Considerazioni intorno a Convivio II, i, 4 [Selene Serteschi]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Selene Serteschi

Tratto da: Il percorso del poeta cristiano. Riflessioni su Dante

Editore: Longo, Ravenna

Anno: 2006

Pagine: 81-97

1. Sezione 1

In apertura del secondo trattato del Convivio Dante si accinge a esporre la sua «prima vivanda», fuor di metafora, la prima delle quattordici canzoni che avrebbero dovuto far parte dell'opera, a un duplice livello: inizialmente letterale, successivamente, allegorico . Quindi Dante rilascia una dichiarazione di grande interesse concernente la possibilità di «intendere» ed «esponere» qualsiasi scrittura attraverso quattro sensi, letterale, allegorico, morale, anagogico:

Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. (Conv. II.i, 2-3)

Con tale dichiarazione, mentre ritiene possibile estendere a ogni scrittura il medesimo procedimento esegetico applicato dai teologi al dettato biblico, Dante si dichiara persuaso della loro qualità polisemica, ossia della loro possibilità di veicolare plurimi significati. Se è vero, come non manca di notare Cesare Vasoli , che «lo studio più approfondito dei metodi con cui i classici latini venivano insegnati nel XII e nel XIII secolo [...] ha posto chiaramente in luce che alle letture di quei testi erano applicati gli stessi procedimenti allegorici impiegati per l'intelligenza del Vecchio Testamento», è pur vero che Dante si spinge oltre poiché applica tale metodologia anche alle proprie canzoni composte non in lingua latina ma in lingua volgare. È dunque alla poesia e alla scrittura in generale che Dante rivendica la medesima natura polisemica posseduta dalla pagina sacra.
Purtroppo dopo queste parole il testo dell'archetipo presenta una lacuna che ci impedisce di accedere alla definizione del senso letterale offerta da Dante. Franca Brambilla Ageno, cui si deve l'ultima edizione critica del Convivio, ha scelto di non colmare la lacuna, consapevole dell'estrema difficoltà di restituire con una congettura accettabile una porzione talmente corrotta del testo. li brano che maggiormente ci interessa si presenta in questo modo nell'edizione Ageno :

L'uno si chiama litterale, e questo è quello che L'altro si chiama allegorico, e questo è quello che [… L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che] si nasconde sotto 'I manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetere mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare Ii crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d'arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.

In immediata sequenza Dante espone le definizioni relative al terzo senso. morale, e al quarto, anagogico. Nella parte finale del brano appena trascritto Dante ha inteso evidenziare la diversità nel modo di «prendere» il senso allegorico da parte dei poeti e da parte dei teologi. Ma, in sostanza, ed è a questa domanda cui non è facile rispondere, in che cosa consiste la diversità nel modo di «prendere» il senso allegorico da parte degli uni e da parte degli altri?
Per il valore semantico dei verbi usati da Dante in Conv. II.i, 4, «prendere» e «usare», fohn A. Scott ne coglie assai bene il significato e afferma : «In questa dichiarazione, prendere significa senz'altro "capire, intendere" il mezzo che permette la retta interpretazione di un testo già stabilito, mentre usare significherebbe piuttosto "adoperare, impiegare" elementi allegorici nella creazione o strutturazione di un testo poetico: Dante, cioè, dichiara l'intenzione di prendere, cioè, di interpretare e impiegare il senso allegorico nel modo in cui esso viene adoperato dai poeti quando si tratta di giustificare una bella menzogna».
A questo punto può essere utile ricordare quello che scrive Jean Pépin nella voce allegoria curata per l'Enciclopedia Dantesca. Lo studioso afferma che «Per valutare correttamente il posto occupato dall'a. [allegoria] nell'opera sia di D. che di qualunque altro, bisogna intendersi anzitutto sul significato del termine» . Pépin precisa che la definizione dell'allegoria, ripetuta dall'antichità e giunta al Medioevo, per cui l'allegoria è una figura retorica che consiste nel dire altro da ciò che si vuole significare, «mette in evidenza un solo significato per un termine che ne comporta due. Essa mette in luce l’a. [allegoria] quale si ritiene praticata dai poeti epici e dagli autori del Vecchio Testamento, vale a dire l’'"espressione" allegorica, mentre nulla dice dell'operazione mediante cui i commentatori dei poeti e degli esegeti della Bibbia, scorgono, oltre il senso letterale, un senso nascosto, in altre parole dell'"interpretazione" allegorica» .
Sulla base di quanto puntualizza Pépin possiamo comprendere più chiaramente che l'"espressione" allegorica costituisce un modo di parlare mentre l’"'interpretazione" allegorica un modo di capire: nel primo caso siamo di fronte a un procedimento di natura retorica, nel secondo abbiamo a che fare con un criterio di carattere ermeneutico. La definizione forse più autorevole dell'allegoria retorica è contenuta nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia: «Allegoria est alieniloquium. Aliud enim sonat, et aliud intelligitur» tEtym. XV, ix); Isidoro quindi perfeziona la definizione precisando che «allegoriae vis gemina est et sub res alias aliud figuraliter indicat». Dante, nel Convivio, arrivato il momento di passare all'interpretazione allegorica di Voi che 'ntendendo, mostra di tenere presente la definizione isidoriana: «E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello eh' ella suona in quello ch'ella 'ntende, per la passata esposizione questa sentenza fia sufficientemente palese» (II.xii, 10).
Tornando, comunque, al significato e valore dell"'espressione" allegorica e dell'"interpretazione" allegorica, se di fatto, si tratta di due procedimenti diversi, a motivo della loro complementarietà, i medesimi sono stati confusi a cominciare dai tempi più antichi. Pépin ritiene dunque che la ricerca sul ruolo dell'allegoria in Dante debba dirigersi su entrambe le accezioni del termine; d'altro canto lo studioso fa osservare come proprio in un brano del Convivio (I.ii, 17) Io stesso autore formuli la distinzione dei due sensi del termine allegoria:

Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle [scil. delle canzoni], che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture .

I teologi intendono il senso allegorico come uno di quei sensi che, oltre a quello immediatamente letterale, possono essere presenti nel testo sacro considerato innanzitutto vero nella sua letteralità: il testo biblico, tranne rarissime eccezioni , veicola un significato che deve ritenersi assolutamente storico e reale. In primo luogo, per i teologi, la Bibbia racconta eventi effettivamente accaduti che debbono essere considerati autentici senza che ciò precluda che le cose testimoniate e tramandate dalla pagina sacra possano contenere altri sensi che proprio Dio ha voluto significare attraverso la narrazione letterale degli episodi della storia biblica.
Invece Dante sembra intendere che i poeti quando si esprimono allegoricamente, utilizzando un «nascondimento», perseguono una particolare finalità intorno alla quale egli promette di diffondersi in altra parte dell'opera, in quel penultimo trattato del libro che, purtroppo, non sarà mai compiuto. Ma il fatto che Dante affermi: «Veramente li teologi [...]» dimostra che «qui», nel Convivio, ciò che egli "prende" e "usa" come senso allegorico secondo la maniera dei poeti e non quella dei teologi comporti una non piccola differenza relativa sia al modo di intendere il significato del senso allegorico nella sua essenza teorica, sia al modo di attualizzarlo nella prassi, al momento della sua concreta realizzazione artistica.
Possiamo pensare che Dante, nel nostro brano, abbia inteso affermare che quando i poeti si esprimono allegoricamente servendosi di un «nascondimento» non fanno altro che impegnare ingegno e arte mettendo a frutto una competenza e adoperando una potenzialità intrinseca al loro mezzo espressivo: e ciò al fine di comunicare una verità che a un primo livello si presenta come fictio, mentre a un secondo livello si presenta, appunto, come historia.
Tuttavia, a questo punto, può essere utile capire se per Dante i poeti, quando si esprimono, veicolano un messaggio che al primo livello, ossia quello letterale, debba sempre intendersi fabuloso-fittizio oppure no. Tenendo conto delle affermazioni che Dante rilascia in più luoghi del Convivio a proposito della attendibilità storica inerente alla scrittura poetica, l'esempio di Ovidio sembra rappresentare un caso particolare; è probabile che Dante scegliendo questo specifico brano tratto dalle Metamorfosi abbia inteso perseguire una precisa finalità che esamineremo nel seguito del discorso.
Gli esempi addotti da Dante, il mito ovidiano di Orfeo da una parte, l'episodio della trasfigurazione di Cristo raccontato dagli evangelisti e il Salmo CXIII In exitu Israel de Egypto dall’altra, mettono in rilievo l'importanza della lettera come uno degli elementi che entrano in gioco nella diversificazione fra i due sensi: quello allegorico-poetico e quello allegorico-teologico. E con la scelta di menzionare un testo classico-mitologico in concomitanza al Salmo CXIII sembra che Dante abbia inteso sottolineare ancor più chiaramente la sua volontà di attribuire valore polisemico proprio a tipi di scrittura diversissimi. Il discrimine fra l'allegoria dei poeti e quella dei teologi passa attraverso il senso letterale che nel caso dei poeti può essere (come in questo specifico caso) favoloso, mentre nel caso dei teologi è storico.
In ogni modo, diviene importante verificare come e se, nel Convivio, Dante abbia inteso escludere o meno la possibilità che i poeti classici possano comunicare la verità anche ad un primo livello istorico-letterale. Proprio nel Convivio, riferendosi al poema di Virgilio, che definisce come vera «istoria» (IV.xxvi, 9), Dante fa comprendere che il testo latino, oltre a possedere un valore allegorico , afferma una capitale verità proprio a livello letterale:

Onde non da forza fu principalmente preso [scii. l'officio d'imperio] per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s'acorda Virgilio nel primo dello Eneida quando dice, in persona di Dio parlando: «A costoro - cioè alli Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro hoe dato imperio sanza fine» . (Conv. IV.iv, 11)

Questo luogo è nodale per comprendere come Dante non nutrisse dubbi sul fatto che la scrittura di Virgilio potesse riferire anche verità storico-letterali. E lo stesso discorso resta valido anche per altri autori classici, fra i quali, ad esempio, Lucano . Poeta, quest'ultimo, che Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologie (VIII.vii, 10) aveva annoverato fra gli storici. A proposito di Lucano possiamo ricordare come nel canto IV dell'Inferno, quando Dante elenca i poeti che fanno parte della «bella scola» , egli indichi attraverso ognuno di essi un particolare genere letterario:

Entro la "bella scola" ogni poeta è [...] segno di un genere letterario, ad espressione di un canone (che già operava con le sostituzioni e le assenze addotte dalle circostanze, in Vita nuova 25) che risulta dal coagulo di riflessioni antiche, espresse in serie fluttuanti, almeno sino al momento in cui, nel X secolo ed a Reims, Gerberto le bloccherà sui modelli della poesia tragica, comica, satirica e storiografica: «Legit itaque et docuit Maronem et Statium Terentiumque poetas, Iuvenalem quoque ac Persium Horatiumque satiricos, Lucanum etiam historiographum».

E nella Monarchia si legge un passo relativo alla pace universale che regnava nel mondo nell'età di Augusto in cui Dante attesta la pari attendibilità delle affermazioni rilasciate dagli istoriografi, dai poeti e dagli scrittori biblici:

Nam si a lapsu primorum parentum, qui diverticulum fuit totius nostre deviationis, dispositiones hominum et tempora recolamus, non inveniemus nisi sub divo Augusto monarcha, existente Monarchia perfecta, mundurn undique fuisse quieturn. Et quod tunc humanum genus fuerit felix in pacis universalis tranquillitate hoc ystoriograpghi omnes, hoc poete illustres, hoc etiam scriba rnansuetudinis Cristi testari dignatus est; et denique Paulus «plenitudinem ternporis» statum illurn felicissimum appellavit . (Mon. I. xvi, 1-2)

Non va poi tralasciato il fatto che nel Convivio la terza delle canzoni commentate, Le dolci rime d'amor eh 'i' solea, non viene illustrata da Dante a un duplice livello: il messaggio poetico è comunicato direttamente e deve essere inteso nella sua esplicita letteralità.
Ricapitolando possiamo ipotizzare che, nell'esempio di Ovidio, definire il senso allegorico come «una veritade ascosa sotto bella menzogna», implicante un primo senso fabuloso, non significhi per Dante ritenere sempre e comunque il significato letterale poetico alla stregua di un messaggio fittizio, come può accadere nel caso delle favole mitologiche. È plausibile credere che nella lacuna dell'archetipo riguardante il senso letterale l'autore contemplasse per quest'ultimo due possibilità: quella di un senso letterale storico e quella di un senso letterale fabuloso; questo anche perché Dante, nel seguito del discorso, attribuisce grande rilevanza proprio al senso letterale nel quale gli altri sono «inchiusi». Infatti, subito dopo aver dato la definizione del senso anagogico leggiamo:

Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. (Conv. II.i, 6-8)

Se Dante inizialmente ha distinto il senso allegorico dal letterale, morale, anagogico, egli, in quest'ultimo brano sembra racchiudere all'interno di quello letterale gli altre tre sensi. Anche nell'Epistola XIII (§ 22) leggiamo: «Et quomodo isti sensus mistici variis appellantur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab 'alleon' grece, quod in latinum dicitur 'alienum' sive 'diversum'» .
La meticolosa attenzione mostrata da Dante in merito all'importanza da assegnare al senso letterale non sembra conciliarsi con la definizione di questo inteso unicamente come «bella menzogna» e quale può ricavarsi ricostruendola attraverso quella, subito successiva, del senso allegorico. In sostanza sembra proprio che il senso letterale "dei poeti" non debba essere inteso tout court come fittizio.

2. Sezione 2

Vorrei a questo punto aprire una parentesi e far osservare come il passo del Convivio in cui Dante definisce il senso allegorico:

[...] e questo è quello che] si nasconde sotto 'I manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetere mansuete le fiere, e Ii arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d'arte [...],

richiami un luogo del De vulgari eloquentia nel quale Dante si diffonde sul potere del volgare illustre:

Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che Io sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l'onore e la gloria. [...] Che abbia un potere che lo esalta, è chiaro. E quale maggior segno di potere della sua capacità di smuovere in tutti li i sensi i cuori degli uomini, così da far volere chi non vuole e disvolere chi vuole, come ha fatto e continua a fare? [...]. (DVE I.xvii, 2-6)

La lettura sinottica di questi due brani mette in rilievo un dato importante. Nel Convivio, attraverso il mito di Orfeo, e la verità che questo sottende sotto il manto della favola, si viene ad esaltare quella che possiamo considerare, almeno nell'ottica di Dante, una precipua caratteristica della scrittura poetica: e proprio il poeta - fra l'altro si tenga presente che Orfeo è considerato da Dante un personaggio storico realmente esistito - è colui che primamente educa, insegna, diffonde la luce della sapienza e della civiltà; per Dante, interprete del mito ovidiano, il compito di Orfeo è investito di un alto valore etico e didascalico, alla stregua di quello che è enunciato, nel De vulgari eloquentia, come proprio dei poeti moderni, fra cui, l'Alighieri annovera Cino per la poesia d'amore e se medesimo per quella della rettitudine (DVE II.ii, 8). Il «nascondimento», la «bella menzogna» che Dante considera veicolata letteralmente attraverso il mito contiene una verità fondamentale poiché, sul piano allegorico, allude al potere civilizzatrice della poesia, al prezioso e nobile carattere didascalico insito nell'operare poetico. Nel caso delle Metamorfosi si tratta di Orfeo, nel caso di Voi che 'ntendendo si tratta di Dante, del significato reale di questa canzone e del proponimento che l'autore intende realizzare procedendo nella stesura del trattato. Il messaggio, in entrambi i casi, ovidiano e dantesco, non è stato espresso direttamente e non è comprensibile ad una prima lettura del testo: per coglierlo è necessario interpretarne la verità allegorica che è stata «nascosta sotto 'l manto» della fabula volutamente, ossia incorporata in modo consapevole dall'autore al momento della composizione.
Per i poeti, dunque, l'allegoria è connessa ad un modo di esprimersi 'diverso', 'altro': in altre parole, è un tropo, una figura retorica che strumentalmente può consentire di comunicare un vero intendimento al di sotto di una superficie letterale che si presenta favolosa: e mentre i poeti nascondono, ecco che, nascondendo, volutamente insegnano. I poeti si esprimono allegoricamente anche perché in tal modo può essere più facile, da una parte, attrarre l'attenzione dei lettori su una determinata verità per istruirli dilettandoli, dall'altra, per impedire a coloro che non sono in grado di apprezzarla, di accedere al reale intendimento allegorico che può restare appannaggio dei veri intendenti in quanto celato sotto una bella favola . Eppure il termine 'allegoria' non equivale all'espressione 'senso allegorico': il significato allegorico non è un tropo, se mai ne è la "conseguenza" ermeneutica, cioè l'interpretazione che deriva dallo scioglimento contenutistico nascosto nella figura retorica. Quando Dante parla di 'senso allegorico' rimanda ad uno schema, precisamente a quello esegetico biblico: e questo senso è altra cosa rispetto al primo senso, istoriale e letterale.
I teologi invece interpretando il senso allegorico della Sacra Scrittura basandosi comunque sul primo senso letterale: vero e storico.
La differenza sostanziale che passa fra il senso allegorico dei poeti e il senso allegorico dei teologi, nel Convivio , sembra nascere dalla diversità che esiste fra "creare" il valore allegorico, cosa che per Dante anche i poeti possono fare, e "interpretare", da parte degli esegeti, un valore allegorico già inscritto nella Bibbia, poiché creato da Dio e da Lui stesso suggerito e ispirato ai suoi profeti.
Nel momento in cui Dante dichiara: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti» afferma sostanzialmente due cose: innanzi tutto che i teologi applicano il sistema allegorico a una scrittura che è sempre storicamente autentica. E questa è una prima differenza. Ma un'altra se ne può trovare dal momento che Dante pare dissociarsi dal modo di intendere il senso allegorico «preso» dai teologi anche da un altro punto di vista: un punto di vista che tiene conto soprattutto del pensiero espresso intorno all’argomento «allegoria» da Tommaso d'Aquino. Una prova che Dante stia tenendo presente in modo particolare il pensiero tomista può essere reperita nell'evidente somiglianza che si riscontra fra il passo dantesco relativo al senso anagogico ( «e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria») e la definizione che il Santo ne dà nella Summa Theologica, per lui - comunque - riferibile solo alla Sacra Scrittura, dal momento che, per mezzo di esso, «res significatae per voces iterum res alias significant [...] prout [...] significant ea quae sunt in aeterna gloria» (S. T., I, q. I, a. 10, resp.). Nell'ottica di Tommaso, in effetti, quello che l'Alighieri definisce come senso allegorico non avrebbe avuto ragione di essere, tenendo fermo il presupposto che per l'Aquinate nessun testo, al di fuori di quello biblico, può avere un senso diverso da quello letterale. Dante, al contrario, rivendica anche alla poesia il medesimo statuto allegorico-polisemico della Sacra Scrittura ed è per questo che egli apertamente manifesta la sua intenzione di seguire «qui [se nel trattato] lo modo de li poeti» e di "prendere" «lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato»; pur nel massimo rispetto della verità storica del dettato biblico Dante si dissocia dal pensiero tomista e chiama senso allegorico quello che mai il santo avrebbe definito come tale considerandolo solo senso letterale parabolico.
Per Tommaso il senso letterale della pagina biblica è sempre quello che l'autore ha inteso esprimere: «Quia vero sensus litteralis est, quem auctor intendit [...]. Nec est litteralis sensus ipsa figura; sed id quod est figuratum [...]. Ex quo patet quod sensui litterali sacrae Scripturae nunquam potest su besse falsum» (S. T., l, a. IO, ad. 3).
E inoltre, negando che una qualsiasi scrittura creata dalla mente umana possa contenere altro che il senso letterale, dichiara: «Unde in nulla scientia, humana industria inventa, proprie loquendo, potest inveniri, nisi litteralis sensus [...] fictiones poeticae non sunt ad alio ordinate nisi ad significandum; unde talis significatio non supergreditur modum litteralis sensus» .
Applicando tale definizione alla poesia, nel caso specifico a quella di Dante, il vero senso delle canzoni presentate nel Convivio sarebbe stato, per Tommaso, solo quello parabolico: ossia il teologo avrebbe ammesso che il poeta avesse inteso celebrare la Filosofia nelle vesti di una donna, ma l'utilizzo della metafora, per il poeta, è limitato dalla finalità della sua «repraesentationem» "dilettevole", atta a coinvolgere maggiormente i lettori. Al riguardo nella Summa leggiamo:

Ad primum dicendum quod poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ut dictum est. (I, q. I, a. 9)

Tommaso è esplicito al riguardo: anche nel testo biblico si possono trovare finzioni poetiche - utili e necessarie - ad esempio nel caso delle parabole; anche qui il senso letterale non è la figura (la finzione) ma è il figurato (il significato), non è il «braccio di Dio», ma la potenza di Dio (S. T, I q., a. 10). Il teologo riconosce al poeta la possibilità di esprimersi fittivamente: ma la finzione costituisce solo l'occasione adeguata a rappresentare un'altra verità, coincidente con il significato letterale parabolico. Ma Dante non intendeva affiancarsi né al pensiero teologico in generale né a quello tomista in particolare. Pur contemplando il caso che egli avesse anche pensato di applicare alle sue canzoni il modo di intendere il senso allegorico all'interno della griglia esegetica usufruita dai teologi per interpretare il testo biblico, Dante non avrebbe potuto mantenere in atto la fittività del primo senso letterale delle sue canzoni, posto che per il teologo tale senso non sussiste: e, d'altra parte, quel valore allegorico che egli riconosceva a ogni scrittura e, nel caso specifico a Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente, non si appoggiava certo ad una lettera storicamente vera, dalla cui fittività il poeta non poteva comunque prescindere. Se egli avesse accettato la posizione di Tommaso avrebbe dovuto rinunciare tanto a proclamare la qualità polisemica di ogni scrittura (poetica soprattutto) e, inoltre, alla possibilità di mantenere il legame con la Vita Nova che è dichiarato inderogabile proprio all'inizio del trattato (Conv. I.i, 16). Ecco perché Dante si differenzia dalla prassi ermeneutica del senso allegorico così come è assunto e inteso dai teologi, per affermare che «qui», nel Convivio, «[...] prende lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» (Conv. II.i, 4).
Per Dante, che si è distanziato dall'Aquinate, è importante mettere in chiaro tre punti: l) esiste per ogni scrittura un valore letterale proprio, intrinseco, il quale può eventualmente includere un senso allegorico; 2) egli non accetta di confinare la poesia nell'ambito di una semantica meramente letterale; 3) persino un testo il cui senso letterale equivale a una «bella menzogna» può essere ritenuto non solo retoricamente allegorico ma pienamente, "teologicamente", polisemico. E come per Dante è un dato di fatto che ogni tipo di scrittura può possedere più di un significato, così è un dato di fatto che egli intende procedere per gradi nel mettere in opera un molteplice livello di lettura, da ciò che è conosciuto meglio verso quanto è conosciuto meno bene. È dunque necessario esaminare le canzoni prima a livello letterale e solo secondariamente a livello allegorico, dal momento che queste, letteralmente, non comunicano il vero intendimento di Dante; un intendimento che il lettore può recuperare solo credendo a ciò che il poeta afferma: dopo la morte di Beatrice egli si innamorò della filosofia e non di una donna reale.
È importante ricordare che con il Convivio si avvia un periodo diverso della biografia di Dante, nel quale il poeta - anche per riabilitare la sua immagine, compromessa dall'esilio - vuole testimoniare una maggiore ampiezza di pensiero, non più legata solo al tema amoroso, e un approfondimento intellettuale e filosofico. Le ragioni del passato sono rispettate così come, adesso, egli si propone di avvalorare quelle del presente. Dante non intende derogare dalla Vita Nova e con il Convivio niente vuole sottrarre alla validità dell'opera «fervida e passionata» della giovinezza . Il modo più consono per conservare all'opera giovanile il suo valore è quello di mostrare che solo un amore altissimo qual è quello nutrito per la filosofia ha potuto lenire il dolore per la perdita della «gentilissima». Solo un amore di carattere intellettuale per un oggetto intellettuale, dopo la scomparsa dell'unica donna realmente amata, poté accendersi nel cuore di Dante. E così, in relazione al senso allegorico, seguendo nel Convivio il modo dei poeti, Dante può salvaguardare l'autonomia di due opere fondamentali, Vita Nova e Convivio, che testimoniano due fasi diverse della sua esistenza, rappresentando l'evoluzione progressiva, «temperata e virile», della sua ideologia .
Quale poi sia stata l'intenzione di Dante al momento di comporre Voi che 'ntendendo il terza ciel movete e Amor che nella mente mi ragiona è chiarito dallo scrittore nel trattato: credere all'autoesegesi applicata da Dante alle due prime canzoni ci permette di comprendere il salto qualitativo che egli annette al suo modus operandi, al fine di incrementare le potenzialità del mezzo espressivo, affidando alla poesia intrinseci valori polisemici; questo incremento rappresenta per l'autore una conquista che Dante consegna doppiamente a se stesso nel Convivio. Intanto poiché egli riconosce a un poeta volgare i diritti che i poeti classici si erano concessi, ossia la possibilità di usare i colori retorici, le figure, i tropi, per esprimersi fittivamente; in secondo luogo poiché Dante riconosce alla poesia in lingua volgare quello statuto polisemico che, fino a quel momento, era stato appannaggio del testo sacro. La conquista raggiunta nel capitolo 16, 7-10 della Vita Nova si consolida nel Convivio: la poesia può essere composta con un'intenzione coscientemente allegorica e dunque necessitare poi di un'interpretazione ermeneutica che riconosca appieno la polivalenza di un linguaggio denso di significati. Ma non solo a senso unico, bensì - potremmo dire - bidirezionalmente: dal momento che Dante fa entrare in gioco anche una sorta di polisemia connotata da un esponente "negativo" che si basa, cioè, su di una «bella menzogna».
La polisemia nasce sia in presenza di un testo letteralmente vero, sia in presenza di un testo che nella sua lettera si presenta fittizio e fabuloso. I poeti dunque possono anche "bellamente" mentire ove perseguano un fine particolare, mentre i teologi possono solo indagare i vari e veri significati presenti nella Scrittura. Dante sottilmente sembra enunciare un nuovo principio: se Tommaso aveva svalutato la poesia ecco che Dante giunge a ribaltare, nel pieno rispetto del valore storico del testo sacro, tale prospettiva concedendo al poeta libertà di campo e di azione, al punto di includere anche l'opportunità che questi possa esprimersi polisemicamente celando il proprio vero intendimento sotto il manto di una bella favola.

3. Sezione 3

Se questo è credibile possiamo ipotizzare che Dante, nel Convivio, abbia usato volutamente il termine di «manto» (=integumento) al momento di definire il senso allegorico scegliendo proprio il brano delle Metamorfosi che racconta di Orfeo. Con tale vocabolo Dante, riallacciandosi in pratica ad una tradizione oramai invalsa, al medesimo tempo, intende sopravanzarla. Egli vuole e può fare di più; può e vuole adoperare il termine «manto» in concomitanza al problema che maggiormente gli preme in questo momento. E non sembra un caso che i vocaboli «manto», «nascondimento», il sintagma «bella menzogna» compaiano in stretta connessione al senso allegorico inteso «secondo lo modo de li poeti» e alla tematica della polisemia di ogni scrittura. Anche per la poesia, non solo per la teologia è lecito e appropriato estendersi dal puro ambito della lettera a quello dell'allegoria. Riterrei plausibile che Dante abbia inteso riferirsi e richiamarsi alla nozione di integumentum elaborata soprattutto dalla scuola di Chartres. Ad esempio Bernardo Silvestre formalizza in questi termini la diversità fra integumentum e allegoria:

Est autem allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta lacob. Integumentum vero est oratio fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo. Narn et ibi historia et hic fabula misterium habent occultum, quod alia discutiendum erit. Allegoria quidem divine pagine, integumentum vero philosophice competit .

L'allegoria poi è un discorso fatto sotto forma di racconto storico, la quale allegoria avvolge il significato vero e diverso da quello esterno, come è nel caso della lotta di Giacobbe. L'integumento invece è un discorso sotto forma di racconto favoloso, discorso che racchiude il vero significato, come nel caso di Orfeo. Infatti come nel primo caso la istoria, così nel secondo caso la fabula hanno un mistero nascosto che andrà lacerato in modo diverso (in un caso e nell'altro). L'allegoria certo pertiene alla pagina divina, l'integumento invece agli argomenti filosofici. (traduz. mia)

Questo tipo di esegesi che distingue l'allegoria dall' integumenium, tenuto presente da Dante, è del resto inadeguato alla portata del suo discorso poiché solo mantenendosi ben "agganciato" anche alla nozione di allegoria tout court (che per Bernardo Silvestre resta solo appannaggio della pagina biblica) egli può portare avanti il concetto della polisemia valida per ogni scrittura, sacra o profana che questa si presenti . Se la precipua intenzione di Dante è quella di incrementare il potere semantico-conoscitivo della poesia, di stabilire e chiarire che nella scrittura poetica può esservi coincidenza di significato fra un senso letterale vero e un senso allegorico altrettanto vero, egli si preoccupa altresì, in questo particolare frangente, di evidenziare il contrario: infatti nel commento che il poeta sta ora scrivendo, mentre si applica alle canzoni un doppio livello di lettura, il senso letterale risulta 'ficto', quello allegorico, invece, autentico. Ovviamente questo non sarebbe ammissibile per i teologi che non farebbero mai rientrare il senso allegorico così inteso da Dante nel solco dell'esegesi: il senso che un poeta vuole esprimere è quello che solo la lettera comunica e che Tommaso avrebbe definito unicamente letterale parabolico.
È possibile sottolineare, a questo punto, il significativo parallelismo che Dante istituisce nel Convivio tra la propria figura e quella di Orfeo: proponendosi nelle medesima funzione del cantore tracio, poeta-teologo storicamente esistito, così Dante adesso è il medesimo poeta che ha il compito di diffondere luce di conoscenza e di dottrina.
Dopo la Vita Nova anche nel Convivio Dante (in contemporanea al De vulgari eloquentia e alla definizione della poesia che ivi ne offre) continua a operare per aggiungere quarti di nobiltà alla poesia: poesia è fictio in quanto eminentemente inventio, capacità di creare sull'esempio del primo artifex. Il poeta, per analogia, è colui che attraverso il proprio strumento (e il munus divino concessogli per Grazia) è capace di fabbricare, quale sommo architetto, una struttura di significati coerenti e validi a molteplici livelli e anche di decidere il rapporto fra lettera e allegoria; di mantenere pari storicità tanto al piano della lettera quanto a quello dell'allegoria o, piuttosto, di fissare a priori la fabulosità della lettera e di consegna.re la verità all'allegoria. Ma non per arbitrio: bensì perseguendo ingegno e arte. Partendo da una piattaforma comune Dante applica anche ai testi profani gli stessi criteri interpretativi utilizzati per la Bibbia: e, cosa importante, pur mantenendo la nozione di "manto" (di integumentumi egli parla proprio di allegoria e di senso allegorico.
Se I' integumentum era un modo di leggere, di svelare il vero intendimento di un testo poetico che restava comunque sempre ancorato alla nozione, per Dante superata, di poesis considerata inferiore alla littera sacra, è proprio il modo allegorico dei poeti quello che, nel 1305, amplia di fatto le potenzialità intrinseche del mezzo linguistico, chiave interpretativa della realtà a più livelli, consentendo al discorso già avviato nella Vita Nova di proseguire. Dante non può prescindere dall'opera giovanile e solo con la libertà che un poeta è in grado di concedere alla sua parola può costruire la verità che gli interessa oggi, al momento di comporre il Convivo, riaffidando alla «donna gentile» del libello quel senso letterale 'proprio' e non 'parabolico' che nell'universo artistico le era già stato assegnato; non potendo essere stricto sensu la metafora usufmita «propter repraesentationem» da parte di un poeta che veicolava in questo modo immaginifico un 'altro' vero intendimento, il poeta la accoglie di nuovo nel Convivio: e la «donna gentile» continuando a coincidere biograficamente e a rappresentare la creatura reale del passato, permette - ora come allora, nell'idemptitas della figura - l'autonomia e la validità della Vita Nova e l 'ulteriore rinnovamento dell'opera 'temperata e virile'.
Se il vero significato delle canzoni è quello allegorico quest'ultimo viene prima filtrato passando attraverso il senso della lettera "bella" e "fittizia". La lettera, in ogni procedimento ermeneutico, va comunque innanzi: e nella lettera la "bella menzogna" che globalmente inerisce alla favola poetica non tocca il personaggio storico che le ha dato vita e ne ha permesso la compiuta realizzazione. «La donna gentile» non si eclissa di fronte alla Filosofia nella tomistica 'lettera parabolica', ma resta figura corporea nella dimensione dell'invenzione poetica, per materializzare la Filosofia nel mondo della verità allegorica.
Operando in questo modo Dante, attraverso la flessibilità della polisemia poetica, era in grado di evitare un'impasse e bloccare la critica che poteva essergli imputata: quella di aver realmente amato una donna dopo la morte di Beatrice; mantenendo l'identità fra la «donna gentile» del libro giovanile e quella di Donne eh 'avete e Amor che nella mente, la «pietosa» di allora cede dunque a quella del Convivio la sua immagine esteriore per la visualizzazione di una «bella menzogna», cioè di un significato letterale fittizio che reinnesta sull'antica storicità, esplicitata una volta per sempre nella Vita Nova, il nuovo punto di partenza del significato allegorico e vero del trattato. Così, procedendo in tale direzione, Dante poteva recuperare il se stesso di un tempo, come autore del libello, e autosuperarsi: procedere oltre, per dichiarare che la «donna gentile» celebrata nella veritas allegorica dei testi è la Filosofia, l'unica entità, celata nelle fattezze di un corpo femminile, che Dante aveva amato dopo la scomparsa della «gloriosa donna della sua mente».
Che nel Convivio Dante decidesse, al momento di dividere le ragioni della lettera da quelle dell'allegoria, di portare avanti il progetto di nobilitazione della scrittura poetica, può contribuire a farci capire la novità di colui che, convinto della polisemia della poesis, que nichil ali ud est quam fictio rethorica musicaque poita, non rinunciò al tentativo di trovare nel tempo sempre nuove soluzioni di carattere ideologico: innanzi tutto servendosi di una basilare nozione di fictio che consente alla parola di essere il modo con cui un poeta può far coesistere, nelle proprie invenzioni, tanto la storia passata quanto ciò che della propria storia è la prosecuzione: servendosi della inesauribile, imprescindibile polisemia del linguaggio poetico (e propria del linguaggio poetico tout court) che possiede per analogia le caratteristiche di quello divino. Un poeta, senza dubbio, deve saper creare e può anche saper mentire ma può accadere che un poeta creda che Dio stesso gli abbia concesso di applicare alla sua fictio la polisemia delle Sacre Scritture, la molteplice valenza della verità letterale e della verità allegorica.
Dato per scontato, oramai, che per Dante anche i poeti possono esprimersi allegoricamente partendo tanto da un testo letterale fittizio e fabuloso, quanto storico e vero e che per Tommaso tutto ciò non sarebbe mai stato ammissibile possiamo concludere che, nell'ottica dell'Alighieri, esiste una differenza concreta fra senso allegorico poetico e teologico, così come tale differenza esiste nel modo di crearlo e di intenderlo da parte dei poeti e dei teologi. In ogni caso tali significati rappresentano un modo per andare oltre il valore letterale del linguaggio: e, per Dante, ogni linguaggio, ogni scrittura - veicolando il proprio contenuto - può racchiudere il signum di una ispirazione divina. Al pari del testo biblico anche la poesia può essere divinamente ispirata: e sarà questo il caso precipuo della Commedia, definita appunto «poema sacro» (Par. xxv, I) da colui che diventerà il puntuale reportator del suo messaggio. Poesia e teologia, per Dante, sono molto più vicine di quanto non si possa realizzare a prima vista: è indubitabile che al di là del primo valore letterale, il significato allegorico - indice della polisemia delle scritture - sia per Dante non univocamente posseduto dal linguaggio sacro, bensì anche da quello del poeta che con lo strumento della sua voce è in grado di ri-creare, sull’exemplum dell’artifex sommo; se Dio ha creato il libro dell'universo e ispirato il libro sacro, anche un uomo, per volontà divina, potrà comporre, fabbricare, un nuovo polisemico libro in cui amor, salus, virtus si intrecciano per indicare a ognuno l'itinerario che riconduce ad una mèta di salvezza, «prospera», «desiderabile» e «grata». E questo itinerario è percorribile in nome dell'assoluta fiducia che Dante nutre nel potere della «parola»: potere acquisito primamente nella Vita Nova e poi sempre alimentato dall'alta consapevolezza di essere «poeta». Per Dante la poesia, come la teologia, qualsiasi parola, umana o divina, poetica e sacra, si rifrange in molteplici sensi, vive nei suoi plurimi significati ove sia stata dettata da Dio e ripetuta fedelmente da colui che si riconosce suo scriba .

Date: 2021-12-24