Dati bibliografici
Autore: Bruno Nardi
Tratto da: L'Alighieri
Numero: 4
Anno: 1963
Pagine: 3-17
Questo primo canto dell'Inferno è il prologo a tutto il «poema sacro». E siccome, secondo la definizione che ci ha dato Dante stesso della poesia, questa è «fictio rethorica musicaque poìta», nella quale è predominante il ritmo musicale delle «parole per musaico legame armonizzate», questo primo canto possiamo ritenerlo un preludio a tutta la Commedia, nel quale, come accade nelle opere musicali, per esempio nel Parsifal o nella Forza del Destino, sono accennati alcuni motivi che saranno sviluppati più ampiamente e variati nel corso dell'opera.
Sì che mi pare non sia da approvare il metodo di quei commentatori che pretendono di determinare il significato esatto dei motivi accennati in questo primo canto della Commedia considerandoli in sé stessi, senza tenere nel debito conto l'ulteriore sviluppo di essi nello svolgimento della grande sinfonia. In questo primo canto si tratta anzi tutto dell'antefatto che induce il poeta, che è anche il personaggio principale, il vero protagonista del poema, dalla prima all'ultima terzina, a intraprendere il viaggio insolito pei tre regni d'oltretomba. Questo antefatto è lo smarrimento nella selva oscura, il tentativo di uscirne per guadagnare la cima del dilettoso monte, gli impedimenti che incontra nel suo cammino, il commosso incontro con Virgilio nel gran diserto, e il consiglio che questi gli dà di «tenere altro viaggio».
Lo smarrimento nella «selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura» è fissato, per ragioni poetiche, nel mezzo del «cammin di nostra vita», cioè quando Dante era ormai vicino a compiere i 35 anni, e precisamente la notte fra il 7 e l'8 aprile 1300, mentre il viaggio intrapreso sotto la guida di Virgilio e quindi di Beatrice, cioè l'intera visione, si compie fra la sera dell'8 aprile, Venerdì santo prima della Pasqua di quell'anno, e il 14 dello stesso mese. Ma è evidente che, come dello smarrimento nella selva vi sono precedenti che risalgono a parecchi anni prima del 1300, così, se si tengono presenti i fatti cui chiaramente si accenna nello svolgimento delle tre cantiche, il tempo che prende l'intera visione è assai più lungo dei sette giorni che sono assegnati alla visione stessa; anzi, io ritengo che questa visione Dante non poté averla se non sette od otto anni dopo il 1300, per le ragioni cui ho più volte accennato, e alle quali mi riferirò anche fra poco, e cioè per poter dare alla visione stessa la forma di visione profetica.
A proposito dello smarrimento nella «selva oscura», viene spesso ricordato il passo del Convivio (IV, xxiv, 12), ove si parla dell'adolescente che «entra ne la selva erronea di questa vita» e che, per esser nuovo del cammino, ha bisogno che dai suoi maggiori questo gli sia mostrato; onde ad essi ha da mostrarsi docile e obbediente. Questo richiamo al Convivio non si può dire certo inopportuno, poichè serve a ricordarci che tanto la selva in cui potrebbe smarrirsi l'adolescente quanto la selva in cui si trovò smarrito Dante non più adolescente, ma pervenuto ormai al colmo dell'arco della vita («Alza la barba!» - gli dirà Beatrice sulla sponda del Leté, - Tu non sei più « novo augelletto»!), nell'un caso e nell'altro sono selve metaforiche, ov'è possibile smarrirsi. Ma la metafora della selva, che nel Convivio è priva di sviluppo, qui al contrario si sviluppa «in bella menzogna » che cela, sotto il velo della favola, o narrazione fittizia, un significato che va oltre l'apparente senso letterale, e che si tratta appunto di determinare.
Molti commentatori antichi e moderni si sono affrettati troppo a liquidare l'allegoria di questo smarrimento di Dante per questa «selva selvaggia e aspra e forte», riducendolo a un generico stato di vizio o d'ignoranza dell'uomo che s'è allontanato colpevolmente dal retto sentiero della virtù; e Dante stesso non sarebbe altro, in definitiva, se non un generico simbolo dell'uomo che si trova in questo generico stato, correndo pericolo di dannazione eterna. Quali motivi inducessero l'ignoto autore che «sub lectoris officio» si pose a scrivere un commento al Paradiso, già ormai compiuto, che s'annunziava assai prolisso ma ch'egli improvvisamente interruppe, giunto appena all'invocazione ad Apollo, ho detto in due miei precedenti studi, ove accoglievo la tesi di Augusto Mancini e la rincalzavo di nuovi argomenti . Questo frammento fu utilizzato pressoché da tutti i commentatori della Commedia fino al Boccaccio senza che mostrassero di sapere che fosse di Dante. Lo ignoto autore appunto di questo frammento vorrebbe farci credere che l'argomento della Commedia è, in senso letterale, lo stato delle anime dopo la morte, e in senso allegorico l'uomo (l'uomo in generale) in quanto pei suoi meriti e demeriti procacciati con l'uso del libero arbitrio è reso degno di ricompense e di pene nell'altra vita. Insomma il poema dantesco non sarebbe altro che un teologico trattato «de novissimis». Questo bel servigio ha reso l'ignoto teologo alla poesia della Commedia.
Senonché il protagonista della Commedia è Dante, che per tutto il poema parla di sé in prima persona; Dante fiorentino, che nella primavera avanzata del 1265, sotto la costellazione dei Gemelli, aveva sentito « di prima l'aere tosco», insieme alla « gran virtù» di quelle « gloriose stelle»; quello che ventiquattrenne a Campaldino aveva combattuto nella prima schiera e aveva avuto dapprima « temenza grande e nella fine allegrezza grandissima, per li vari casi di quella battaglia»; lui che esule, ripensando al suo bel S. Giovanni, nella debole speranza di cingere un giorno la « fronda peneia » dell'«amato alloro» sul «fonte del suo battesmo», non sa dimenticare che uno cli quei pozzetti, « fatti per luogo de' battezzatori », egli aveva dovuto rompere « per un che dentro v'annegava »; sì, questo nipote di Cacciaguida
(O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sìcut tibi cui
bis unquam celi ianua reclusa?
O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice…!)
sì, questo vostro fratello, o fiorentini, che « nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa », qui ha amato e sofferto, qui s'è trovato smarrito nella selva delle più violente passioni umane, qui ha corso pericolo di morte «su la fiumana ove 'l mar non ha vanto», di morte, dico, temporale ed eterna, dalla quale l'ha campato solo colei che proprio qui, in Firenze, «a l'alto volo gli vestì le penne»; questo è il protagonista della Commedia, un Dante vivo, ricco di umana e dolorosa esperienza, dotato di una inconfondibile personalità individuale ognor presente nel suo fatale andare, e non l'astratto simbolo dell'uomo peccatore, quasi teologico mannequin in una mostra di vizi e di virtù. Peccatore sì, ma peccatore che prende su di sé la responsabilità dei peccati che son suoi, e, mentre sinceramente umiliato li confessa, lascia agli altri i loro, ben più vergognosi e dei quali non ebbero mai il coraggio e l'umiltà di pentirsi.
Ma poi, se volete davvero rendervi conto dell'esatto significato della selva oscura nella quale si trovò smarrito nell'anno 1300, e corse pericolo di morte temporale ed eterna, ripensate un momento alla confessione ch'egli rende del suo smarrimento e del pericolo corso, mentre l'animo suo «che ancor fuggiva» si volge indietro, nel suo «fatale andare», «a rimirar lo passo che non lasciò giammai persona viva». Ripensate al suo incontro con Forese (Purg. XXIII, 114-123):
- Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi...
Virgilio è questi…
La vita di sregolatezze cui qui s'accenna, e di cui è palese testimonianza la loro ben nota e canagliesca tenzone, non è vita di un teologico mannequin, ma di uno scapestrato ancor vivente il quale si trova dinanzi il compagno delle sue scapestratezze, che quello sta espiando da poco meno di cinque anni.
E v'è altresì l'aspro rimprovero di Beatrice (Purg., XXX, 103-141):
Si tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e dtessì altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m'era.
fu' io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
Né l'impetrare ispirazion ml valse,
con le quali ed in sogno e altrimenti
lo rivocai: si poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l'uscio de' morti...
E le perdute genti che Dante incontra non son peccatori anonimi privi di personalità; ma pur disposti secondo un criterio morale desunto dall'Etica Nicomachea, essi non rappresentano davvero simboli di concetti astratti, né sono neppur essi dei mannequins, sono invece disegnati come persone vive dai contorni ben marcati, peccatori che hanno una loro ben precisa individualità morale, cui spesso a dar risalto alla loro personalità non mancano tratti di nobiltà come limite della loro malizia nel peccare e della loro sofferenza. E non pochi di questi peccatori Dante aveva certamente incontrato e conosciuto nel periodo del suo smarrimento nella «selva oscura». Che se a Beatrice non restavano altri «argomenti a la salute sua... fuor che mostrarli le perdute genti», si dovrebbe supporre che i peccati di Dante non si limitassero al desiderio «d'avere cotali insalatuzze d'erbucce come le donne fanno quando vanno in villa», o ad avere una volta senz'avvedersene sputato «nella chiesa di Dio».
Comunque, nell'incontro con Forese e nel rimprovero di Beatrice, a cui tien dietro la confessione di Dante, si parla sì di peccati, grandi o piccoli che fossero, che questi riconosce d'aver commesso, lui, proprio lui.
Ma dopo l'immersione nell'acqua del Leté, Dante assiste alla figurazione allegorica dell'aquila che, scesa nell'arca del carro della Chiesa, lascia «lei di sé pennuta», e alla conseguente trasformazione «del dificio santo» in mostro dalle sette teste e dalle dieci corna, su cui siede sicura la grande prostituta «con le ciglia intorno pronte». Qui Beatrice, che poc'anzi s'era mostrata al suo poeta revelata facie in tutto lo splendore divino dei suoi occhi, comincia a sorprenderci per un tratto che non conoscevamo del suo volto, di quelìo, voglio dire, della Vita Nuova. Questo tratto nuovo non è tanto quello di donna che nella visione beatifica discerne il vero intorno ai misteri della fede assai meglio dei teologi che ne dissertavano nelle scuole, in terra, tra rissose dispute o in pergamo predicando «al mondo ciance», e che nella stessa luce divina conosce i pensieri più riposti del suo fedele; bensì quello di risoluta ghibellina che preannunzia la dannazione eterna a Clemente V, per avere con astuzia ostacolato il «cursus Henrici Caesaris ad Italiam», e l'avvento del «messo di Dio» inviato ad ancider «la fuia con quel gigante che con lei delinque».
Questo tratto ghibellino il volto di Beatrice comincia a mostrare negli ultimi due canti del Purgatorio, e quindi accentuerà per tutto il Paradiso. Ma proprio nell'ultimo del Purgatorio essa esorta il suo poeta ritornato a lei, a tener bene a mente quel che ha visto e quel che ella gli ha detto, di segnare con esattezza le sue parole come da lei son porte e di riferirle «a' vivi del viver ch'è un correre a la morte». E poiché Dante confessa di non arrivar bene a intenderle, perché la parola di lei vola tanto al di sopra del suo intelletto, che questo « più la perde quanto più s'aiuta». - Ciò accade - risponde la donna beata - perché tu, seguendo la via del filosofare umano, ti sei finora straniato dalla via divina. Questo ti dico
Perché conoschi... quella scola
c'haì seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar aa mia parola;
e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra li ciel che più alto festina.
E Dante a lei, sorpreso di questo nuovo rimprovero:
Non mi ricorda
ch'i' straniasse me già mal da voi,
né honne coscienza che rimorda.
Ma Beatrice sorridendo gli fa osservare che egli non si ricorda più di questo suo traviamento dottrinale, perché ha bevuto poco fa dell'acqua del Leté, la quale ha virtù di togliere «altrui memoria del peccato»:
E se dal fummo roco s'argomenta,
cotesta oblivion chiaro conchiude,
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
E rieccoci ancora nella «selva oscura». Non solo a vizi d'incontinenza o ad altre sregolatezze era dovuto lo smarrimento di Dante, ma bensì a una non meno grave colpa nel seguitare quella scuola la cui dottrina l'aveva con dotto «altrove» da lei e dalla «via divina». L'allusione alla filosofia del Convivio e della Monarchia non poteva esser più trasparente. Nel Convivio, che pure fu scritto nel periodo dell'esilio, è sostenuta la tesi che la sete naturale di sapere è limitata nell'uomo a quelle cose che l'uomo può giungere a conoscere con le sue facoltà naturali: «Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato sapere». Che è affermazione tipicamente antitomistica. Poiché S. Tommaso dimostra in molti capitoli della somma Contra Gentiles che il desiderio naturale di sapere non è appagato se non dalla visione beatifica di Dio mercé il lume soprannaturale della grazia. E nella Monarchia, scritta dopo l'interruzione del Convivio e prima di por mano alla Commedia, anche se per avventura l'autore ebbe a ritoccarla più tardi in qualche punto, l'indipendenza dello Impero dalla Chiesa è dimostrata postulando l'indipendenza del fine natu raie dell'uomo dal fine soprannaturale. Il che non è più vero nella Commedia, ove Virgilio è fin da principio messo ed araldo di Beatrice, e dove la sete naturale di sapere
mai non sazia
se non con l'acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia.
Ma pure nella Monarchia ancora così impregnata, non meno del Convivio, di spirito averroistico, Dante ebbe a fare la sua più grande scoperta, che lo trasse davvero fuor della selva oscura. Ed è là dove i decretalisti menavan vanto della pretesa donazione di Costantino. Posto che Costantino avesse inteso davvero rinunziare alla sovranità imperiale sulle terre che invece egli, secondo Dante, assegnò in dote al papa perché ne dispensasse i frutti «pauperibus Christi», il papa poteva sì accettare il dono come «fructuum dispensator», ma mai «tanquam possessor», e «immoto semper superiori dominio» spettante solo all'Impero; e ciò perché un espresso precetto proibitivo di Cristo interdice alla Chiesa ogni possesso sovrano di beni terreni (Mon., III, x, 13-17).
Con questa così ardita teoria, Dante veniva ad incontrarsi inaspettatamente col pensiero di quella corrente religiosa rappresentata dal gruppo dei francescani che si dissero « spirituali » e più ancora dei primi fraticelli, insomma dei fautori della riforma che alcuni anni prima avevano riposto le loro speranze deluse nell'elezione di Celestino V. Ma per il momento egli non vide subito tutte le conseguenze che poteva trarre da questa dottrina; e portò a termine la Monarchia, continuando a svolgere fino all'assurdo una premessa averroistica già prima accettata.
Ma quando, entrato nell'ordine d'idee della corrente riformatrice, e persuaso ormai che alla Chiesa fosse interdetto ogni dominio sovrano di beni terreni, ebbe la visione narrata nella Commedia, sentì di non aver più bisogno dei sottili argomenti della Monarchia e della stessa distinzione dei due fini dell'uomo, per rivendicare la piena indipendenza dell'Impero da ogni dominio ecclesiastico. La Chiesa è incapace di qualsiasi dominio terreno, per espresso comando di Cristo.
Questo il senso del secondo rimprovero di Beatrice.
Si dirà che a questa persuasione Dante non giunse che assai più tardi dell'anno 1300. Ed io ne 'sono convinto. Come sono convinto che lo stesso incontro con Virgilio sia ugualmente posteriore di alcuni anni al 1300. Ma se Dante ha fissato il suo smarrimento nella selva oscura e il viaggio pei regni d'oltretomba intorno alla Pasqua del 1300, è perché in quell'anno sono accaduti veramente dei fatti che hanno imposto al corso ulteriore della sua vita, cioè del suo pensiero e della sua arte, un nuovo e definitivo orientamento. I raggiri di Bonifacio per assoggettare i liberi comuni della Toscana alla giurisdizione sovrana della Chiesa, il processo contro le spie fiorentine che alla corte di Roma favorivano questi occulti maneggi del papa «piaggiatore», l'aperto intervento del pontefice per fare annullare la condanna ad esse inflitta, e la fiera resistenza opposta dai priori per il bimestre 16 giugno-15 agosto, fra i quali si trovavano Dante e Dino Compagni, poi i sanguinosi tumulti scoppiati a fine giugno tra Bianchi e Neri e I'interdetto lanciato sulla città dal paciaro papale cardinal Matteo d'Acquasparta: tutto questo era avvenuto nell'anno del primo Giubileo bandito da Bonifacio. Non è perciò meraviglia che poco dopo Dante scrivesse dall'esilio quella lettera, veduta da Leonardo Bruni, nella quale il poeta si doleva che «tutti li mali e li inconvenienti» suoi «dalli infausti comizi del» suo «priorato ebbono cagione e principio». E dell'animo suo «che ancor fuggiva» al ricordo, «pur com'uom fa de le orribili cose», è testimonio ancora l'aver taciuto a Guido del Duca il nome del fiume in riva al quale era nato. Ma il romagnolo non n'è sorpreso: «Degno ben è che 'l nome di tal valle pèra»; poiché in essa
virtù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga...
Scendendo giù dall'alpestre monte del Falterona il fiume che dà il nome a questa valle, ormai ingrossato, cade nella «maladetta e sventurata fossa» popolata di lupi. E l'immagine della «trista selva», a indicare Firenze, sale al suo labbro quando predice che tra breve Fulcieri da Calboli n'uscirà con le mani insanguinate per il mercato e la strage ch'avrà fatto «di quei lupi in su la riva del fiero fiume», e la lascerà devastata (Purg., XIV, 16-66).
La «selva oscura», dunque, oltre a significare lo stato di peccato nel quale versa Dante, designa il pauroso groviglio delle passioni di parte che «quel d'Alagna» abilmente sfruttava nell'intento di portare a compimento i suoi disegni su Firenze. E il buon vecchio Cacciaguida rendeva edotto il pronipote di quel che già si tramava ai danni di lui «là dove Cristo tutto dì si merca».
Tra la situazione fiorentina del 1300 e i fatti che si svolsero negli anni successivi, a cominciare dalla condanna e dall'esilio di Dante, fino al trasferimento della sede papale ad Avignone e alle funeste conseguenze che il doloroso avvenimento ebbe per la cristianità, esiste per il poeta un legame quasi fatale come di causa ad effetto, del quale egli acquistò coscienza solo più tardi, quando dalla selva selvaggia era uscito davvero. Può darsi che il desiderio di uscirne si sia destato in lui fin dall'anno del giubileo, quando vedeva comitive di romei passare per Firenze e recarsi a lucrare la perdonanza sulle tombe dei beati Apostoli Pietro e Paolo. Ma sta di fatto, che nella selva popolata di lupi, «su la fiumana ove 'l mar non ha vanto», si trovò sino al principio dell'autunno 1301. L'esilio, sì, ne lo sospinse fuori. Ma il pungente ricordo delle cose più care che aveva lasciato dietro a sé e lo stesso orgoglio di parte lo sospingevano a ritornarvi con la forza, unendosi agli altri fuorusciti. Campato alla minaccia di morte che pendeva sul suo capo, e ripensando agli eventi nei quali s'era trovato coinvolto, con «l'animo che ancor fuggiva», avrà creduto di poter guadagnare la cima del colle che gli s'offriva a levante, «là dove terminava quella valle», e lo invitava, ammantata le spalle della luce del sole nascente. Quel colle «vestito già de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle» è certo il simbolo della virtù, in opposizione alla selva ove «la diritta via era smarrita». E Dante avrà nutrito fiducia, con la guida dell'Etica Nicomachea, di raggiungerne in breve la sommità. Ma prima si volge «a rietro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva» («già mai», s'intende, per chi non riesce a superarlo), come il naufrago, scampato al pericolo d'essere inghiottito dai flutti, si volge «con affanno» a riguardare il mare in tempesta. È una delle più belle e commosse similitudini del poema.
«L'animo mio ch'ancor fuggiva», al pensiero del pericolo corso! Ma il corpo stanco ha bisogno di riposare un poco; solo un poco un momento per riprendere lena:
Poi ch'è! posato un poco il corpo Iasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'I più basso.
Fra l'erta del colle e il punto ove termina la valle c'è dunque una «piaggia» ove non si scorge anima viva. «Piaggia» è parola ancora in uso nel linguaggio della campagna toscana, e indica una landa pianeggiante leggermente inclinata. La piaggia per la quale si moveva Dante avrà avuto un leggero pendio dal «cominciar de l'erta» verso la valle. A rigore, il piè fermo non è sempre il più basso, se non per chi si muove su un piano perfettamente orizzontale; questo è evidente. Siccome la piaggia di Dante non era molto inclinata, e il suo andare per essa non era faticoso come al cominciar dell'erta, il poeta avrà voluto far notare che andava per questa piaggia come se andasse in pianura, senza che il «corpo lasso» se ne risentisse. Ma il suo bravo e caro figliolo Pietro, dottore in utroque, giudice a Verona e altrove, uomo fornito di varia se non profonda dottrina, nel commento all'opera paterna spiegò che il piè fermo è sempre il più basso per chi procede claudicando, in senso allegorico, s'intende, poiché in senso letterale neanche a chi claudica salendo una scala o un pendìo un po' ripido accade mai che il piè fermo sia sempre il più basso. Nondimeno la letteratura intorno al piè fermo s'è venuta arricchendo, specialmente in questi ultimi anni, con grande sfoggio di sapienza biblica e teologica e di sottili accorgimenti enigmistici, più adatti a confondere che a convincere.
E dopo la «piaggia diserta» Dante sta per iniziare la salita vera e propria, attaccando l'«erta». Ma non ha fatto che pochi passi che gli si fa innanzi «una lonza leggiera e presta molto, che di pel maculato era coverta», e che impediva tanto la sua ascesa da indurlo più volte a tornare indietro.
A decifrare il significato di questa allegorica lonza, come quello delle altre due non meno allegoriche fiere che seguiranno, s'è discusso molto. E anzi tutto s'è discusso sulla precisa natura zoologica di questo felino, se una lince, un leopardo o altra belva del genere. Da un documento fiorentino del 1285 s'apprende che una leuncia era tenuta in gabbia presso il palazzo del comune. Peccato che il documento non la descriva meglio di quel che faccia Dante, il quale, da quell'attento osservatore che era, può darsi si sia fermato più volte ad ammirarne il vivace comportamento. Per quel che concerne il significato allegorico, suo figlio Pietro, intinto com'era di cultura classica, ferma l'attenzione sul «pel maculato» e questo aggettivo gli fa venire in mente un verso del primo libro dell'Eneide (v. 323): «Unde Virgilius... describendo Venerem ait: Succincta pharetra et maculosae tegmine lincis». Si vede che citava a memoria. In realtà Venere, che Enea incontra in abito di cacciatrice, chiede a lui e al suo compagno se mai avessero incontrato per caso qualcuna delle sue sorelle «succinctam pharetra et maculosae tegmine lyncis». È già molto che Pietro si sia ricordato di quel «maculosae lyncis», simbolo per lui di vizio carnale. Ma suo padre la sapeva in proposito molto più lunga. Egli conosceva, molto meglio del figliolo, l'Etica Nicomachea (la sua Etica), e in particolare il settimo libro, ove Aristotele tratta delle «tre disposizion che 'l ciel non vuole» (Inf., XI, 79-84). Ivi, al cap. VII (1149b 14-16; lez. 6a del commento tomistico), facendo un raffronto tra l'ira e la concupiscenza, Aristotele afferma che l'ira ha minore malizia della concupiscenza, perché l'iracondo non suol tendere insidie; il che non accade nei peccati carnali, nei quali si cela sempre una seduzione, cioè una frode; onde chiamano Venere «la dolosa Ciprigna»; e nel cinto di lei ricamato a vari colori dice Omero (Il., XIV, 214-217) che celasi «una seduzione che spesso involò il senno ad uomini molto saggi». Il cinto di Venere, nell'Iliade, parrebbe fatto di stoffa ricamata; ma nella traduzione 'latina dell'Etica da parte di Roberto Grosseteste, ormai d'uso comune, l'omerico «cinto ricamato con vari colori» era divenuto la «varia corrigia» della «dolosa Ciprigna». Corrigia è una cintura ritagliata dalla pelle maculata d'un animale qual potrebbe essere per Dante la lince, il leopardo o l'imprecisata «leuncia» da lui veduta a Firenze.
L'affermazione aristotelica che la lussuria abbia in comune con la frode il dolo, il raggiro, la parphasis omerica che Roberto ha tradotto deceptio, spiega molto bene perché il poeta, nell'atto di sciogliersi la corda di cui è cinto, per attirare dall'abisso Gerione, sozza immagine di froda, -ci faccia sapere che con la stessa corda aveva tentato, alcuna volta, di prendere la lonza alla pelle dipinta. Evidentemente la corda di cui era cinto era per Dante l'opposto della «varia corrigia dolosae ciprigenae» ritagliata nella pelle maculata e «gaetta» della lonza, nella quale, secondo Omero, si nascondono la passione amorosa, i desideri lascivi, i segreti colloqui e gl'inganni che fan perdere il senno perfino agli uomini più saggi.
Ma dopo tutto, la lussuria è, anche per Aristotele, un vizio che nasce dall'esasperazione di un bisogno naturale dell'uomo: è un nemico che è dentro di noi. 'Perciò Dante in tutto il poema ritiene questo vizio d'incontinenza men grave, per esempio, della gola e dell'avarizia; quest'ultima anzi «usa il suo soperchio» in papi e cardinali ed è vizio (a giudizio di Dante, badate) assai più sconcio della lussuria.
Sicché, sebbene Dante ci dica che questa belva gli stava sempre dinanzi agli occhi e impediva tanto il suo cammino ch'egli fu più volte sul punto di tornare indietro, tuttavia l'ora mattutina della levata del sole che dissipa i terrori notturni e la stessa dolce stagione di primavera, nella quale, secondo una bizzarra idea di poeti pagani, condivisa dai Padri della Chiesa, era stato creato il mondo, gli davano fiducia di aver ragione «di quella fera a la gaetta pelle». La fiducia gli veniva del resto dall'esempio di Enea e dal trovarsi al colmo dell'età che Enea aveva, nel quarto, quinto e sesto libro del poema virgiliano, ove si figura la gioventù, «temperata e forte», nel volere che l'appetito sia cavalcato dalla ragione, raffrenato dalla temperanza e spronato dalla fortezza (Conv., IV, xxvi, 5-9).
Ma la stessa fiducia non gl'ispira l'apparire d'un leone che gli si fa incontro con la testa alta e con rabbiosa fame. In questa seconda belva s'è vista simboleggiata la superbia. Superbia di chi? Di Dante stesso, o d'altri che s'avventasse contro di lui a sbarrargli l'ascesa al dilettoso monte? Che Dante fosse orgoglioso e superbo, Io dimostra l'episodio ov'egli rintuzza il vanto di Farinata d'aver disperso per ben due fiate i maggiori del poeta:
S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte,
- rispuosi lui – l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell'arte.
Colui che forse più d'ogni altro ha meglio analizzato l'orgoglio che Dante ha di sé, della sua arte e della sua opera, è stato Papini; ma egli riconosce che la superbia dell'animo dantesco e l'alto sentire di sé non muovono da bassi e vili interessi, né da invidia, né da rabbiosa fame. Questa rabbiosa fame ci fa pensare invece alla fame che «quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno», avrà di lui, come gli predice messer Brunetto, e che gli si volgerà contro, per dilaniarlo. Voglio dire che il leone dalla rabbiosa fame non mi pare rappresenti il vizio generico della superbia di cui fosse preso l'animo di Dante, ma la superbia e l'orgoglio in atto nella lotta tra le fazioni fiorentine avventatesi contro di lui.
E meno ancora del leone, mi pare rappresenti un vizio o una passione dell'animo del Poeta la lupa. La lupa, «carca di tutte brame ne la sua magrezza»,
ha natura si malvagia e ria
che mai non empie la bramosa voglia
e dopo il pasto ha più fame che pria.
Non v'è dubbio che essa sta a simboleggiare l'avarizia, per la sua «fame sanza fine cupa», quale era apparsa a Dante anche nel quarto trattato del Convivio (capp. xii-xiii). Ma nel Convivio non aveva fatta ancora la scoperta essenziale all'intelligenza della Commedia: l'avarizia è vizio che, pur non essendo esclusivo di «quei che non han coperchio piloso al capo», tuttavia nei chierici «usa il suo soperchio», cioè si rivela nel più alto grado, e particolarmente in «papi e cardinali», ammogliandosi ad altri vizi, quali la simonia e il nepotismo, sì che in essi l'avarizia appare davvero «carca di tutte sue brame»:
Di voi, pastor, s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista...
Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento...
E come dimenticare il luogo «là dove Cristo tutto dì si merca», e il «comperare e il vender dentro al tempio», e la beffarda allusione al fiorino fiorentino da parte di Bonifacio, che ad altro non aveva pensato se non a riempire le casse della tesoreria papale di questa pregiatissima divisa aurea la quale nel retto aveva l'immagine di S. Giovanni? - A S. Giovanni «i' ho fermo 'l disiro sì... ch'io non conosco il pescator né Polo»! - Come dimenticare, dicevo, tutto questo e i maneggi del pontefice, risaputi a Firenze, per assoggettare alla giurisdizione sovrana della Chiesa la Tuscia matildina?
La lupa è, sì, come simbolo astratto, l'avarizia; ma nella sua storica realtà s'incarna, per Dante, in Bonifacio:
ché questa bestia per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
E Bonifacio, nella sua avidità di fiorini d'oro e di dominio, tempestivamente informato da spie fiorentine di parte nera sui sentimenti di coloro che si opponevano ai suoi disegni, non tardò a prender di mira il poeta e i suoi compagni nel priorato, provvedendo a mandare a Firenze messer Cante de' Gabrieli da Gubbio con istruzioni precise, e un paciaro armato, armato soprattutto della «lancia con la qual giostrò Giuda» (Purg., XX, 73-74), e che fu per Firenze un secondo Totila (De vulg. eloq., Il, vi, 5). A tutto questo dobbiamo ripensare se vogliamo comprendere come «la bestia sanza pace», incalzandolo da presso, respingeva lo smarrito poeta «là dove 'l sol tace», nel buio della «selva selvaggia», e com'egli corresse davvero pericolo di morte temporale ed eterna.
A camparlo da questo duplice pericolo gli s'offre dinanzi agli occhi Virgilio. Nella data fittizia della visione, questa apparizione sarebbe accaduta dopo il levar del sole dell'8 aprile 1300. Ma diverse e perentorie ragioni ci obbligano a rimandare l'apparizione reale di Virgilio e la stessa visione dantesca, come ho già detto, a diversi anni dopo.
Virgilio, insieme ad Ovidio, a Lucano e a Orazio satiro, non fu mai dimenticato nelle scuole di grammatica dell'alto medioevo. A Virgilio poi era stato fatto un posto a parte, per aver preannunziato Cristo, come molti insieme a Dante credevano. Ma di vero e proprio incontro di Dante con Virgilio non si può parlare se non per il secondo libro del De vulgari eloquentia, per il quarto trattato del Convivio e per il secondo libro della Monarchia. Nel De vulgari eloqueniia Virgilio appare modello di «bello stile», e più precisamente di «stile regolato e tragico» che culmina nella cantio. Sebbene insieme a Virgilio Dante abbia ormai preso a studiare l'Ovidio maggiore, Lucano, Stazio, nonché i grandi prosatori, come Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio ed altri ancora le cui opere qualche amico con affettuosa premura aveva messo a sua disposizione, tuttavia l'idea del poema sacro dal piano e dalla tecnica stessa del De vulgari eloquentia è completamente assente. Invece Virgilio ricompare nel quarto del Convivio come maestro di vita morale per l'interpretazione allegorica dell'Eneide (Conv., IV, xxvi, 5-15) e inoltre come poeta dell'universalità ed eternità dell'Impero Romano, associato da Dio nell'ordine naturale come preparazione alla soprannaturale redenzione di Cristo (Conv., IV, iv, 11-12; v, 3-20). E quest'ultimo concetto sarà di lì a poco ampiamente sviluppato nel secondo trattato della Monarchia ove Virgilio apparirà non solo poeta, ma filosofo e verace storico dell'Impero Romano, assai più dello stesso Livio, nelle cui pagine fremevano aneliti avversi all'impero di Augusto; sino al punto che Dante concluderà il trattato con l'affermazione sbalorditiva per il teologo Guido Vernani da Rimini, che senza un Impero Romano che s'estendesse per volere di Dio a tutta la terra, Cristo, accettando di nascere sotto di esso, avrebbe persuaso agli uomini cosa ingiusta, anzi che Cristo, morendo sotto Tiberio, non avrebbe riscattato il genere umano dal peccato d'Adamo che aveva infettato tutti i suoi discendenti.
Eppure, con tutto questo, la Monarchia si concludeva con la distinzione dei duo ultima che Dio avrebbe assegnato agli uomini, uno nell'ordine· naturale, l'altro nell'ordine soprannaturale, senza alcuna giuridica subordinazione del primo al secondo, essendo fra loro incommensurabili, sì che· è parso ad alcuni, non senza qualche enfasi retorica, ma con perfetta coerenza logica (se la logica è la logica), che il Virgilio 0 della Monarchia non attenda ancora nessuna Beatrice.
Ma non eran passati molti mesi, che Dante ritornò su questa audace affermazione. E ora Virgilio viene al soccorso dello smarrito poeta, quale inviato e, nello stesso tempo, araldo di Beatrice; simbolo, sì, della ragione umana, ma di una ragione umana sottomessa alla fede; della quale è interprete Beatrice, una Beatrice che evidentemente ha suggerito a Virgilio la promessa del Veltro.
E mentre Dante, incalzato dalla vorace lupa ruina in basso loco, scorge dinanzi a sé «nel gran diserto» non sa se un uomo vivo o l'ombra d'un uomo che venga dall'altro mondo, e che forse guarda intorno a sé, senza dir parola, cercando con gli occhi colui al cui soccorso la donna celeste l'aveva mandato, «su la fiumana ove 'I mar non ha vanto»; muto come se per lungo silenzio avesse quasi perduto l'uso della parola e fosse divenuto «fioco», caro amico Pagliaro, che vedo non poco preoccupato per le sorti della tua semantica, e non so proprio perché, tanto la scena mi sembra. naturale, quasi direi ovvia. Ma all'invocazione dello smarrito, quella figura umana risponde:
Non omo, omo già fuì
e li parenti miei furon lombardi,
mantovani per patria ambedui.
E poi: «Nacqui sub Iulio... Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise...».
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte?...
Altro che fioco! Appena l'ha ravvisato per colui che cercava, gli snocciola le sue inconfondibili generalità, il suo stato civile, di mantovano e di poeta, «per cui si noma Pietola più che villa mantovana».
E Dante, meravigliato di tanta degnazione, dà sfogo all'animo commosso, pieno di riverenza, esclama:
Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar Si largo fiume?...
O degli altri poeti onore e lume,
vagliami il lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei...
Ah no, amici miei: questo Virgilio che accorre al soccorso di Dante «nel gran diserto», e dichiara con tanta precisione la sua natura di ombra venuta dal mondo della morte, ma ombra di uomo vero, di mantovano e di poeta dell'Eneide, questo Virgilio non è un'astratta allegoria, è l'anima, lo spirito immortale dell'autore del poema dell'Impero Romano, che è impero universale, del quale è diretta antitesi l'antica lupa, cioè la cupidigia scatenata nel mondo dall'invidia di Lucifero. Orbene, secondo il costante pensiero di Dante nel quarto trattato del Convivio e in tutta la Monarchia, per ricacciare la cupidigia dalla terra e ricondurvi la giustizia e la pace Dio aveva appunto suscitato l'Impero Romano. E nemmeno la lupa è puro simbolo astratto. In tutta la Commedia, colui che impersona in sé l'avarizia, l'insaziabile brama di ricchezza e di dominio, è Bonifacio; Bonifacio, l'autore della lettera del 15 maggio 1300 al vescovo e all'inquisitore di Firenze, ove s'afferma già la supremazia papale «super reges et regna» negli stessi termini delle bolle Ausculta fili del 5 dicembre 1301 e Unam sanctam del novembre 1303, entrambe dirette contro il re di Francia; Bonifacio che, negando di riconoscere come legittimo imperatore Alberto Tedesco, ai legati germanici disse, assiso sul soglio pontificio, armato, col diadema di Costantino sul capo e la destra sull'elsa della spada: «Ego sum Caesar, Ego sum Imperator», secondo riferisce la Cronaca di Francesco Pipino; Bonifacio lo usurpatore del luogo vacante di S. Pietro, sì, quel d'Alagna, l'uomo senza scrupoli, che nella sua « superba febbre» di dominio sarà da Dio detruso «là dove Simon Mago è per suo merto».
La lupa è certamente simbolo di avarizia e di cupidigia, della quale anche molti ricchi mercanti fiorentini non erano immuni, ma Dante se la vede avventare contro non nell'innocua immagine astratta dei moralisti, bensì nella persona viva di Bonifacio, in tutto il poema:
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide.
E lo stesso io direi del Veltro. Questo veltro non è il cane da pastore che custodisce il gregge cristiano contro i lupi sotto gli sguardi del «pastore angelico», come negli scritti di Gioacchino sottolineati dal Tondelli; è cane da caccia annunziato come quello che dovrà snidare la lupa «per ogni villa», dovunque s'asconda, farla «morir con doglia», liberarne la terra, respingerla nell'inferno ond'è venuta: che è appunto, per Dante, la fondamentale missione del Monarca universale.
E allora voi mi chiederete: - Chi è, insomma, questo Veltro che ha da venire? Un Papa o un Imperatore? - Che volete che vi dica? Penso che in quel momento Dante avesse accolto questa idea non perfettamente determinata dalle correnti riformatrici e specialmente del gioachimismo francescano degli spirituali e dei primi fraticelli. E già ebbi a dirlo molti anni fa. Questo spiegherebbe abbastanza il «linguaggio volutamente oscuro ed ambiguo di Virgilio», come bene osserva il Sapegno. Ma, come dicevo dianzi, l'idea del Veltro sarà stata bisbigliata all'orecchio del poeta mantovano da Beatrice, dalla quale dobbiamo attenderci qualche più precisa determinazione. Voglio dire, insomma, che anche questo motivo, che in questo preludio al poema è soltanto accennato, sarà ripreso e sviluppato con maggiore determinazione e non senza fiere minacce nell'ultimo canto del Purgatorio, coll'annuncio dell'imminente venuta d'un «messo di Dio» che «anciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque»; e di nuovo nel canto XXVII del Paradiso, e infine con la predizione dell'eterna dannazione di Clemente V, per avere ostacolato l'opera dell'Alto Arrigo «a drizzare Italia». Affermare che le speranze di Dante fossero riposte in un papa riformatore, mi pare azzardato, dopo quel che si legge del gran rifiuto fatto per viltà da Celestino nel quale avevano posto le loro speranze, poi deluse, i fautori della riforma. E del resto già nella Monarchia (II, xi, 2) Dante aveva accennato alla possibilità di una revoca della donazione di Costantino per ingratitudine di chi il dono imperiale aveva ricevuto. Ed aveva aggiunto che siccome i beni dati alla Chiesa «pro pauperibus Christi» venivano dissipati per arricchire nepoti e parenti dei grandi prelati, potevano essere giustamente ripresi dal donatore. Ed aveva esclamato: «Redeant unde venerunt: venerunt bene, redeunt male, quia bene data et male possessa sunt». Secondo questo concetto il Veltro che, annullando la donazione di Costantino, riconduce la Chiesa alla povertà evangelica, dovrebbe essere sicuramente un imperatore.
Comunque Virgilio, nella situazione nella quale Dante si trova di fronte alla lupa, poiché il Veltro dovrà, sì, venire a ricacciarla all'inferno, ma ancora non è venuto, gli consiglia, come unico scampo, il viaggio pei regni dell'eternità:
Ond’io per lo tuo me· penso e discerno
che tu mi segui. e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per luogo eterno...
Quanto al viaggio ch'egli propone, è chiaro che esso si compone di due parti distinte. La prima, da compiere sotto la guida stessa del poeta mantovano, consiste in sostanza nel ripercorrere la discesa d'Enea all'Averno fino alla reggia di Dite; e quindi nell'andata ai campi Elisi, attraverso un luogo d'espiazione accennato nell'Eneide (VI, 736-744; ma si veda in proposito il mio voi. Dal «Convivio» alla «Commedia», Roma, «Istituto Storico Ital. per il Medio Evo», 1960, pp. 122-125), sull'altissima montagna del Paradiso terrestre, ove Dante ha trasferito il virgiliano «fiume Leteo».
Per la seconda parte del viaggio, Virgilio, che ormai sta per dichiararsi a Dante messo ed araldo di Beatrice, confessa che più oltre non può condurlo. Per salire alle «beate genti» che godono della felicità soprannaturale è necessaria allo smarrito un'«anima più degna» (e non un'allegoria!) in compagnia della quale Io lascerà al suo partire:
ché quello imperador che là su regna,
perch'io fui ribellante a la sua legge,
non vuoi che 'n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e raito seggio;
oh felice colui cu' ivi elegge!
Questo doloroso sospiro salirà altre volte alle labbra del mantovano, ad esprimere il desiderio inappagato di una beatitudine più alta e solo confusamente intravista, ma per lui irraggiungibile. Non è dunque più vero, per Dante, quello che aveva scritto nel Convivio (III, xv, 10): «Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e cli certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato sapere».
Con prontezza e decisione l'alunno fiorentino, il cui animo ancor fuggiva l'orrore della «selva selvaggia e aspra e forte» nonché della famelica lupa che ve lo respingeva, con pericolo di morte temporale ed eterna, s'affretta a rispondere:
Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov'or dicesti.
Nella qual risposta pare a me di scorgere il vivo desiderio di ritorno alla donna che gli aveva ispirato le soavi rime della Vita Nuova, e che da lui era stata per molti anni dimenticata, e quello altresì di tentare una nuova esperienza, riservata solo a pochi privilegiati, da cui trarre argomento di altissima e mai osata poesia, per la felice contaminazione, senza disarmonie, dell'umanesimo virgiliano con lo spirito profetico dei canti biblici.