Dati bibliografici
Autore: Silvio Pasquazi
Tratto da: L'Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca
Numero: 1
Anno: 1972
Pagine: 3-12
Sono abbastanza attuali, in sede di studi danteschi, le discussioni su allegoria e simbolo, sul «valore figurale» e simili. Nel quadro di queste discussioni ci sembra utile esaminare la portata interpretativa e poetica di quello che Dante chiama «senso anagogico». Anagogico - se bene intendiamo - è quel senso che si ottiene trasvalutando le cose narrate, per contingenti che siano, sul piano dei valori eterni, dove le cose del tempo e della creazione rivelano la loro connessione con la verità assoluta da cui traggono l'essere e a cui tendono come a ultimo fine. Scoprire il senso anagogico, o, meglio, avanzarsi nella scoperta del senso anagogico, non è diletto di eruditi, ma partecipazione al sentimento più profondo che ispirò il Poeta.
Per tal via riteniamo, ricollegandoci anche alle tesi dell'Auerbach, che il lettore della Commedia possa meglio partecipare alla tensione affettiva e intellettuale del Poeta, tensione ch'è indubbiamente quella di chi procede dalla servitù alla libertà, dal contingente all'assoluto, dal tempo all'eterno.
D'altronde, un metodo, interpretativo generale ci viene suggerito, com'è noto, nell'Epistola a Cangrande (la nostra preferenza è per la tesi che sostiene l'intera paternità dantesca dì quest'opera), dove si afferma che la Commedia dev'essere interpretata secondo più significati, e precisamente quello letterale e quello «mistico», ch'è chiamato anche «allegorico» in senso lato; a sua volta il significato «mistico» (o «allegorico» in senso lato) è suddiviso in: allegorico in senso stretto, morale e anagogico. Anche nel Convivio (II I) l'autore spiega che le scritture sono oggetto d'una quadruplice interpretazione: letterale, allegorica, morale, anagogica. È opportuno ricordare che, secondo Dante, il senso letterale sempre «dee andare innanzi, si come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e senza lo quale sarebbe impossibile ed irrazionale intendere a li altri».
Dal che, anzitutto, si trae l'invito a un vasto e complesso lavoro d'indagine filologica, che tenga presenti, con la maggiore ampiezza possibile, tutti quegli elementi storici, culturali, linguistici, biografici, ecc. da cui ha tratto alimento l'opera. La retta interpretazione del senso letterale è conditio sine qua non di qualsiasi altra indagine. Degli altri tre sensi bisogna dire, prima di tutto, che la loro importanza è sottilineata dal fatto che su di essi si articolò, può dirsi, tutta l'esegesi medievale, senza peraltro realizzare una costante distinzione fra questi quattro sensi e specialmente confondendo sovente quello allegorico con quello anagogico. Si può dire che l'esegesi medievale (e, stando all'Epistola a Cangrande, anche quella dantesca), mentre da una parte avverte una differenza essenziale fra l'allegorico e l'anagogico, dall'altra non riesce a formulare ed ad applicare tale differenza in modo abbastanza chiaro. Tuttavia vale la pena di precisare questo punto. Il Poeta stesso, dichiarando anagogico il «sovrasenso», il quale «per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria», quasi ci indica nel senso anagogico quello cui debbasi prevalentemente guardare quando, come nella Commedia, si tratti dei «Novissimi», cioè di quel che appartiene (Inferno compreso, sia pure in modo antitetico) alle cose dell'oltremondo, dell'eternità. L'attinenza del senso anagogico con il discorso delle cose eterne è affermata anche nella citata Epistola a Cangrande (dove si dice che il valore anagogico del Salmo In exitus Israel de Aegypto è «exitus animae sanctae ab huius corruptionis servitute ad aeternae gloriae libertatem»; né diversamente potrebbe riassumersi anche il Poema). Quando immediatamente dopo il passo ricordato, l'Epistola sembra non andare oltre l'indicazione d'un generico senso allegorico della Commedia, essa tuttavia sotto tale generica allegoria non può non comprendere le tre suddistinzioni dell'allegoria stessa (tra cui quella anagogica) delle quali ha fatto cenno immediatamente prima.
Il termine medievale «anagogia» traduce quello greco di άναϒωϒή, deformandolo per l'attrazione esercitata dalle parole historia, allegoria, tropologia, che esprimevano la serie degli altri tre sensi delle Scritture. Il termine aveva avuto presso gli antichi pitagorici il senso di «viaggio» o «traversata», mentre nel Medioevo assume quello di «salita», «ascensione», «sursum ductio». Nell'idea di anagogia c'è un significato di slancio; il senso anagogico è, sì, oggetto di conoscenza, ma anche spinta o, meglio, aspirazione all'eterno. Perciò avviene che il termine anagogia ricorra sovente in chi, come, ad esempio, Dionigi Areopagita, tratta con slancio mistico di cose celesti. L'anagogia guida lo sguardo dello spirito dalle cose visibili alle cose invisibili, dalle cose di quaggiù alle cose superne e divine. «Essa è» - citiamo dalla nota opera di Henri De Lubac1 - «quella specie di allegoria "quae per visibilia ad invisibilia animi levat Intelligentiam», o "per quam ad invisibilia ac futura sermo transfertur". Più concretamente è il senso anagogico quello che fa vedere, nelle realtà della Gerusalemme terrestre, le realtà della Gerusalemme celeste: "pars enim quaedam terrenae civitatis imago caelestis civitatis effecta est"; "Jerusalem nunc intellige illam supernam". Ora, queste realtà, per quanto non siano più cose appartenenti al tempo, sono tuttavia, per noi che camminiamo e stentiamo nel tempo, cose ancora a venire, desiderate e sperate. Ci si trova, dunque, in presenza di un senso anagogico "quando per unum factum intelligendum est aliud, quod desiderandum est, scilicet, aeterna felicitas beatorum", Dopo l'allegoria, che edificava la Fede, e la tropologia, che edificava la Carità, ecco l'anagogia, che edifica la Speranza: "Quid enim dicimus anagogen, nisi mysticam et sursum directivam supercaelestium intelligentiam? In praedictis duobus, quaeritur dotrina morum at mysteriorum. Ad anagogen spectat sperandarum praevidentia praemiorum"».
Ci siamo concessi questa lunga citazione, dove il De Lubac richiama una serie di autori medievali, perché ci sembra che la si possa collegare, da una parte, con una delle più significative acquisizioni della critica contemporanea, quella dell'interpretazione «figurale», e, dall'altra, con quella virtù della Speranza teologale, che Dante attribuisce a se stesso come prevalente e caratterizzante. È evidente, infatti, che in tutte queste descrizioni o definizioni del senso anagogico si pone in rilievo il valore di slancio verso l'Assoluto, l'atteggiamento del protendersi dal tempo all'eterno, ch'è caratteristico della Speranza. E circa questa virtù teologale è appena necessario ricordare la presentazione che Beatrice fa di Dante a San Giacomo (Par., XXV, 52-57).
Un discorso alquanto più lungo si richiede per chiarire la correlazione fra il «senso figurale» additato dall'Auerbach, e il «senso anagogico» postulato dall'esegesi medievale. L'Auerbach prende le mosse dal metodo largamente diffuso nell'esegesi medievale di considerare i fatti della vita terrena, e in particolare quelli narrati nelle Sacre Scritture, e soprattutto nel Vecchio Testamento, come «ombra» o «figura» d'una realtà ben più solida e concreta, ch'è quella rivelata nel Nuovo Testamento, e, in definitiva, è la realtà eterna. In tal modo, le persone e le cose della vita terrena non soltanto nulla perdono della loro realtà (e ciò vale anche contro uno spiritualismo accentuatamente dualistico, di tipo neoplatonico), ma esaltano in grado intenso e in forma autentica il loro essere individuale storico, in quante tale essere viene proiettato nella sua sorte ultima, escatologica, viene contemplato, intenzionalmente, così com'esso è presente al giudizio di Dio. Così, il senso letterale d'una narrazione o la realtà storica d'un personaggio non sono cosa altra e diversa da ciò che tale realtà o tal personaggio saranno nella loro sorte escatologica finale; bensì essa figura ed esso personaggio trovano nella loro sorte escatologica finale il proprio adempimento più vero, il proprio significato più profondo: cioè, la realtà storica terrena è figura reale d'una realtà ancor più vera. L'interpretazione figurale, perciò, vede la realtà terrena e la realtà eterna come due momenti di cui il primo significa anche l'altro, mentre l'altro comprende e adempie il primo (si noti che in un'opera poetica come la Commedia non occorre che situazioni e personaggi siano storici nel senso corrente del termine, ma; è sufficiente che siano narrati e rappresentati fantasticamente e realisticamente come tali). In tal modo l'Auerbach supera il metodo dell'interpretazione strettamente allegorica, nella quale il termine di partenza di ordine narrativo non è sentito come reale, e perciò non giustificherebbe quella forza rappresentativa, quella verità che nel racconto dantesco non viene mai meno.
Il metodo interpretativo proposto dallo Auerbach si accorda con quanto si è detto circa i quattro sensi delle Scritture, studiati dall'esegesi medievale, e in particolare con il senso anagogico. Tuttavia è necessario, a nostro avviso, anzitutto motivare siffatto metodo attraverso gli schemi della logica medievale e le ragioni filosofiche e teologiche di fondo; e poi occorre mettere in luce un coefficiente di natura non meramente intellettuale, che sussiste nell'interpretazione anagogica e che ha una insostituibile funzione nella poesia: coefficiente cui abbiamo precedentemente accennato come slancio di speranza soprannaturale. La logica scolastica offriva una giustificazione del metodo anagogico attraverso la teoria dell'analogia attributionis. Nel linguaggio umano, infatti, si possono distinguere tre categorie di termini: il termine univoco, cioè quello che significa una cosa e quella sola; il termine equivoco, cioè quello che significa cose diverse e non collegate; il termine analogo, che significa cose parzialmente uguali e parzialmente diverse fra loro (ad es.: la vista dell'occhio e la vista della mente; oppure: la sanità di una persona e la sanità del clima). Il termine analogo può esser tale per analogia proportionalitatis, quando muta parzialmente di senso in proporzione con il soggetto di cui si predica, senza peraltro doversi attribuire in modo preponderante a un solo soggetto (es.: l'occhio vede da occhio e la mente vede da mente). È, invece, analogo per analogia attributionis un termine che si attribuisca propriamente e primariamente a un solo soggetto (princeps analogatum), mentre è attribuito ad altri soggetti in ragione del rapporto che questi hanno col primo (es.: un clima sano in rapporto con la sanità della persona).
Codeste distinzioni furono utilizzate dalla filosofia e dalla teologia medievale, perché si riconobbe esser possibile parlare di Dio e delle cose divine usando le parole, inevitabilmente umane, come termini analoghi per analogia attributionis: si riconobbe, cioè, legittimo dire, ad esempio, che Dio è uno, è vero, è buono, portando sul piano dell'eterno e dell'assoluto quelle! nozioni di unità, bontà e verità che noi possiamo acquisire appoggiandoci alla nostra esperienza del contingente (la quale trasposizione o trasvalutazione è legittima, perché nella conoscenza umana vi è la percezione del limite, e dunque la percezione, certo globale e confusa, dell'oltre limite, cioè dell'assoluto e dell'infinito).
Ora, l'analogia proportionalitatis giustifica teoricamente il ricorso all'allegoria in senso stretto («una veritade ascosa sotto bella menzogna», come dice Dante nel passo sopra richiamato del Convivio): si tratta, infatti, d'un rapporto fra due termini, costituito in modo tale che il discorso fatto sul primo va inteso rapportandolo e proporzionandolo all'essenza del secondo (così sempre in Convivio II I, il canto di Orfeo sta alla fiere come la voce del savio sta ai cuori crudeli). L'analogia attributionis giustifica teoricamente il ricorso all'anagogia: in questa il soggetto vero, ultimo e profondo del discorso è Dio e «le superne cose de l'etternal gloria», mentre il soggetto immediato « nel senso litterale » è dato dalle cose narrate o descritte, la cui verità, bontà, ecc. sono tali, in ultima analisi, soltanto per riferimento alla bontà e verità assolute e divine, sono «figura» delle cose eterne, e acquistano il loro significato autentico e definitivo sul piano escatologico finale.
La legittimazione metafisica, poi, del metodo anagogico (connessa con la qui esposta giustificazione logica) sta nel fatto che «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l'universo a Dio fa simigliante» (Par., I, 103-105): sicché è giusto cercare nell'universo «l'orma de I'etterno valore», i segni della divina provvidenza, le promesse dell'eternità. E ciò fu largamente sentito dal Medioevo: Ugo e Riccardo di San Vittore, per fare solo un esempio, dicono che tutto l'insieme di questo mondo sensibile è come un libro scritto dal dito di Dio; e similmente si vidi nel «libro scritto dentro e fuori», che l'Apocalisse mostra sigillato da sette sigilli, un simbolo significante la Scrittura e il mondo come rivelazione di Dio2 . Posto, dunque, il carattere teofanico della creatura, si viene a comprovare anche per questa via la validità del metodo anagogico, che appunto vuole perennemente risalire dalla creatura al Creatore.
Infine, il rapporto non solo manifestativo, ma finalistico, escatologicamente proteso, della creatura al Creatore, del tempo all'eterno, trova la sua definitiva giustificazione teologica nel dogma dell'Incarnazione, che non senza motivo costituisce l'ultima delle visioni dantesche, quella che giustifica e corona tutte le precedenti. Il dogma dell'Incarnazione, infatti, comporta la necessità che, come dice San Paolo, tutto sia ricapitolato in Cristo, che tutti i valori acquisiti dall'uomo nella sua vicissitudine storica siano onticamente acquisiti sul piano dell'eternità.
Ci sono apparsi utili questi richiami, perché essi, mentre contribuiscono ad un ancoraggio culturale più completo del metodo «figurale», spiegano anche perché sia più esatto parlare di «metodo anagogico» o di «senso anagogico». Come si è detto, la parola «anagogia» include un coefficiente che va al di là della pura analisi teorica, intellettuale e conoscitiva; include, cioè, l'ergersi della Speranza soprannaturale, include Io slancio intellettualmente motivato ma affettivamente cantato, onde si trae l'animazione fondamentale della poesia dantesca. In ciò trovano la loro forza, il coraggio, gli sdegni, le contemplazioni, il messaggio del Poeta; è attraverso questi sentimenti che la Fede di Dante diviene alta poesia.
Tale atteggiamento è profondamente legato al concetto paolino della «metànoia», che in Dante appare esteso dalla coscienza dei redenti a tutta intera la realtà cosmica e storica: Dante si sente poeta d'un rinnovamento soprannaturale universale, ch'è riconquista ed esaltazione di tutti quei valori realizzati dalla creazione e acquisiti dall'uomo col suo lungo travaglio. Per questo, nell'oltretomba dantesco trovano posto e senso poetico quegli innumerevoli aspetti dell'umanità e della natura, che tanto hanno parlato al sentimento dei lettori.
Se, infatti, «metànoia» è rinnovamento del giudizio alla luce della realtà eterna, il canto della «metànoia» deve contenere la trasposizione degli oggetti di essa dal piano del contingente al piano dell'eterno: e questa è precisamente l'operazione anagogica.
Dalle considerazioni sopra esposte discendono anche taluni vantaggi collaterali. Ci si avvia, per esempio, a una positiva mediazione fra quei due modi di approccio critico all'opera dantesca, che sono stati denominati rispettivamente «attualizzante» e «storicizzante». Il primo consiste nell'accostarsi all'opera dantesca trasportandola e assorbendola nel mondo degli interessi e delle passioni del lettore; con il secondo, inversamente, il lettore si trasferisce nell'opera per intenderla negli interessi e nelle passioni dell'autore e del suo tempo, riducendoli magari, sia pure in ultima istanza, alla «struttura» economico-sociale della epoca. Senza entrare qui nei particolari, si vuole almeno notare che tale approccio meramente storicizzante, mentre vorrebbe far comprendere l'opera, rischia di renderla oggetto di mera erudizione, non di comprensione, come cosa ormai travolta dal tempo. E, all'inverso, un approccio attualizzante nel senso sopraddetto finirebbe per non aver alcun riferimento all'autore studiato. In realtà, la conoscenza storicizzata di un autore, pur indispensabile, acquista valore critico se sappia enucleare i contenuti universali dell'autore stesso, traducendo in qualche modo la forma con cui essi si esprimono, ch'è legata a un'epoca, così da mostrare com'essi contenuti dottrinali e poetici rispondano ai sentimenti e alla vita di ogni uomo autentico, e in tal senso siano, appunto, «attuali». Siffatta universalità non appartiene alla materia e alla contingenza storica; essa è necessariamente di natura spirituale, deve fondarsi, cioè, su valori che trascendono il contingente. Ed è precisamente verso tali valori, e verso il Valore assoluto, che si protende il motivo anagogico della poesia dantesca.
E si spiega anche più agevolmente lo sforzo secolare di decodificare le cosiddette allegorie della Commedia. La spinta segreta, che ha provocato tale sforzo, nasce dal fatto che appunto non si tratta di allegorie, bensì di figurazioni anagogiche: i termini di esse non sono mai sentiti come irreali e fittizi né sono posti in funzione rappresentativa di realtà contingenti: essi sono posti in funzione di tensione dinamica verso la realtà eterna, che perennemente sollecita e chiama l'uomo verso di sé. Sicché la perpetuità della lettura di Dante è tale non per impenetrabilità del discorso, ma per inesauribilità del contenuto. Il richiamo poi alla figurazione anagogica contribuisce a chiarire la estrema potenza realistica della poesia dantesca. Si è visto, infatti, che mentre l'allegorico (in senso stretto) parte da una finzione mentale, il figurale anagogico si fonda su una realtà. L'allegorico è pensato, il figurale anagogico è avvenuto. E qui è in fondo uno dei più imponenti aspetti della cultura medievale, di coloro che posero le fondamenta della realtà del mondo e della storia nella realtà stessa di Dio.
Non si può, infine, non porre a confronto quel che abbiamo fin qui osservato, con la questione del contrasto, spesso avvertito, fra allegoria e poesia. Nell'allegoria, intesa in senso stretto, prevale uno sforzo intellettualistico fatto di comparazioni e di enigmi, sforzo che può essere condotto anche con grande abilità di tecnica rappresentativa, ma che potrebbe far inaridire il valore poetico. Ma un'interpretazione anagogica delle «allegorie» dantesche può mostrare la dimensione poetica al di là della parvenza di puro sforzo intellettualistico. Il senso anagogico delle cosiddette allegorie dantesche rivela insomma sovente in esse i segni dell'autentica poesia, perché mostra che accanto alle operazioni dell'intelletto, sono presenti, ed essenziali, la tensione affettiva e morale all'Assoluto, e, insieme, la tensione affettiva e morale alle cose del mondo in quanto, come si è detto, queste sono in vario modo teofaniche, rappresentative dell'Assoluto o riferite ad esso o escatologicamente riacquisite. Così si giustifica anche nella Commedia la vicinanza, non di rado erroneamente sentita come una stonatura, delle parti dottrinali con quelle, per esempio, polemiche: alle une e alle altre spetta il comune denominatore della tensione anagogica.
È noto che il Croce ripetutamente negò alle «allegorie» dantesche una validità poetica3 . Egli partiva dalla premessa che ogni allegoria (il termine qui è nell'accezione larga, e comprende anche l'anagogia) non fosse altro che una sorta di crittografia e perciò non potesse mai fondersi e identificarsi con l'immagine poetica. Una immagine crittografica, infatti, tutt'al più è legata all'oggetto che per mezzo di essa l'autore vuol significare, in forza dell'intento pratico di comunicare una notizia, e non in forza di una ispirazione poetica che in quella immagine adeguatamente si esprima; oppure, peggio, l'immagine crittografica addirittura distrugge la poesia in sul nascere poiché impone ad essa figure e forme discordanti da essa, in quanto determinate con qualsivoglia criterio (morale, mitico, polemico...), ma non dettate dall'ispirazione. Per non restare bloccati da siffatta argomentazione, occorre anzitutto tener presente che la spiritualità medievale accettò l'allegoria come una componente essenziale e insostituibile del pensiero e dell'arte: e allora, o si riduce l'arte medievale a un coacervo di frammenti prodotti per caso, o occorre trovare nella componente allegorica qualcosa di più che una sciarada. E questo «qualcosa di più» è la manifestazione del trascendente attraverso l'immanente e il contingente. Tale epifania dell'eterno nelle cose tutte quante, non è artificio di eruditi, ma è motivo di fondo dell'intelligenza medievale, e costituisce - come abbiamo già rilevato - l'ispirazione perenne, il filo conduttore, il fulcro della potenza poetica della Commedia.
Orbene, l'epifania dell'eterno si esprime precisamente nella allegoria anagogica, e non può esprimersi se non per mezzo di essa, come abbiamo già chiarito con le ragioni sopra esposte. Dunque, l'allegoria anagogica, o senso anagogico che dir si voglia, non è crittografia artificiosa determinata da uno scopo pratico, perché, anzi, è significante di quel che la fondamentale ispirazione medievale e dantesca detta dentro l'animo del poeta; e non è rivestimento alieno imposto alla poesia, perché anzi è l'unica forma adeguata per chi canta l'ineffabile, per chi riconquista ogni valore trasponendolo dentro il Valore Assoluto.
Il Croce, affermando nella ricordata polemica contro l'allegorismo, che l'immagine poetica «non si restringe mai a cosa materiale e finita, ed ha sempre valore spirituale e infinito», dava nel segno, certamente, contro le allegorie didascaliche, riscontrabili, per esempio, in un Federico Frezzi, le quali non sono niente di più che una povera cosa adoperata per rappresentare quasi infantilmente qualche concetto teorico; ma convalidava pure, senza volerlo, l'autenticità poetica dei sensi anagogici danteschi, che appunto perché tali, cioè perché protesi e quasi catapultati verso l'eterno e nel significato e nella speranza, sono ricchi, se altra mai poesia lo fu, di «valore spirituale e infinito». La definizione crociana delle allegorie (più sopra riportata in nota) si riscontra, cioè, in quello che abbiamo chiamato «significato allegorico in senso stretto»; si riscontra pure, generalmente, nel «significato morale»; ma non si riscontra nel «significato anagogico». Il significato anagogico non comporta « l'accostamento convenzionale e arbitrario di due fatti spirituali », bensì l'accostamento legittimo, inevitabile e necessario - sotto pena di autocondannarsi a non dire e a non pensare - di due fatti spirituali (attinenti l'uno al tempo e l'altro all'eterno), di cui il secondo è la causa efficiente, l'esemplare supremo e il fine ultimo del primo, e il primo è, a misura d'uomo, la rivelazione del secondo, il vocabolo per invocarlo il mezzo per testimoniargli adorazione. E di più: tale accostamento anagogico possiede anche, come abbiamo detto, una componente fatta di speranza, di tensione, una «sursum ductio», che non è soltanto intellettuale ma anche affettiva: e allora l'accostamento anagogico non solo è teoricamente necessario - e dunque poeticamente giustificato -, ma altresì comporta e rafforza e viene attuando essenzialmente, la somma degli affetti insiti nella natura umana: le quali cose è facile comprendere quanto siano strettamente unite con la più alta poesia.
Con ciò non si esclude che l'Alighieri sia ricorso qualche volta all'allegoria «stricto sensu»: al senso allegorico, cioè, «come Io intendono i grammatici», che il Croce bene presentava. come un imporre alla poesia significati allotri da essa, quasi obbligandola a portare abiti non suoi. Questo è accaduto, com'è noto, per le canzoni del Convivio, e il Poeta ha scelto questa via, nel caso coscientemente, deliberatamente, non uccidendo la poesia in sul nascere, ma applicando ad essa il senso allegorico dopo ch'era nata (del resto, ciò gli fu possibile, perché evidentemente riconobbe in essa una presenza e una pregnanza di valori e di significati che già preludevano alla Commedia e già rivelavano la straordinaria ricchezza e le alte viste dell'animo suo). Nella Commedia, a ogni modo, l'allegoria «stricto sensu» («grammaticale» e non anagogica) occupa un posto assolutamente secondario; per tutte le ragioni che abbiamo dette, la Commedia è il canto di un'avventura ch'è precisamente l'avventura anagogica.