Dati bibliografici
Autore: Charles S. Singleton
Tratto da: La poesia della Divina Commedia
Editore: Il Mulino, Bologna
Anno: 2021
Pagine: 137-149
Negli Elementi di struttura abbiamo distinto, da un punto di vista generale, due elementi della struttura del poema: allegoria e simbolismo. Si può approfondire ulteriormente tale distinzione e meglio metterne in evidenza l'utilità, mediante un esame ben più dettagliato di ciascuna di queste due dimensioni della Commedia. Il presente lavoro offrirà in primo luogo un più attento studio dell'allegoria, aspetto della grande opera che può senza dubbio pretendere alla priorità: basti considerare, intanto, come sarebbe diverso il poema se non fosse prima di tutto una narrazione, il racconto di un viaggio. Solo che ad esso si tolga questa parte, e l'intera struttura andrà in pezzi. Tutto è «infilato» sulla linea di un viaggio - anche l'altra dimensione del simbolismo contenuto nelle cose vedute. È infatti essenziale al simbolismo che le cose significhino anche qualcos'altro, che siano cose e segni al tempo stesso. Ma se lungo i cento canti del poema si vedesse che le «cose» additano «oltre» e tuttavia nulla susseguisse ad ubbidire e ad agire secondo i loro segni, quel loro «additare» resterebbe un vano gesticolare senza effetto visibile. I segni non avrebbero alcuno scopo da realizzare. Non troverebbero rispondenza in nessun cuore inquieto, ardente di desiderio per la meta (come essi continuano ad affermare con tanta eloquenza). Il viaggio del poema è il viaggio del cuore inquieto e la sua presenza nella struttura costituisce davvero l'organo vitale dell'opera.
I segni visibili nelle cose sono destinati a coloro che sono ancora sul cammino di questa vita e procedono verso la naturale meta di esso - che è sempre una meta posta nell'aldilà. Essi servono da segnali indicatori per i vivi, e l'eccezionale viaggio di Dante nell'aldilà, attraverso i regni dell'oltretomba, è pur sempre il viaggio di un uomo che si trova ancora nel «cammin di nostra vita». Solo così il viaggio può sussistere nel suo duplice aspetto: là, un viaggio attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso; qui, un viaggio che è un avvenimento di questa «nostra vita».
Come ciò possa avvenire nel poema, s'è già visto . L'evento letterale del viaggio di Dante nell'aldilà richiama alla mente l'evento di una specie di viaggio in terra. Ecco allora che, al modo stesso delle cose, anche il viaggio letterale addita qualcos'altro. Ma con una differenza: le cose che si vedono nel viaggio, nell'aldilà puntano coi loro segni verso l'alto, verso Colui che giudica e premia o castiga; mentre l'anelare di Dante, il viaggio come tale, punta indietro al cammino «di nostra vita» e al viaggio che vi si compie.
La direzione di questo doppio viaggio, una volta avviato, è quella in cui puntano tutti i segni. E un duplice itinerarium ad Deum. Il viaggio letterale raggiunge chiaramente la meta, e la raggiunge anche il viaggio riflesso che segue il primo, quasi ne fosse l'ombra e l'immagine specchiata. Essi, però restano inequivocabilmente distinti quanto al tempo e allo spazio. E sono il tempo e lo spazio del viaggio allegorico che richiedono un'analisi particolare. Diciamo infatti che questo viaggio avviene qui, in questa vita, che qui è il suo cammino: ma dove? E diciamo anche che si svolge ora: ma come ora? Sono interrogativi, questi, che pan sorgono a proposito del viaggio letterale. Mai poema ha con più esattezza situato o più concretamente allestito la vasta scena in cui si sviluppa la sua azione, né mai vi è stato poema più attento nel comunicare la propria cronologia. In senso letterale, è l'anno 1300, la Settimana Santa, e, via via che procediamo nel cammino, siamo informati anche sull’ora del giorno o della notte.
Quanto al tempo e allo spazio del viaggio riflesso, è facile avvedersi che non è possibile determinarli con precisione. Al tempo di Dante, il suo nome corrente era itinerarium mentis ad Deum . Ma se questo è un viaggio «della mente», di quale mente penseremo si tratti? Solo una risposta è possibile: della mente di «chiunque». Tracciamo di nuovo il quadro della duplice situazione. Nel viaggio letterale il protagonista è determinato: possiamo dire chi sia. È Dante, fiorentino «natione, non moribus». L'immagine corrispondente, la figura-ombra dell'allegoria, non ha invece un'identità determinata. È semplicemente «chiunque»: chiunque, cioè, scelga (e venga scelto, per grazia di Dio) di procedere sul cammino della mente che conduce a Lui in questa vita. Nell'allegoria, il viandante è qualsiasi cristiano: è l'homo viator; ma, a rigor di termini, non è Ogni Uomo (Everyman). È piuttosto «Qualsiasi Uomo» (Whicheverman): chiunque, cioè, possa esser scelto per questo viaggio a Dio, mentre vive ancora in questo mondo, dove tutti, volenti o nolenti, siamo viandanti.
Sarà questo un andare della mente e del cuore, giacché solo così possiamo muoverci verso Dio, mentre dimoriamo ancora tra i vivi. Che tale viaggio hic et nunc sia una possibilità aperta a tutti, resta il postulato fondamentale e, per Dante, la dottrina su cui egli può costruire l’allegoria della Commedia.
Se il protagonista del viaggio riflesso è «chiunque», il tempo corrispondente sarà allora «quandunque». Molti hanno interpretato questo itinerarium mentis in passato, molti continueranno ad intraprenderlo fino alla fine dei tempi. Dobbiamo ritenere che esso abbia luogo anche ora nel cuore di molti Cristiani. Il tempo del viaggio allegorico è quindi indifferentemente passato, presente, o futuro, il che significa che si tratta di un «quandunque». Se a questo proposito pensiamo di nuovo al viaggio letterale, di nuovo noteremo la differenza tra esso e l’allegorico. Protagonista e luogo dell'azione non potrebbero essere determinati più esattamente nell'uno e meno di così nell'altro; e quanto al tempo, certo non penseremo che il viaggio letterale abbia avuto luogo più di una volta o che forse si ripeterà. L’itinerarium mentis, invece, è un evento che, nel corso del tempo, continua a ripetersi nel cuore dei Cristiani.
Certo, attraversando il Purgatorio, Dante fa più volte parola della sua speranza di rifare quel cammino . Ma è chiaro che un eventuale ritorno da parte sua sarà necessariamente affatto diverso dal viaggio rappresentato dal poema. Tornando a questo luogo, né Virgilio lo guiderà, né Beatrice gli verrà incontro sulla vetta del monte. Il nuovo passaggio attraverso il Purgatorio, se avverrà, sarà nella dimensione dello «status animarum post mortem» e non sarà allegorico.
Questi punti concernenti la precisa natura dell’allegoria dantesca nella Commedia, sono abbastanza chiari, e ne abbiamo trattato ampiamente altrove : del senso in cui il viaggio a Dio sia non un solo viaggio ma due, come pure del fatto, più profondamente significativo, che l'allegoria principale del poema è, sotto questo aspetto, un’imitazione dell'allegoria scritturale in uno dei suoi sensi. Questi sensi sono quattro: primo di essi il letterale, che è quello storico. Le parole del Salmo, parlando dell'Esodo, indicano un avvenimento della storia, il quale a sua volta, può considerarsi avente significato in altri tre sensi, di cui uno è il senso «morale». Secondo il famoso distico , è questo il senso indicante «quid agas», che cosa debba fare il Cristiano. Cosi, la fuga dei figli di Israele dall'Egitto, in questo particolare senso, significa «conversionem animae de luctu et miseria peccati ad statum gratiae», come scriveva lo stesso Dante nell’Epistola a Can Grande .
Dunque, l'allegoria principale del poema è, del senso morale dell'allegoria della Scrittura, imitazione molto più fedele di quanto sembri a prima vista. Non solo l'evento letterale della Commedia ricorda di per sé un Esodo, ma l'evento che nel poema è significato dal senso letterale trova un'esatta denotazione nella definizione che Dante dà del senso morale della Scrittura. L'itinerarium mentis, l'altro senso da rinvenire nel viaggio letterale attraverso l'oltretomba, non potrebbe avere definizione migliore cli questa: «conversio animae de luctu et miseria peccati ad statum gratiae». È proprio questo, espresso nelle sue linee più generali, l’argomento dell'allegoria principale della Commedia: questo è l'evento che il presente studio dovrà ora analizzare nelle sue più ampie implicazioni.
Quello della «conversione», dobbiamo rendercene conto, è un concetto-chiave per tutto il viaggio allegorico, poiché lo divide in tre tappe o fasi . Incidentalmente, possiamo anche osservare che l'imitazione dantesca dell'allegoria morale della Scrittura ha un’esatta corrispondenza col suo modello per tempo, luogo e protagonista. Infatti, se il precetto che s'accompagna al senso morale della Scrittura è «quid agas», «che cosa devi fare», allora questo senso dovrà rivolgersi ai vivi, indicando un’azione possibile in questa vita. In altre parole è morale un significato ravvisabile da tutti coloro cui può accadere di trovarsi in una selva oscura ed amara di peccato; che per grazia di Dio possono ricevere il privilegio di volgersi, nella luce del giorno nascente, verso un monte sul cui vertice, conseguendo giustizia e grazia, si riuniranno a Dio; e che, da quella prima vetta, possono ricevere l'ulteriore privilegio di salire al vertice più alto della grazia perfetta e della beatitudine finale, pur essendo ancora in questa vita. E allo stesso modo del senso morale di conversione espresso nell'Esodo, anche il senso morale della Commedia lascia del tutto indeterminati tempo e persona. Nella loro allegoria, tanto il modello che la copia sono in termini di «quandunque» e di «chiunque». Quanto al luogo dell’azione (cioè, di questa conversione), esso è l’anima: mens.
Peraltro, nonostante la caratteristica di lasciare indeterminati tali aspetti, la conversione dell'anima dal peccato alla grazia non era priva, al tempo di Dante, di una precisa determinazione dottrinale circa le modalità e la forma del suo evento. Ogniqualvolta avesse luogo, la conversione seguiva normalmente uno schema riconoscibile, per gradi e tappe al suo compimento. Rintracciare questo schema quale era fissato nella teologia dell'epoca di Dante, diventa allora lo scopo dei capitoli che seguono. Qui dobbiamo renderci conto di un principio che ha validità generale nella Commedia: il poeta non ha inventato la dottrina. La forma del poema è determinata dalla verità che esso deve contenere e rivelare nella sua struttura, e tale verità non è frutto originale della mente del poeta. Dante vede da poeta, e da poeta realizza, quello che è già concettualmente elaborato e fissato nella dottrina cristiana.
AI suo tempo, ormai, secoli di meditazione avevano determinato quale avrebbe dovuto essere nella sua essenza il percorso di un viaggio a Dio, che si compia nell'anima e in questa vita. Non è il poeta che formula tale concezione: egli vi aderisce, piuttosto, perché è qualcosa di così saldamente fissato al fondo della mente del suo lettore, che, senza dubbio alcuno, egli – come poeta potrà farvi appello; in tal modo, dallo svolgimento del viaggio letterale attraverso la vita dell'oltretomba, può gradatamente emergere la figura familiare del viaggio dell'anima. L'allegoria di Dante, quindi, si attua sempre nei modi di un'evocazione: richiama alla mente ciò che è familiare. Il lettore ha la sensazione di star riconoscendo qualcosa che gli era già noto, fintantoché tutto uno schema di significato non abbia preso completamente forma. E ciò intende essere parte non piccola del piacere che può arrecare la poesia.
È chiaro che per noi la difficoltà consiste proprio in questo. La figura dell'itinerarium mentis ad Deum, un tempo così familiare, ora lo è molto meno. Certamente, nessun poeta ai nostri giorni potrebbe valersene, come Dante fece con tanta fiducia allora. Ora lo schema va innanzi tutto ristabilito nella mente del lettore, e reso riconoscibile come cosa pubblica e chiaramente definita, come verità di cui è partecipe la generalità dei Cristiani. Soltanto allora potrà essere evocato nei modi dell'allegoria.
Senza dubbio, alcuni lettori del poema diranno che i nostri sforzi di restaurazione non valgono quello che costano. Ci verranno a dire che, per quanto ci si adoperi, non potremo trasformarci in «lettori del tempo di Dante». Il che è innegabilmente vero; senza dubbio, ci sarà sempre una considerevole differenza tra possedere un certo grado di familiarità con un corpo di dottrine quasi per retaggio naturale o, invece, in virtù di uno sforzo deliberatamente compiuto per recuperarlo e restaurarlo nella nostra mente. Tuttavia, concessa questa scoraggiante differenza, che altro possiamo fare? Le verità che il poeta costruiva entro il suo poema gli sembravano verità permanenti. Se la realtà si è rivelata diversa, non è colpa del poeta, né del poema; anzi, non è neppure il caso di parlare di colpa. Noi dobbiamo semplicemente prendere atto di ciò che è successo: il cuore inquieto del pellegrino cristiano si è acquietato, e il concetto stesso di un viaggio della mente e del cuore verso Dio in questa vita, richiede ora uno sforzo di immaginazione storica tale che avrebbe costituito un vero scandalo per la mentalità medievale.
Potranno esserci altri lettori, tuttavia, che per leggere il poema nel modo in cui esso esige d'esser letto, saranno disposti a compiere lo sforzo di ristabilire al fondo della loro mente ciò che la mentalità medievale accoglieva senza esitazioni: l'ampio e indubitabile disegno di una possibilità offerta all'uomo ora, nel grande dramma di salvazione che è la vita di quaggiù. Questa possibilità consiste in un itinerarium mentis ad Deum, in quanto evento reale che ha luogo nella vita di qualcuno: una conversione dal dolore e dalla miseria del peccato allo stato di grazia, come avvenimento reale dell'anima - e, per questo poeta medievale, qualcosa che può prendere vita nello specchio dell'allegoria.
Itinerarium mentis: «mente» non traduce bene il termine latino «mens». «Anima» va meglio, o anche «mente e cuore», in quanto il cuore vi è certamente implicato. S. Agostino avrebbe infatti insistito nell'affermare che in questo caso il cuore ha il primo posto, e che un viaggio del genere è soprattutto un viaggio d'amore . E sulle tracce di S. Agostino, una tradizione lunga e vigorosa mantenne viva tale istanza fino al tempo di Dante. S. Tommaso d'Aquino, benché incline a porre l'accento sulla mente piuttosto che sul cuore , tuttavia, ogniqualvolta si trovi a scrivere di quell'amore che è carità, e della parte di quest'ultima nella vita di ogni pellegrino cristiano che intraprende il viaggio a Dio, riconosce debitamente l’importanza che S. Agostino aveva annesso alla parte affettiva, quale elemento principale:
Charitas viae potest augeri. Ex hoc enim dicimur esse viatores quod in Deum tendimus, qui est ultimus finis nostrae beatitudinis. In hac autem via tanto magis procedimus, quanto Deo magis propinquamus; cui non appropinquatur passibus corporis, sed affectibus mentis. Hanc autem propinquitatem facit charitas, quia per ipsam mens Deo unitur. Et ideo de ratione charitatis viae est ut possit augeri; si enim non posset augeri, iam cessaret viae processus .
S. Tommaso insiste però nell'affermare che l'anima realizza l'unione con Dio non mediante il solo amore, che è un'operazione della volontà, ma anche mediante l’intelletto. Le due facoltà funzionano inseparabilmente e simultaneamente in vista del fine a loro proprio, che è Dio: «anima conjungitur Deo per intellectum et affectum» . Né tale opinione appartiene al solo S. Tommaso: la condividono necessariamente tutti coloro che su tali argomenti ragionano in questi termini, poiché la verità comunemente riconosciuta è che l'anima razionale o intellettiva (la parte immortale della creatura umana, cioè) è interamente formata da queste due facoltà: intelletto e volontà. L'intelletto «vede» o conosce, la volontà ama; oggetto dell'uno è la verità, dell'altra il bene. Le due facoltà cooperano nei loro moti, in quanto la funzione dell'intelletto è di discernere il suo oggetto e di presentarlo alla volontà, affinché quest'ultima si metta in moto per conseguire l'oggetto percepito sotto forma di bene. Ecco il motivo per cui S. Tommaso ed altri insistono sulla priorità dell'intelletto nei moti dell'anima razionale. La volontà può mettersi in azione soltanto verso un oggetto presentatole dall’intelletto. Senza la facoltà discernente dell'intelletto, l'amore nell'anima è veramente cieco .
Specialmente i lettori del Paradiso sanno quanto spesso il poeta abbia fermato l'attenzione sull'ordine esistente: nelle operazioni delle due facoltà . Più di una volta, come ad esempio nei versi che seguono, Dante asserisce la priorità dell'intelletto in vista della felicità ultima, la Visione Beatifica. Ecco allora Dante, ben in alto nel Paradiso, apprendere da Beatrice sul conto degli angeli, ciò che vale anche per i santi: la beatitudine consiste in primo luogo nell'atto della visione (vale a dire, dell'intelletto), e non nell'atto di amore che alla visione «poscia seconda»:
E dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l'esser beato ne l'atto che vede,
non in quel ch'ama, che poscia seconda.
(Paradiso, XXVIII, 106-111)
Le parole di Beatrice sulla priorità dell'intelletto si accordano con la dottrina di S. Tommaso, e, proprio a causa di tale suo insistere, gli studiosi di teologia sono indotti, per l'Aquinate, a parlare di «intellettualismo» . Sia il teologo che il poeta si rendono ben conto del fatto che alla fine è la volontà a muoversi verso il possesso dell'oggetto percepito, completando così l'atto nella sua totalità. Certo, si capisce come, nel caso di una azione morale, la volontà sia la cosa più importante. La giustizia (o rettitudine interiore) dell'anima è in primo luogo una questione di condizione ed orientamento della volontà, e soprattutto alla volontà appartengono le virtù che di quella rettitudine sono parte integrante . Tuttavia la meta di qualsiasi viaggio morale deve essere un bene percepito, e a percepirlo è l'intelletto, non la volontà.
Insomma, le due facoltà dell'anima razionale sono coordinate nelle loro rispettive operazioni. L'una ha una funzione complementare all'altra, e insieme formano un atto totale. Invero esse sono intimamente congiunte nei loro moti che, se parlami di esse come di due piuttosto che di un’unica facoltà, è soltanto perché siamo costretti a pensarle come facoltà separate e distinte l'una dall'altra - o, come ci insegna s. Tommaso:
Movetur autem mens in Deum et per intellectum et per affectum, et hi duo motus mentis simul esse possunt, quamvis non simul cogitari possint: quia unus est regula alterius, et per actum intellectus praesentatur suum objectum voluntati, quia objectus ejus est bonum imaginatum vel intellectum, ut Philosophus dicit .
È chiaro che per comprendere qualsiasi viaggio della mente verso Dio dovremo stare ben attenti ai motti dell'anima, in quanto essi riguardano entrambe le facoltà.
In un viaggio come quello che Dante ha rappresentato in allegoria, la prima meta, quella conseguita sotto la guida di Virgilio, viene annunciata in termini che fanno riferimento alla volontà e alle sue condizioni. Sono infatti queste le parole con cui Virgilio congeda Dante, dopo averlo condotto fin dove è in grado di condurlo:
Libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno.
(Purgatorio, XXVII, 140-141)
Qui entrambe le facoltà sono tenute ben in vista. L'arbitrio sarà la volontà, ma il senno della volontà, la parte che discerne, sarà la ragione o intelletto.
Se la meta a cui conduce Virgilio, in questo viaggio dell'anima, è essenzialmente una condizione di rettitudine della volontà, allora la meta più alta a cui a sua volta conduce Beatrice, è una meta in cui l'intelletto ha un valore primario, proprio come le abbiamo sentito dire a proposito degli angeli, che a tale meta sono eternamente presenti: «si fonda l'esser beato ne l'atto che vede». Per cui, anche solo da un rapido sguardo a questo argomento, avvertiamo la necessità di renderci tonto di quali siano le facoltà implicate, quale è la facoltà che si muove, quando si tratti di un moto verso Dio. Le stesse mete del viaggio, siano le intermedie o la finale, devono essere (e sono) espresse in termini di volontà ed intelletto, funzioni coordinate e cooperanti dell'anima razionale nella totalità dei suoi moti.
Nel viaggio a Dio, secondo la rappresentazione di Dante, si hanno tre guide: Virgilio, Beatrice, S. Bernardo. Per quest'ultimo intervengono considerazioni particolari, in quanto pur essendo sotto ogni riguardo una «guida», la sua funzione è in realtà del tutto diversa da quella di Virgilio e di Beatrice. Ma, fatte le debite concessioni alle differenze, riusciamo certamente a comprendere: che questo trio di «guide» rappresenta la realizzazione di uno schema, ai un viaggio concepito come moto per mezzo di tre «luci», e la luce, si sa, appartiene all'intelletto; e inoltre, che bisogna ammettere anche l'esistenza di uno schema complementare di un moto riguardante la volontà, composto di tre fasi, le quali si possono meglio scorgere e capire come tre «conversioni».
Il nostro primo compito sarà perciò quello di distinguere in questo viaggio dell'anima a Dio, due schemi o paradigmi fondamentali. Essi sono due per i motivi indicati, e cioè, che due sono le facoltà interessate: intelletto e volontà. Solo se scorgiamo questi ampi schemi, potremo poi riconoscere quelli che ad essi sono subordinati come parti del tutto e vedere come questi temi dottrinali si rendano manifesti nella concreta sostanza del poema.
Il presente volume di studi si occupa principalmente del settore di viaggio che si estende fino alla prima meta, che, alla fine del Purgatorio, risulterà essere Beatrice stessa. Quando, raggiunto quel punto, ella succede nella guida a Virgilio, sono entrate in azione solo due delle tre luci e due delle tre conversioni degli schemi fondamentali. Tuttavia qualsiasi tentativo di comprendere il viaggio fino alla sua prima meta, isolandolo dallo schema complessivo delle tre luci e delle tre conversioni che si estende per tutto il percorso fino al termine che è Dio, è condannato alla sterilità e a mancare la vera comprensione del poema.