare in modo corretto la questione delle chiavi di lettura del Poema per eccellenza, la Divina Commedia, occorre prima di tutto spogliarsi dei criteri di valutazione e del gusto proprio di noi lettori moderni e contemporanei. In sostanza, si tratta di recuperare innanzitutto "Le formule di lettura proprie del tempo di Dante" e cioè il modo in cui "le allegorie e i simboli erano intesi dagli uomini medievali" (Così sostengono Aldo Giudice e Giovanni Bruni in Problemi e scrittori della Letteratura Italiana val. I, Dalle origini all'Umanesimo).
L'attualità di Dante non sta perciò nel caricarlo di significati e di intenzioni del nostro tempo, ma nella capacità di calarci nel suo tempo e di "leggere" la sua opera, attraverso la suggestione della sua poesia, come lo poteva fare un lettore del 1300.
Dante scriveva innanzitutto per i lettori della sua epoca anche se le metafore, i simboli e le allegorie da lui usati in modo sapiente, trascendono le epoche e le civiltà essendo espressioni e immagini nel tempo, di Archetipi eterni. E nell'autentico simbolismo le cose sono segni allo stesso tempo che cose, ossia alludono ad altro che è al di là di loro stesse.
Che cos'è dunque la Commedia? È innanzi tutto la narrazione di un viaggio sul quale si fonda l'intera struttura dell'opera. Sotto il disegno di un viaggio tutto è intessuto: anche il simbolismo delle cose vedute. Come le cose, anche il viaggio letterale allude ad altro al di là di se stesso. Il viaggio della Commedia si svolge al di là di questa nostra vita, ma è un viaggio nell'oltretomba che contiene un percorso nel cuore di un uomo, vale a dire nella sua anima.
Questo è quanto espresso nel Convivio (Il, 1). Dante afferma infatti che il senso letterale contiene tutti gli altri significati i quali, comunque, lo trascendono. Stanno tutti dentro e oltre la lettera, ad un tempo immanenti e trascendenti. Rispetto al significato letterale di un viaggio terreno le cose vedute nel viaggio ultramondano additano in alto con i loro simboli da leggersi in senso allegorico, verso l'unico che giudica e spiega e cioè il senso morale e quello anagogico o spirituale. Letterale, allegorico, morale e anagogico sono dunque i quattro sensi di cui si tratta nel Convivio e che vedremo meglio tra poco ascoltando le stesse parole del Poeta.
Al tempo di Dante, un 'viaggio' simile a quello della Commedia era detto comunemente "intinerarium mentis ad Deum". Nel suo senso letterale, il protagonista è certo il Sommo Poeta, ma l'immagine allegorica è quella di un viandante cristiano - qualsiasi cristiano, cattolico e non - dal 'peccato' alla 'Grazia'. In senso anagogico ossia spirituale, questo viaggio è "conversione": l'esperienza conoscitiva profonda, spirituale, di ogni anima umana (l'anima in sé, non ha "religione") alla ricerca, entro sé stessa, della propria radice: Dio.
Ai tempi di Dante, nel medioevo europeo cristiano, dopo secoli di dispute anche feroci, di discussioni, lotte, riflessioni e meditazioni, questa "conversione" aveva raggiunto una precisa determinazione dottrinale circa le modalità e la forma del suo verificarsi. Di norma seguiva uno schema, riconoscibile, per gradi e per tappe, fino al suo compimento, secondo la teologia dell'epoca.
Dante non ha certo inventato la dottrina teologica che sottende tale schema, ma la vede da poeta sommo, cioè dotato di "visione" interiore e da poeta sommo intende, sviluppa e realizza quello che concettualmente è stato elaborato e fissato nella 'lettera' dalla stessa dottrina cristiana. Gli elementi 'gnostici', cristiani e non, che si ritrovano spesso nella sua visione si riferiscono invece all'essenza profonda della rivelazione cristiana che il Poeta ha colto personalmente nella dimensione interiore della propria anima.
Dante dunque aderisce allo schema teologico nella sua formulazione letterale soprattutto perché tale schema è fissato ormai saldamente nella mente del suo lettore corrente a cui, in primo luogo, si rivolge. In tal modo, dallo svolgimento del viaggio letterale attraverso la vita dell’oltretomba, può gradualmente svilupparsi il senso allegorico e morale nella figura famigliare del 'viaggio dell'anima' e da questo poi contemplarne il senso anagogico, cioè spirituale, trascendente.
"Itinerarium mentis ad Deum " .... La difficoltà dei lettori moderni e di noi contemporanei nel comprendere la Commedia sta proprio nel fatto che la figura del "viaggio interiore dell'intelletto verso Dio" non ci è più familiare. Lo schema letterale e letterario di riferimento va dunque ricostruito nella mente del lettore contemporaneo, reso riconoscibile a tutti e definito chiaramente come verità di cui è partecipe la generalità dei cristiani, prima che possa essere evocato il senso profondo dei simboli attraverso i modi dell'allegoria e della meditazione anagogica.
In sostanza, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: "Potremo mai trasformarci in lettori del tempo di Dante?" restaurando consapevolmente nella nostra mente un intero corpo di dottrine, sì da rendercele famigliari? Le verità che il Poeta costruiva entro il suo Poema gli sembravano verità durature. E tali lo sono se colte non tanto nella loro dimensione letterale o nelle figurazioni allegoriche proprie dei simboli di tali dottrine, ma nella dimensione morale e, soprattutto, in quella anagogica, spirituale. Qui le verità non sono relative ma assolute e atemporali, in quanto aspetti, modi e funzioni di un'Unica Verità, non soggetta tempo, spazio e causalità e quindi al di là di qualsiasi sistema dottrinario. Un "itinerariurn mentis ad Deurn" sempre e comunque, ma ove quell' "ad Deum" ci indica che, proprio in quanto "Dio" non è un oggetto, cioè qualcosa di limitato, relativo, dipendente e mutevole, non può essere colto dalla mente attraverso proposizioni dottrinali o immagini. Dio può solo essere avvicinato dall'intelletto, ma viene colto in un excessus mentis, cioè nella dimensione spirituale, libera, della coscienza e, come indica la lettura anagogica, è vissuto come esperienza interiore individuale, quale una Luce indicibile che "acceca la mente", tanto è, di fatto, il suo fulgore. Ma l'andare in alto di Dante verso questa Luce, verso Dio, cioè il viaggio in quanto tale, guarda verso questa nostra vita e al nostro percorso terreno, nell'impegno etico, politico, sociale.
In questo percorso il Poeta, probabilmente senza saperlo, riflette sia la concezione teoretica che la pratica dei filosofi neoplatonici dei primi secoli della nostra era: Plotino, riprendendo Platone, parla infatti dei tre gradi ascensivi del conoscere (opinione, scienza, illuminazione) riguardo all'ascesi verso Dio (l'Uno, il Bene) che è colto trascendendo la mente e dell'impegno attivo ed educativo del 'filosofo' nella società, impegno che nasce direttamente da questa esperienza individuale trascendente.
"Itinerarium mentis ad Deum" ... abbiamo detto. Per comprendere quale sia questo percorso per Dante è necessario considerare tutte le opere del Poeta (non solo, quindi, la Commedia) quale la rivelazione, attraverso la via letteraria, di un itinerario spirituale: un percorso di Amore e di Conoscenza che dal piano dei sensi, degli affetti e dei sentimenti, giunge fino al soglio mistico del divino, passando per l'Amore intellettivo per la Conoscenza e la Sapienza. Un percorso che il Poeta compie nell'intero arco della sua vita e che si sviluppa attraverso le opere principali scritte in volgare e che, come tutti i fenomeni culturali e di pensiero, segue la logica ciclica schematizzata in: Tesi: Vita Nova (prosa+ versi)----Antitesi: Convivio (prosa+ versi)-----sintesi: Commedia: (poesia superiore).
Secondo l'interpretazione corrente, in Dante il passaggio da un'opera all'altra sarebbe stato determinato da una serie di "crisi": umana (affettiva, sentimentale: la morte di Beatrice), politica (delusione, disillusione ed esilio) e poetico-letteraria (la sostituzione del volgare al latino, i vari generi letterari e le forme poetiche che il Poeta ha usato).
Tali crisi si evidenzierebbero soprattutto nel passaggio dalla Vita Nova al Convivio e avrebbero condotto il Poeta a negare in parte la fase precedente e contrapporle antiteticamente quella successiva. Ma se di "crisi" si tratta, esse sono vere e proprie fasi di maturazione umana, letteraria, politica e di sviluppo di una religiosità individuale, attraverso le quali il Poeta acquisisce sempre più consapevolezza di sé e della sua missione e perciò una sempre maggiore autonomia intellettuale e spirituale nel vasto compito che si è scelto o che gli è stato impulsato interiormente dal "Massimo Fattor", Questo compito è quello di riaffermare virtù e valori universali di giustizia e di rettitudine, di libertà e di fraterna e autentica pietas, denunciando con forza il vizio, la corruzione, gli inganni, della società civile e religiosa sua contemporanea.
Gli avvenimenti drammatici della sua vita accompagnano queste fasi, non le determinano quali semplice reazione ad essi, come spesso si sostiene; e tali fasi sono perfettamente naturali, in quanto sono le porte di passaggio che si aprono, di volta in volta, in successione, lungo il sentiero di iniziazione interiore dell'anima alla propria liberazione o salvezza, attraverso "l'amore, la virtù e la conoscenza". Dante ne appare consapevole fin dagli anni giovanili quando scrive proprio la Vita Nova, che riempie già di metafore e allegorie spirituali e di simboli iniziatici, per quanto abilmente racchiusi nel velo del senso letterale e dell'amore sensibile e sentimentale per Beatrice, la donna amata, la "donna gentilissima".
In effetti, con la Vita Nova Dante ha portato al suo culmine la concezione 'mistica' dello stilnovo riguardo all'amore che salva: secondo questa concezione è infatti l'amore affettivo-sentimentale e devoto ("votato a") al proprio oggetto (la "donna") che divenendo nel poeta trasporto mistico, solo è capace di realizzare questa meta.
Dante si rende conto molto presto, tuttavia, che tale "salvezza" ha fondamenta instabili se è costituita semplicemente dal sentimento più il trasporto mistico. Il sentimento d'amore e la totale dedizione al suo "oggetto", la 'donna gentile' anche se simbolo umano del divino, non bastano, è necessaria una scelta autonoma, una decisione ponderata e un maturo convincimento quali condizioni preliminari per una "via gnostica", conoscitiva, alla salvezza.
Che cosa, in realtà, è accaduto in Dante? Il Poeta è divenuto consapevole che nell'animo umano vi sono altre esigenze, altrettanto vitali e naturali quanto l'amore dei sensi e gerarchicamente superiori al sentimento d'amore, in quanto ancorate all'intelletto; esigenze che devono essere approfondite per concorrere al fine supremo dell'uomo: il superamento degli angusti limiti terreni e, in ultimo, la 'conoscenza' di Dio. Da qui la ricerca della Verità attraverso la riflessione scientifica, la meditazione filosofica e l'impegno politico attraverso l'azione nella società. Dopo la fase dell'"amor gentile", proprio queste sono state le sue prime esigenze: esse prendono corpo nel Convivio, nel De Vulgati Eloquentia e nel De Monarchia, prima di svilupparsi pienamente, insieme con la ripresa dell'Amore in una dimensione universale e divina, nella sintesi suprema della Commedia e chiudere così il percorso circolare del pensiero e completare l'itinerario d'Amore del nostro Poeta.
Il Convivio è stato elaborato tra il 1304 e il 1307. È un'opera mista in versi e prosa, progettata inizialmente in 14 Canzoni, divisa in Trattali (ricchi di commenti e trattazioni, filosofici, moralistici, dottrinari, nella ricerca di una Giustizia e di una Verità), ma rimasta incompleta, in quanto è giunta solo fino al IV Trattato. Di fatto, il Convivio è un 'enciclopedia redatta in volgare italico e Dante stesso ci dice che il volgare è il mezzo di espressione più adatto agli italiani non dotti ma anche ai colti seppur lontani dallo studio delle lettere antiche, e agli stranieri. È un'esaltazione del sapere, della scienza, concepiti come il mezzo indispensabile per conoscere il Vero ed elevarsi alla contemplazione di Dio. A Beatrice dunque, "la donna gentilissima, onesta e pia" della Vita Nova, Dante fa succedere nel Convivio, un'altra donna gentile, qui però simbolo della filosofia, intesa in senso molto ampio. Ma, in realtà, questa donna simbolo della 'filosofia' non è che un'altra delle manifestazioni dello stesso Principio spirituale che nella Beatrice della Vita Nova appariva 'incarnato' soprattutto quale amore terrestre, sensibile, sentimentale, devoto.
Dante sembra indicarci, attraverso la sua stessa esperienza, che Dio e la salvezza dell'anima non si possono raggiungere con un'ascesi mistica prodotta solo dal sentimento d'amore, ma seguendo la scienza e il sapere filosofico, cioè al traverso l'intelletto che indagando la realtà, mette l'uomo nella condizione di ottenere la Verità e con essa contemplare Dio. Vedremo nella Commedia che nell’Itinerarium mentis ad Deum, non saranno più sufficienti neppure la ragione e l'intelletto, a meno che siano guidati dalla fede e dalla grazia divina.
Nel Convivio, la "Donna gentile" simboleggia dunque la Filosofia e conduce Dante alla sua stessa meta, la salvezza, attraverso il sapere e la ragione (la conoscenza, la riflessione e la persuasione) ottenuti per mezzo dello sforzo continuo di applicazione e di studio con cui l'uomo si purifica dalle scorie terrene, liberandosi dall'errore che lo tiene avvinto al mondo con tutte le sue imperfezioni.
Il Convivio vuole essere perciò il tentativo di una sistemazione scientifica del sapere. È scritto in volgare e non in latino e quindi non è indirizzato solo a coloro che sono chiusi nelle scuole ecclesiastiche e nelle loro astratte discussioni ma, quale visione del mondo di chi fa uso del volgare, è soprattutto rivolto alla borghesia commerciale che, sia pur nell'ambito del pensiero medievale, ha esigenze e problemi più aperti e sensibili alla realtà della vita cittadina. Il vero fine dell'opera è illuminare nelle arti utili a guidare i popoli, suscitare nell'anima nobili virtù e far tornare i valori della cortesia e la probità dei costumi. La difesa del volgare che è in testa al Convivio è, indirettamente, la difesa della civiltà comunale e del suo significato storico-politico.
Apriamo una breve parentesi sull'importanza e l'utilità del volgare.
La necessità del volgare viene chiaramente sostenuta nel De Vulgar! Eloquenti a (ammaestramento "Sull'arte del dire in (lingua) volgare").
Dante inizia la composizione di quest'opera quando ancora attende alla stesura del Convivio. Tuttavia la interrompe al Il Libro. È scritta in latino perché rivolta ai dotti che il Poeta cerca di convincere a non rifiutare il nuovo linguaggio e la nuova realtà. Il volgare è qui discusso su di un piano teorico ed è interessante notare che è l'unico linguaggio cui Dante riconosce le caratteristiche di linguaggio originario, quello usato da Adamo che poteva comunicare direttamente con Dio e che per l'umana superbia del tempo della Torre di Babele, si è perso nella confusione delle altre lingue. Il volgare deve perciò essere illustre, cardinale, aulico e curiale, cioè più alto e solenne di ogni altro e deve essere usato dai poeti più insigni per trattare degli argomenti più nobili (le armi, l'amore, le virtù) nelle forme metriche più elevate.
Nel I Libro Dante esamina e scarta i 14 fondamentali volgari regionali, poi indica la necessità di una lingua illustre che componga in unità i contributi linguistici delle singole regioni, come s'era già andata realizzando nelle scuole poetiche della Sicilia e della Toscana: una lingua cioè puramente letteraria, espressa dal ceto intellettuale della penisola, sì da divenirne l'ideale punto di incontro.
Nel Il Libro il Poeta conferma la tradizionale distinzione dei tre stili poetici: l'elegiaco o umile, il comico o mediano e didascalico, il tragico, alto e nobile. Lo stile tragico è indicato come quello del nuovo volgare ed ha nella canzone la sua tradizionale forma metrica.
Il De Vulgari Eloquentia esprime la fede nella poesia di contenuto etico, civile e religioso, proprio quella che Dante stava elaborando con le Canzoni del Convivio e che avrebbe realizzato pienamente di lì a poco con la Commedia.
Torniamo ora al Convivio. Il Convivio è I 'Opera in cui Dante parla esplicitamente dei quattro sensi o chiavi di lettura delle insigni opere poetiche e letterarie scritte in volgare. Di nome e di fatto, il Convivio è un banchetto di scienza, formato da un Trattato introduttivo e da tre Trattati contenenti ciascuno una canzone dottrinale e un lungo commento, letterale e allegorico, a questa.
Nel I Trattato si illustrano la ragioni del nome scelto ("banchetto"), la finalità dell'opera, i motivi che hanno determinato la preferenza del volgare sul latino e i rapporti tra Convivio e Vita Nova. Negli altri Trattati il Poeta, attraverso il commento a 3 Canzoni, discute della costituzione del cosmo, dell'importanza della filosofia e dell'autorità del Papa e del!' Imperatore. Le poesie -Canzoni- presenti nel Convivio (I) sono dottrinali e allegoriche, cioè nascondono degli insegnamenti sotto il velo di quanto letteralmente dicono o descrivono. (2)
Come già detto, il Poeta interrompe il Convivio al IV Trattato, per cominciare la Commedia.
La Vita Nova e il Convivio costituiscono la testimonianza delle prime due fasi del percorso conoscitivo di Dante: quella sentimentale e intellettuale, fasi che si completeranno in quella spirituale de La Divina Commedia. Questo percorso può essere definito complessivamente come il "sentiero dell'Amore": l'Amore, che dall'amor gentile e devoto (sentimentale) della sfera sensibile, attraverso l'Amor sapiente (intellettuale, filosofico) della ragione, giunge all'Amor divino (contemplativo) dell'illuminazione spirituale dell'anima. L'"oggetto" di questo amore è sempre lo stesso: la Sapienza e I' Amore di Dio, simboleggiati via via e a gradi diversi, nelle figure delle "Donne" amate, ispiratrici, soccorritrici e misericordiose: dalla Beatrice terrena e celeste alla Madonna, Madre di Dio.
Vi è dunque continuità e sviluppo nel pensiero e nell'esperienza esistenziale del Poeta, nonostante le differenze che ne caratterizzano le fasi e i contorni anche molto netti che le segnano.
La domanda che ci poniamo ai fini dello sviluppo del nostro tema - I' egemonia del senso spirituale - è: quale posizione occupa il Convivio nella biografia spirituale di Dante?
Come già detto, il Convivio è l'opera in cui Dante esalta la sapienza filosofica (dottrina scientifica, meditazione morale, riflessione politica) sotto la veste dell'Amore per la "donna gentile", "ornata di virtù e meraviglioso sapere" (la Filosofia) che consola il Poeta della "perdita" della "gentilissima" Beatrice e si sostituisce in lui come motivo, ora divenuto dominante, del suo animo: "Dico e affermo che la donna di cui io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperatore de l'Universo, a la quale Pitagora pose nome Filosofia".
Veniamo finalmente al tema centrale del nostro incontro: i quattro 'sensi' (significati) del linguaggio con cui va scritta, secondo Dante, una vera opera letteraria e l'egemonia del senso 'spirituale' sugli altri significati. Come già accennato, di questi significati Dante parla soprattutto nel Il Trattato del Convivio.
Nella Prima Canzone: "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete", dopo una lunga digressione sulle Intelligenze Celesti, Dante narra che dopo la morte della "donna gentilissima" della Vita Nova - Beatrice - trovò solitaria consolazione solo nella lettura di opere morali e filosofiche. Prosegue spiegando il significato allegorico della Canzone e narrando la crescita in lui di una nuova forza di passione: quella per un'altra "donna gentile", ma non umana, una donna che il Poeta dichiara Signora del suo animo, ma ornata di virtù e di meraviglioso sapere: è il simbolo della "Filosofia". Nella Canzone che dà inizio al III Trattato, "Amor che ne la mente mi ragiona", il Poeta ribadirà l'amore per questa Signora meravigliosa: la Filosofia che è "unimento spirituale dell'anima e della cosa amata".
Nel II Trattato, nel Commento alla Prima Canzone, "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete ", all'inizio Dante si occupa delle scritture sacre (in particolare della Bibbia) intese come modello ideale dell'opera letteraria quale la concepiva il Medioevo. Gli stessi criteri di lettura - i "quattro sensi" di cui scrive Dante - valgono per tutta una serie di opere di "insigni poeti" e costituiscono una nonna di narrazione reale del presente e di prefigurazione profetica ad un tempo, del destino futuro ed eterno dell'uomo.
Nel Convivio Dante perciò distingue chiaramente il senso letterale dagli altri sensi, specie dall'allegorico. È importante notare tuttavia che Dante non intende suggerire un tipo di lettura in cui si deve cogliere separatamente ciascuno dei quattro sensi. Il senso letterale è inteso invece in stretta unione con l'allegoria e anche con il senso anagogico ("sovrasenso" o significato spirituale); anzi Dante distingue tra l'allegoria dei teologi e quella dei poeti, indicando che è proprio la seconda, quella in cui, accanto al figurato, conta la figurazione, l'immagine in sé. Sono concetti da tener presente per interpretare correttamente la Commedia e che saranno ribaditi dal Poeta nella Lettera a Can Grande della Scala.
Vediamo ora, dal Libro II del Convivio, la prima Canzone: "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" e le successive riflessioni iniziali in prosa del Poeta; riguardo a queste ultime ci accorgeremo immediatamente che la forma di esposizione del Convivio è strettamente medievale nella cura di tutti i particolari, nella completezza dei sillogismi, nello scrupoloso e continuo riassunto dei motivi già detti e pensati: è una esposizione fondata su di un lento ragionare che alla sensibilità di oggi apparirà forse pesante, ripetitiva...
Convivio II, I
Canzone Prima
Voi che'ntendendo il terzo ciel movete (1),
udite il ragionar ch'è nel mio core,
ch'io noi so dire altrui, sì mi par novo (2).
El ciel che segue lo vostro valore (3),
gentili creature che voi sete,
mi tragge ne lo stato ov'io mi trovo (4).
Onde'l parlar de la vita eh 'io provo
par che si drizzi degnamente (5) a vui:
però vi priego che lo mi'ntendiate.
Io vi dirò del cor la novitate,
come l'anima trista piange in lui (6),
e come uno spirto contra lei favella
che vien pe'raggi de la vostra stella (7).
Suol esser vita de lo cor dolente
un soave penser, che se ne gìa (8)
molte fiale a' pie' del nostro Sire (9),
ove una donna gloriar vedia,
di cui parlava me (10) sì dolcemente
che l'anima dicea: "Io men vo' gire" (11).
Or apparisce chi lo fa fuggire (12)
e segnoreggia me di tal virtute,
che ‘l cor ne trema che di fuori appare (13).
Questi mi face una donna (14) guardare,
e dice: "Chi veder vuol la salute,
faccia che li occhi d'esta donna miri,
sed'è non temer angoscia di sospiri (15)".
Trova contraro tal che lo distrugge
l'umil pensero (16), che parlar mi sole
d'un'angela che 'n cielo è coronata.
L'anima piange, sì ancor len dole (17),
e dice: "Oh lassa a me, come si fugge
questi pietoso (18) che m'ha consolata!".
De li occhi miei dice questa affannata:
"Qual ora fu che tal donna li vide (19)!
E perché non credeano a me di lei (20)?"
lo (21) dicea: "Ben ne li occhi di costei
de' star colui che le mie pari ancide! (22)
E non mi valse ch'io ne fossi accorta
che non mirasser tal (23), ch'io ne son morta".
"Tu non se' morta, ma se’isrnarrita,
anima nostra, che sì ti lamenti"
dice uno spiritel d'amor gentile (24):
"che quella bella donna che tu senti (25),
ha transmutata in tanto la tua vita
che n'hai paura, si se' fatta vile!
Mira quant'ell'è pietosa e umile,
saggia e cortese ne la sua grandezza,
e pensa di chiamarla donna, omai!
Chè se tu non t'inganni, tu vedrai
di sì alti miracoli adornezza (26),
che tu dirai: 'Amor, segnor verace,
ecco l'ancella tua; fa che ti piace (27)' ".
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione (28) intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte.
Onde, se per ventura elli addivene (29)
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d'essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella (30):
"Ponete mente almen com'io son bella!"
Leggiamo ora le prime considerazioni del Poeta su questa sua Canzone, introduttiva del II Trattato:
"Poi che, proemialmente ragionando, me ministro ((essendo io servitore)), e lo mio pane ne lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, drizzato l'artimone della ragione a l'ora ((al vento favorevole)) del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto ((che dia salvezza)) e laudabile ne la fide de la mia cena. Ma però che più profittatile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda ((canzone)) voglio mostrare come mangiare si dee ((come si deve intendere)). Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione convien essere litterale e allegorica ((come ho detto nel Trattato introduttivo, il Convivio deve essere inteso sia nel senso diretto che secondo il significato simbolico e figurato)). E a ciò dare ad intendere, si vuol ((si deve)) sapere che le scritture si possono intendere e deonsi ((si devono)) esponere massimamente per quanto sensi. Lo primo si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la littera de le parole fittizie (3) ((il significato immediato, esteriore della narrazione)), sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico e questo è quello che si nasconde sotto il manto di quelle favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna ((sotto le immaginose fantasie della lettera; sotto il valore metaforico delle parole)): si come quando, dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento della sua voce faria mansuescere ((placare, diventar mansueti)) e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere con la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza ed arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come le pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi ((dai saggi)), nel penultimo trattato si mostrerà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti ((i teologi colgono il significato exoterico delle parole, i "poeti" quello esoterico o essenziale)); ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato (("Nell'allegoria dei poeti il senso primo e letterale è inventato, rappresentato solo allo scopo di nascondere, e nascondendo esprimere - velando-disvelando - una verità; non così nell'altro (nella natura del senso letterale): colà il primo senso (cioè quello letterale) è storico; come dice Dante, e non 'fìctio", invenzione" ((Singletgon)).
Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando ((intuendo, rintracciando, cercando)) per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti ((di quelli che da loro imparano)): sì come appostare ((trovare)) si può ne lo Evangelo ((di Matteo)), quando Cristo salì a lo monte per trasfigurarsi, che di dodici Apostoli menò secoli tre ((Pietro, Giacomo e Giovanni, simboli di Fede Speranza e Carità); in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia ((I concetti profondi devono essere considerati e studiati da pochi; pochi sono coloro che devono essere partecipi del segreto)).
Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso (4); e questo è quanto spiritualmente si spone una scrittura ((le cose terrene sono rappresentate come simboli di quelle celesti)), la quale ancora ((sebbene)) sia vero eziandio ((anche)) nel senso litterale, per le cose significate significa ((dà il simbolo)) de le supeme cose del 'ettemal gloria ((la realtà divina, eternamente presente in Dio, ove esiste in ogni tempo, e anche fuori dal tempo, la realtà unica vera svelata)): si come veder si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta Santa e libera ((La liberazione dell'anima dalla schiavitù del "corpo" o l'emancipazione della natura spirituale dell'anima dal dominio delle passioni e del! "io separato)). Chè avvegna esser vero ((sebbene sia chiaro che esso è vero)) secondo la littera sia manifesto ((e se è manifesto esser vero, secondo il senso letterale)), non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostra questo, sempre lo litterale deve andare innanzi, si come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza la quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri,e massimamente a lo allegorico.
È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori ((poiché in ciascuna cosa vi è il di dentro e il di fuori)), è impossibile venire al di dentro se prima non si viene al di fuori; onde, con ciò sia cosa che ne le scritture la litterale sentenza sia sempre lo di fuori ((litterale sentenza= senso letterale)), impossibile è venire a l'altre, massimamente a l'allegorica, sanza prima venire a la litterale. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale e artificiale, è impossibile procedere a la forma ((curare la forma)) sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare ((il modello, l'idea, l'archetipo, il fondamento, la materia, la matrice)): si come impossibile la forma de l'oro è venire ((è impossibile che venga)), se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l'arca venire ((è impossibile che venga la forma della barca)) se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata. Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l’altre che a la sua. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere se prima non ne è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che 'I dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è a !'altre venire prima che a quella.
Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d'ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo ((Aristotele)) nel primo de la Fisica, ((nel I Libro della Fisica)) la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via di conoscere in noi è naturalmente innata. E però se li altri sensi dal litterale sono meno intesi - che sono ((come infatti sono)), sì come manifestamente pare - inrazionale sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. Io adunque, per queste ragioni, tuttavia ((volta per volta)) sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosta veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà.
Teniamo conto di queste necessarie precisazioni del Poeta che ci sono utili per comprendere l'importanza che il senso anagogico o 'spirituale' delle scritture ha, di fatto, sugli altri significati o, detto con altra parola, è egemone su questi. Innanzi tutto dobbiamo ben renderci conto che la comprensione profonda di un'opera letteraria scritta da un 'Poeta insigne' e che ha il carattere di sacro come la Commedia, non può essere un fatto meramente intellettuale, ma deve essere il risultato di una "meditazione sui simboli spirituali" contenuti nell'opera stessa, cioè una vera e propria espansione di coscienza su livelli più elevati. E il "viaggio” di Dante nella Commedia è, come abbiamo visto, un itinerarium mentis ad Deum, mentre la vita del Poeta che si riflette in quella letteraria (dalla Vita nova alla Commedia, attraverso il Convivio) è in realtà un percorso d'Amore completo dell'Anima, da quello affettivo sentimentale a quello divino, attraverso l'Amore intellettuale; entrambi i percorsi testimoniano di un ascesi conoscitiva autonoma che giunge fino al soglio di Dio e che il Poeta descrive eo suggerisce in immagini, allegorie, simboli, nelle sue Opere, considerate unitariamente.
Questo itinerario del nostro grande Poeta si avvicina grandemente al percorso conoscitivo che sfocia nel Divino, dei filosofi neoplatonici, in primo luogo di Plotino. Riguardo alla "conoscenza di Dio" c'è da dire che la teologia cristiana separando irriducibilmente il Creatore dalla creatura nega all'uomo l'accesso personale e diretto a Dio; a meno che sia Dio stesso ad intervenire con il dono gratuito della Sua "Grazia". Il mistico cristiano deve perciò abbandonarsi fiduciosamente e totalmente a Dio e amarlo con tutto se stesso, per predisporsi a ricevere la Grazia divina. E questa la "via devozionale" (quella che gli indù chiamano bhakti) che conduce a "conoscere Dio" entrando in comunione con Lui grazie alla fede e al dono della sua Grazia.
In apparenza, la "via devozionale" cristiana e delle religioni fondate sulla "fede", è l'antitesi della "via conoscitiva" di Plotino che indica invece la possibilità di raggiungere la conoscenza suprema o contemplazione del Divino quale Sommo Bene, attraverso un processo attivo dell'Intelletto spirituale (il Nous) o illuminazione che il grande filosofo neoplatonico ha chiamato la "fuga del solo verso il Solo". Per Plotino ciò è possibile perché l'anima dell'uomo nella sua radice universale è una con l'Intelletto divino e con l'Uno stesso.
In realtà, le due "vie alla conoscenza di Dio", quella mistica, devozionale, cristiana e quella conoscitiva, gnostica, neoplatonica, sono antitetiche solo in apparenza: per Plotino, ciò che spinge e sostiene l'anima dell'uomo e il suo intelletto nel cercare di conoscere il Bene Supremo, attraverso la "fuga del solo verso il Solo", è il dàimon intellettivo o noetico, l'egemone divino dell'anima razionale: un'energia spirituale (equivalente alla vera fede per un cristiano) di cui l'anima non può fare a meno se vuole comprendere l'essenza di qualsiasi cosa terrena e se vuole conoscere quelle divine e la natura ultima di Dio. Anche nella "via della conoscenza" sono ben chiari i limiti della "ragione" quando essa agisce da sola, cioè quando rifiuta o ignora questa energia spirituale.
Nella gnosi neoplatonica, l'itinerarium mentis ad Deum è l'ascesi del conoscere che passa attraverso tre gradi della coscienza detti rispettivamente opinione, scienza, illuminazione. L'opinione si fonda sui sensi esteriori legati al corpo fisico e perciò ci dà una visione e una comprensione della realtà condizionata da questi, che, in ultima analisi, sono illusorie, "fittizie" (si confronti con la definizione che Dante dà nel Convivio del senso letterale delle scritture); si opina, infatti, proprio su ciò che non si conosce completamente e in modo diretto.
Il secondo grado è la "scienza" da intendersi come l'attività della mente che cerca di comprendere e di conoscere la realtà e la verità. Di norma questa attività è però legata in prevalenza ai sensi e alla memoria fisici. Nell'interpretare la realtà, colta attraverso i sensi, la mente usa lo strumento razionale della dialettica e procede con l'analisi, il confronto, la discussione, il ragionamento e formula i propri giudizi in base a questi, in modo dualistico.
Anche la mente non può dunque cogliere alcuna realtà nella sua unità essenziale, perché la traduce in concetti e così facendo la limita. Se ben riflettiamo possiamo osservare che 'concepire', cioè conoscere con la mente razionale, è sempre un separare e chiudere in un limite e dare interpretazioni e giudizi di valore che affermano ed escludono ad un tempo (si veda quanto dice Dante a proposito del senso metaforico, allegorico e morale nell'interpretazione delle scritture).
Il terzo grado dell'ascesi conoscitiva al Divino, per Plotino è! 'illuminazione che consiste nel situarsi e nel dimorare (stare) della coscienza, fuori (ex - da cui extasis, estasi) da ogni 'opinione' fondata sui sensi e oltre ogni limite interpretativo concettuale della mente; dunque oltre la mera ragione, il tempo e la memoria cerebrale. E un situarsi della coscienza nella dimensione luminosa del!' Anima Universale, il cui fondamento è, per Plotino, il Nous o Spirito e l'Uno stesso. Detto in altre parole, l'illuminazione è intellezione pura: un lampo istantaneo, una luce improvvisa che si accende nella coscienza, quando il dualismo e la natura psico-sensoriale della mente sono acquietati e che perciò ci fa 'vedere' la realtà degli esseri e delle cose. Da questa 'luce' discende direttamente la capacità di "leggere" in senso spirituale i simboli di cui si riveste tale realtà (si confronti le allusioni che Dante fa riguardo al senso anagogico - il sovrasenso o senso mistico, spirituale - delle scritture).
Lo strumento principe che l'ascesi conoscitiva neoplatonica assegna all'illuminazione è l'intuizione (intu-ire = 'andare all'interno'). È proprio grazie all'intuizione che la coscienza coglie in modo diretto, alla radice, la realtà, quale essa è nella propria essenza atemporale, senza più le deformazioni dei sensi, i condizionamenti della psiche e i limiti della ragione.
L'intuizione non appartiene dunque alla sfera del senso e dei sentimenti, né è un prodotto della attività speculativa della nostra mente; è, secondo Plotino, un potere spirituale, i) daimon intellettivo superiore e questo potere è l'egemone divino della ragione. E quell'energia spirituale che sola pennette di comprendere l'essenza delle cose, terrene e divine, e quindi di cogliere la realtà e la verità, intorno a noi e dentro di noi.
Questa funzione superiore ed egemonica del daimon intellettivo o noetico plotiniano, è presente ed è fondamentale in ogni percorso di ascesi mistica e in qualsiasi processo di conoscenza e di interpretazione corretta della realtà. Ci permette di comprendere ed affermare la necessità, assolutamente naturale, della supremazia del senso anagogico o spirituale sugli altri (come lo stesso Dante ci suggerisce).
In altre parole, come l'illuminazione che nasce dall'attività del daimon intellettivo superiore, dà ragione del!' opinione e della scienza nell'interpretazione del sensibile e le integra in una visione completa e veritiera di questo, così il senso anagogico, fondato sull'intuizione spirituale, dà ragione ed integra quello allegorico e morale nell'interpretazione profonda di quello letterale che, come sostiene Dante, pure tutti li contiene quale simbolo reale.
Qui è necessario aprire una breve parentesi sul significato di daimon, dèmone. In Plotino, l'idea di daimon ('demone') non ha nulla di 'diabolico'. Designa semplicemente una essenza intermediaria tra il sensibile e l'intellegibile o tra il mondo della materia e quello dello spirito. Già il mito platonico ci presenta questo daimon come un anghelos, cioè una 'guida' che accompagna ogni anima per i sentieri della vita che si succedono nella palingenesi di questa stessa anima. Nell'interpretazione stoica del mito, quale la troviamo per esempio in Marco Aurelio, il dèmone è la facoltà o il potere dominante dell'anima, l'egemonico di questa. Plotino riprende questa idea ma va ben oltre. Rifacendosi alla propria teoria dell'Anima quale terza ipostasi ('base', 'fondamento') dell'Essere (le altre due sono lo Spirito e l'Uno), concepita in modo dinamico come pluralità di forme in una gamma infinita di gradazioni di coscienza, considera il dèmone come la facoltà superegemonica di una data anima individuale. In pratica se un'anima o un uomo (in quanto Plotino identifica ogni uomo con la propria anima) vive in prevalenza, per così dire, "vegetando", il suo dèmone sarà la facoltà della sensazione; se un'anima vive prevalentemente di percezioni, il suo daiimon sarà la ragione; se l'anima in prevalenza ragiona, il suo daimon sarà lo Spirito, il nous, e così via in una mistica scala ascendente.
Plotino fonda così una nuova categoria dell'Essere in divenire: la daimonia, ossia la vita inesauribile dell'Anima nella quale il 'mondo' è immerso come una rete nel mare, il potere dell'Anima di percorrere da un capo all'altro la catena del reale e di assimilarsi ad ogni 'anello' di questa catena, ad ogni 'tappa' di questo viaggio. E ogni tappa è uno stato, condizione o modo di essere dell'Anima o coscienza unica: un dèmone. Il dàimon è dunque la "mobile stazione dell'anima in viaggio", la coscienza come si manifesta in ogni sua condizione e grado. E poiché l'anima è un potere dinamico, il daimon si perde nel dio-rappresentato ad ogni tappa dal simbolo di un diverso essere divino- fino a contemplare nell'ex-stasis, I 'UNO, il Divino Assoluto. Per Platone, come per Plotino, la Suprema Divinità è to-Agathàn, letteralmente, "il Bene" e Agathodaimon è lo Spirito del Bene, Ia sua Essenza od Energia che si manifesta quale Coscienza e Vita universali. Gli Gnostici Ofiti chiamavano Agathodaimon il Logos-Christos e Sophia, 'Sapienza Divina' la sua 'Compagna'. Nei misteri orfico-dionisiaci erano rappresentati nel simbolo di un serpente eretto su di un’asta.
Per concludere non ci resta altro, credo, che fare qualche riflessione sul pensiero filosofico-religioso di Dante.
È ben vero che lo schema della metafisica di Dante è sostanzialmente quello della scolastica cristiana ma molte e diverse sono le componenti del pensiero del Poeta che si evolvono da La Vita Nova alla Commedia, attraverso il Convivio. Come abbiamo visto Il Convivio è fondato totalmente sul simbolo della donna gentile che rappresenta la sapienza filosofica la quale si identificherà nella Commedia con l'intelletto Divino e con la stessa Sapienza o Verbo (simboleggiata dalla Beatrice Celeste) con cui Dio ha "fallo" il mondo, lo ha ordinato e ha posto in atto il processo dell'umanità.
La rappresentazione di questa Unica Eterna Sapienza comincia a schiudersi nel De Monarchia con la netta distinzione tra la ragione umana ("documenta philosophica") e la fede ("documenta rivelata"). Dante tuttavia non intendeva ancora subordinare la ragione alla fede illuminata dalla grazia di Dio o Sapienza. Questo, di fallo avverrà nella Commedia, nella quale ristabilisce il rapporto tra ragione e fede, per cui Virgilio, secondo il senso allegorico simbolo della ragione umana è, secondo il senso anagogico, il messo o annunciatore di Beatrice, simbolo della Sapienza del Pensiero Divino.
In Dante, la Sapienza Divina diventa dunque sempre più una forma della religiosità del suo spirito: una religiosità che non si configura esclusivamente in una delle tendenze della pietà medievale, non è esclusivamente razionalistica, né esclusivamente mistica, ma cerca di comporre insieme l'esigenza dell'interiorità e dell'interesse attivo per il mondo. Inoltre Dante afferma con grande forza il valore morale dell'uomo e della libertà e dignità individuali, del diritto-dovere di conoscere, insieme all'abbandonarsi dell'uomo religioso nelle braccia della Divinità. L'anima di Dante oscilla tra entrambe queste posizioni.
La religiosità di Dante non è perciò un misticismo d 'abitudine e di professione, ma una concreta esperienza della sua anima, spontanea e sincera - naturale vorrei dire - sostenuta da un bisogno irresistibile di conoscere, di sapere, di cogliere l’essenza delle cose, oltre l'intelletto e la ragione, nella stessa Sapienza e Bontà di Dio. La progressiva espansione della religiosità personale avviene in Dante attraverso l'elaborazione, prima dialettica e speculativa poi mistico-intuitiva, del patrimonio di verità già latente nel sentimento. Ma più la religiosità prende coscienza di sé, tanto più diviene universale, più si eleva a Dio, tanto più si espande, prima facendosi personale, poi sociale e infine universale. In Dante, accanto al duplice processo della conversione religiosa (fede e Grazia) e della purificazione morale (Virtù) si svolge quello dell'illuminazione filosofica e intuitiva (Gnosi). E quanto più in alto si sale, tanto più intima diviene l'unione dei "buoni", l’ekklesia, la loro "comunione": "Ogni dove in cielo è Paradiso" si dice in Paradiso III, 88 e sgg. In questa ekklesia, in questa comunione di spiriti conversi, regna perfetta unità di Pensiero e immensa Armonia. E il suo simbolo è la rosa celeste in cui tutti i gradi della beatitudine si incontrano. La lingua perciò diventa superflua: Dio, senza fare parole, conosce e muove tutti i cuori. E Dio è Sapienza e Amore: "Amore che move il sol e I 'altre stelle".