Dati bibliografici
Autore: Francesco Flamini
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: IX
Anno: 1902
Pagine: 67-81
Dire del fine supremo e del significato - triplice, a mio avviso - della Commedia di Dante nel breve giro di tempo che la cortesia de' miei uditori può concedermi, sarebbe impossibile, s' io avessi in animo di premettere alla mia nuova interpretazione generale del Poema un cenno (sia pur fugace) di quello che da altri in proposito fu detto. Non più di nove o dieci mesi or sono, uno dei poeti più originali e più squisiti d' Italia tentò di risolvere l'arduo problema in un volume inteso a far penetrare il lettore sotto il velame della mirabile finzione dantesca. Benché io dissenta totalmente da lui, mi guarderò dall' avventurarmi nel pelago sconfinato della discussione. la sintesi che m' accingo ad esporre, di quanto documenterò in apposito libro, è frutto di studi su tutti gli scritti dell'Alighieri e, più ancora, sugli autori di cui questi seguiva le dottrine. Giudicate fin da ora, o Signori, se col mio modo d'intendere la grande opera dell'Alighieri, non giganteggino maravigliosamente a’ nostri occhi e l'organica unità possente del pensiero di lui e la profondità filosofica della sua concezione sublime.
Non si può intendere il fine supremo della Commedia, se non se ne indaga prima la ‘genesi’; e a tal uopo giova dare uno sguardo alla Vita Nona, vestibolo di quel tempio augusto e solenne eh' è il divino Poema. Nella giovenile operetta dell’Alighieri l'idealità mistica, propria dei poeti del dolce stile, non è, come presso costoro, soltanto un fulgido velo ravvolto attorno alla persona bella che fa sospirare e sognare; ma intimamente si confonde con la essenza stessa della creatura il cui sguardo diffonde indicibile zelo di carità. Fin dal primo apparire di lei gli spiriti del Poeta, presa persona e voce, parlano il latino della Sacra Scrittura. Ella è un nove; cioè un ' miracolo della Trinità,' poiché il nove ha il tre per sua radice. Non è senza mistero l'esser ella preceduta, in quell' «immaginazione d'Amore» che il Poeta ha un giorno che sedeva pensoso, da una Giovanna, come da un Giovanni fu preceduta la «Verace Luce». Né senza un misterioso quanto alto significato è parimente la visione che a Dante appare della prossima morte di Beatrice; accompagnata com'è da cosi straordinari e inusati segni della commozione, non pur degli uomini, ma della natura, da non trovar riscontro se non in quelli che nell' Apocalissi annunziano la fine del mondo.
Tutto adunque nella Vita Nova, così com'è ordinata e disposta, cospira a farci presentire in colei che il Poeta vi glorifica il simbolo della Verità Rivelata che incontriamo nella Commedia. Dico della Verità Rivelata· non della Teologia, come dai più si tiene. E mi spiego.
Che altro è la «Verità Soprannaturale rivelata dallo Spirito Santo ai mortali» se non un riflesso della Verace Luce, cioè di Cristo? E che altro è Questi (e, in genere, lddio), se non il Primo Vero? Ma l’intelletto, per raggiungere codesto Vero, eh' è il suo fine, ha bisogno cl' un lume riflesso; poiché direttamente la Luce Eterna soverchia la sua virtù visiva. ‘Videmus nunc per speculum’ in aenigmate, scriveva s. Paolo ai Corinti. Colei eh' è specchio della Luce Eterna, e ne riflette lo splendore, sarà la 'beatrice' degli uomini. E, nel fatto, Beatrice che compare subitamente tra una nuvola di fiori ed uno stuolo d’angeli, sopra il carro della Chiesa tratto dal grifone e preceduto, attorniato e seguito dai simboli della Scrittura, è lo specchio del grifone, cioè della Verace Luce per sé stessa non percepibile dall'intelletto dei viventi. Ricordate?
Mille desiri più che fiamma caldi
strinsermi gli occhi agli 'occhi rilucenti'
che pur sovra il grifone stavan saldi.
Come 'in lo specchio' il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava
or con uni or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s' io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e nell' ‘idolo suo' si trasmutava!
(Purg., XXXI, 118-'26).
Lo specchio della Verità Eterna la quale trascende l'umana ragione è la 'Verità Rivelata'; ch' è quanto dire la verità soprannaturale resaci intelligibile dal 'Primo Amore' per mezzo dei profeti, degli agiografi, di Gesù Cristo e de' suoi discepoli. Solo essa, «divino lume» fra il Vero e l'intelletto, può condurci alla beatitudine - consistente appunto nell’eterna contemplazione del Vero (in fruitione Divini Aspectus) - a cui la nostra propria virtù non può salir.
Ora gli occhi il cui splendore «di viva luce eterna» guiderà Dante fino al cielo della pura «luce intellettual piena d'amore», in cui l'animo s' appaga, quand’eran occhi corporei lo guidavano parimente verso il «ben dell’intelletto»:
Alcun tempo il sostenni col mio vòlto:
mostrando gli occhi giovinetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto
(Purg., XXX, 121-23)
Questo salutifero influsso degli spiragli dell’anima di Beatrice su colui che l'amò tanto, «ch’usci per lei dalla volgare schiera», si spiega anche sol ponendo mente alla dottrina dal Poeta stesso accennata, che il retto amore, spirazione divina, non possa sorgere in noi per cosa mortale, se non a cagione d’«alcun vestigio mal conosciuto». Che vi traspaia di quell'«Eterna Luce Che vista sola sempre amore accende». Ma codesta efficacia benefica ella la esercitava su tutti! E ciò non s' intende se non riflettendo che, al dir del Poeta, fra le «gentili» essa era la «gentilissima»; che chi vedea lei tra quelle vedeva 'perfettamente ogni salute'; che l'andar con lei era per le altre una «bella grazia» del Cielo; che, insomma, la fanciulla-miracolo poteva dirsi un visibile argomento della gloria di Dio. Di questa gloria, cioè della Eterna Luce che «per l'universo penetra e risplende», la 'loda di Dio vera' racchiudeva entro l'involucro delle «bella membra» tanta parte, che Amore ne stupiva:
Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser può si adorna e si pura?»
Poi la riguarda, e fra sé stesso giura,
che Dio ne intenda 'di far cosa nova’.
Fin su in cielo giungeva il folgore di quell' anima!
Angelo chiama il divino intelletto,
e dice: Sire, nel mondo si vede
'maraviglia ne l'atto', che procede
da 'un'anima che 'nfin quassù risplende'
Di qui il particolar carattere della sua bellezza corporea. All'Alighieri il pallor mite e temperato, verace color d, amore) appariva nella sua Bice quasi 'perlaceo'. Era lo splendore della Luce Eterna, ond'ella raggiava dentro, che il Poeta le vedeva trasparire, come fiamma in vaso d'alabastro, pel candore diafano del v6lto. Né altro egli ci fa sapere della bella persona. Accenna bensì agli occhi della sua donna; ma solo per dirci che, come eh' ella li mova, n'escono spirti d'amore infiammati; ne ricorda la bocca, ma designandola da una sua proprietà, il riso) che rappresentava a lui, come ci fa sapere nel Convivio (III, § 8), «un lume apparente cli fuori secondo che sta dentro».
Che è, pertanto, la Vita Nova? Null' altro se non «la loda» del la bellezza ' interiore', incorruttibile, di Beatrice. Veggasi, in tal proposito, il capitolo XI, che nell'operetta è stato inserito solo per far intendere quello che sul Poeta «vertudiosamente operava» il saluto di Beatrice; soave atto di quella 'bocca' ch'era per Dante il fine dell'amore (come gli 'occhi' n'erano il principio), perché, col saluto, avea virtù di rigenerare l'animo in cui l'amore fosse stato svegliato o infuso dallo sguardo della gentilissima.
Orbene, Beatrice che, in vita, aveva mantenuto nel Poeta integri e operosi gli «abiti destri» provenienti da innata 'disposizione al bene', dopo il periodo del traviamento di Dante - cioè dopo che questi, straniatosi da lei e caduto nella bassezza e nelle tenebre della vita viziosa, s' è vòlto di nuovo «in dritta parte» e ha tentato invano di mantenervisi vincendo la triplice 'disposizione al male' contratta in quella vita - torna ad essere, morta, strumento di salvazione per l'amico suo sventurato.
Di conseguenza, come la Vita Nova è il racconto de' vari modi con che la bellezza interiore di Beatrice, attraverso ai «balconi dell'anima», cioè agli occhi e alla bocca, operò su Dante facendolo salire per «la diritta via» verso il Sommo Bene dietro alle vestigie di lei viva; cosi la Commedia è, sotto il velame d’una finzione poetica, il racconto del modo come quell'istessa bellezza, «splendor di viva luce eterna», illuminata d'un suo raggio la mente del Poeta e restituitole per tal modo l'uso pieno e retto della ragione (questo simboleggia l'invio di Virgilio a Dante, fatto da Beatrice), lo ha redento dalla servitù della triplice 'disposizione al male, (l'«impedimento»); ha fatto sì che, andato sin al fondo della via «non vera», egli si è rivolto di nuovo in dritta parte, ed è salito, purificandosi, sino all’operazione della propria virtù; e allora gli si è svelata, sbramando la «decenne sete» di lui, più fulgida d'un tempo ora che l' involucro delle membra più non ne cela l'essenza divina.
Né basta. Il poema sacro ci narra ancora il modo come gli occhi e la bocca, ossia le dimostrazioni e persuasioni, della trionfatrice del Paradiso terrestre, della beatrice del genere umano, han tratto il Poeta su pei più eccelsi gradi della diritta via, sino alla fruizione dell'aspetto di Dio, cioè del Primo Vero, che n'è la mèta.
La Vita Nova è la «loda» del 'miracolo'; ché tale, finché ella visse, era la donna maravigliosamente benefica: e nel miracolo i Cristiani ravvisano una sensibile attestazione della Verità Eterna. La Commedia è la glorificazione dell'essenza del miracolo stesso, cioè della Verità Eterna rivelata: e la Veritas Supernaturalis svelataci dallo Spirito Santo mediante il Verbo è per Dante (già sappiamo) la beatrice degli uomini.
In questa glorificazione, per cui la giovine fiorentina venuta «di cielo in terra a miracol mostrare» assume, salita «di carne a spirto», un così alto e universal significato nell'allegoria del 'sacro' poema, è da ravvisare il pensiero primitivo, intorno al quale si venne formando quel disegno d'una peregrinazione pei tre regni oltramondani, che Dante seppe in séguito colorire cosi stupendamente.
Pochi anni, infatti, dopo la morte della sua Bice, l'Alighieri, il cui pensiero, mosso da Amore, è salito spiritualmente all’Empireo, e vi ha scorto, per lo splender ch’ella manda, la donna sua, tale in vista, che l'intelletto «nol puote comprendere», ha una «'mirabile' visione»; nella quale «io vidi cose - egli scrive - che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto ch'io potessi più degnamente 'trattare' di lei». Questa «trattazione», per cui mezzo il Poeta sperava «di dire di lei 'quello che mai non fu detto d'alcuna'», non può essere che la Commedia; cioè il Poema in cui, com'è annunciato nella proposizione o protasi di esso, costituita, a mio avviso, dai versi
ma per 'trattar' del ben ch'io vi trovai,
dirò delle altre cose ch'io vi ho scorte,
si tratta «della via di salvazione» da Dante per divina grazia ritrovata, coll'aiuto di Virgilio, mentr’era nella vita viziosa (il ben ch’io io vi trovai), e prima, di necessità - «amara» ma ineluttabile necessità, - della via di perdizione (le altre cose), che mette all’«infima lacuna dell'universo», e che è unico scampo dal «loco selvaggio», unico mezzo di ritornare sulla diritta via smarrita. Appunto Beatrice, mediante l'invio di Virgilio, riconduce il Poeta a questa; appunto Beatrice lo fa salire sino alla fruizione del Sommo Bene.
Confondere tale trattazione colla visione «mirabile» da cui fu originata è confonder l'effetto con la causa. Se l'effetto fu la Commedia, la causa sarà l'idea primigenia del capolavoro dantesco. Il quale non è già la descrizione e narrazione d'un sogno; sì un immaginario racconto, allegorico, del viaggio che, con fine altissimo, Dio ha conceduto a Dante, come un tempo ad Enea e poi a s. Paolo, di compiere nei regni oltramondani. V’è, peraltro, nel poema sacro una visione vera e propria: l’'estatica' visione che il Poeta «assonnato» - ch’è quanto dire solo intellettualmente vigile nel torpore dei sensi - ha, grazie all'abito di contemplazione (impersonato in s. Bernardo), della celeste Corte e di «quell’imperador che lassù regna»). Dopo averlo condotto sino a mirare «la forma generai di paradiso», Beatrice, cioè la Verità Rivelata, va a prender posto «nel seggio che i suoi merti le sortiro», accanto a Rachele, cioè alla Vita Contemplativa di cui essa è l'obietto. La beatrice ha compiuto il suo ufficio. A conoscer 'partitamente' la corte del cielo, a «ficcar lo viso per la Luce Eterna», occorre più «abbondante vista»; occorre s. Bernardo, cioè l'abito di contemplazione che impetri da Dio la grazia dell'estasi. E in quell'estasi appunto il Poeta vede, additatagli dal Contemplante, la gloria di Beatrice assisa «coll’antica Rachele».
Ora, la visione 'mirabile' da cui Dante fu indotto a scrivere la Commedia, che altro può essere se non la visione stessa con cui termina, e a cui è ordinata e subordinata la magnifica «trattazione»? Dal momento che già il suo pensiero s'era innalzato sino all’Empireo, e vi aveva scorto Beatrice «per lo suo splendore» (come si legge nell’ultimo sonetto della Vita Nova e nella prosa relativa), che altro potea Dante vedere di mirabile della sua donna, se non «la qualità di costei», non intesa avanti, quando glie la ridiceva il pensiero tornato di lassù, tanto parlava «sottile»? L' immaginazione ha condotto «spiritualmente» il Poeta sino a lei; l'estasi glie ne rivela l'essenza. Appunto in quella visione la vicina di colei eh' è simbolo della Vita Contemplativa avrà assunto agli occhi estatici del suo amante le allegoriche sembianze della Verità Rivelata.
Ed ecco maturarglisi in mente questa idea d'un gran poema: - la Verità Soprannaturale Rivelata, due volte trionfante in figura dell'estinta sua donna: in terra, nella pace dell'Eden, che simboleggia la felicità della vita operativa, sul carro della Chiesa, che dispensa ai mortali i benefizi inestimabili di lei; in cielo, nella luce dell'Empireo, che simboleggia la felicità della vita contemplativa, assisa nella Corte celeste; e lui, il Poeta, dal non mai estinto amore per essa sollevato, in un fantastico viaggio, dalla bassezza d'una valle di miseria alle altezze d'un colle gaudioso ov’ella trionfa, poi da lei guidato fra le beate genti sino all’Empireo, e, in ultimo, lei intercedente, ammesso vivo alla beatitudine della vista di Dio.
Identificare così la propria amante morta con la beatrice dell’uman genere, davvero è dir di lei «quello che mai non fu detto d'alcuna»! Cantare codesta duplice apoteosi della Rivelazione, convenientissima al soggetto e al fine del «poema 'sacro'
a cui han posto mano 'e cielo e terra'»;
rappresentare sotto finzion poetica la redenzione dell'uomo quale fu dal Verbo operata nella pienezza dei tempi e quale l'auspicato ritorno del «buon mondo» tornerà ad impetrarcela da Dio; davvero è «degnamente trattare di lei»!
La finzione e l'allegoria, nate a un parto nel concepimento del sommo artista, coesistono nell'opera di lui, sempre ben distinte fra loro, da capo a fondo.
Che la Commedia sia opera poetica di continenza dottrinale, nessuno dubita: sotto il Poema è da cercare il Trattato; sotto il velame dei versi il lettore di «sano intelletto» deve «intentamente andare appostando», per sua utilità, «la dottrina». Ma dal velo della finzione si può senz'altro trapassare alla dottrina? Il significato letterale basta a far ricavare dal poema il trattato le cui conclusioni costituiscono il fine supremo dell'opera?
No. Sotto quel velo è d'uopo scoprire prima l'«ascosa verità», cioè l'allegoria, la quale 'pei poeti' è appunto «una verità ascosa sotto bella menzogna»; dal vero che sta sotto il velo rampollerà poi la dottrina. E nel fatto, quale insegnamento c'impartisce «la lettera» del Poema?
Esaminiamola. Seguiamo cioè il Poeta nell' immaginario viaggio che ha per mèta l'Empireo.
Di notte Dante si accorge d'essere entro una «selva oscura», fuori della «verace via». Codesta selva è in una valle; dalla quale uscendo, il Poeta si trova sur una «piaggia deserta» a pié d'un colle illuminato in alto dal sole nascente. Vorrebbe salirlo; ma tre fiere impediscono il suo cammino, e la terza di esse - una lupa - a poco a poco, movendogli incontro, lo respinge nel «basso loco» tenebroso. Quand' ecco apparirgli in questo un'ombra, che, invocata da lui lagrimando, lo ammonisce a tenere altra via, e gli si offre per guida. È Virgilio, venuto a salvarlo per mandato di Beatrice. Dal suo scanno fra i beati ella è discesa all’uopo, mossa da una «donna gentile» che sta in cielo e da Lucia, nel limbo ove il Cantar d'Enea è relegato. Virgilio leva il Poeta d'innanzi alla fiera «che del bel monte il 'corto andar' gli tolse», e per «altro viaggio» (cioè pel cammino «alto e silvestro» che mena al fondo del «basso loco» e continua giù pei nove cerchi dell'inferno) lo conduce, nell'emisfero australe, al sommo del «sacro monte», sul paradiso terrestre. Durante questo viaggio, Virgilio protegge Dante dai mostri che sono a guardia di questa o quella parte della «valle inferna». Dante e Virgilio valicano insieme i passi più perigliosi; sulla groppa di Gerione scendono in Malebolge; abbracciati vengon deposti in fondo al pozzo che mette al lago gelato dei traditori. Nel purgatorio il «savio gentil che tutto seppe» séguita il suo ufficio; ma ora egli stesso ha bisogno di consiglio e, per alcun tratto, di guida. Catone, il nobile custode del sacro monte, lo illumina fin da principio; Sordello è duce a lui e a Dante nel visitar la valletta fiorita dell'antipurgatorio; Matelda fa il medesimo nel Paradiso Terrestre. E quivi Virgilio si dilegua; ne assume le veci Beatrice, la quale appare d'improvviso sul carro trionfale, tratto dal grifone, che, arrestatosi, attendeva. Deterso nel Lete e rigenerato nell'Eunoè, Dante, affisandosi nella sua donna, sale di cielo in cielo sino alla visione beatifica della Trinità.
Ed ora torniamo a dimandare. Che insegnamento si ricava da tutta questa 'finzione'?
Non un vero insegnamento; bensì un ammonimento: - Badate, o uomini, viventi «del viver eh' è un correre alla morte»! Voi vedete; che la «diritta via», la quale in questa vita porta da una valle amara e selvaggia, piena di tenebre, alla cima del monte «dilettoso» illuminato dal sole, è la stessa che nell'altra vita ci fa salire, «in dritta parte vòlti», sino alla fruizione del divino aspetto, cioè alla beatitudine eterna; e che la via «non vera», la quale in questa vita conduce al fondo di quella valle; nell’altra scende, sempre a sinistra, sino al fondo della «valle d'abisso», ove sta confitto, orribile a vedere, il nemico di Dio. Orbene, la via di destra, la «diritta via», è impedita da una 'lupa' che non dà tregua ad alcuno. Per vincere «la bestia 'senza pace'», io, Dante, ho avuto bisogno che «tre donne benedette» curassero di me «nella corte del cielo»; né altro mezzo soccorse loro per cavarmi dal «loco selvaggio», se non di farmi visitare «le perdute genti». Così per «loco eterno» ho raggiunto, purificato dai peccati, la vetta del monte sacro, la vetta edenica che è sede della felicità terrena, un tempo concessa, oggi negata al genere umano. Negata perché? Fu dunque infruttuosa la grande opera della Redenzione? Si; finché il mondo sarà; come presentemente, «diserto d'ogni virtute... E di malizia gravido e coverto». E la cagione è «la mala condotta» degli uomini:
... però che 'l pastor che precede
ruminar può, ma non ha l'unghie fesse;
per che la gente, che 'sua guida' vede
pure a quel ben ferire ond' ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
[…]
Soleva Roma, che 'l buon mondo feo
due Soli aver, che l'una e l'altra strada
facean vedere, e del mondo e cli Deo.
L'un l'altro ha spento, ed è giunta la spada
col pastorale: e l'un coli' altro insieme
per viva forza mal con vien che vada;
però che, giunti, l'un l'altro non teme
(Purg., XVI, 58-114).
Adunque, il senso letterale del Poema, cioè la finzione poetica, integrato dalle digressioni puramente dottrinali; addita il male e la sua causa. E un ammonimento. Ma il fine morale, altissimo, del Poema non può essere che di insegnare il rimedio del male.
Due vie, secondo quel che il Poeta ha immaginato, conducono, nel nostro mondo, alla vetta luminosa e dilettosa: l'una breve (il ‘corto andar' del monte), ma impedita da tre fiere e soprattutto da una lupa; l'altra lunga e faticosa (l'’altro viaggio’) accessibile solo a chi possa visitare, per singolare grazia di Dio, i dannati dell'inferno. - Quali sono queste vie? Che rappresenta la lupa, e quindi il veltro che verrà e la farà «morir di doglia»? Che cosa è simboleggiato dalla visita alle «perdute genti», ch’è unico argomento alla «salute» dei traviati, finché la lupa non verrà «rimessa nell’inferno» e sarà aperta ad ognuno la via più breve?
Dappoi che «non fu senza cagion l'anelare al cupo», anzi quel «fatale andare» è voluto eia Dio, la visita ai dannati deve avere un alto significato morale. Trapassiamo, per intenderlo, dalla lettera all'allegoria, dalla finzione all’«ascosa verità»; attenendoci al modo com’egli stesso, il Poeta, ha rilevato il 'senso allegorico' delle due prime canzoni del suo Convivio.
Il viaggio immaginario di Dante, che costituisce il significato letterale ciel Poema, allegoricamente adombra la redenzione di lui dalla servitù del peccato e il suo salire prima alla perfetta vita attiva, poi alla perfetta vita contemplativa.
Per persuadercene, giova innanzi tutto rintracciare il significato d'alcune finzioni particolari. Da esse sarà poi agevole assorgere alla piena comprensione di tutta l'allegoria del Poema.
Il canto proemiale della Commedia altro non è, in fondo, se non la rappresentazione figurata del cammino dell'uomo rispetto al fine a cui egli è stato ordinato dal suo Fattore. Vi si parla, molto indeterminatamente, d'una valle, d'una piaggia e d'un monte. Il «cammin di nostra vita» attraversa tutti e tre questi fantastici luoghi; e nella valle scende, nella piaggia è in piano, nel monte sale.
Che può significare questo salire e scendere dell'uomo nel corso del viver suo?
Salire è innalzarsi verso Dio, beatitudine dell'anima; è andar per la «verace via», in dritta parte, verso destra. Scendere è «minare» in senso opposto, verso la dannazione, morte dell'anima, a cui mena il fallace cammino di sinistra, profondo e selvoso (alto e silvestro). Ora l'uomo sale verso Dio coll’operare il bene, scende verso l'inferno col peccare. Che sarà, pertanto, il cammino su pel monte? La vita virtuosa. E il cammino giù per la valle selvosa, oscura? La vita viziosa ed erronea. Ma c' è di mezzo la piaggia. E ci dev'essere. Questo tratto in piano fra il buio abisso e la montagna illuminata manifestamente secondo l'allegoria raffigura quel tratto del morale «cammin di nostra vita», in cui l'uomo non opera il bene, e però non sale, non commette azioni malvage, e però non scende; ma procede verso il bene o verso il male, e però va in piano.
Orbene, Dante, non più guidato, dopo la morte di Beatrice e il suo straniamento da lei, «in dritta parte», cioè verso il bene, avea rivolto i suoi passi, «immagini di ben seguendo false», per la «via non vera», e s'era così trovato, senza saper come, nella vita viziosa ed erronea (la val le, la «selva oscura»). Accortasene finalmente, pien di paura e d'angoscia era riuscito, pur fra le tenebre dell’errore, a scamparne, e avea mirato a salire novamente, col praticar la virtù, verso il vero bene. Il «dilettoso monte Ch'è principio e cagion di tutta gioia» è la scala, costituita dalle buone operazioni, fra la terra e il cielo. - Ma, giunto al termine di quel tratto fuori delle tenebre, intermedio fra il male e il bene, che l'uomo percorre per sola forza di «buon volere» senza altrui aiuto (la piaggia ‘deserta’), Dante quasi al cominciare della vita virtuosa («quasi al cominciar dell’’erta’») incontra un triplice impedimento: le tre fiere.
Quest'«impedimento» nel cammino dalla vita viziosa alla virtuosa che cos’è?
Si è parlato - e si parla - di tre peccati: l’invidia (o la lussuria), la superbia e l’avarizia. Altri ha ravvisato nelle fiere del primo canto dell’Inferno una delle «tre disposizion che 'l Ciel non vuole», cioè l’incontinenza, e i mezzi – la violenza e la frode – con cui operano le altre due . Per me, 1io non esito a veder raffigurate nelle tre fiere proprio le tre 'disposizioni al male’, su cui poggia, per ciò che concerne i vizi, tutta l'Etica d'Aristotele, e quindi anche tutto l'ordinamento morale dell’inferno di Dante. Le disposizioni sono abiti o, meglio, stati abituali dell'animo. Le disposizioni cattive, quindi, sono (come 'pel corpo le «male disposizioni») 'infermità ' che turbano la naturale, cioè la retta, operazione dell’animo umano.
Uscito dalla vita viziosa, tornato nel lume del divino amore fuori della tenebre di tal vita, Dante che anela all’alto, che conosce tutta l’amarezza del «basso loco», non in tre particolari peccati poteva oramai trovare impedimento alla retta operazione dell’anima sua! La serva e il buio oramai son lontani: egli ha percorso la piaggia; è quasi al cominciar dell’erta. Manifestamente, l’impedimento dee provenirgli da una condizione anormale, da una ‘mala disposizione’ interiore, contratta durante il soggiorno nella selva del vizio. E, secondo Aristotele, s. Tommaso e Dante stesso, la mala disposizione è triplice: di malizia propriamente detta (malitia simpliciter dicta), di malizia bestiale (o bestialità), d’incontinenza . La lonza è la malizia, il leone la malizia bestiale, la lupa l’incontinenza.
Questa triplice disposizione, adunque, acquistata durante il traviamento, si oppone alla salita cioè alle virtuose operazioni, del Poeta. Vi si oppone prima nelle forme più triste in sé stesse, ma meno terribili per lui munito di «buon volere» (la corda) : la malizia e la ‘malizia bestiale’; poi nella forma che «men Dio offende, e men biasimo accatta», ma che per lui, come in genere per ogni uomo, è ben più temibile, dappoi che la volontà non basta a domarla: l’'incontinenza'. E l'abito d' incontinenza (la lupa, «la bestia 'senza pace'») senza dargli tregua, a poco a poco, fa che, con sua ineffabile afflizione; egli sia respinto nel basso luogo «dove il sol tace», cioè nella vita viziosa in cui raggio dell'amor di Dio non risplende. Quivi la fiumana degli appetiti (i fluctus blandae 'cupiditatis' di cui si parla nella chiusa del De Monarchia) sta per travolgerlo alla dannazione, morte dell'anima:
Non vedi tu la morte che il combatte
su ‘la fiumana’ onde ‘l mar non ha vanto?
(Inf., II, 107-8).
Ma il peccatore contrito merita perd6no. Ed ecco: la «pièta del suo pianto» impetra a Dante dal Cielo la grazia.
Donna è gentil nel Ciel che si compiange
di quest' 'impedimento'…
si che duro iudicio lassù frange
(Inf., II, 94-6).
È la Misericordia Divina; la quale, per mezzo della Virtù Illuminativa (Lucia) e della beatrice degli uomini, cioè della Verità Rivelata che già in addietro, racchiusa miracolosamente in «belle membra», guidava Dante al bene, concede al pentito la voce della ‘ragione retta’ (Virgilio). La ragione retta - secondo eh' è suo ufficio peculiare e costante - fa trionfare il Poeta degli appetiti, che lo trascinavano giù a valle cieco ed ignaro, e, illuminando la sua mente, gli fa vedere che il «cammino alto e silvestro» opposto al «corto andare» del monte, il cammino «fallacissimo» opposto al «veracissimo», è la via della 'dannazione’. Indi, poi che la divina grazia le ha dato facoltà di metter Dante «dentro alle segrete cose», essa ragion retta lo fa proseguire per codesto cammino attraverso al «loco eterno» della dannazione medesima; cioè attraverso alla «valle inferna», alla «valle d'abisso», che nella vita futura è quel che nella presente la valle oscura e selvaggia (cioè la vita viziosa), alla quale sta sotto, nelle viscere della terra, ed esattamente corrisponde. Per mezzo di questa visita alle «perdute genti», unico argomento «alla salute sua», Dante raggiunge la felicità terrena, consistente nella «operazione della propria virtù» quae per Terrestrem Paradisum figuratur; quella felicità a cui aveva mirato fin da quando rinsavito aveva guardato in alto, avea sperato nell'«altezza» (la vetta del «dilettoso monte»), s'era insomma posto in animo di raggiunger la mèta della vita virtuosa.
Naturalmente, la visita ai dannati è finzione. Quale il significato allegorico di quest'unico mezzo di salvazione che ha il traviato?
L'inferno - come tutto nel mistico poema - è tripartito; ed è tripartito proprio secondo le tre disposizioni che abbiam visto adombrate dalle tre fiere: prima l'incontinenza, infermità morale men grave, ma di gran lunga più diffusa delle altre, epperò nel rispetto ‘politico’ ben più dannosa i poi la malizia bestiale; in ultimo la malizia vera e propria.
Ora, poiché la visita ai dannati è fatta da Dante, consiliatovi e guidato dalla ragione retta proprio per liberarsi dalla triplice infermità dell'animo, in ispecie dall'incontinenza, è chiaro (o io m'inganno), ch'essa visita deve significare la oculata e diuturna meditazione sui peccati provenienti da ciascuna delle tre disposizioni al male che impediscono al traviato di sottrarsi alla vita viziosa nonché sui vari gradi della dannazione (i vari «lochi d'inferno») che vi, corrispondono. In tale meditazione la ragione retta e guida e ausilio costante all’animo del Poeta. Essa l'aiuta a trionfare degli ostacoli oppostigli sia dai vari 'abiti perversi’ - rappresentati nella finzione dai mostri infernali - sia dalle tre passioni principali, la concupiscenza, l'ira e l'ira bestiale, simboleggiate dai tre fiumi dell'inferno ristagnanti in Cocito: Acheronte, Stige e Flegetonte.
Per tal modo, il Poeta si è redento dalla servitù della 'mala disposizione' interiore. Per divina grazia egli è scampato dal passo «che non lasciò giammai persona viva», il quale corrisponde appunto, nell'«immortale secolo», all'«alto passo» (Inf. II, 12), cioè alla «prigione eterna» (Purg. I, 41). Egli ora si trova sur un «solingo piano» circondato dalla «maggior 'valle' in che l'acqua si spanda», appiè d'un monte ch'è scala al cielo. È la situazione medesima del canto I dell’Inferno; sennonché, ora presso all’«erta», in luogo dell’«impedimento», appare chi consiglia la ragione retta, guida del Poeta, circa «la via di gire al monte».
Che significa tutto questo rispetto al morale «cammino della vita» di Dante?
Manifestamente, il «solingo piano» rappresenta, proprio come la «piaggia deserta», il luogo di transito dal periglioso «passo», dalla vita viziosa, agitata dalle passioni, alla vita virtuosa, che pel convertito è vita di penitenza e di purificazione, conducente alla quiete della libera operatio propriae virtutis, in cui consiste la felicità terrena. Il monte rappresenta questa seconda vita. Il consigliere guardiano del monte stesso, Catone, è «la virtù che consiglia», cioè il giudizio d'elezione o 'arbitrio', non più impedito dalla mala disposito animi, ma libero e illuminato da tutte e quattro le virtù cardinali.
Seguendo la voce della ragione retti, da esso arbitrio consigliata, Dante può finalmente salire, con gran fatica e portato su in ultimo dalla Virtù illuminativa della Grazia (Lucia), alla porta del regno dei cieli, vigilata dal vicario di s. Pietro; cioè alla pratica dei riti amministrati dalla potestà ecclesiastica «ch' è principio alla via di salvazione». Di là, purificandosi via via pei «sette regni» di Catone, cioè dell’’arbitrio libero e sano,' egli giunge alla piena e perfetta «operazione della propria virtù» (il Paradiso Terrestre); dove 'l'abito di buona elezione' (Matelda), principio e fondamento d'ogni virtù morale, detersolo fin dalla memoria del passato, lo dà in braccio alle virtù cardinali. Queste lo conducono dinanzi alle dimostrazioni della Verità Soprannaturale Rivelata, apparsagli già trionfante gli occhi di 'Beatrice'); indi le virtù teologali impetrano da lei al suo fedele) «che per vederla ha mossi passi tanti», il gaudio ineffabile delle sue dimostrazioni e persuasioni (gli occhi e la bocca di essa).
Confessato il suo fallo, convinto della fallacia delle «presenti cose» e rivolto alle celesti, dopo che l'abito di buona elezione ha ravvivato nell’animo suo quella innata «virtù» per cui
ogni abito 'destro'
fatto averebbe in lui mirabil prova
(Purg., XXX, 116-17),
se non l’avesse «tramortita» la mala disposizione contratta nella vita viziosa; Dante, ora finalmente
puro e 'disposto' a salire alle stelle
(Purg., ult. verso),
specchiandosi nella Verità Rivelata, sostituitasi alla ragione come guida del suo intelletto, s'inalza, pei vari gradi della vita speculativa (i cieli) sino alla perfezione di essa vita (l'Empireo). Quivi, grazie all'abito di contemplazione (san Bernardo il «contemplante»), ottiene, ultima grazia suprema, di pregustare, «corruttibile ancora», la beatitudine di vita eterna, che consiste nella fruizione dell'aspetto di Dio.
Pertanto, il significato allegorico, cioè «l'ascosa verità», della finzione dantesca è la storia del traviamento e della redenzione e rigenerazione dell'anima di Dante. Il seguire ch'egli fa la ragione retta sino alla libera e piena «operazione della propria virtù» simboleggia i suoi studi filosofici; il seguire ch'egli fa la Verità Rivelata sino alla fruizione del divino aspetto simboleggia i suoi studi teologici. Gli ammaestramenti ch'essa ragione (Virgilio) non senza il consiglio del 'giudizio elettivo e illuminato da tutte le virtù morali e intellettuali' (Catone), impartisce a Dante nel guidarlo dall'amarezza della vita viziosa (la selva oscura) alla dolcezza della vita virtuosa (la divina foresta del Eden), sono i ‘philosophica' documenta per cui mezzo l'humana ratio conduce ad temporalem felicitatem, purché li seguiamo sccundiun virtutes morales et intellectuales operando. Gli ammaestramenti che la Verità Rivelata (Beatrice) impartisce al Poeta nel guidarlo dalla dolcezza della vita virtuosa fino al gaudio del mirare «la forma generai di paradiso» (la candida rosa dei beati), sono i documenta 'spiritualia' per cui mezzo la veritas supernaturalis rivelata conduce alla beatitudo, vitae etenae, purché li seguiamo secundum virtutes theologicas operando.
Di conseguenza, sotto la finzione poetica le due prime Cantiche nascondono un trattato di morale, desunto dall'Etica d' Aristotile e dal commento che ne fece san Tommaso; l'ultima un trattato di teologia, desunto dai vangeli, dai profeti, dagli agiografi. Scoperta l'«ascosa verità», ciascun uomo che vada «intentamente appostando» il senso morale nelle scritture potrà da essa inferire, quali sono i fini supremi a cui deve aspirare, e quali i mezzi per conseguirli. La ragione ha da condurlo all'operazione della propria virtù; la rivelazione alla beatitudine eterna. Il duplice trattato contiene le norme a ciò necessarie.
Ma in che modo l'uomo potrà avere integro e perfetto l'uso della ragione che deve condurlo al possesso della Verità Rivelata, se l'incontinenza - la lupa - gli fa dar le spalle ai due fini a cui fu ordinato da Dio? Non ogni peccatore contrito certo otterrà come Dante, miracolosamente, il dono della ratio recta; in tempi ne' quali il mondo «disvia», non avendo l'incontinenza chi efficacemente la combatta! Finché dunque non verrà «il veltro», la lupa trascinerà gli uomini alla miseria in questa vita, alla dannazione nell’altra.
Di qui la necessità d' intendere che cosa simboleggia questo veltro; di «mirar più profondo» nel «miro gurge» della concezione dantesca; di rintracciare sotto il «velo» un altro «vero», più generale e più alto, da cui rampolli una dottrina 'politica'. Triplice il Poema, triplice il trattato. Questo terzo significato della Commedia, che si sovrappone, combaciando, all’allegorico, è il 'senso anagogico' o «sovrasenso». Secondo la definizione che ne dà l'Alighieri medesimo, esso è quel vero che «spiritualmente s'intende» d'un altro vero, ossia è I'inalzamento d'un vero a significazione di verità più alta ; «come veder si può in quel canto del Profeta, che dice che nell'uscita del popolo d'Israele d'Egitto la Giudea è fatta santa e libera : ché, avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che nell'uscita dell’anima dal peccato essa si è fatta santa e libera in sua potestade». Nella Commedia, poi che la lettera è finzione e non verità, per rintracciare questo terzo significato converrà muovere dalla verità nascosta, cioè dall’allegoria. Dante che, redentosi dal peccato, si fa puro e libero, «in sua potestade», anagogicamente sarà «l'umana creatura» che tale appunto si è fatta per mezzo della redenzione operata da Cristo.
E, nel fatto, la redenzione dalla servitù delle disposizioni al male che il Poeta ottiene, in premio del suo buon volere, dalla misericordia divina, corrisponde in tutto e per tutto alla Redenzione dell’«umana specie» da essa misericordia conceduta quando ‘nella pienezza de’ tempi’ reggeva in pace il «buon mondo» il «‘buono’ Augusto». Allora l’anima umana poté liberarsi dalla servitù del peccato, in ispecie dell’incontinenza per cui giaceva da molti secoli «'inferma'... in grande errore», per mezzo della ragione divenuta, grazie al Curator orbis, al Romanus princeps, integra e diritta: la quale RATIO RECTA IN PLENITUDINE TEMPORUM ognun vede quanto acconciamente sia rappresentata nel Poema dal cantore di «quel 'giusto'» che fu eletto da Dio per padre
dell'alma Roma e di suo impero;
dal «mar di tutto il senno»; da Virgilio, insomma, arca di dottrina e fonte d'eloquenza, epperò ottimo dimostratore e persuasore , 'vissuto appunto allora'. E appunto allora l'umana creatura, redenta dalla schiavitù morale e convertita, fu ammessa mediante il nuovo ecclesiastico ministero (porta del purgatorio, angelo vicario di s. Pietro) alla purificazione (il Purgatorio) e quindi alla temporale felicità onde un tempo avea goduto (il Paradiso Terrestre). Appunto allora, in mezzo al genere umano ottimamente 'disposto' a quel modo dalla Provvidenza e felice tra la pace universale , trionfò, recata al mondo dall'Uomo-Dio (il grifone), la Verità Rivelata - riflesso della Verace Luce, cioè di Cristo medesimo, - della quale è depositaria la Chiesa (il trionfal veicolo). Fu 'la beatrice' degli uomini; ché prima che facesse loro dono di lei la pietà divina «spiriti umani non eran salvati». E, inoltre, a chi ebbe ali all'intelletto da seguirla fu guida in vita fino ai gaudì dell’estasi paradisiaca (la visione finale).
Dal duplice vero germoglia l'insegnamento 'politico '. Se la grazia singolare da Dio concessa a Dante fu da Lui un tempo concessa a tutto l'uman genere, perché ora gli uomini in tanto numero si dannano? Perché l'incontinenza vieta loro il passo pel diritto cammino, ond'essi, tratti da «malo amore», più non raggiungon la porta del regno dei cieli?
La risposta è contenuta in una figurazione allegorica (ch' è come il nucleo centrale del Poema), la quale Beatrice, cioè la stessa Verità Rivelata, sulla vetta del «sacro monte», solennemente ingiunge al Poeta di descrivere «in pro del mondo che mal vive».
Come aveva lasciato costituito sulla terra 'il suo gran dono' la doppia fiera, cioè l'Uomo-Dio, tornandosene, coi profeti, cogli agiografi e co' suoi discepoli, in cielo?
Sola sedeasi [Beatrice] sulla terra vera,
come guardia lasciata li ciel plaustro
che legar vidi alla biforme fiera.
In cerchio le facevan di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro
(Purg., XXXII, 94-99).
Dunque: la Verità Rivelata seduta sulla radice («la 'sua' radice») della scienza del bene e del male, a guardia della Chiesa ad essa scienza congiunta; intorno, le virtù teologali e cardinali illuminanti il tutto coi doni dello Spirito Santo. Pura emanazione di Dio il gran dono, come ognun vede: di Dio, al solito, nelle sue tre forme. Poiché la Verità Rivelata, e quindi anche la scienza o dottrina morale che in essa ha radice, è riflesso della Verace luce, della Somma Sapienza (il Verbo); le Virtù che «le facevan di sé claustro» derivano dal Primo Valore, dalla Divina Potestate (il Padre); i lumi ch' esse sostengono procedon dal Primo Amore (lo Spirito Santo).
La figurazione allegorica che, per ammonimento dei mortali, la Verità Rivelata subito dopo ingiunge al suo fedele di descrivere, rappresenta il mal governo che del donum Dei è stato fatto dal momento che Gesù Cristo, risalendo in cielo, lo ha lasciato al mondo, fino al momento in cui ha luogo il «'fatale' andare» del Poeta, pei tre regni d'oltretomba.
Il carro trionfale, dopo che l'aquila ne ha lasciato l'arca «'di sé' pennuta», e il drago sbucato di sotto terra ne ha spezzato il fondo, e le piume l'han rivestito tutto quanto, è divenuto mostruoso, e su di esso delinquono una «fuia» ed un gigante. Ciò è come dire che la Chiesa di Roma (il carro), guasta nell'autorità sua naturale (il fondo) dal diabolico inganno (il drago) tosto che la Potestà Imperiale (l’aquila) le ebbe fatto la donazione famosa (le piume dell’arca del carro), rivestitasi tutta di beni mondani (le altre piume) si è mostruosamente corrotta, onde in modo turpe si confondono in essa due autorità: la 'spirituale', legittima ma diventata simoniaca, epperò adulterante per oro e per argento le cose di Dio, e la 'temporale', illegittima, usurpatrice. La prima è acconcia mente rappresentata dalla «foia», dalla «puttana sciolta», assisa
sicura, quasi rocca in alto monte,
sul carro diventato un mostro. La seconda trova la sua piena e perfetta figurazione poetica nel gigante; il «figlio della 'terra'», ribelle al «Sommo Giove... per noi crocifisso», venuto a render vana l'opera di Questo col piantarsi ritto, accanto alla foia seduta, sul «dificio 'santo'», diventato indebitamente ricettacolo di cose 'terrene', epperò guasto nel suo fondamento dal diabolico inganno. Il messo dell'inferno, il messo di quell'«imperader del doloroso regno», che fra i giganti è di gran lunga il più immane, è naturale sia egli medesimo un gigante;
ché dove l'argomento della mente
s'aggiunge al mal volere ed alla possa,
nessun riparo vi può far la gente
(lnf., XXXI, 55-57).
Questo gigante, padrone, per usurpazione, del carro, lo stacca dall'albero a cui il grifone l'ha legato, e lo trascina via per la sei va. Ciò è come dire che la Chiesa, schiava della temporale autorità del Pontefice, più non può attendere al suo divino ministerio di dispensiera della scienza del bene e del male, cioè della morale cristiana. Ecco perché
il Pastor che precede [il papa]
ruminar può, ma non ha l'unghie fesse;
cioè, può meditare e conoscere i sacri testi, ma più non possiede il discernimento del bene dal male (discretionem boni et mali), simboleggiato appunto dall' unghia fessa. Ecco perché, di conseguenza,
...la gente, che sua guida vede
pure a quel ben ferire ond’ell’è ghiotta,
di quel si pasce e più oltre non chiede.
Perciò, non ostante l’opera della Redenzione, l’incontinenza (la lupa),
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo impedisce che l’uccide.
Dante, per grazia singolarissima cli Dio, è stato liberato dalla «bestia senza pace» mediante la RATIO RECTA IN PLENITUDINE TEMPORUM e la VERITAS SUPERNATURALIS REVELATA. Questa grazia a tutti gli uomini era stata un tempo concessa! Poiché a raddrizzare o mantenere diritta la ragione, che, per mezzo degl'insegnamenti filosofici, dee condurci alla felicità temporale, fu ordinato da Dio l'Imperatore; a condurre gli uomini «in dritta parte» per mezzo degl'insegnamenti spirituali fu ordinato da Dio il Pontefice. la confusione dei due reggimenti nella Chiesa di Roma è la causa di tutto il male.
Che sarà dunque il veltro da cui «l'antica lupa» verrà
rimessa nello inferno
là onde invidia prima dipartilla?
(lnf., I, 110-11).
Ossia, fuori della finzione, chi sarà colui che, sdegnoso cli danaro e di possesso, rappresentando sulla terra la sapienza, l'amore e la potestà di rettamente operare, ossia gli attributi della Trinità, domerà l’incontinenza che il Diavolo, invidioso della felicità del primo uomo, introdusse nel mondo col peccato originale?
Non potrà essere altri se non il «messo di Dio», il DVX («cinquecento dieci e cinque») - vale a dire quella delle due guide degli uomini (i'«due Soli»), che ora manca, ed è necessaria -; il quale
Anciderà la fuia
e quel gigante che con lei delinque
(Purg., XXXIII, 42-5),
togliendo via la mostruosa superfetazione, d'origine diabolica, di sul donum Dei quale fu largito ai mortali.
Non sarà tutto tempo senza reda
l'aquila che lasciò le penne al carro
per che divenne mostro e poscia preda!
(ivi, 37-9).
Verrà l'Imperatore, e riprenderà, togliendolo alia Chiesa; ciò che per decreto della Provvidenza gli spetta. Allora «il vaso che il serpente ruppe», cioè la Chiesa stessa, tornerà integro e puro ; allora, tolta via la confusione dei due poteri, il genere umano, guidato dall'Imperatore secundum phiIosophica documenta alla temporale felicità, riacquisterà l' uso retto della ragione, e non sarà più impedito dall’incontinenza nella via del Bene; guidato dal Papa secundum revelata alla beatitudine della vita eterna, godrà le gioie spirituali della contemplazione del Vero.
Cosi sarà pago il suo affetto, che s' acqueta appunto nel Bene; sarà pago il suo intelletto, che si acqueta appunto nel Vero; saranno sani e liber «nella tranquillità della pace» l'uno e l'altro.
Questa l'alta dottrina etica, teologica e politica, che s'asconde sotto il velame della più splendida finzione che mente di poeta abbia mai immaginato.
Non si dica, che tanta profondità e complessità di contenenza noccia alla gloriosa opera d'arte dell'Alighieri. Io tengo anzi per fermo, che l'aver saputo a quel modo «forti cose a pensar mettere in versi» sia uno de’ maggiori e migliori suoi titoli di gloria. Scienza e poesia, come gli uomini dell'evo medio volevano, nella Commedia s' intrecciano maravigliosissimamente, e dan luce l'una all’altra. La donna amata dal Poeta, l'Autor suo prediletto, rivivono là entro, nella mistica aureola del simbolo, più luminosi ai nostri occhi. Il simbolo, a sua volta, perde l'astrattezza sua propria, e, impersonato in creature dall'umana sembianza, vivo, spirante, palpita di vita reale. A quel modo che il suo fantastico oltretomba Dante ha saputo disegnare e colorire come se osservato l'avesse dal vero; così le astrazioni del simbolismo in lui ci appaiono quasi sculte nel marmo, tanta è la concretezza) la plasticità, della sua rappresentazione.
Anche l'Ariosto seppe fare il medesimo per le fantasticherie romanzesche; anche Michelangelo dié vita ed anima alle apocalittiche figurazioni. Mirabili doti dell'arte nostra, per cui fummo un tempo maestri alle genti!
Ma pur in questo l'Alighieri s'innalza, aquila dalle robuste penne, sugli altri tutti. E la concezion filosofica del Poema di lui, quale ho tentato di ricostruirla nella sua organica unità, non è punto inferiore alla sublime concezione poetica, per cui la divina Commedia vivrà nei secoli immortale.