Dati bibliografici
Autore: Gianfranco Fioravanti
Tratto da: «Philosophical Readings. Online Journal of Philosophy»
Numero: 3
Anno: 2018
Pagine: 197-202
Come è noto, nel progetto di Dante il Convivio avrebbe dovuto strutturarsi in quindici trattati di cui il primo introduttivo e gli altri quattordici concepiti come commento ad altrettante canzoni da lui composte prima ed indipendentemente non solo dalla redazione, ma anche dal progetto del Convivio stesso. L’opera non è stata condotta a termine: sono stati scritti, e sono giunti fino a noi, il trattato introduttivo e il commento a tre canzoni in cui sono rintracciabili alcuni rinvii al contenuto dei trattati che non erano stati ancora e non furono mai composti; un segno che almeno nella mente di Dante era presente il piano completo dell’opera. Tuttavia sono del tutto congetturali i tentativi di individuare quali fossero i contenuti specifici dei trattati non scritti sia quali canzoni fossero abbinate a quali trattati Infine non soltanto il Convivio è rimasto incompiuto, ma le parti effettivamente portate a termine non sono mai state edite da Dante e sono rimaste sconosciute o quasi durante tutto il XIV secolo. Solo nel ‘400 assistiamo ad una diffusione del testo più larga, ma in questo caso il pubblico interessato a leggerlo non era certamente più quello per cui Dante aveva avuto l’intenzione di scriverlo . Dunque solo noi possiamo valutare il senso e la portata di questo lavoro, e dobbiamo subito anticipare che si trattava di un progetto molto audace perché molto nuovo e privo di precedenti significativi. L’autore stesso sembra esserne consapevole. All’ inizio del capitolo quinto del primo trattato, Dante si scusa per l’utilizzazione della lingua volgare e non del latino . Questo tipo di excusatio non è in sé del tutto originale: essa è presente in diversi traduttori e compilatori a lui precedenti o contemporanei. Un esempio particolarmente significativo è rintracciabile nel Fiore di Rettorica di Bono Giamboni: qui l’uso del volgare viene giustificato con il desiderio di permettere l’accesso ad alcune branche del sapere ‘alto’ a coloro che non padroneggiano il latino, che sono cioè illitterati . A prima vista si tratta dello stesso motivo avanzato da Dante: il volgare donerà sapere a molti là dove il latino lo avrebbe reso accessibile solo ad alcuni . In realtà le cose sono molto differenti. Bono non dice espressamente perché l’uso del volgare abbia bisogno di essere scusato ma alcune sue affermazioni ci inducono a pensare che la colpa, per così dire, stia nel risultato non soddisfacente ottenuto: non solo è difficile, ma è impossibile trasporre in volgare concetti fatti, per dir così, per il latino rendendone appieno la complessità . Dante afferma esattamente il contrario: il ricorso al volgare dimostrerà che esso e assolutamente capace di esprimere «grandi concetti» esattamente come il latino . La ragione della scusa sta dunque in tutt’altro; Dante la espone chiaramente all’inizio del cap. X sempre del primo libro: «Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s’appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per gli altri è stato servato lungamente sì come di comentare con latino» . E in effetti Dante consacra l’intero capitolo all’esposizione dei motivi che giustificano la novità assoluta della sua impresa dal punto di vista dello strumento linguistico usato e che pongono dunque il Convivio allo stesso livello della grande tradizione del commento in latino. Ma quale tipo di commento?
Durante tutto il Medioevo questo genere letterario ha avuto per oggetto numerose tipologie di testo ed è stato utilizzato in molti contesti diversi. Ma all’epoca di Dante esso era diventato appannaggio quasi esclusivo della produzione culturale universitaria e si era concentrato su alcune precise categorie di testi: testi di teologia (i libri della Bibbia e le Sentenze di Pier Lombardo), testi di medicina (Ippocrate, Galeno, Avicenna), infine testi di filosofia (essenzialmente le opere di Aristotele). Inoltre, soprattutto in questi due ultimi casi il commento utilizzava un tipo particolare di strumento esplicativo, quello della dimostrazione sillogistica. Il commento dantesco alle canzoni rientra pienamente nel modello universitario di questo tipo. Molto spesso infatti nel Convivio sono utilizzate le stesse forme di argomentazione espresse nello stesso linguaggio tecnico . Per quanto riguarda la materia trattata il Convivio non è evidentemente né un commento biblico né un commento medico, ma nonostante abbia come oggetto un testo poetico, presenta tuttavia molte delle caratteristiche di un commento filosofio. Esso si apre infatti con la prima frase del primo libro della Metafisica di Aristotele: «Tutti gli uomini per natura desiderano sapere», esattamente come un gran numero di commenti filosofici composti tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo. Ne sono un esempio i commenti di Tommaso d’Aquino agli scritti di Aristotele, ma le occorrenze si potrebbero moltiplicare . Non si tratta, come pure potremmo pensare, di un semplice luogo comune, ma quasi di un senhal che fa riconoscere tra loro autori accomunati dall’elogio del sapere filosofico e individua testi che questo sapere intendono trasmettere. Dante inoltre non si limita a ripetere questa affermazione, ma la dimostra dandone la ratio, ricorrendo alla dottrina aristotelica secondo cui la conoscenza è la funzione che rende l’uomo veramente uomo . Anche in questo caso il Convivio si pone sulla linea dei magistri artium parigini della fine del ‘200 e degli inizi del ‘300: Boezio di Dacia, Sigieri di Brabante, Giovanni di Jandun. Segue immediatamente l’enumerazione delle condizioni sfavorevoli (impedimenta nel linguaggio tecnico degli scritti filosofici) che impediscono a gruppi diversi di uomini di realizzare pienamente questa tendenza . Per una cosa, però, e non di poco conto il Convivio sembra diversificarsi da un commento filosofico: l’impiego di una doppia lettura del testo commentato (nel nostro caso le canzoni), la prima letterale, la seconda allegorica. Non ho intenzione di affrontare qui il problema assai controverso della allegoria in Dante . Mi limiterò a sottolineare che l’idea di una polisemanticità del testo oggetto del commento è agli antipodi dell’ermeneutica dominante tra medici e filosofi universitari al tempo di Dante. La caratteristica del linguaggio della scienza doveva essere la sua assoluta univocità: per questo era stato creato un linguaggio tecnico, libero dalle ambiguità del parlare comune (il linguaggio delle quidditates, delle entitates, delle formalitates fino alla famigerata hecceitas, il linguaggio di cui si prenderanno gioco molti umanisti). Il tredicesimo e il quattordicesimo secolo non erano più i tempi delle interpretazioni allegorico-filosofiche di Virgilio o di Ovidio elaborate dagli intellettuali del dodicesimo sotto l’egida di Macrobio e del Timeo. Ma se guardiamo meglio, vediamo che, al di là della dichiarazione di intenti iniziale, Dante usa l’interpretazione allegorica solo per le due prime canzoni, nei trattati secondo e terzo. Essa scompare nel quarto ed è molto probabile che anche le canzoni successive a «Le dolci rime d’amor ch’io solia» avrebbero avuto un solo livello di esegesi. Ora l’allegoria presente nel secondo e nel terzo trattato per gran parte è costruita in funzione di un lungo elogio della filosofia, vista come una donna dalle caratteristiche più che umane, nella linea della rappresentazione che ne aveva dato Boezio nel De consolatione. Ma anche i filosofi (vale a dire i professori di filosofia) a Parigi nella seconda metà del XIII secolo, a Bologna nella prima metà del XIV, parlavano della loro disciplina descrivendola appunto come una domina, una imperatrix. Lo facevano utilizzando un vecchio genere letterario da loro riportato in vita: l’elogio della Filosofia. Esso veniva ora fatto nei sermones con cui nelle Facoltà delle Arti parigine e bolognesi aprivano i loro corsi e qui l’impiego della allegoria era non solo ammesso, ma quasi obbligatorio, e nel corso degli anni, vista anche la loro ripetitività, si era formato un repertorio pressoché standardizzato delle immagini da usare: alcune delle espressioni usate da Dante (ad es. gli occhi della « donna gentile » corrispondono alle dimostrazioni certe della filosofia di cui essa è l’allegoria) sono identiche a quelle presenti in sermones bolognesi leggermente posteriori alla composizione del Convivio. Dunque ciò che a prima vista sembrerebbe provare che il Convivio ha poco a che vedere con la produzione filosofica anteriore o contemporanea, rivela al contrario una affinità ulteriore.
Questa affinità diviene particolarmente forte nel quarto trattato. Terminato l’elogio della Filosofia-Sapienza, terminano anche le interpretazioni allegoriche (che del resto già nel terzo trattato si erano molto ridotte). Viene introdotto il tema della nobiltà e lo si affronta in modo squisitamente filosofico, chiedendosi cioè quale sia la definizione corretta che coglie la sua quidditas (per usare il linguaggio tecnico della filosofia scolastica). Se la formulazione del problema è filosofica anche il metodo usato nell’affrontarlo lo è. Tutto il trattato è infatti costruito sul modello della quaestio universitaria: all’inizio si espongono e si rifiutano le definizioni non valide della nobiltà dimostrandone la non correttezza sia dal punto della forma che da quello del contenuto . Solamente dopo questa confutazione è possibile procedere nell’indagine che, con un metodo rigorosamente aristotelico, partendo dalla definizione nominale di nobiltà (la nobiltà intesa secondo l’abitudine comune di parlare, ci dice Dante) giunge attraverso una lunga serie di passaggi argomentati alla formulazione della definizione reale . Essa è corretta in quanto nella sua formulazione rimanda alle quattro cause aristoteliche che fondano la possibilità non solo di una spiegazione, ma anche di una definizione scientifica: la nobiltà è sorgente di felicità (causa formale e finale) immessa da Dio in un’anima il cui corpo è strutturato in maniera perfetta (causa materiale ed efficiente) . In tutta la sua argomentazione, che è particolarmente lunga e complessa, Dante dimostra di avere piena consapevolezza dei problemi epistemologici collegati alla ricerca di una definizione reale di una cosa. Non è possibile utilizzare delle dimostrazioni propter quid poiché l’essenza che deve essere espressa pienamente nella definizione è, il più delle volte, un principio che non deriva da altri principi. Bisogna allora partire dagli effetti e procedere per via induttiva, attraverso ragionamenti che non possono essere necessari ma solo probabili . Ma proprio perché padroneggia pienamente il linguaggio ed i concetti propri dei magistri universitari, Dante ha acquisito, scrivendo il Convivio, una particolare coscienza di sé. La struttura della quaestio de nobilitate è assai complessa anche nella sua struttura. Essa infatti comporta altre tre questioni, due preliminari alla trattazione del quesito principale e relative rispettivamente ai fondamenti e ai limiti della autorità imperiale (quella autorità che ha fornito appunto una definizione scorretta della nobilitas) e al perché Aristotele è considerato guida della ragione umana, una terza incidentale in cui ci si chiede se il desiderio di sapere aumenta all’infinito come quello della ricchezza. Nell’offrire la sua risposta a questa ultima domanda Dante impiega una espressione che solo apparentemente può risultare banale: «Alla questione rispondendo dico» Si tratta invece di un calco in volgare della formula «Ad quaestionem respondendo dico» pronunciata all’inizio della determinatio, l’atto in cui il magister universitario, dopo l’esposizione degli argomenti tra loro in conflitto, metteva in campo la sua auctoritas dando la sua risposta personale alle questioni, spesso spinose che allievi e colleghi, e in alcuni casi (le Quaestiones de quolibet) anche persone estranee alla comunità universitaria gli avevano posto. Dante dunque si mette allo stesso livello dei magistri: per riprendere una metafora usata all’inizio del Convivio egli non è più seduto per terra a raccogliere le briciole del sapere ‘alto’, ma è a tavola con coloro che si nutrono del pane degli angeli.
Tutto questo dimostra a sufficienza che il Convivio è un’opera profondamente diversa da tutti i testi, anteriori o contemporanei, composti in volgare e la differenza sta appunto nell’uso di generi letterari, strutture argomentative e terminologie caratteristiche della filosofia in senso forte: il primo trattato originale di filosofia scritto in italiano da un laico per un pubblico di laici.
Ma di quale filosofia si tratta specificamente? Ovvero, a livello di contenuti e non solo di strumentazione, è possibile trovare qualche punto di contatto tra il Convivio e la produzione filosofica italiana contemporanea a Dante? Egli scrive i primi tre trattati del Convivio molto probabilmente a Bologna, dal 1304 al 1306 e il quarto a Lucca nel 1308. In questi anni fare filosofia era, in Italia, una attività assai recentemente importata da Parigi allo Studio bolognese. Il primo corso universitario di filosofia in senso stretto fu appunto tenuto a Bologna nel 1295 da Gentile da Cingoli, un italiano emigrato per ragioni studio in Francia che prima di tornare con le ultime novità filosofiche aveva ottenuto la sua laurea appunto a Parigi. All’inizio si trattò, per usare una terminologia moderna, semplicemente di un allargamento dell’offerta didattica che si indirizzava non a studenti di filosofia, che ancora non esistevano, ma a studenti di medicina. Una disciplina di servizio, insomma, come era già da molto tempo la logica. Ma in seguito Gentile formò degli allievi che a loro volta divennero maestri, come Angelo d’Arezzo e Taddeo da Parma, che a loro volta formarono una ulteriore generazione di allievi. In questo modo tra la fine del XIII secolo e gli anni trenta del XIV allo Studio bolognese l’insegnamento della filosofia fu continuo, divenne un percorso relativamente autonomo, e soprattutto diede origine ad una ricca serie di trattati, commenti e questioni. Non si può fare a meno di notare che gli anni bolognesi durante i quali Dante probabilmente si dedicò alla stesura del Convivio coincidono con quelli del ritorno e del radicamento della filosofia e che questa filosofia ha come orizzonte di riferimento le dottrine di Aristotele, esattamente come il Convivio (anche se, nello specifico, solo di pochi scritti di Gentile, di Angelo o di Taddeo è possibile conoscere con esattezza la data di composizione). In realtà, però, non c’è alcun punto di contatto tra l’argomento del quarto trattato del Convivio e quelli affrontati dai primi magistri in philosophia bolognesi: la questione della vera natura della nobiltà e del suo rapporto con le virtù morali appartiene al campo dell’etica, e non è un caso se, tra tutte le opere di Aristotele, il testo più utilizzato e citato da Dante è l’Etica Nicomachea. Viceversa nessuno dei commenti composti e nessuna delle quaestiones discusse dai ‘filosofi’ bolognesi tra 1300 e 1350 affronta temi etico- politici (la sola eccezione è il commento di Bartolomeo da Varignana agli Economici pseudo-aristotelici; e in ogni caso Bartolomeo è un medico) : la loro produzione si concentra in generale su temi di Fisica, con particolare riguardo ai settori più collegati alla materia medica (per gli scritti di Aristotele, il De anima, il De generatione, gli scritti zoologici in generale, i Meteorologica) . E se qualche decennio prima, a Parigi, l’Etica e la Politica erano state commentate dai più celebri maestri (Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Sigieri di Brabante, Pietro d’Alvernia), il tema della nobiltà vi aveva occupato un posto assai periferico .
Possiamo così comprendere le parole di Dante quando afferma con orgoglio, all’inizio del quarto Trattato, che sta per dar mano ad una «grande e alta opera ... e dalli autori poco cercata» (Cv IV iii 3). In realtà molti avevano già parlato e discusso di nobiltà: i poeti di lingua d’oc, i funzionari della corte di Federico II, Brunetto Latini, Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo, perfino un diffusissimo trattato di teologia morale, la Summa de vitiis et virtutibus di Guglielmo Peraldo . Dante però vuole sottolineare che il problema non è mai stato trattato in maniera ‘sottile’. Trattare un problema in maniera sottile significa farlo in modo analitico senza trascurarne nessun aspetto, senza evitare alcuna difficoltà teorica, rispondendo a tutte le obiezioni che si possono avanzare contro una possibile soluzione. È quello che hanno fatto e fanno i magistri universitari fonte di autorità (gli auctores-autori appunto) per i problemi di metafisica e di filosofia naturale, ma che non hanno fatto per il problema della vera natura della nobiltà. Ed è quello appunto che Dante si ripromette di fare: «Nullo si meravigli se per molte divisioni si procede con ciò sia cosa che ... lungo convegna essere lo trattato e sottile» (Cv IV iii 3). Resta la domanda del perché e per chi un trattato che vuol essere filosofico sia stato scritto in volgare. La risposta sta appunto nella novità del tema trattato filosoficamente che richiede un nuovo tipo di pubblico: i testi filosofici, commenti, questioni e trattati prodotti allo Studio di Bologna sono riservati ad un gruppo piuttosto ristretto, quello dei magistri e degli scholares, portatori di un sapere specialistico, anche se non immediatamente professionalizzante come era quello dei medici o dei giuristi. Ma per Dante, se la questione della nobiltà deve essere trattata con la stessa solidità teorica con cui Gentile da Cingoli o Antonio da Parma trattavano il problema della permanenza degli elementi nei corpi misti, la sua corretta soluzione non riguarda semplicemente piccole élites di ‘scienziati’: essa ha una portata etica e politica insieme (del resto nel pensiero di Aristotele i due campi sono strettamente collegati) . Un concetto erroneo della natura della nobiltà è causa di un traviamento intellettuale collettivo e quindi fonte di disordine per la società umana nel suo complesso: «L’errore dell’umana bontade ... che ‘nobilitade’ chiamar si dee, che per mala consuetudine e per poco intelletto era tanto fortificato, che l’oppinione quasi di tutti n’era falsificata, e della falsa oppinione nascevano li falsi giudicii, e de li falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze e vilipensioni: per che li buoni erano in villano despetto tenuti e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del mondo» (Cv IV i 7). Ristabilire la verità significa dunque porre le basi per ristabilire un giusto rapporto etico e politico tra gli uomini che vivono in comunità. Per questo il pubblico cui il Convivio è rivolto non può che essere molto più ampio dei gruppi ristretti dei litterati universitari (cui peraltro Dante riserva critiche feroci). Nel mio commento al Convivio, ed altrove, ho cercato di mostrare che questo pubblico più vasto ha esso stesso una connotazione sociale ben precisa: si tratta essenzialmente della nobiltà italiana di investitura imperiale, una classe che, per incapacità propria, ha ceduto gran parte del suo antico potere a poteri nuovi di dubbia legittimità e che sta distruggendosi da sé con le sue lotte intestine . Il suo compito dovrebbe essere quello di garantire per la humana civilitas una vita ordinata e pacifica sotto l’egida dell’Impero da cui deriva il suo legittimo potere. Allo stato attuale, invece, i nobili italiani sono ridotti ad essere membri dispersi di una Curia regis che non è più presente ed attiva in quell’Italia che pure dovrebbe essere il giardino dell’Impero. Con il Convivio Dante intende spingerli a ritrovare i valori dimenticati della vera nobiltà: giustizia, liberalità, magnanimità, in una parola che riassume tutte le virtù, cortesia. Questa è la condizione preliminare ad una restaurazione del giusto ordine, il cui modello resta la aula Federici regis. Là infatti, come ci dice il De vulgari eloquentia, si davano convegno tutti gli Italiani che eccellevano in virtù e scienza, là, per usare le parole del Convivio, si realizzava ciò che attualmente si è perso: la cultura filosofica si univa alla maestà dell’Impero.
Il pubblico cui Dante si rivolge è un pubblico di illiterati, che non vuol dire di analfabeti ma di persone che non conoscono il latino, o meglio, nel caso della nobiltà, che ne ha smarrito la conoscenza. E dunque l’uso del volgare è indispensabile. Ma, bisogna ripeterlo, utilizzare il volgare non è per Dante un ripiego o un minor male. Egli vuole offrire ai nobili quel modello di cultura ‘alta’ che gli intellettuali universitari hanno monopolizzato, non per il bene pubblico, ma per i loro interessi privati: «Manifestamente si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la bontà dell’animo, la quale questo servigio attende è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati» . Per questo Dante si impegna a fondo per far sì che il volgare sia capace di «altissimi e novissimi concetti convenevolmente e sufficientemente, quasi come per esso latino, manifestare» (Cv I x 9, 12). Una attenta lettura del Convivio e un paragone con la prosa in volgare di autori coevi dimostra che la scommessa era stata vinta . Domandarsi poi perché questo programma sia stato interrotto e mai ripreso richiederebbe un altro discorso.