Dati bibliografici
Autore: Concetto Martello
Tratto da: Le forme e la storia
Numero: VII
Anno: 2014
Pagine: 33-54
Il Convivio è stato concepito da Dante come un’opera non tanto di filosofia quanto piuttosto sulla filosofia e la sua forma espressiva è diffusamente caratterizzata dall’allegoria, che non è quindi un aspetto tra gli altri di essa ma ne è l’“essenza”, per così dire, in quanto vi è teorizzata (paraltro in termini non pedissequi rispetto alla sua stessa tradizione , tutta interna al pensiero religioso), praticata (acquisendo una funzione squisitamente poetica), e interpretata (assunta cioè come strumento filosofico, in grado di cogliere i significati razionalizzabili della scrittura poetica nascosti sotto il “velo” delle figure, così come la verità “velata” nei misteri). In particolare l’aspetto centrale dell’opera è pensato come commento alle canzoni dedicate dal Poeta al suo nuovo amore dopo la morte di Beatrice, sopraggiunta tra l’8 e il 9 giugno del 1290 secondo la testimonianza dello stesso Dante nella Vita nuova , e proposte come involucrum dell’attestazione del suo incontro con la filosofia, cui egli dice di essersi dedicato con zelo e passione dai primi anni Novanta del XIII secolo. Vuole quindi essere una descrizione dell’atteggiamento filosofico del suo autore, cioè del rapporto che questi intrattiene con gli studi filosofi e più in generale una riflessione sulla filosofia, in sé (sull’oggetto, sui soggetti, sui linguaggi e sulla funzione di essa) e in relazione all’arte poetica.
La dichiarata inclinazione filosofica di Dante non può non interessare il filosofo e non può non suscitare la domanda su che cos’è la filosofia, cioè riguardante ciò che si intende con tale termine, sullo scorcio del XIII secolo e sul contributo dell’Alighieri alla definizione dell’oggetto filosofico e alla precisazioni delle funzioni culturali dell’approfondimento di esso nel Convivio. Certo definire univocamente la filosofia, non solo in generale ma anche in relazione a un determinato e circoscritto torno di tempo, espone al rischio di formulare giudizi parziali e perfino arbitrari, quanto meno non rispettosi della molteplicità delle prospettive filosofiche (anche nel tardo medioevo) e non consoni all’idea ampiamente condivisa che essa corrisponda sempre al tentativo storicamente determinato di ricostruire il senso della propria esperienza culturale, di comprendere e legittimare le condizioni e i modi di tale esperienza ; è tuttavia riconoscibile il processo secondo cui negli ambienti scolastici del XIII secolo va costituendosi un significato “ristretto” e tecnico di filosofia, che inevitabilmente influenza l’atteggiamento degli uomini colti, anche se non filosofi professionali, enucleandone la sua peculiare cifra razionale, in virtù della quale si configuri come scienza, e naturale, per cui si rivela metodologicamente autonoma da tutto ciò che è a essa esterno ed estraneo, cioè l’opinione, o meglio quanto è considerato opinabile, e la fede, in specie la rivelazione e la tradizione patristica ed esegetica . A questo va aggiunto, per completare il “quadro” di ciò che appare filosoficamente rilevante e/o emergente nell’ultimo decennio del XIII secolo, che sono sempre più avvertibili negli ambienti culturali le tracce di una filosofia dei laici, cioè di soggetti non appartenenti al ceto ecclesiastico e non filosofi di professione, caratterizzata da un più diffuso uso del volgare e collegata alla domanda di allargamento della fruizione culturale, di riconoscimento di nuove soggettività filosofiche, cioè della “platea” dei destinatari e dei cultori dei saperi e delle competenze, e di rinnovamento morale e civile . Agli occhi di un uomo colto e dedito agli studi la filosofia appare dunque come scienza, sapere razionale, naturale e controllabile, e come strumento privilegiato di istruzione e di formazione dei ceti sociali emergenti. In quanto sapere istituzionale e scolastico, essa gli appare insieme onnicomprensivo delle conoscenze profane, secondo il modello boeziano di filosofia e della sua divisione, esemplato sul tradizionale ordinamento del corpus aristotelicum, più volte ripreso e rivisitato fino alla metà del XII secolo ma soprattutto oggetto, negli anni in cui Dante si forma e in quelli in cui si accosta agli studi filosofici, di una matura riflessione epistemologica, di matrice aristotelica, secondo cui la scienza si distingue dalle forme culturali non finalizzabili alla certezza “oggettiva” e le diverse scienze teoretiche si distinguono tra loro in base non solo alla fonte epistemica, cioè alla facoltà conoscitiva coinvolta nella “costruzione” delle cognizioni, ma anche all’oggetto, diversamente da quanto avviene nel medioevo alto e centrale, caratterizzato da un “orizzonte” speculativo esclusivamente platonico e in cui l’“area di intersezione” tra l’oggetto della scienza e quello del pensiero non scientifico (in gran parte religioso) e tra l’oggetto di ciascuna scienza e quello di tutte le altre è a tal punto ampio che essi sostanzialmente coincidono .
L’atteggiamento culturale di Dante si palesa, nell’arco del trentennio che si svolge dalla morte di Beatrice a quella del Poeta, tra la Vita nuova e la Commedia, attraverso il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia; in particolare nel Convivio, oltre a essere tracciato in forma figurata il percorso attraverso cui maturano le sue motivazioni all’apprendistato filosofico, “traspare” l’idea scolastica di filosofia come scienza , come sapere prodotto e riproducibile attraverso il metodo della quaestio e l’habitus del commentatore, sulla scia del pensiero di Tommaso d’Aquino, cioè della forma di cristianesimo filosofico più condivisa dopo le condanne degli anni Settanta del XIII secolo e da cui quindi l’Alighieri non può prescindere , e di Alberto Magno, che si mostra consapevole dell’autonomia dei saperi razionali dai misteri e prossimo, sul piano “ideologico”, per così dire, alla successiva critica del concordismo tommasiano e tomistico da parte degli aristotelici radicali, messa in questione che l’autore del Convivio certamente recepisce, quanto meno nelle sue “ricadute” etico-politiche. Ma nel Convivio si manifesta anche l’esigenza di un laico, in quanto, sebbene uomo colto, non chierico (come è comprovato dall’adesione di Dante alla corporazione dei medici e degli speziali intorno alla metà degli anni Novanta del XIII secolo per poter partecipare alla vita politica fiorentina) e filosofo non professionale, di rivolgersi ai laici, non chierici ma anche “illitterati”, che, per le limitate capacità o per le necessità lavorative incombenti, non hanno avuto la possibilità, pure in alcuni casi dotati di cultura medio-alta, di dedicarsi esclusivamente alle discipline “liberali” e di acquisire una conoscenza della lingua latina adeguata agli standards delle competenze e dei dibattiti filosofici . E da laico che scrive per i laici, Dante, oltre a difendere la sua reputazione di uomo e di poeta compromessa dalla condanna e dall’esilio , giustifica l’uso del volgare toscano in un’opera filosofica ; in altri termini è fiducioso di trovare nell’alta “borghesia” e nella piccola nobiltà fiorentine, e non solo, un pubblico da un lato sensibile alla comprensione delle sue ragioni e dall’altro lato disponibile ad assecondare la promozione della crescita culturale, in quanto spirituale e politica, dei ceti urbani emergenti.
In questo senso il Convivio contiene un’idea di filosofia come sapere estraneo agli interessi prevalenti dei dotti e dei maestri ed eminentemente pratico, orientato alla formazione morale e spirituale dell’individuo “borghese”, occasione e condizione privilegiata della confessione (secondo il modello rappresentato dalle Confessiones di Agostino) e della consolazione (sull’esempio di Boezio, dalla cui Consolatio Philosophiae è assunta, come nella Vita nuova, anche la forma del “prosimetro”, cioè l’alternanza di prose e metri, genere comunque usato con una certa frequenza nel medioevo) , e come pratica teorica e di consolidamento dei legami sociali (alla luce del De amicitia ciceroniano) ; e contiene anche il riconoscimento della subordinazione della scienza alla poesia (quindi sovvertendo in qualche modo gli schemi della gnoseologia aristotelico scolastica, oltre che la scala di valori della tradizione culturale), della ragione all’immaginazione, culmine e superamento del conoscere come mera applicazione degli strumenti dialettici e rappresentazione della Verità e della Grazia . In questo senso il ruolo del Convivio nello sviluppo successivo della produzione dantesca risulta fecondo e per converso non sembra accettabile l’opinione di chi coglie un’opposizione metodologica e una diversa ispirazione tra la riflessione che in esso è svolta sul rapporto tra profezia e poesia e la successiva produzione di Dante e individua nella presunta sterilità dell’allegoria dei poeti in funzione dei progetti letterari del poeta la ragione della brusca interruzione dell’opera dopo il IV trattato . Inoltre da tutto ciò emerge l’eclettismo filosofico di Dante, o meglio il suo aristotelismo “critico”, in quanto caratterizzato dal riconoscimento del primato morale e veritativo della rivelazione e della poesia rispetto alla scienza, pur nella consapevolezza che tale preminenza non implica in linea di principio la subordinazione di quest’ultima al pensiero religioso, essendo l’universalità e la necessità delle sue determinazioni estranee all’assolutezza dei misteri e addirittura i saperi razionali inconciliabili con le verità di fede qualora, “sovrapponendosi” a esse, manifestino una qualche discordanza. Tale punto di vista si ripercuote nell’ambito del suo pensiero etico-politico, a proposito della crisi dell’equilibrio tra i poteri universali, il papato e l’impero, entrambi “percepiti” come fedeli interpreti della volontà divina, ciascuno nell’ambito della propria funzione, di guida alla salvezza dell’anima il primo, di garanzia di sicurezza e di prosperità per tutti il secondo.
Egli invero “rimuove” la crisi dell’universalismo politico e non “percepisce” i processi di redistribuzione dei poteri determinati dall’incremento delle funzioni delle élites nazionali e regionali, ma non è il solo, in un contesto in cui la maggior parte degli uomini colti è interessata al dibattito sulle tesi ierocratiche riguardanti la plenitudo potestatis del pontefice ; piuttosto la lucida partecipazione dell’Alighieri sin dal Convivio a tale dibattito manifesta la duplice valenza del suo interesse per la filosofia, concepita secondo i modelli della scolastica, alla luce della quale gli si è formato ma ai cui ambienti resta sempre estraneo: preservare l’integrità della fede come unico requisito per il raggiungimento della felicità eterna e promuovere la crescita etico-politica della società, sotto l’egida e la guida di un unico sovrano. L’atteggiamento filosofico di Dante si chiarisce dunque alla luce di due dicotomizzazioni, caratterizzanti il “clima” culturale nell’Italia centro-settentrionale e strettamente intrecciate tra loro: la contrapposizione tra rivelazione e ragione, implicante il primato morale della prima ma non la subordinazione gnoseologica a essa da parte della seconda, e quella tra chierici e laici di fronte al sapere. L’approfondimento di tali rapporti antinomici rivela che la filosofia appartiene prevalentemente e secondo la tradizione alla cultura dei chierici, soggetti storici del sapere nel medioevo latino, ed è eminentemente scienza (in generale e quindi anche teologica, in quanto tale autonoma dalla rivelazione e dalla pratica esegetica); peraltro la filosofia dei laici o prodotta su richiesta di essi (quasi sempre per il perseguimento di specifiche finalità pratiche) si manifesta attraverso nuovi generi letterari, come il manuale di etica e/o di politica a uso dei prìncipi . Dante ha competenze filosofiche e linguistiche “alte” e attraverso esse nel Convivio esprime l’inestricabile intreccio del bisogno di verità e del desiderio di conoscenza di ciascun uomo e coglie la valenza esperienziale dei saperi, al di là di ogni astratta teorizzazione di scuola, riguardante la filosofia pratica in quanto etica, politica ed economica . In altri termini, sulla base della sua solida formazione, conseguita tuttavia non in una Università ma, come egli stesso ci informa, “ne le scuole de li religiosi” , sviluppa nel Convivio, nel contesto dei problemi posti e delle prospettive elaborate nell’attualità culturale, un ideale pratico di filosofia intesa come via che conduce alla felicità, sia terrena attraverso le virtù civili e la conoscenza, sia celeste ed eterna, in virtù della perfezione spirituale, al cui raggiungimento essa prepara, a vantaggio di quegli “illitterati” capaci di cogliere le opportunità che l’evoluzione “borghese” della società tardomedievale offre loro per soddisfare le naturali esigenze culturali e il “desiderio di Dio” e per non sacrificare le une e l’altro “sull’altare” delle occupazioni servili.
L’interruzione del Convivio alla fine del IV trattato dei quindici previsti consente solo di intravedere la complessa struttura immaginata dall’Autore; e tuttavia si può dire che, se il I trattato ha una funzione meramente proemiale e il IV esula dall’impianto letterario del II e del III, questi ultimi formano un unico e coerente insieme narrativo, incentrato sul percorso dell’animo del Poeta dallo sconforto per la morte di Beatrice alla perfezione, itinerario ascetico “velato” nell’allegoria poetica del “nuovo amore” per la donna gentile cantata nei primi due componimenti poetici dell’opera, in un’ideale prosecuzione dell’esposizione nella Vita nuova del conflitto vissuto da Dante tra l’attrazione esercitata su di lui da una donna pietosa e gentile e la consapevolezza che solo l’amore per Beatrice e il suo ricordo può condurlo a Dio, e secondo un progetto letterario attuato successivamente e pienamente nella Commedia.
In particolare il II trattato commenta la canzone “Voi, che ’ntendendo”, che lo stesso Dante riferisce alle traversie da lui vissute sullo scorcio dell’estate del 1293 e la cui composizione risale probabilmente all’anno successivo . Qui l’Alighieri intende passare dalla confessione della Vita nuova, espressa attraverso la narrazione di vicende presentate come reali, alla tensione spirituale del Convivio, esplicitata attraverso la rappresentazione della sua passione amorosa come figura; egli pertanto afferma che la canzone deve essere interpretata sia secondo la lettera (cui dedica i capitoli II-XI) sia secondo l’allegoria (cui dedica i capitoli XII-XV, ai quali si deve aggiungere la teorizzazione dell’allegoria che costituisce l’argomento del I capitolo). E secondo la lettera si rivolge a coloro da cui dipendono le motivazioni e l’esito dell’attrazione esercitata su di lui dalla “donna gentile” e i quali quindi sono in grado di mettere fine al conflitto tra l’esigenza di nutrire il nuovo sentimento e la fedeltà al ricordo di Beatrice: gli angeli motori del terzo cielo . Questo passaggio narrativo introduce alla lunga digressione che copre i capitoli dal III al VI, quindi più di un terzo della spiegazione letterale della canzone, di argomento cosmologico e angelologico e riguardante in particolare il numero dei cieli di cui è costituito il cosmo (gli otto della tradizione antica, cioè quelli di Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, e Firmamento, e il Primo Mobile, posto da Tolomeo oltre il cielo delle stelle fisse) e i nove ordini di angeli riconosciuti dalla letteratura e dalla tradizione ecclesiastica, tra i quali individua quello dei Troni come motore del terzo cielo , gli uni e gli altri sottostanti e subordinati rispetto all’Empireo, cielo supremo e immobile, sede del principio di tutte le cose, trascendente e inconoscibile .
Al di la delle non marginali differenze rispetto alla più completa e complessa “architettura” dell’oltretomba delineata nella Commedia, si può dire che nel Convivio è tracciata la prima rappresentazione dantesca del Paradiso come parte integrante della struttura del cosmo, espressione dell’esigenza del poeta fiorentino di attribuire un luogo fisico agli enti immateriali. I capitoli successivi del trattato sono dedicati alla battaglia dei suoi pensieri, a commento delle tre stanze centrali della canzone. Dante riconduce tale conflitto al principio generale filosofico-naturalistico secondo cui due qualità contrarie si respingono e quella soccombente ha un maggiore “difetto di vertù”, cioè una carente capacità di imporsi sul suo contrario ; e la forza della generazione del nuovo amore è preponderante rispetto a quella del ricordo del precedente, che va affievolendosi nonostante al Poeta ripugni allontanarsi dalla nostalgia di Beatrice, degna di beatitudine e di gloria eterne, e cedere alla valenza, e in qualche modo alla violenza, della seduzione . Questa seconda parte della spiegazione letterale comprende, a proposito di Beatrice, una digressione sull’immortalità, che per Dante è provata dal consenso unanime di filosofi e uomini di cultura , dalla perfezione della natura umana in virtù della sua razionalità che tende all’eternità e la cui fallacia farebbe dell’animale superiore a tutti gli altri il più imperfetto, conclusione evidentemente assurda , dalla necessità che un desiderio naturale sia appagabile e dai sogni premonitori .
Secondo l’interpretazione allegorica la canzone esprime la scoperta della filosofia, come consolazione dopo l’intenso dolore patito a causa della scomparsa della donna amata e la conseguente frequentazione delle scuole e dei maestri , che restano tuttavia di non facile identificazione anche se si può pensare che per la sua formazione filosofica Dante abbia frequentato delle scuole fiorentine aperte ai laici (anche se è problematico pensare che esse possano essere la domenicana annessa alla chiesa di Santa Maria Novella, la francescana di Santa Croce o lo studio degli Agostiniani del Santo Spirito) e non si può escludere che abbia perfezionato le proprie competenze presso gli Studi bolognesi e intrattenuto rapporti informali con maestri universitari . La donna di cui il Poeta si innamora dopo il venir meno del primo amore altri non è quindi che la “bellissima e onestissima” figlia del signore di tutte le cose, chiamata da Pitagora Filosofia, secondo la diffusa opinione che Dante ricava da autori antichi e “moderni”, da Cicerone e Agostino a Tommaso . E in questa stessa chiave allegorica i Troni, che muovono il terzo cielo, rappresentano i filosofi , gli occhi della donna gentile sono le dimostrazioni che seducono l’anima dello studioso e conducono alla verità e all’elevazione spirituale e il sentimento d’amore è il pensiero dominante dello studio .
Il terzo trattato, a commento della canzone “Amor, che ne la mente”, è incentrato sulla lode della donna gentile/filosofia, tema ampiamente frequentato nella tradizione poetica (tanto da potersi considerare un genere) e dallo stesso Dante nella Vita nuova . Sono così celebrate la bellezza della donna, manifestazione, pur parziale, della perfezione e della beatitudine eterne, l’eleganza del suo portamento e la dolcezza del suo sorriso, per allontanare il persistente “complesso di colpa”, per così dire, del Poeta, in termini più propri il suo timore di apparire e di essere considerato fedifrago o quanto meno affettivamente superficiale, e conseguentemente per ricostruire la propria immagine di uomo moralmente integro agli occhi dei contemporanei e dei posteri. Anche nel caso della seconda canzone il primo verso impegna l’Alighieri a una riflessione approfondita, riguardante nella fattispecie le nozioni di “amore” e di “mente”: il primo è la forza universale capace di unire ciò che è separato, e quindi di congiungere l’anima all’oggetto del proprio interesse affettivo, secondo una concezione universalistica e spirituale di tale forza di origine neoplatonica con ogni probabilità ricavata dal De consolatione Philosophiae di Boezio e soprattutto dai commenti ad Aristotele di Alberto Magno, dal quale Dante recepisce il registro e l’impianto argomentativo, inequivocabilmente aristotelizzante ; la mente è la componente dell’uomo affine alle sostanze immateriali e alla quale l’amore si rivolge .
La spiegazione letterale del III trattato conferma, come quella del precedente, l’interesse di Dante per la fisica e l’intreccio della sua concezione dell’universo sensibile con la teologia; in questo senso nel V capitolo sono teorizzati il ruolo della terra nel cosmo e l’alternanza di luce e di tenebra, così come di caldo e di freddo, su di essa, in modo da essere distribuiti in uguale misura in ogni sua parte nell’arco di un intero anno solare come segno dell’equilibrio e dell’armonia del mondo fisico e dell’ordine e della posizione privilegiata della Terra in esso, in virtù della volontà e dell’opera ordinatrice di Dio . Da questo punto di vista il II e il III trattato del Convivio possono essere visti come l’origine dell’esigenza filosofico-scientifica che soggiace alla realizzazione della Commedia e in particolare all’idea portante della terza cantica, secondo cui la struttura fisico-matematica e armonica del cosmo corrisponde alla gerarchia delle sostanze angeliche e dei luoghi della beatitudine spirituale ed entrambe costituiscono l’oggetto di un’ontologia discensiva e scalare da Dio agli ambienti corporei, attraverso gli angeli, l’uomo, gli animali bruti e le piante . Ma è l’interpretazione allegorica della canzone “Amor, che ne la mente” che dà all’autore del Convivio l’occasione per soffermarsi ancora sulla nozione e sul termine di filosofia. Essa è amoroso uso della sapienza, cui si perviene attraverso lo studio, a sua volta analogo all’amore; è stata chiamata così perché Pitagora ha rifiutato per sé il nome di sapiente, preferendo quello di “amante della sapienza”, cioè filosofo. In conseguenza di ciò il termine stesso di “filosofia” esprime il suo carattere peculiarmente umano, ancorché razionale e spirituale. Infatti la sapienza è attributo infinito di Dio e identica a lui e da parte delle creature razionali è solo partecipata ; la filosofia rappresenta la perfezione e quindi prefigura la futura felicità in uno stato di beatitudine e dai suoi ragionamenti traspare il rigore e l’universalità della sapienza, come attraverso la bellezza degli occhi e del sorriso di una persona si intravede la bontà della sua anima. E la relativa perfezione della filosofia si realizza pienamente nella sua dimensione pratica, cioè nella vita virtuosa, che è condizione della beatitudine .
Fin qui la narrazione delle vicissitudini amorose di Dante dopo la morte di Beatrice e la sua stratificata interpretazione, dalle quali l’Autore del Convivio si distacca nel IV trattato, dedicato al tema della nobiltà e con cui si interrompe definitivamente l’opera, forse per il sopravvenire e il prevalere di altri progetti, altrettanto ambiziosi ma più consoni al profilo culturale e alle inclinazioni dell’Alighieri. Ma se, e in quanto, tali narrazione e interpretazione sono il “filo rosso” che tiene insieme e indica il senso dell’intero disegno del Convivio, costituiscono l’essenza di esso e la sua stessa ragion d’essere, assume funzione di fondamento teorico la concezione dei quattro sensi della scrittura profana, analoghi e corrispondenti a quelli enucleati dalla tradizionale esegesi della scrittura sacra, nei capitoli iniziali dei primi due trattati. In particolare nel I capitolo del trattato proemiale Dante pone nell’opera e come fondamentale condizione di una sua corretta lettura la distinzione di lettera e allegoria, che esprime l’insieme dei significati riposti e allusivi del linguaggio poetico, in un primo momento implicitamente, presentando l’opera come un immaginario banchetto, in cui le vivande sono rappresentate dalle canzoni e il pane dal loro commento; infatti le prime sono sovente oscure e le prose hanno la funzione di chiarirle . Evidentemente il commento ha la funzione di fare emergere i significati che nelle canzoni sono nascosti sotto l’“involucro” narrativo; e tuttavia subito dopo la distinzione di lettera e allegoria è resa esplicita, così come il duplice piano su cui si manifesta la figura profana, l’espressivo e l’interpretativo: nella misura in cui il testo contiene almeno due strati semantici e l’intento primario dell’Autore è quello di fare emergere il significato più profondo, dopo il commento alla narrazione letterale egli si propone di mostrarlo attraverso la spiegazione allegorica . In altri termini Dante manifesta il suo proponimento di evidenziare non solo la valenza mitopoietica della poesia, cioè la sua capacità di esprimere un significato allegorico, ma anche la possibilità di intendere correttamente tale espressione figurata dei poeti.
All’inizio del II trattato egli, a conferma della distinzione tra il significato letterale e l’allegorico della figura poetica, procede a una più articolata teorizzazione dei quattro sensi della scrittura in generale, sia sacra sia profana: il letterale e i tre figurati (spesso compresi tutti nella nozione di allegoria), corrispondenti ai significati spirituali enucleati dalla tradizione esegetica, cioè l’allegorico propriamente detto, il morale e l’anagogico. Dante manifesta così il suo intendimento e il suo coraggio nel propugnare il valore spirituale e veritativo della poesia, la sua capacità di cogliere intuitivamente gli aspetti essenziali dell’esperienza conoscitiva e umana. Egli spiega che le scritture (nel senso generale sopra precisato) hanno fino a quattro significati: il letterale, che non va oltre il significato superficiale del testo ed è costituito da storie vere o da invenzioni poetiche, l’allegorico, che è quello nascosto come si è visto sotto il “mantello” della lettera, il morale, che esprime la valenza edificante del racconto a vantaggio dell’interprete e dei suoi allievi (cioè di chi a sua volta si avvale di ciò che l’interprete apprende), e l’anagogico, che attiene alle cose divine e rimanda da una denotazione vera a una connotazione altrettanto vera e gravida di contenuti e valori spirituali .
L’autore del Convivio mostra nella sua trattazione di essere pienamente consapevole delle specifiche differenze, oltre che delle corrispondenze, tra i quattro sensi della scrittura sacra e quelli della profana; infatti a proposito del significato allegorico egli sottolinea che nella poesia esso esprime “una veritade ascosa sotto bella menzogna” mentre “li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti”. In altri termini Dante si rende conto che in ambito teologico il rapporto tra lettera e allegoria non è corrispondente a quello tra menzogna e verità, in quanto costituiscono entrambe un significato vero, diversamente da quanto si riscontra nella scrittura profana, comunque distinguendosi perché il significato letterale ha un contenuto storico, esprime sempre eventi naturali o umani realmente accaduti, e l’allegoria è la figura della profezia, esprime cioè il valore spirituale degli avvenimenti, nel quadro del piano divino della creazione e della salvezza . Inoltre salta immediatamente agli occhi il diverso, almeno parzialmente, punto di vista da cui Dante esamina il senso letterale e l’allegorico rispetto a quello da cui prende in considerazione gli altri due significati, come si evince dagli esempi che adduce. Nel primo caso infatti egli si riferisce esplicitamente alla scrittura poetica e ai miti profani; nel secondo caso esemplifica la sua spiegazione attraverso episodi tratti dalla sacra scrittura, quindi implicitamente induce a ritenere che il senso morale e l’anagogico riguardino elettivamente la tradizionale esegesi del libro rivelato. E certo non è un caso se individua nelle fabulae fittizie l’espressione ordinaria della lettera e, a proposito dell’allegorico, ricorda la versione ovidiana del mito di Orfeo, che col suono della sua cetra rendeva mansuete le fiere e attirava a sé piante e minerali, e aggiunge che tale rivestimento narrativo ci consente di cogliere la capacità oratoria con cui il sapiente conquista gli animi più duri e guida la volontà degli incolti ; a proposito del senso morale ricorda invece le trasfigurazioni del Cristo in presenza solo di tre dei suoi apostoli, per significare che i momenti di più alto valore spirituale vanno vissuti in compagnia di pochi compagni , e infine, a proposito dell’anagogico, sottolinea la veridicità storica della sacra littera e menziona la fuga dall’Egitto del popolo ebraico e il suo ritorno nella terra promessa come avvenimenti che rimandano al destino spirituale dell’anima, che si rende libera e santa uscendo dal peccato .
Questo duplice approccio ermeneutico dell’Alighieri alla figura, da un lato veicolo dei significati spirituali della scrittura sacra, dall’altro lato espressione della razionalità e della verità dei racconti profani, ancorché su un piano meramente denotativo falsi e tutt’al più solo verosimili, dei poeti e dei filosofi, non è del tutto nuovo nel contesto culturale di lingua latina e occidentale. Esso si trova ampiamente praticato nella Francia centro-settentrionale (comprendente gli ambienti culturali più “avanzati” del medioevo centrale) della prima metà del XII secolo, in quanto parte integrante della riscoperta e della rivalutazione della filosofia come sapere razionale e attuale, le quali comportano, all’interno di un quadro teoretico sostanzialmente in linea con la tradizione del platonismo alto medievale, il riconoscimento della “fede degli antichi”, cioè della prossimità dei filosofi antichi alla verità dei misteri, e della conseguente valenza veritativa dei loro miti, che necessitano quindi di un’interpretazione figurale, oltre e più che di quella meramente letterale. Mi riferisco al tema e all’uso dell’integumentum (letteralmente “copertura”, “rivestimento”, “velo”), nella pratica teorica di una componente consistente degli ambienti filosofici , dall’autore delle Glosae super Platonem attribuite a Bernardo di Chartres a Guglielmo di Conches e a Pietro Abelardo , ma soprattutto all’esplicita teorizzazione contenuta nel Prologo del Commento a Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre, in cui è specificato che la figura è un genere dell’espressione [genus doctrine figura est], comunemente chiamata “involucro” [quam involucrum dicere solent], che si articola in due specie [bipertita est], e precisamente in allegoria e in integumento [partimur namque eam in allegoriam et integumentum]. L’allegoria è un piano espressivo che palesa una verità diversa da quella espressa nella narrazione storica del testo; l’integumento è invece una narrazione fittizia che racchiude una verità razionalizzabile [integumentum vero est oratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum]. La prima riguarda dunque la sacra scrittura, il secondo i miti della filosofia [allegoria quidem divina pagina, integumentum vero philosophice competit] .
Emerge, come nel caso della teorizzazione del Convivio, l’esito di una riflessione, che pure rimane presupposta, sulle differenze tra l’esegesi sacra e l’interpretazione della scrittura profana, dipendenti dalla diversa natura dei testi: secondo la tradizione esegetica il senso letterale è vero e il figurato ha valenza squisitamente spirituale e si articola nell’allegorico, nel morale e nell’anagogico; il mito profano è costituito da un “velo” narrativo fittizio e da un significato secondo corrispondente a un contenuto filosofico, sebbene privo di evidenti implicazioni morali e spirituali. E tuttavia Dante, pur evidentemente influenzato dal Commento a Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre e dalle opere degli altri autori citati, che certamente conosce, ha una posizione tutt’affatto originale, che si manifesta in tre principali aspetti. E innanzitutto nell’attribuzione del senso morale e dell’anagogico anche alla scrittura profana, nella misura in cui il poeta è in grado, anzi a lui spetta il compito, di rappresentare il Bene e il Vero, in quanto attributi infiniti di Dio identici alla sua essenza e fine ultimo di tutte le cose che partecipano di tale somma natura; e se nel Convivio questa attribuzione rimane appena accennata e in gran parte implicita, è applicata e sviluppata successivamente e in particolare nel grande “disegno” umano e spirituale della Commedia. In secondo luogo nel riconoscimento che l’allegoria dei poeti è non solo, e non tanto, interpretazione quanto, e soprattutto, produzione letteraria, forma espressiva , diversamente dall’allegoria dei teologi, che si limita alla ricezione e all’interpretazione del testo, il cui autore è Dio stesso attraverso la mediazione degli scrittori sacri; e a questo proposito non sembra sufficientemente fondata la pur elegante e autorevole suggestione secondo cui Dante avrebbe potuto identificare i “teologi” negli autori ispirati del libro sacro , in quanto appare troppo restrittiva e il modo in cui l’autore del Convivio tratta dei quattro sensi e gli esempi tratti dalla Bibbia che esibisce si riferiscono inequivocabilmente ai suoi esegeti, peraltro in un contesto filosofico più “avanzato”, per così dire, rispetto all’“orizzonte” concettuale platonico del XII secolo francese, pure espressione di un processo di razionalizzazione in virtù dell’“indebolimento” della teologia negativa, cioè della valenza mistica della sua stessa tradizione, e della semplificazione della visione gerarchica dell’essere, un ambito culturale caratterizzato dall’esigenza di autonomia, ancorché parziale, dall’oggetto della scienza, e più in generale della cultura profana, da quello della fede . Da questo punto di vista si può dire che l’esegesi profana si avvale di due competenze: quella del filosofo, capace di enucleare i diversi strati semantici di un testo, chiarirne il contenuto ed elaborare teorie generali su di essi, e quella del poeta, produttore di miti e di immagini pregnanti. Infine il peculiare approccio di Dante al tema dell’allegoria dei poeti, in connessione proprio al rapporto tra la filosofi dichiarato amore dell’autore del Convivio alle soglie dei suoi trent’anni, e la poesia, “cuore” della sua personalità culturale, si palesa nella posizione sovraordinata della forma espressiva di tipo rappresentativo rispetto alla concettualizzazione; se quest’ultima infatti accompagna l’uomo colto fino alla piena e razionale consapevolezza del proprio destino spirituale e dei propri limiti creaturali, la poesia è in grado di oltrepassare tali limiti attraverso l’intuizione intellettuale del divino e delle creature immateriali, così come delle condizioni della beatitudine e dello stato di essa .
Si tratta di un elemento di assoluta novità nel “panorama” della scolastica tardomedievale, egemonizzato dal rapporto e dalla competizione tra filosofia (nel senso di sapere razionale, anche teologico) e teologia (come pensiero religioso fondato sull’esegesi). Il poeta che Dante delinea nel Convivio non è filosofo, in quanto è più che filosofo, né teologo, in quanto, sebbene anch’egli disvelatore di verità, si differenzia da esso per la sua funzione “mitopoietica”. Alla base di entrambe le pratiche esegetiche (la teologica e la “filosofica”, per così dire), e in specie delle due modalità interpretative dei significati spirituali e/o connotativi, è inoltre rilevabile per l’Alighieri la priorità della lettera rispetto all’allegoria, nella misura in cui l’attività interpretativa coinvolge la ragione; procede all’inverso infatti non solo è impossibile, in quanto per accedere a ciò che è interno bisogna prima prendere in considerazione il rivestimento esterno, l’involucrum, ma anche irrazionale, in quanto secondo il modello metodologico riconducibile al corpus naturale di Aristotele, è opportuno procedere dal più noto al meno noto . Questa concezione è in linea con la tesi del primato del senso letterale condivisa in, e rivendicata da, una parte consistente della tradizione esegetica , e tuttavia nel Convivio la priorità della lettera ha un valore prettamente metodologico, che non esclude la prevalenza valoriale dell’allegoria, nel significato generale di senso spirituale. E se questo risulta chiaro a proposito dell’esegesi sacra, non lo è di meno nell’ambito dell’interpretazione della scrittura poetica, nella quale inevitabilmente la figura si manifesta frequentemente come allegoria in verbis (o dicti), cioè attraverso forme simboliche, oltre che come allegoria in factis (o facti), cioè mediante la narrazione di eventi reali.
È questo un aspetto della tradizione esegetica che segna lo sviluppo della teoria e della pratica dell’interpretazione del testo sacro tra la tarda antichità pagana e il medioevo cristiano, che generalmente privilegia l’idea dell’allegoria come rapporto di significazione tra un evento storico narrato nell’Antico Testamento e un testo o un altro evento del Nuovo Testamento che vi è prefigurato sulla concezione di essa come rapporto di significazione tra due testi, in quanto nella sacra scrittura i dicta vengono compresi nei facta, nei quali è individuato quindi il senso allegorico primario . E in questo processo la tradizione esegetica si incontra, nelle teorizzazioni così come nelle esperienze, con i processi di razionalizzazione dei saperi che sono caratterizzati nel medioevo centrale dal già menzionato “rafforzamento” della teoresi platonica e, dal XIII secolo, dall’ingresso e dalla diffusione negli ambienti scolastici latini del modello aristotelico di scienza e di cui sono partecipi molti degli autori che sono annoverabili tra le fonti della riflessione di Dante sull’allegoria dei poeti nel Convivio. Ma il privilegiamento dell’allegoria in factis non è unanime nella tradizione esegetica medievale e piuttosto la valorizzazione dell’allegoria in verbis si accompagna talvolta a un simbolismo di ascendenza pagana, elevato a dignità mistico-speculativa, e quindi filosofica, dal platonismo “dogmatico” della tarda antichità e dal suo “sfruttamento” del patrimonio cultuale pre-cristiano e recepito nel medioevo latino attraverso il Corpus dionysiacum . Si tratta evidentemente di un aspetto forse marginale ma utile per una conferma ulteriore della partecipazione “critica” di Dante al dibattito filosofico-teologico, della sua sensibilità spirituale che integra organicamente le conoscenze ricavate dalla formazione filosofico-scientifica e dalla lettura delle opere di Aristotele e dei maestri interpreti di esse. Da questo punto di vista l’originalità e l’innovatività di tale contributo alla definizione dei modelli teorici di riferimento nella teorizzazione dell’allegoria della scrittura profana nel Convivio consistono nell’individuazione del ruolo culturale della poesia come strumento di conoscenza intuitiva, non espressione di un approccio irrazionale e meramente emotivo alla realtà né manifestazione
di puro diletto, cioè di una funzione collegata all’universalità e alla necessità del sapere razionale ma sovraordinata rispetto a esse, in grado di cogliere, con le sue rappresentazioni e i suoi simboli, l’essenza dell’uomo e il suo destino spirituale e, pur diversamente dalla, ma parallelamente alla, teologia, il mistero di Dio. Che non stia in questa consapevolezza della valenza “noetica” della figura il motivo primario della brusca interruzione dell’opera e del prosieguo del percorso culturale di Dante attraverso progetti più consoni alla dignità della poesia e del poeta?