Dati bibliografici
Autore: Aldo Vallone
Tratto da: La critica dantesca del Novecento
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1976
Pagine: 214-221
L'aspetto più noto del dantismo del Pietrobono non è forse quello da noi sviluppato nel capitolo precedente, ma quello dell'allegoria. Bisogna però subito chiarire che il Pietrobono, prima di presentare o accogliere un'allegoria, invita sempre ad una lettura sgombra di preoccupazioni non certo per la lezione della critica estetica, passata pressoché inosservata, ma per la convinzione che Dante basta sempre a se stesso e che come poeta dice tutto quello che sente e prova da uomo. L'allegoria fondamentale (la necessità della redenzione del mondo dalla nuova violazione dell'interdetto commessa da Costantino) su cui ci siamo già fermati, deriva per il Pietrobono da una specie di logica interna del carattere della Commedia, dalla diretta impressione dei versi, per cui egli, riprendendo in altro senso l'immagine del Croce, paragona la struttura morale della Commedia « a un albero di maravigliosa bellezza che ha radici e tronco e rami e foglie e fiori e frutta, ma la sua linfa vitale l'attinge tutta dall'idea che l'informa» . È quindi un'allegoria-arte, che non vive cioè come allegoria sovrapposta alla ispirazione, ma essa stessa idea-ispirazione del poeta. Partito da questo punto tutta l'opera vive e respira in salda unità e si modella a un fermo concetto-base. Il Pietrobono concentra tutto il suo acume a distruggere questa soprastruttura e a far sentire invece l'ordinamento morale-allegorico connaturato alla sostanza di questa particolare poesia. «Per Dante quelle immagini, quei personaggi, quelle parole non stanno, secondo me, a significare anche un'altra cosa, ma solamente e propriamente quello che significano. L'allegoria di Dante, voglio dire, non è della stessa specie di quelle con cui nell'antichità greca si cercò di giustificare la poesia di Omero e nel Medioevo quella di Virgilio; e nemmeno si deve confondere con quello che fece egli medesimo nel Convivio, dove si studiò di tirare a un senso morale le canzoni d'amore composte per la Donna Gentile; non consiste insomma· in una soprastruttura che il poeta abbia imposto alle sue creazioni fantastiche, ma è la stessa creazione fantastica, la sua forma d'espressione; non l’iponoia dei filosofi ma l’inversio dei retori» .
Anzi non di rado il Pietrobono giunge a vedere non modi e articolazioni di questa allegoria-base, cioè simboli, ma addirittura metafore. Nel Prologo a Il Poema sacro dice infatti: «Cibasti osservare che valle, piaggia e monte, posti come sono, ordinatamente nell'oscurità, nella penombra e nella luce, portano quasi congenito il loro significato morale: più che simboli si potrebbero chiamare metafore» .
Sotto questo aspetto è indubbio che ii Pietrobono è veramente «il migliore e il più avveduto seguace del Pascoli», come scrisse il Barbi ; ma è anche vero che egli s'incontra col Pascoli lungo una generica linea di interpretazione esegetica, distaccandosene per concrete e varie differenze nei particolari. Già in un libro, meditato quand'era ancor vivo il Pascoli, il Pietrobono così si esprimeva: «quantunque ci si incontri solo qua e là, e i principi da cui muoviamo, e le conseguenze a cui si giunge siano spesso diverse, e diverso in gran parte sia il metodo, pure sento che senza la sua, la mia interpretazione, non sarebbe nata» ; col tempo questo distacco si andò approfondendo e di pascoliano al Pietrobono rimase il tenace e amaro attaccamento alle proprie convinzioni.
In questo campo tempra di studioso più rivoluzionario (di una rivoluzione che durava da un secolo, da Foscolo e G. Rossetti e poi via via Vecchioni Perez Pascoli) sortì il Valli. L'adesione al Pascoli è incondizionata, e l'allievo, rotto ogni indugio va oltre il maestro: i limiti rispettati dal Pietrobono, quella certa cautela nel disegno dei particolari che aveva misurato la parola del critico, ora vengono superati. L'indagine per farsi storica e scientifica (ed era cosa naturale) si affonda nello stil nuovo e nell'età di Dante.
La Commedia la Vita Nuova e il Canzoniere, in ispecie, sono frugate in ogni loro piega; spiate nella loro oscurità; rapportate ad un «gergo» e ad una scuola, in cui ci sono, come in tutte, iniziati, adepti, conoscitori e profani. Sarà utile prendere le mosse dal Pascoli, ch'è indubbiamente il più vicino alla sensibilità del Valli. Il Pascoli aveva ritrovato due profondi concetti nella Commedia: a) «gli uomini lasciati a se stessi liberi dalla tirannide dei loro simili e pari, limiteranno da sé, in piena libertà, la libertà di abusare di sé e degli altri, e così fiorirà la giustizia e seguirà la pace»; b) «L'uomo non sarà felice se non quando... frenerà le passioni dannose a sé e ad altrui, se ne purificherà, e così sarà nel tempo stesso libero e buono» : concetti politici o sociali che andavano inseriti entro quelli morali e psicologici; ed anzi a questi toccava una sorta di supremazia conclusiva, per cui la somma di quelle espressioni si presentava in questo modo: «L'umanità non sarà felice, nella giustizia e nella pace, se non quando sarà libera; e l'umanità non sarà libera, se non quando l'uomo si sentirà libero non facendo se non il bene». Proseguendo su questo cammino si giungeva a risolvere ogni cosa nel profondo abbandono della vita attiva, «provata invano nella piaggia deserta» e nell'adozione della vita «contemplativa, la quale consiste prima in un esercizio di vita attiva che disponga all'altra. Così Dante dopo il suo doppio esercizio settennale, è puro, e perciò disposto alla contemplazione». Lungo questa generale concezione del poema dantesco figure e versi vengono interpretati e intesi in una catena di armonie e corrispondenze che legano i fatti puramente biografici allo sviluppo intenso di una ricca e varia vita interiore e culturale.
Nella suggestiva atmosfera di queste idee maturò dunque il pensiero del Valli. C'è infatti in lui innanzitutto un'intelaiatura morale che ne disciplina il mondo culturale in unità, prima ancora del nascere del «gergo». Perciò egli può tracciare la storia dell'idea-base di Dante (Croce ed Aquila) , in cui si condensa e si risolve tutto il simbolismo della Commedia. Questa idea-base è data dalla fusione di due ordini di idee, e cioè:
1) l'ordine di idee della tradizione dei «Fedeli d'amore» («Esiste una Sapienza santa consegnata da Cristo alla Chiesa e che è diversa da quella che la Chiesa, corrotta dagli interessi mondani, diffonde per il mondo»);
2) l'ordine di idee «sviluppato e chiarito in Dante durante la sua ardente lotta politica per la restaurazione dell'Impero» («Chiesa è corrotta perché ha usurpato i beni e l'ufficio dell'Impero. L'Impero è necessario rimedio contro l'infermità del peccato, l'assenza di esso è causa della disarmonia e della corruzione del mondo») .
Costruita, secondo il metodo del Pascoli, questa intelaiatura morale e simbolica della Commedia, il Valli andò oltre sostenendo «la reale esistenza di un sottosuolo mistico ed iniziatico nella poesia italiana dei primi secoli» . L'esame, in cui dottrina e gusto furono profusi senza misura, si estese oltre i limiti di tempo e di luogo , alla ricerca di una Sapienza, concordata e segreta nel gioco della setta, di là dal corrente senso del linguaggio amoroso. Lo stimolo amoroso di questi poeti, tale solo in sull'inizio, veniva poi elaborato e trasformato, secondo il Valli, assumendo carattere mistico e significazione segreta, per cui questi poeti solo ora potevano, scambiandosi i componimenti, dirsi veramente Fedeli d'amore. Su questa linea della rivelata «Sapienza» (quantunque la Commedia per il Valli stesso erompa dall'ambiente settario, si stabilisce un accordo tra Commedia e Fedeli d'amore: così la Beatrice della Vita Nuova è «la divina Sapienza come Speranza della eterna contemplazione»; la Beatrice della Divina Commedia è «la stessa divina Sapienza che, di là dalla mistica morte, conduce alla contemplazione di Dio»: e la Donna Gentile e la Pietra? anche queste sono come un altro e diverso aspetto di questa Sapienza: la prima in quanto Sapienza razionale (Filosofia), la seconda in quanto «Sapienza corrotta e falsata dalla cupidigia e dalla crudeltà della Chiesa di Roma». Rimanendo nel campo e nelle intenzioni del Valli, bisogna riconoscere che mai mondo culturale (Sapienza) e linguaggio (gergo) 'si sono così intimamente intrecciati e connessi. C'è da chiedersi: questo linguaggio è proprio un linguaggio o non è anch'esso una sorta di formalismo ristretto e chiuso non solo all'intelligenza dei non iniziati ma anche ad uno sviluppo interno di esso? Non voglio giungere a negare un valore interno alla poesia, per il gusto di un'esaltazione pura di essa, ma soltanto notare che una poesia come ce la presenta il Valli non è più poesia, manca ad essa ogni articolazione, ogni segno di vita; il gergo si risolve nel giro vizioso e ristretto di pochi o molti termini (comunque sempre limitati) con l'esclusione assoluta dell'invenzione poetica di essi. L'idea del gergo ci sembra da escludersi completamente, convinti che sconnessioni, difficoltà d'interpretazione, aridità, ecc. sono in parte da rapportare al gusto di un esercizio stilistico, vivissimo in quella prima età (come, in genere, in tutti i neofiti) e in parte, come notò il Sapegno , ad una nostra insufficiente conoscenza storica e culturale. Non si confondano le tradizioni di pensiero e di scuola (poniamo; l'agostinismo, il tomismo, la poetica provenzale ecc.), che obbligavano ad un sistema di preferenze e di giochi, col gergo del Valli: quelle sono, diciamo così, tradizioni storiche e morali, che operano nel tempo e in relazione al formarsi di un gusto (si prenda, ad esempio, un termine, cortesia come in altro luogo abbiamo fatto , e si vedrà che entro la sua tradizione operavano l'esercizio stilistico, l'adesione morale, l'esperienza storica e culturale in larga modulazione da Marcabru a Dante); il gergo invece è una congettura meccanica, che non può avere tradizione, ed opera contro il gusto e la storia. Ma c'è da chiedersi ancora com'è che in alcuni componimenti (e citiamo quelli salvati dal Valli: Tanto gentile e tanto onesta pare; Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io; ed altri, peraltro «dubbi») cessa il gergo e spunta la poesia? Le parole amore, fiore, fedele, virtù, tristezza, ecc. non hanno più un valore sottinteso quale le stesse avevano in tanti altri componimenti? Certo non c’è da pensare che un poeta usasse le stesse parole ora in gergo ora fuori di gergo, significando in chiave una cosa, in lingua piana un'altra ben diversa e naturale. O non gli sarà balzato mai innanzi il grottesco di questa situazione nel gioco di queste parole ora serie e vuote, ora naturali e simboliche? Come ancora avrà potuto scrivere cose così religiose e austere (come Tanto gentile e tanto onesta pare ecc.) con un linguaggio, ahimè, depauperato di spontaneità e freschezza? Dovremmo concludere che questi poeti (ed anche il nostro Sacro Vate!) sono dei mostri, poiché parlano di misteriose Sapienze od amano veramente usando sempre le stesse parole! La questione si può riportare in fondo su un piano più logico e semplice insieme: cioè si deve parlare di componimenti che hanno una loro realizzazione poetica (quelli di aperta e chiara chiosa) e di altri che rimangano al di qua della poesia: esercizi di stile, abbozzi di temi e di formule poetiche, che ogni tempo presentano lati oscuri o vaghi e nella disarmonia corrispondenze e legami con altri testi ed altri autori. Certo ogni scuola in quella età dà ai termini accezioni particolari, che sono in dipendenza di una preparazione stilistica e culturale (le stesse letture, le stesse tendenze, la stessa vocazione, ecc.); ma chiarire questo processo sarà possibile solo con i mezzi della buona critica filologica e storica.
A questa mi sembra che vada intonandosi più coerentemente un allievo del Valli, il migliore e il più preparato, il Ricolfi. Le tante parti · storiche che erano state appena abbozzate dal Valli si interpretano ora entro il largo panorama: della cultura medievale. Indubbiamente la leva maggiore di questa tendenza degli studi danteschi è nel rapporto dei riscontri, nell'allargamento dei riferimenti, per cui quanto maggiori e più numerosi sono questi più persuasiva può sembrare la tesi generale. Dal Dante poeta settario agli Studi sui Fedeli d'amore e ai più recenti L'Impero e la Redenzione in Dante secondo il Pascoli e il Valli e Guido Cavalcanti e un suo strano carteggio in rime si, il Ricolfi. ha compiuto un lungo cammino nell'approfondimento di questi studi, ha chiarito le idee del Pascoli, ne ha sviluppati i simboli, ma anche è entrato in polemica col suo maestro a proposito delle rime di Falchetto di Marsiglia e, mentre per alcuni simboli va oltre il Valli stesso, cerca per altri di attutirne la portata come nella contrapposizione delle Croci e delle Aquile, che «va considerata con intelligente misura» tenendo presenti «interferenze e interdipendenze fra di esse come pure fra Carità e Giustizia»; o come nel riconoscere in donna e amore non sempre sensi segreti . Ma questo non toglie che l'allievo segua il maestro là dove più centrale diviene il problema, cioè nella dottrina delle simmetrie, e tra queste, nell'unità dell'Aquila di Enea - Aquila di Roma - Lucia, «simbolo della grazia di Dio nella vita attiva», contrapposta alla Croce «ch'è, con Beatrice, simbolo della grazia nella vita contemplativa» .
E attorno al Valli e al Ricolfi. altri molti lavorarono con metodo o senza, provveduti di cultura e di studi (come i succitati) o avventatamente, ricercando dottrine, simboli e allegorie ovunque come il Santi il Bersani il Bosticca o con più perspicacia storica l'Evola e con più suggestiva dovizia il Masseron e il Fletcher negli anni che vanno tra le due grandi guerre, che segnano il ridestarsi acuito ed esasperato del misticismo esegetico pascoliano e il suo decadere. La rivista che prestò più benevola attenzione, fu il Giornale dantesco, sorto nello stesso anno del Bullettino, cioè nel 1893 e cinque anni dopo l'istituzione della Società Dantesca Italiana , (derivato da L'Alighieri, 1889-1893) e diretto prima dal Passerini e poi dal Pietrobono fino al 1943 (senza ripresa dopo tale data). Gli argomenti che trattò il Giornale dantesco furono vari e accanto al Bullettino del Barbi-Parodi, prima, e poi agli Studi danteschi del Barbi, suscitò un largo interessamento a Dante e ai problemi della cultura dantesca. Invero queste riviste sono inavvicinabili fra loro come vide il Leo : infatti, mentre il Bullettino e più ancora gli Studi danteschi furono orientati nella ricerca dei valori storici e filologici col preciso compito di promuovere l'edizione critica delle opere di Dante (rimandiamo quindi al capitolo su questo argomento), il Giornale dantesco preferì affrontare l'interpretazione morale degli episodi, l'ambientazione storica e teologica della Commedia, i riscontri e le armonie tra le opere di Dante, e se non trascurò del tutto lo studio della poesia e della lingua del Poeta, certamente indulse sempre più generosamente al rilievo dei sensi segreti e simbolici di versi e figure.
Sotto questo aspetto a noi è dato scorgere il carattere unitario della rassegna dantesca e saggi o articoli di autori di varia e diversa fortuna, educazione e scuola: dall'Ermini all'Arezio, dal Flamini (che pure è fine e misurato) al Dolzani ro, oltre al Pietrobono al Mariani al Boffito ricercatori della dottrina politica e scientifica di Dante, e all'Olschki, forse il più tormentato ricercatore dell'intelligenza dantesca .
Ma entro questo aspetto il Giornale dantesco ebbe anche, e non piccolo, il merito di disciplinare e suscitare ricerche e indagini che abbandonate a se stesse, senza il vaglio e la disamina critica, avrebbero fatto risuscitare il mondo della magia (già caro ad alcuni lettori ottocenteschi di Dante); come anche va attribuito a sua lode, in tempi di svagato estetismo, l'averci resi pensosi del mondo particolare di quella poesia. La critica d'altro tono (poniamo del Ciafardini, Vossler, Chiurlo ecc.) , può, a sua volta, illuminare sugli altri aspetti e sulle particolari tendenze, in genere, del pascolismo simbolico-morale, che il Valli mostrò di saper affrontare polemicamente, ma non risolvere a suo favore.