Dati bibliografici
Autore: Pflaum Hiram
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: XXXIX
Anno: 1938
Pagine: 153-178
Ad eccezione cli alcuni eruditi che continuano tuttavia a considerare apocrifa l'Epistola a Kan Grande , tutti sono d’accordo sull’alto valore esegetico da attribuirsi ad essa; una volta ammessa come genuina, (cosa inevitabile, al nostro parere, dopo il celebre studio del Moore) ella diviene infatti la Magna Charta per l'interpretazione del poema dantesco quale la concepì l'autore. Ora il passo più importante di questa lettera è senza dubbio quello (§ 8) nel quale Dante spiega il soggetto letterale e allegorico dell'opera (Est ergo subiectum totius operis etc.), e la maggior parte degli studi complessivi sul Poema lo allegano e lo discutono. Ma ce n'è un altro, che ci pare quasi non meno importante e che però - quantunque sembri strano - ha richiamato pochissimo l'attenzione, quel passo cioè (§ 9, 2) che definisce il cc modo di trattare» del l'opera. Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transmptivus; et cum hoc àefinitivud, divisivus, probativus, improbativus et exemplorum positivus. Un giudizio dell’autore sulla fattura della sua opera non è certo cosa da nulla; però la critica dantesca, tanto attenta alle minuzie, non sembra quasi averne tenuto conto . Persino le numerose edizioni e traduzioni annotate dell’Epistola a Kan Grande non si fermano quasi sopra esso, e nemmeno il Padre Boffito che dedicò quaranta grandi pagine, ammirevoli per l’erudizione e la penetrazione, alla spiegazione dell’Epistola , fece altro che sfiorare quel passo nelle dieci righe che ne trattano. Solo il dotto Padre Giuliani, interpretando, nel 1865, l’Epistola a Kan Grande , diede anche a questo passo l’attenzione che merita; ma la sua spiegazione soffre, a nostro parere, in ciò che trascurò di considerarlo nel suo insieme, cosa indispensabile a chi ne vuole intendere bene le varie parti. Ci crediamo perciò giustificati accingendoci col presente lavoro al tentativo di una nuova, comprensiva interpretazione .
Come mai accadde che quel passo, benché tratti di una delle cose principali per l'intendimento del Poema, cioè della sua struttura, attrasse così poco gli studiosi e non fu mai, o quasi mai, adoperato per rischiarare la fattura della Commedia? La causa sta senza dubbio nel tenore di quel paragrafo stesso. Questa lista di dieci epiteti, «this curious list», come dice il Moore , sembra, a prima vista, stranamente vaga, indefinita, e con ciò incoerente, fortuita; percorrendola vi pare che invece di questi dieci termini così generici: «poeticus, fictivus, descriptivus, definitivus, probativus» ecc., ce ne potrebbero stare indifferentemente tanti altri, come «narrativus, demonstrativus, explicativus, indicativus» e non so quanti altri, ugualmente generici, ugualmente... banali. Sicuro: se quest'impressione fosse giusta, cioè se quella lista non fosse altro che un conglomerato schiettamente casuale, quantunque altisonante, di termini imprecisi - diciamo addirittura: di trivialità -, la critica non ne potrebbe cavar nessun profitto; ma speriamo di dimostrare che non è così.
Una questione preliminare: appartiene veramente a Dante questa lista, 01 modo che sia lecito invocarla proprio come testimonianza sulla formazione della Commedia, ad esclusione d'alt re opere? Non lo credette, sembra, il Boffito, poiché affermò: «Questa terminologia adottata per dichiarare il modus tractandi era quella che soleva adoperarsi dai commentatori» . Si tratterebbe dunque di una frase bell'e pronta, usata convenzionalmente nell'esposizione di qualunque opera? Il fatto sta che questa lista, oppure una parte di essa, si riscontra anche al di fuori dell'Epistola a Can Grande, in iscritti varii; eccone l'elenco, completo per quanto potemmo farlo:
1) Cecco d'Ascoli, Commento al «De principiis astrologiae» dell'astronomo arabo Alcabiti : Modus tractandi est quintuplex ; scilicet diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus et exemplorum positivus .
2) Jacopo della Lana, Commento alla Commedia : L'altro modo è la forma poetica la quale è fittiva e di esempli positivi [sic] dalla qual forma ello tolte lo nome «Commedia».
3) Guido da Pisa, Commento alla Commedia ; reca tutti i dieci termini adoperati da Dante, scrivendo però disgressivus invece di digressivus.
4) Boccaccio, Commento alla Commedia ; reca tutti i dieci termini, ma scrive re-probativo invece di improbativo.
5) Benvenuto da Imola, Commento alla Commedia : Forma tractandi est modus agendi et ordo quem servat, qui est multiplex, scilicet diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus et exemplorum positivus.
6) Francesco da Buti, Commento alla Commedia : reca tutti i dieci termini.
7) Filippo Villani, Commento al Primo Canto dell’Inferno : Quantum ad formam tractandi eiusque modum, processus est poeticus, fictionibus atque integumentis redundans, in quo describit, transumit et saepe digreditur atque dividit et diffinit, probat et improbat, multas similitudines et exempla ponendo, ut eius intentio clarius elucescat .
Tutti questi raffronti (salvo il primo) s’incontrano dunque in commenti alla Commedia e non hanno perciò forza dimostrativa alcuna; chè non solo questi, ma tutti i raffronti in genere che presentano i vecchi glossatori della Commedia coll'Epistola a Can Grande, ci costringono, come dimostrarono il Moore e il Boffito , a considerare quei commenti come dipendenti dell'Epistola o, almeno, di un «Urkommentar» ipotetico, rifuso (se mai esistè) nell'Epistola.
Rimane il passo di Cecco d'Ascoli; questo dimostrerebbe infatti che la seconda meta della definizione dantesca era usuale , se il commento all'Alcabizo in cui si trova quel passo, fosse indubitabilmente indipendente dell'Epistola. Però la cronologia non permette di affermarlo. Il Boffito non si è pronunziato nella sua edizione del commento sulla data di composizione, ma dai documenti riguardanti Cecco d'Ascoli recentemente scoperti, risulta con certezza che questo commento fu composto nel 1323-24 cioè circa cinque anni dopo l'Epistola. Viste le relazioni personali esistite fra Dante e il suo infelice avversario , non è dunque da escludersi la possibilità di un uso dell'Epistola dalla parte dell'Ascolano. È vero che la seconda metà della definizione dantesca non è del tutto originale, poiché proviene dalla rettorica antica, come mostreremo più tardi; ma per decidere poi la questione -se questa applicazione della rettorica antica appartiene all'uso comune dell'epoca, o invece a Dante personalmente, il raffronto col commento all' Alcabizo non giova.
Ma si osservi ancora una cosa: se pure si riuscisse a scoprire tutti i dieci termini che adopera Dante, in uno scritto indubitalmente indipendente dell'Epistola, per ciò questo passo non perderebbe niente del suo valore esegetico, essendo inammissibile che solo per conformarsi a una convenzione abbia Dante inserito questa definizione nella sua dedica, quale una formula adattata alla designazione di qualsiasi opera; giacché supponendo ciò, non si capirebbe appunto per che motivo l'abbia copiata del tutto. Non si affermano le cose assolutamente ovvie, quelle che vanno da sè; e così Dante non spiegò naturalmente che la sua opera consisteva di parole formanti frasi, o che era stesa in iscritto da potersi percepire mediante lettura, e cose simili. È vero che afferma il suo poema essere suscettibile d'interpretazione letterale e allegorica, cosa che accade, secondo le opinioni dell'epoca, in ogni poema (o almeno in ogni poema di valore); ma ciò egli non dice per dar ad intendere che nella sua opera accade lo stesso che in ogni altra, bensì per spiegare poi in che maniera particolare questa qualità comune esiste nell'opera sua. Parimente l'elenco dei caratteri formali dell'opera, se pure quest'elenco fosse del tutto convenzionale, deve nondimeno comportare l'intenzione d'indicare caratteri che non siano comuni a tutte le opere, se non addirittura particolari alla Commedia. Determinare, mediante l'interpretazione giusta dei termini adoperati nel passo citato, quali siano queste qualità formali che Dante considera caratteristiche per il suo poema, è lo scopo dell'esposizione alla quale ci accingiamo ora.
FORMA SIVE MODUS TRACTANDI. - Dante (come anche Cecco e il commento all'Ecerinide) distingue tra la «forma del trattato» e la «forma del trattare». La prima è la forma esteriore colla quale appare l’opera terminata, cioè la divisione in cantiche, canti e versi. La seconda è la forma interiore, il modo in cui distribuisce e presenta il poeta la sua materia. Però già la congiunzione colla «forma del trattato» indica che non si tratta dello stile propriamente detto, cioè del modo di dire, della scelta delle parole, del loro colorito, della loro capacità di comunicare o suggerire sentimenti e emozioni, dai vari tropi, figure di stile, «colore rettorici» e così via. È vero che Dante conosce benissimo la nozione di «stile», così come ne ha il senso tanto fine. Ciò è attestato non solo dalla lingua così ricca e colorita dei suoi versi, ma anche da parecchie osservazioni di stile teoriche (sullo stile di Virgilio ; sui pregi delle diverse lingue volgari ; sui tre stili ; sullo stile aspro della passione ; sulla costruzione delle frasi e il colore delle parole e molte altre), e soprattutto della celebre caratteristica di quella scuola, che con un'espressione sua chiamano appunto «Stile Nuovo»: «Io mi son un che quando amor mi spira...». Non dimeno non si riferiscono le parole «forma sive modus tractandi» ecc. allo stile, al modo di dire, ma alla struttura del poema. Se altrimenti fosse, se Dante intendesse la lingua del poema, come mai si spiegherebbe che tra non meno d i dieci termini che egli adopera per designare la «forma del trattare», non si trova neanche un solo di quei che ritornano ad ogni volta nella teoria tradizionale dello stile, termini che Dante conosceva naturalmente e che s'applicherebbero molto bene anche alla Commedia, termini come «metafora, antitesi, enfasi, prosopopea, circonlocuzione, attenuazione» e simili? I termini che invece adopera, non indicano gli ornamenti, i tropi, le figure di stile che appariscono nella Commedia, ma elementi strutturali, forme costruttive dell'opera nel suo insieme. Non siamo dunque d'accordo col Boffito che comincia la sua nota dicendo: «Quanto ai modi tractandi non c'è dubbio che con essi voglia l'autore riferirsi... ai vari schemata lexeos»; il plurale «modi» (invece del singolare che scrive Dante) indica già la divergenza: «modus tractandi» non è una tra le molte figure di stile, ma la fattura o struttura dell'opera, definita per diversi (dieci) attributi. Parimenti il fatto che l'opera ha una pluralità cli sensi (che non è certo un fatto isolato quale una figura di stile ma centrale, costituzionale) è chiamato «modus tractandi» nel §7 dell'Epistola e corrisponde infatti, come vedremo, al «modus tractandi transumptivus» che figura nell'elenco e che ha dato luogo a spiegazioni sbagliate; finalmente si osservi anche l'uso dell'espressione «forma sive modus tractandi» che fanno due commenti già citati che non riproducono, neanche in parte, i dieci termini danteschi: nondimeno usano anch'essi questa espressione per designare caratteri fondamentati dell'opera che esaminano, e non lo stile .
Se il nostro passo definisce dunque la struttura e non lo stile del Poema, ha appunto perciò, ci pare, più gran valore esegetico. Chè lo stile è completamente realizzato in un'opera quale essa ci sta innanzi, di modo che esso non esiste se non in quanto è manifestato; giacché non consiste punto in ciò che l'autore avrebbe voluto esprimere, ma solo in ciò che egli ha realmente espresso, realmente comunicato. Perciò lo stile non è meno percepibile a chi contempla l'opera, che al creatore, - anzi il «mezzo» di stile che il poeta usa spontaneamente, il critico può talvolta analizzarlo e Penderselo cosciente meglio di lui (così, per esempio, siamo in migliore posizione degli autori stessi per distinguere ciò che è un Euphuismo in Shakespeare, un Petrarchismo nel Bembo ecc.). Invece la struttura di un'opera è nascosta, e non si realizza interamente nell'opera, essendo in parte solo intenzionale. Per la struttura dunque (come per l'intenzione e per il senso dell'opera) l'esposizione 'fatta dall'autore stesso, è per sè superiore ad ogni altra.
TRACTANDI. Tractare e tractatus non si usano nel latino classico parlando di componimenti poetici, bensì nel latino medioevale, come poi in italiano, e soprattutto nelle Art es Poeticae medioevali; così leggiamo nella Poetria Nova di Geoffroi de Vinsauf : (v. 256) quod si (scil. collatio) plantetur in horto Materiae, tractatus erit iucundior… o (v. 257) si velit ulterius tractatus linea tendi... ecc., e tractatus s'incontra anche talvolta nei titoli di poemi medioevali. Dante adopera la parola parecchie volte per designare sia la Commedia (p. es. in ipso Deo terminatur tractus sia anche le sue poesie amorose (Disporrò giù lo mio soave stile Ch’i’ho tenuto nel trattar d’amore ).
POETICUS, FICTIVUS etc. – Ora vengono dieci epiteti destinati a definire la «forma del trattare». Tutti (salvo il primo, «poeticus») sono derivati, mediante il suffisso -ivus, da sostantivi che servono da termini tecnici nella rettorica antica o medioevale; però non meno di cinque di questi aggettivi sono sconosciuti al latino classico, e cioè: 1) fictivus – i Romani dicevano invece ficticius o fictus (talvolta anche fictiosus o fictilis); fictivus (da cui già nel Duecento si è derivato fittivo) è però assai comune nel Medio Evo –; 2) digressivus; 3) divisivus; 4) improbativus; 5) positivus colla significazione di ponens (nel latino classico vale solamente quanto positus); non si può determinare la diffusione di queste parole nel Medioevo finché non esista un glossario sufficiente del Medio Latino.
Esaminiamo ora questi dieci epiteti a uno a uno :
1. POETICUS significa anzitutto «scritto in versi». Contro l'autorità d'Aristotele che combatte l'uso di identificare il ποιεν col μέτρον (come se non ci fosse poesia senza versi nè versi senza poesia) , stabilì la scuola rettorica di Cicerone e di Quintiliano il verso come caratteristica della poesia, e questo errore sopravvisse - a detrimento della poetica - in un certo modo fino ai giorni nostri (soprattutto presso le nazioni latine). Secondo questo principio definisce Dante la poesia: Qui vulgariter versificantur…prorsus poetae sunt, si poesim recte consideremas quae nihil aliud est quam fictio rhetorica musicaque posita , cioè una finzione rettorica messa in versi .
Però non solo questa definizione esterna («scritto in versi») è compresa nell'epiteto «poeticus». Esso comprende - per Dante critico, come per Dante poeta - anche ciò che per noi altri moderni eleva la poesia sopra il ragionamento e l'eloquenza: l'armonia del ritmo (lo numero de le parti) , la profondità dell'idea (la nascosa veritate) e il volo dell'immaginazione (l'immaginativa che ne rube Talvolta sì di fuor... come si dice nella celebre invocazione della fantasia, Purg., 17, 13). Ci sembra infatti che il termine poeticus accenna alla presenza, nel Poema, di queste qualità che il ragionamento prosaico respinge, ma che ricerca la poesia, conciossiacosachè a’ poeti sia conceduta maggior licenza di parlare che alli prosaici dicitori . Questa «licenza», cioè la libertà della creazione poetica, è la prima e infatti la suprema fra le qualità che il Poeta ascrive nel nostro passo alla sua opera; è essa, possiamo aggiungere, quel dono sublime di cui, in parole nobili, parla l'Epistola a Can Grande (§ 18:): aliquid supra communem modum hominum a superioribus substantiis petendum, quasi divinum quoddam donum. Non crediamo affatto cli sovraccaricare il termine che ci occupa, con questi raffronti, visto che chi lo usa qui, al principio dell'analisi strutturale del suo poema, è colui per cui il nome cli poeta è il nome che più dura e più onora.
2. FICTIVUS non sta certo a proclamar che le cose contenute nella Commedia siano finte nel senso proprio della parola. È vero che la questione della verità materiale, la «quaestio facti» della poesia, preoccupò molti, cominciando al più tardi con Marziale, ma soprattutto sin dai principi del Cristianesimo e durante tutto il Medioevo, e ci sono stati non pochi che anatematizzarono la poesia senz'altro come «mendace» . Per Dante non esiste la questione della menzogna poetica quale problema «morale». Conforme a una secolare tradizione egli considera la finzione quale un privilegio concesso a priori alla poesia, e iniziando l'esposizione della canzone «Voi ch'in tendendo» indica la bella menzogna che ci si trova, senza fermarsi a qualsiasi difesa . Col termine fictivus l'autore non intende dunque pronunziarsi sulla questione se siano veri o falsi i fatti riferiti nella Commedia - neanche sarebbe qui il luogo di trattarne, essendo essa questione materiale e non formale - perché qui il senso di quest'epiteto è altro. La sua spiegazione ci è offerta da quel passo del Convivio nel quale Dante dichiara con quale intenzione abbia composto la prima canzone: Apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d' altre cose: però che de la donna di cui io m’'innamorava, non era degna rima di volgare alcuna palesamente poetare, nè li uditori erano tanto bene disposti che avessero sì leggiere le non fittizie parole apprese; nè sarebbe data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia . La parola fictivus (fittizio) si riferisce dunque evidentemente a quella duplicità del senso (letterale e allegorico) che è la vera base dell'esposizione e nel Convivio e nell'Epistola a Kan Grande; ognuno conosce questa duplicità così dagli scritti di Dante come da molti altri, soprattutto dell'Alto Medioevo , e inutile sarebbe fermarci sopra essa. Però ci pare sbagliato il dare a «fittizio» il senso di «allegorico» come sembra aver fatto il Giuliani . La parola «fittizio» presuppone infatti, come l'abbiamo detto, la duplicità del senso, però non insiste sul senso allegorico, ma su quello letterale; non indica che c'è un insegnamento allegorico - coperto, del resto, da un velo favoloso-, anzi proclama che c'è una favola che spesso (non sempre!) rinchiude, del resto, un insegnamento allegorico. Fondiamo questa nostra interpretazione sopra un passo (Con., II, 15, 2) nel quale «fittizio» si identifica addirittura con «letterale», opponendosi a «allegorico». Il capitolo XV del secondo libro del Convivio appartiene a un gruppo di capitoli (XII-XV), in cui Dante espone allegoricamente la prima canzone, che prima (cap. III-XI) aveva esposta letteralmente. Rispetto a certi versi o stanze basta secondo lui l'esposizione letterale, mentre altri le domandano ambedue ; così nella prima stanza una sola cosa (cioè chi siano colore che muovono il terzo cielo) richiede una spiegazione allegorica, e manifesto questo, veder si può la vera sentenza del primo verso della canzone proposta per la sposizione fittizia e litterale; e per questa medesima sposizione si può lo secondo verso intendere infino a quella parte dove dice…ecc (XV 2). «Fittizio» e «letterale» sono dunque lo stesso, opposti ambedue a «allegorico», e gravemente sbagliò il Sauter che tradusse (p. 194) «per la sposizione fittizia e litterale» per «auf Grund der allegorischen und wortlichen Erklarung». «Fittizio» significa proprio il contrario, cioè la favola, quello che p chiamato Conv. I, i, 18 «la litterale istoria». E non è certo strano che la «storia» sia chiamata «fittizia»: poiché infatti – e chi non lo sa? –, per Dante come per tutta la sua epoca, la «favola» è la finzione e l’allegoria è la verità . «Fictivus» nel passo che ci sta occupando, proclama dunque che in quest’opera c’è un’«azione», cioè si canta di persone e di fatti. Certo non c’è nessun dubbio che un gran numero di queste persone ha carattere allegorico, comporta un insegnamento astratto, però anche a queste volle e seppe Dante dar forma palpabile, corpo e colore, e assai più grande è il numero di quelle le quali, come Francesca o Ulisse, vivono la loro vita nel suo poema senza richiedere interpretazione allegorica, comportando solamente quell’insegnamento che comporta ogni essere umano che agisce e soffre, per chi lo contempla con anima aperta. L’insieme di queste figure e i loro atti (comprende le allegorie in quanto hanno corpo e vita) formano la «fictio» o favola, ed è anzitutto la sodezza palpabile, la mirabile realtà della «fictio», ciò che eleva questo poema allegorico sopra ogni altro dei numerosi poemi allegorici. Certo, si trovano nella Commedia anche capitoli schiettamente dottrinali (come i discorsi sul libero arbitrio, Purg. XVIII; sulle macchie della luna, Par. II; sul Platonismo, Par. IV, e tanti altri) – nondimeno potè Dante enumerare fra i caratteri strutturali della sua opera anche quello di «fictivus» (che ci piacerebbe tradurre per «narrativo» o magari «epico»): egli potè farlo (nonostante i capitoli dottrinali e persino l’intenzione dottrinale del testo), perché i dieci epiteti del nostro passo stanno per indicar proprietà prominenti dell’opera e non per forza tali da abbracciarla intera. Infatti, l’elemento «fittizio», cioè i tratti narrativi o pittoreschi, non importavano poco nel giudizio di Dante; già in quell’epoca di transizione nella quale era quasi assoggettato al culto dell’allegoria, aveva scelto come prima «vivanda» del suo Convivio una canzone di cui la graziosa tornata difende appunto la causa della bellezza esterna, sensibile, cioè della «fictio», quale esiste indipendentemente dall'intenzione allegorica:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragion intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte.
Onde, se per fortuna elli addivene
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d'essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte
dicendo lor, diletta mia novella:
«Ponete mente almen com'io son bella!»
E nell'apice della sua vita, quando un'infinità di figure, di cose, di forme e di colori venne a spandersi sopra le pagine della Commedia, non fece certo minor caso della «bella menzogna». Dev'essere per ciò che l'attributo «fictivus» viene subito dopo il più comprensivo, cioè «poeticus»; insieme denotano le supreme qualità estetiche del Poema.
3. DESCRIPTIVUS. - I tre termini seguenti, «descriptivus», «digressivus», «transumptivus», tolse Dante, secondo noi, dalla tradizione della poetica medioevale, e col significato che hanno là bisogna spiegarli. La poetica medioevale si divide in due parti principali:
a) maneggio della materia (scelta, distribuzione, elaborazione ecc.);
b) Ornamenti di stile (figure di pensiero e di linguaggio, tropi, «colores» ecc.).
Il maneggio della materia è proprio ciò, secondo noi, che Dante chiama «forma si ve modus tractandi»; il suo mezzo principale è l'amplificatio e solo in modo sussidario e limitato ci si aggiunge l'abbreviatio. L'«amplificazione» non è semplicemente prolissità, bensì la facoltà di scoprire nuovi aspetti interessanti nella materia, di arricchire e di abbellire la materia mediante descrizioni, sviluppo di episodi, introduzione di personaggi reali o allegorici, similitudini, invocazioni e così via: in breve, tutte le invenzioni o mezzi che giovano allo scrittore per trasformare la materia impersonale in una creazione personale, ma che non appartengono allo stile nel senso proprio. Il più stimato di questi mezzi era la «descriptio» e ad essa, cioè alla «descriptio» delle «Artes» medioevali, si riferisce, al nostro parere, il termine «descriptivus» che adopera Dante. È vero che anche nell'antichità si apprezzò la descrizione (gravissimum augendi lumen la chiama Cicerone) , però i rettorici medioevali approfondirono di molto la sua teoria , allargando nello stesso tempo la sua sfera di applicazione. I teorici dell'antichità consideravano la descriptio (χαραϰτηρισμός, έϰϕρσις, διιατύπωσις) quasi unicamente come una parte del sermone processuale, destinata a disporre i giudici in favore del cliente o prevenirli contro l'avversario, mediante una caratteristica tendenziosa . Invece i rettorici medioevali trattarono la descrizione come prooedimento poetico, e vari precetti e consigli regolavano il suo uso riguardo a persone, oggetti, paesaggi, città, eventi (naufragi, battaglie, incendi ecc.), fenomeni naturali, parti del giorno, stagioni e simili. Di tal guisa venne il termine «descrizione» a designare e la pittura epica elaborata (tipo «scudo d'Enea») da un lato, e la condotta degli episodi dall'altro; e rispetto alle persone denotava non solo il delineamento metodico di un corpo umano dai piedi sino alla punta dei capelli ( cosa molto in voga presso i poeti dell'epoca che ci aggiungono talvolta l'elenco completo dei connotati: nome, discendenza, professione, stato civile ecc.) ma anche la caratteristica morale che si contenta di mettere in rilievo - a lode o a biasimo - certi tratti del carattere di una persona. È probabile che anche Dante abbia preso la parola «descriptio» dalla quale deriva il suo «descriptivus», con questo senso comprensivo, medioevale. Egli non coltiva, è vero, la descrizione epica elaborata, così cara a Virgilio e a Luciano, nemmeno fermò mai la corsa tempestosa dell'immaginazione per dipingere, pedantescamente, un corpo umano secondo il canone delle «Artes Poeticae». Però con una visibile gioia d'artista egli prova spessissime volte la sua maestria nella caratteristica morale come anche nel delineamento rapido e preciso di avvenimenti e di fenomeni naturali. Giacchè la Commedia è la relazione d'un viaggio, descrivere i Tre Regni, «dir delle cose che v’ha scorte» è il suo scopo immediato; «descriptivus» denota questa funzione fondamentale del poema.
4. DIGRESSIVUS. Anche della digressio (nell’antichità anche egressio e excessus, greco έϰδρομή, παραδιήϒησις, παρέϰβαοις facevano molto caso i rettorici medioevali ed anche a essa diedero un significato molto più esteso di quello che ebbe nell'antichità. Non solo chiamano così il passaggio a qualche cosa indubbiamente fuori dalla materia , ma ogni cosa in genere che interrompe - fosse pure per un attimo - la narrazione propriamente detta (e in ciò la «digressione») si confonde colla descrizione, coll'esempio e con altri ornamenti) e persino il «salto» cioè la narrazione di un fatto innanzi tempo . Tali «digressioni» (che non sono punto digressioni per noialtri moderni) si trovano naturalmente in gran numero in Dante come in ogni poeta, e così come per «descriptivus», dobbiamo anche per «digressivus» constatare la probabilità che Dante abbia preso nel senso ampio, medioevale, la parola da cui derivò l'epiteto.
Però se pure diamo al termine «digressione» solo il senso odierno, ristretto, egli denota tuttavia una proprietà strutturale caratteristica della Commedia: come vere e proprie digressioni basta rammentare per esempio la descrizione di Mantova e dei suoi dintorni (inserita a proposito dell'incontro dei viaggiatori con Manto, lnf. 20, 61-102); la discussione sulla forza della preghiera, Purg. 6, 28-46; le invettive (come, «Ahi serva Italia») e moltissime altre. E, oltre a queste vere digressioni, possiamo, rigorosamente parlando, considerar come tali persino la maggior parte degli incontri, cioè tutti quelli che - invece di risultar per necessità delle circostanze della situazione del luogo ( come gli incontri con Caronte, con Lucifero, con Beatrice ecc.) - sono accessori in quanto la persona incontrata è semplicemente uno tra molti abitanti di un dato luogo (e a questo tipo appartengono i più celebri e più commoventi «episodi»: Francesca, Ugolino, Sordello, la Pia e simili). Tali incontri senza dubbio fanno parte dell'«amplifìcazione» e precisamente del genere delle «digressiones» secondo la poetica medioevale e, se non ci sbagliamo, anche secondo quella di Dante. A ciò non si oppone il fatto che questi episodi sono artisticamente legittimissimi e addirittura necessari; anzi se per noi il termine «digressione» denota una licenza e magari una debolezza nell'opera d'arte, non era così per il Medioevo, e per dimostrarlo, abbiamo creduto opportuno di riferire qui in succinto la teoria medioevale della digressione. Ne risulta che l'epiteto «digressivus» sta per designare un elemento costruttivo della Commedia, necessario secondo la sua intenzione poetica e dottrinale.
5. TRANSUMPTIVUS. La parola «transumptio» (che letteralmente significa naturalmente «trasporto, trasferimento altronde in qua») è usata dai rettorici antichi, però con un significato che non si adatta qui. Con «transumptio» traduce Quintiliano il termine greco μετάληψις, una specie di doppia o indiretta metafora (una metafora che - invece di evocare direttamente una certa cosa - evoca un'altra metafora che dal suo lato evoca quella cosa; per esempio: «anima nivea» invece di «anima innocente», dove da «niveo» si passa a «innocente» via «bianco», o «uomo cristallino» invece di «sincero», via «trasparente»). Evidentemente, questo non può essere il significato che conviene qui; se pure non ci fossero raffronti (danteschi ed altri) capaci di confermare in modo positivo un'altra spiegazione, basterebbe rammentarsi, per far respingere questa, che la metalessi è una vera e propria figura di stile e che dunque l'epiteto «transumptivus», spiegandolo in questa maniera, non si accorderebbe punto con tutti gli altri che figurano sull'elenco che ci occupa. Il Giuliani aveva adottato questa spiegazione al principio , ma poi la sostituì con un'altra che gli aveva suggerita il Tommaseo in una lettera critica : «Transumptivus vale quanto abbreviativo e loqui transumptive ovvero per quadam transumptionem viene a dire lo medesimo che parlare per transunto, quasi in compendio» . Ma questa spiegazione (che ha per appoggio l'uso dei notari di chiamar «transumptum» la copia abbreviata, il «sunto», dei documenti) si urta, a nostro parere, contro alcuni luoghi che abbiamo incontrati in Dante stesso e presso scrittori della medesima epoca e che recano le parole «transumptio» e «transumptivus»; il rapporto di questi luoghi permetterà di stabilire il significato che occorre nel nostro passo:
a) Nell'Epistola IV (a Cino da Pistoia) Dante, in risposta a un sonetto mandatogli da Cino, annunzia così l'invio idi una sua poesia: «Redditur, ecce, sermo Calliopeus inferius, quo sententialiter canitur, quamquam transumptive more poetico signetur intentum, amorem huius posse torpescere atque denique interire, necnon huius, quod corruptio unius generatio sit alterius, in anima reformari». La poesia alla quale il poeta accenna qui, è, si sa, il sonetto «Io sono stato con amore insieme» che finisce:
(Amor) Ben può con nuovi spron punger lo fianco,
E qual che sia 'l piacer ch'ora 'n addestra,
Seguitar si convien se l'altro è stanco.
Dante esprime dunque la sua opinione «in forma dottrinale, sebbene con un simbolo, come conviene a una poesia» (sententialiter quamquam transumptive, more poetico, signetur intentum).
b) Pietro di Dante, Commento alla Commedia, Prologo : «Tertio utitur quodam sensu qui dicitur apologeticus, ab apologus qui est oratio quae nec veras nec verisimiles res continet, est tamen inventa ad instructionem transumptivam hominum». Qui, «transumptivus» significa dunque «sotto figura» (si tratti di parabole, allegorie, simboli o altre), e si noti che riguarda le cose e non le parole.
c) Vari antichi commenti della Commedia dicono che la riviera di luce (Par. 30, 61) rappresenta «transuntivamente» tutto il paradiso:
1) Ottimo Commento, Paradiso, Canto XXX, Proemio : «In questo trentesimo canto l’Autore transuntivamente parla di tutto il Paradiso, figurandolo in forma d’un fiume» Ibidem, p. 663, ad v. 61: «E vidi lume in forma di riviera»: «Qui parla transuntivamente, ponendo un lume a modo d'un fiume, le cui rive sieno di fiori cioè beatitudini» etc.
2) Benvenuto da Imola, Comentum super Comoediam, ad Par. 3, 61 : «Hic auctor descibit Paradisum transumptive…dice quod per istud lumen decurrens ad modum flumins autor figuraliter manifestat divinam gratiam… Per duas ripas intelligit duos choros beatorum…Flores sunt sancti… Favillae volantes sunt angeli…Nunc ergo littera clarebit, quae est de se difficilis et obscura»
3) Anonimo Fiorentino, Commento alla Commedia, Paradiso, Canto LXX, Proemio : «L'autore nel presente capitolo tocca sei cose... la quarta transeaitive parla del Paradiso in communi». lbid. (p. 553) ad v. 61: «Qui parla transuntive, ponendo un lume a modo di fiume, e le rive di quello eran fiori cioè beatitudini» ecc.
In che cosa consiste dunque ciò che questi glossatori indicano per cc transuntivamente»? Non consiste nel fatto che la luce celeste è rappresentata da un fiume, con rive, erbe, onde, di maniera che Dante può chinarsi su esso (v. 86) e berne (v. 88) - non consiste in tutto ciò (che sarebbe per altro una metafora o similitudine cioè una figura cli stile). Consiste invece (come risulta dai ' proemi dei tre commenti) nel fatto che questo «fiume» di luce «figura» cioè simboleggia il Paradiso stesso. Anche qui «transumptivus» riguarda quindi le cose, non le parole.
d) Francesco da Buti, Commento alla Commedia, ad Inf. XXXIII, 22 : «Muda chiama l'autore quella torre, o forse perché così era chiamata, o per transunzione, chè vi fu rinchiuso il Conte e li figlioli, come gli uccelli nella muda» .
Qui, dunque, «transunzione» indica metafora.
e) Ottimo Commento II 452 ad Purg, 24, 59: «dittator, cioè colui oh s il dire suo adorna con colori rettorichi e transuntivi».
f) Guizzardo da Bologna, Commento all'Ecerinide (composto nel 1317), ad v. 8-9 cc ... arx in excelso sedet Antiqua colle»: «Sedet transump tio est, nam sedere proprium est hominis et ei correspondet quaedam species metaphorae, de qua diximus quod fìt ex eo, quod id quod est animalis , attribuitur ad non-animal».
Qui dunque «transumpio» = metafora.
g) Goeffroi de Vinsauf, nella Poetria Nova (XIII° sec.), chiama «transumptio» ogni genere di metafore e tropi, p. es.:
Quando tuum proprium transumis, plus sapit istud
Quod venit ex proprio. Talis transumptio verbi
Sit tibi pro speculo .
Abbiamo creduto opportuno di riunire una volta un certo numero di passi che illuminino l'uso (fin'ora non istudiato) di «transumptio» nella terminologia rettorica del medioevo. Risulta dal loro confronto che la parola non aveva per Dante e i suoi contemporanei, (almeno quando parlavano di poesia) il significato limitato (possiamo dire: quintiliano) di «metalessi», neanche quello - notarile - di «compendio, transunto», ma quello generico di «traslato» o «figura», sia la sostituzione di una parola per un'altra evocante una somiglianza che balza fuori (metafora), ossia la sostituzione di una cosa per un'altra, l'astratta per la concreta, la generale per la speciale, l'idea per l'immagine, (allegoria, simbolo). I due significati, quello stilistico e quello tematico, sono intimamente legati tra loro, e combaciano in «transuntivo» non altrimenti che nella parola «figurativo». Può darsi che Dante, scrivendo l'Epistola, abbia avuto presente ambedue i significati (come certo accade per l'autore dell'Ottimo Commento); però, tenendo conto degli altri nove termini dell'elenco che ci occupa in quest'articolo, ci pare probabile che qui, nella definizione della struttura del Poema, Dante abbia piuttosto inteso il secondo significato, quello cli «fictivus» indicava, in quell'opera bifronte che è la Commedia, l'invenzione, la narraziòne, la «bella menzogna». - «transumptivus» invece indicava il contenuto intimo di quella, la portata universale delle cose narrate o descritte, l'ammaestramento umano e religioso che esse recano, la «nascosta veritade»; l'uno: l'immagine - l'altro: l'idea.
ET CUM HOC DEFINITIVUS etc. Tutti i cinque termini che precedono nell'elenco, designano qualità poetiche, cioè qualità che presenta la Commedia quale opera poetica; i significati che più giovano alla loro spiegazione, ci hanno offerti gli scritti medioevali di poetica, sia le «Artes Poeticae», sia gli scritti critici di Dante e gli antichi commenti del suo poema. Le parole copulative «et cum hoc» dividono l'insieme dei termini in due gruppi, e - come si conviene a Dante che tiene in sì alto pregio l'armonia dei numeri - sono gruppi di numero uguale, facendo insieme il numero insigne dieci. Ma è proprio vero che un nuovo gruppo comincia qui, e che cosa lo distingue allora dal precedente? Lo distingue, ci pare, il fatto che i cinque termini seguenti, cioè definitivus, divisivus, probativus, imoribativus, exemplorum positivus, non provengono dalla poetica, ma dalla rettorica, e che designano proprietà che ha la Commedia come trattato. È vero che la maggior parte di essi si ritrovano anche nelle «Artes» come termini tecnici, ma con significati speciali e sconnessi che non si adattano bene qui, non andremo dunque a prendere nelle «Artes» i termini per spiegar con essi quelli dell’Epistola, giacché non crediamo che quest'elenco di termini sia un «mixtum compositum», una farragine fortuita, ma un catalogo metodico e omogeneo. E metodico ed omogeneo apparirà anche il secondo gruppo se ora, lasciando da parte gli scritti medioevali di poetica, scegliamo come guida la rettorica antica. Questa tratta naturalmente di componimenti fatti per argomentar e persuadere I ma nel medioevo, si sa, si identificarono, sotto l'influenza di Cicerone, quasi totalmente la poetica e la rettorica , e Brunetto Latini, commentando la Rhetorica ad Herennium, afferma esplicitamente che i precetti della rettorica valgono anche per la poesia . Che Dante abbia considerato la Commedia anche come un'opera cli argomentazione, non c'è dubbio, certo, poiché lo attesta tutta l'Epistola a Kan Grande, come in particolare le espressioni usatevi per designarla: «opus doctrinale» (§ 6) e «tractatus» (§ 9); e ciò ci giustificherà, ci pare, se, nelle pagine seguenti, stiamo per identificare i termini che usa Dante nell'elenco, coi termini che designano, presso i rettorici antichi, le varie parti del sermone forense. Però bisogna spiegar una cosa: dal raffronto che faremo, non risulta che Dante abbia voluto avvertire che certi passi della Commedia consistano, attualmente delle cinque o sei («parti del discorso», neanche risulta, che la Commedia intera formi un sermone ordinato di quel genere e che ella si possa dunque dividere in tante parti. A nostro parere Dante intende solamente mostrare che tali e tali mezzi di esposizione o «parti del discorso» che si convengono ad ogni opera dottrinale ben fatta, si trovano adoperati anche nella sua, l'uno qua, l'altro là , e li nomina nel loro ordine. E una volta riconosciuto il fatto, (per il quale seguiranno le prove) che, cioè, la seconda parte dell'elenco dantesco rifletta la teoria antica delle parti del discorso, si spiega anche il fatto (menzionato quasi al principio di quest'articolo) che gli stessi cinque termini si ritrovano, alcuni anni più tardi, ma forse indipendentemente, nel commento all'Alcabizo che compose Cecco d'Ascoli; entrambi gli scrittori saranno stati mossi da un desiderio che (riguardo all'Epistola, ma in un altro contesto) esprime benissimo il Moore : «He would desire both to satisfy himself and to prove to others that all the rules of art applicable to 'quodque doctrinale opus' had been strictly complied with; that all the commonly recognizecl features of literary composition were to be found in his work ; that it could be adjusted in all its details to the conventional framework of such compositions». Secondo questo desiderio di conformarsi alla tradizione artistica, Dante ha accolto, ci pare, i termini designanti le parti del 'discorso, nel suo elenco; ma rimane sempre a vedere in che maniera e in che senso speciale essi si applicano alla sua arte e alla sua opera. Bisogna però prima dar uno sguardo alla teoria antica delle parti del discorso.
La maggior parte dei rettorici antichi divide il discorso forense in sei parti chiamate come sezue nella «Reetorica ad Herennium» (attribuita, si sa, a Cicerone nel Medioevo): exordim, narratio, divisio, confirmatio sive probatio, confutati, conclusio ; in alcuni (e tra loro Aristotele nella Rettorica III 13 - luogo che Dante conobbe e citò, Epist. Kani § 18 -), la πρόϑεσις prende il posto della «narratio». La πρόϑεσις è l'esposizione del soggetto della causa; ella è chiamata e ‘propositio' da Quintiliano, Inst. III 9, 2, e ‘definitio' da Cicerone (Orator 33; De Oratore I 42) e da Cornificio IV 25. Specialmente viene l'esposizione a sostituir la narrazione nella «suasoria», cioè nel discorso deliberativo che è il secondo dei tre generi di discorsi (o ratio iudiciaria, deliberativa, laudatoria). Un'altra particolarità del discorso deliberativo è che il prologo e la conclusione possono mancarvi . Invece della conclusione verranno allora e «exempla», secondo Quintiliano che insiste che questa è l'opinione più diffusa ; la stessa funzione di addurre esempi può anche aver la «transizione» ciceroniana che prende posto ugualmente dopo la e «confutatio» e che Brunetto Latini definisce così: «Trepas est quant li parleres laisse un petit sa propre matiere et trespasse a une autre par aohoison ( «occasione») de loer soi et sa partie ou de blasmer son adversaire ou par acroistre sa cause ».
Tenendo conto di queste sostituzioni legittime, otteniamo precisamente l'elenco dantesco: definitio, divisio, probatio, improbatio, exernplorum positio, e sebbene non siamo riusciti a scoprire quest'elenco proprio talem qualem in uno dei rettorici antichi o medievali che abbiamo consultati, possiamo nondimeno affermare: i cinque termini adoperati da Dante nella seconda metà del suo elenco designiamo le parti del discorso (e, in particolare del discorso deliberativo) come la rettorica antica le stabilì. Il discorso deliberativo espone 'appetenda et vitanda, facienda ac non facienda' ; ugualmente l'ammaestramento prammatico degli uomini è lo scopo della Commedia: «Finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et producere ad statum felicitatis. Genus vero philosophiae, sub quo hic in toto et in parte proceditur, est morale negotium sive Ethica; quia non ad speculandum, sed ad opus incoeptum est totum» . È per ciò che Dante credette giusto de- - finire la forma strutturale della Commedia come si conviene ad un'opera di persuasione, e di indicare, dopo le qualità poetiche, anche le parti che costituiscono, secondo la rettorica, ogni opera discorsiva, come dementi costruttivi del Poema.
Stabilito ciò, brevi accenni sui singoli termini basteranno.
6. DEFINITIVUS. La «definizione» nel senso rettorico non deve per -forza essere una vera definizione che espone in un periodo tutte le proprietà della cosa che si definisce, e nient'altro. Il termine designa anche un discorso o un capitolo di un discorso, a condizione che questo costituisca una «brevis et circumscripta quaedam explicatio» delle proprietà della cosa ; Importa solo che per esso, in un modo o l'altro, si esponga l'essenza della cosa. Riguardo alla Commedia, il termine sta probabilmente per indicare che ci si trovano passi di, questo genere, e se alcuni critici moderni si formalizzano, per così dire, di questi passi per la ragione del loro carattere non poetico, avverte appunto il termine che ci occupa, che la loro intenzione è davvero schiettamente dottrinale. Come «definizioni» in questo senso consideriamo per esempio l'esposizione del libero arbitrio Purg. 18, 49-75; quella della redenzione Par. 7, 103-20, e persino la caratteristica del Dolce Stil Nuovo; definizioni nel senso stretto si trovano p. es. Par. 17, 37-42 (il fatto); Par. 24, 64-6 (la fede); Par. 25, 67-9 (la speranza); Par. 4, 73-4 (la violenza) ecc.
7. DIVISIVUS. La «divisione» è l'analisi, sia come distinzione delle specie che appartengono ad un genere; sia come esposizione delle opinioni pro e contro riguardo a una questione; ossia come scomposizione di un discorso nelle sue parti . Dante (seguito in ciò dai suoi primi glossatori) dà grande importanza alla scomposizione («divisione») dei discorsi, e non solamente divide e suddivide, come si sa, con soverchia accuratezza, le poesie della Vita Nova, le canzoni del Convivio e il prologo del cc Paradiso» (Epist. Kani § 31) - ma egli tiene anche a dichiarare esplicitamente: «Nullo si maravigli se per molte divisioni si procede, conciossiacosachè grande e alta opera sia per le mani al presente e da li autori poco cercata» . Ecco alcuni esempi di «divisione» nei vari sensi spiegati sopra:
a) distinzione delle specie che sono sotto un gemere: tre specie d'amore, Purg. 17, 91-123; tre specie di sapienza, Par. 13, 31-111;
b) esposizione delle opinioni pro e contro. Il metodo scolastico, - cioè il procedimento verso la conclusione mediante la proposizione di obbiezioni («dubia») e la loro confutazione ad una ad una - costituisce certo un caso di «divisione» nel senso rettorico; un riflesso di questo metodo apparisce qua e là nella Commedio. Un esempio caratteristico: la discussione sui gradi della beatitudine, Par. III, 58-V, 84.
c) Scomposizione delle parti di un discorso. Non ci ricordiamo di aver trovato questo procedimento attualmente adoperato nella Cdm11iedia; però lo smembramento pedantesco (Epist. Kani § 31) delle sette terzine sublimi che formano l'invocazione di Apolline nel principio del «Paradiso», attesta che anche un passo che a noi appare come un'unità poetica perfetta ed indivisibile, il suo creatore lo considera come capace di essere diviso e suddiviso «selon les règles». Bisogna dunque credergli quando promette (Ep. Kani § 33): «Pars executiva fuit divisa iuxta totum prologum», cioè: «l'intera cantica (e, sicuro, anche le altre due) si lascia scomporre così bene come tutto il prologo». È probabile che anche a questa proprietà, la «divisibilità» dell'opera (proprietà meno sensibile e meno pregevole per noi altri moderni che per Dante e i suoi contemporanei) accenna l'epiteto «divisivus».
Ma quest'epiteto contiene forse ancora più. Benvenuto da Imola, quando cita, nell'introduzione del suo commento , l'elenco che ci occupa, spiega: «Divisivus quia dividit Infernum per circulos, Purgatorium per gradus, Paradisum per sphaeras, et ita de multis». È vero che questa non sarebbe una cc divisione» nel senso rettorico, poichè non riguarda la struttura dell'opera, ma la materia che essa contiene; però non è da escludersi che l'epiteto «divisivus», oltre alle cose spiegate fin qua, comprenda anche questa, infinitamente più importante delle altre: il grandioso lavoro di architettura simbolica che la mente demiurgica del Poeta delineò.
8. PROBATIVUS. Il significato principale di «probatio» e «improbatio» è «dimostrazione» e «confutazione», e in molti luoghi della Commedia si leggono infatti dimostrazioni positive o negative rispetto a teorie teologiche, fisiche, politiche ecc. Però «probare», «probabilis» e gli altri derivati di «probare» significano anche, come ognuno sa, «lodare, lode, lodevole >> ecc.; ugualmente comporta il gruppo «reprobare» e derivati anche il senso di «biasimare». Ora ci sembra che parimenti i due epiteti probativus e improbativus esprimono nel nostro passo anche le nozioni di lode e di biasimo. Chè queste sono nozioni fondamentali nella poetica antica e medioevale, e ci fu chi chiamò la poesia addirittura ars laudandi et vituperandi. Anche Dante le considerò conditiones sine quibus non nel parlare di persone: padare d'alcuno non si può che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla . E di certo doveva segnalare la lode e il vituperio fra i caratteri fondamentali di quel poema per cui, quasi anticipando, con inaudito ardire, il Giudizio Finale, egli osò pronunziare un'inappellabile sentenza di gloria o d'infamia sui vivi e i morti.
9. lMPROBATIVUS indica, come dicemmo, e la confutazione e il vituperio. Basta ora notare che in questa rubrica troveranno dunque il loro posto le grandi invettive, come «Ahi serva Italia» o quelle contro le donne fiorentine, i partiti, i trafficatori d'indulgenze, i Papi indegni ecc.
10. EXEMPLORUM POSITIVUS. L'exemplmum, fatto o personaggio storico o mitologico, evocato sia per rischiarare la materia del discorso, sia per ornarla e nobilitarla, assume grande importanza nei trattati dei rettorici antichi , ed anche Dante - erede in ciò della poesia didattica medievale - introduce un grandissimo numero di figure della storia sacra e profana come esempi, sia che appariscano in episodi elaborati, sia aggruppati - ognuno rapidamente abbozzato - in elenchi speciali, particolarmente frequenti nel Purgatorio: esempi figurati per ritratti (umiltà c. 10; superbia, c. 12); esempi gridati da varie voci (carità, c. 13; invidia, c. 14; povertà e liberalità, c. 20; castità, c. 25); esempi mostrati in visione estatica (mansuetudine, c. 15; ira, c. 17) ecc. Però Dante allarga di molto il cerchio tradizionale del concetto d'«exemplum», poiché investe colla funzione d'esempi spesso anche personaggi oscuri o di breve fama; e coloro, riempiendo colla loro vita più densa e più calda la galleria d'esempi, convertono anche la «positio exemplorum» - che altrimenti saprebbe troppo di rettorica e di scuola - in una fonte di poesia.
Siamo giunti alla fine del nostro studio e sarà forse utile riunire qui in un prospetto le spiegazioni sicure o probabili che i raffronti fatti ci hanno offerte:
poeticus, a) scritto in versi, b) «poetico»: armonia, immaginazione, idea.
fictivus, l'invenzione epica (opposta all'intenzione allegorica): il mondo sensibile;
descriptivus, delineamenti di forme e di scene; abbozzi di caratteristica;
digressivus, a) digressioni discorsive; b) elaborazione degli episodi;
tansumptivus, a) metaforico; b) simbolico;
definitivus, a) definizioni; b) esposizioni dottrinali dell'essenza di cose e di idee;
divisivus, analitico: a) distinzioni di specie; b) relazioni di opinioni pro e contro (discussioni scolastiche); e) distribuzione della materia nell'opera; d) tettonica dei Tre Regni.
probativus, improbativus, a) dimostrazioni e confutazioni b) lode e biasimo, glorificazione e condanna degli uomini conformemente alla funzione di giudice supremo che assume il poeta;
exemplorum positivus, riunione di personaggi celebri o oscuri in gruppi simbolici.
La spiegazione, della quale si è dato qui il prospetto, non può pretendere di essere più che un tentativo di interpretazione per un passo difficile. È probabile che un esame approfondito permetta di farvi rettifiche importanti su più di un punto; ma crediamo aver dimostrato che questo passo non è affatto un conglomerato fortuito di epiteti vaghi, anzi è un'esposizione metodica e ponderata che insegna quali considerò Dante i caratteri fondamentali (strutturali, non stilistici) del suo poema come opera d'arte e come opera dottrinale, e che a. questo titolo il passo deve essere studiato.
Per spiegarlo, siamo stati costretti ad accumular qui non poco della materia impolverata che riempie l'officina della rettorica medievale. Però abbiamo visto che dietro questa fila di epiteti in apparenza scoloriti e nebulosi si nascondono alcune delle più alte qualità della Divina Commedia; abbiamo visto che, anche nel giudizio sul suo poema si rivela, sotto i vocaboli scolastici, l'artista. È un artista che ebbe, crediamo, intimamente conoscenza di essere pervenuto alla creazione perfetta - e verso - la fine dell'alto Poema ci pare sentire quasi un'eco di questa coscienza:
Ma or convien che il mio seguir desista
Più dietro a sua bellezza poetando,
Come all'ultimo suo ciascun artista