Dati bibliografici
Autore: Monica Cerroni
Tratto da: «Li versi strani». Forme dell'allegoria nella Commedia di Dante
Editore: ETS, Pisa
Anno: 2003
Pagine: 11-38
L'allegoria è l'operazione retorica che conferisce a un'espressione linguistica (littera), oltre al significato palese (sensus, o senso letterale), un senso nascosto, più profondo, spesso di ordine più generale (sententia. o sovrasenso). In letteratura, tale operazione è compiuta dall'autore che destina il messaggio allegorico a un lettore ideale, incaricato di decodificarlo, di coglierne, cioè, tutto il senso riposto: la scrittura allegorica implica, perciò, una lettura allegorica. Giacché in un'opera letteraria che ricorre all’allegoria non tutto è allegorico, non sempre è necessario postulare un senso nascosto; occorre considerare quali siano gli elementi costitutivi dell'allegoria di quella data opera e quale senso ulteriore intendano comunicare.
Per la sua oggettiva complessità, l'allegoria della Commedia si può ben definire il problema connaturato alla critica dantesca , che a partire dai primi commentatori ricorre, per affrontarlo, a una varietà di orientamenti, metodi e scopi, tale da rendere impraticabile l'individuazione di qualche coordinata di massima. La vastità del campo di ricerca potrebbe ormai incoraggiare, piuttosto che nuovi ampliamenti, la stesura di una storia delle ipotesi attorno all'allegorismo dantesco, alle sue forme, ai contenuti, alle fonti. L'interesse pressoché costante per l'allegoria è tanto più significativo in considerazione di un indubbio paradosso: se il poema appare immerso nella cultura dell'allegoria, le dichiarazioni in merito da parte di Dante sono scarse e lacunose, tanto che non possiamo neppure ipotizzare cosa egli effettivamente intendesse per allegoria. Se dovessimo attenerci a questi frammenti di poetica o arrestarci di fronte agli sterminati tentati vi di riso I verne l'enigma, saremmo costretti, nel migliore dei casi, alla tautologia, nel peggiore, al silenzio.
La presente ricerca vuole tentare una terza via, che si dipani fra i sentieri della tradizione letteraria, retorica ed esegetica medievale, guardando alle prospettive aperte, nel corso del '900, dagli studi sul pensiero simbolico e allegorico del medioevo non solo dantesco. Il criterio non sembri viziato da ibridismo. L'illusorietà di esumare integra l'idea del mondo da cui scaturì l'allegoria non deve persuadere alla rinuncia, cui inevitabilmente porterebbe ogni ulteriore tentativo di consegnare l'allegoria del poema alle frammentarie dichiarazioni dantesche. Ma quella stessa consapevolezza di illusorietà non deve neppure sostituirsi al rigore, si direbbe filologico, di un più realistico restauro, che oggi appare meno remoto, grazie al patrimonio di studi che è andato arricchendosi intorno alla nascita dell'allegoria come fenomeno tipico di un'intera epoca, attorno alla necessità storica del suo divenire forma del conoscere e del rappresentare.
Nella vastità delle interpretazioni e delle analisi concentrate sulla Commedia appare rimasta in ombra la compagine formale, e specialmente retorica , dell'allegoria, dal punto di vista del suo indiscutibile costituirsi a struttura: tessuto dell'immaginario e interpretazione del nesso tra immagine e significato. La Commedia, per entrambi questi aspetti, non è che l'ultimo e più complesso scenario allegorico, dietro il quale si affollano secoli di opere esegetiche e letterarie, che sono le preziose testimonianze dei contenuti ideali e religiosi dell'epoca tardoantica e medievale, ma anche gli effetti della crescente potenzialità comunicativa e persuasiva dell'allegoria. Di questo patrimonio, quale ne fosse la consapevolezza in Dante, l'allegoria della Commedia lascia trapelare i sedimenti, tanto dalle figure e dai procedimenti narrativi del suo immaginario, quanto dalle scelte formali.
L'interpretazione dei singoli segmenti che si congiungono a formare l'unitaria rappresentazione allegorica del viaggio tra i morti appare un lavoro di mosaico, paziente e inesauribile, già ricchissimo di ampi scenari come di dettagli, collocato per giunta nel quadro di documentate elaborazioni teoriche e filosofiche. Lasciar trasparire l'intelaiatura di quella rappresentazione appare compito di un'analisi retorico-formale. Le strategie di allusione ad altri livelli di senso innervano tutto il poema, scelgono il lettore implicito, lo guidano attraverso le scoperte e gli incontri. Di questi procedimenti testuali e di questo patto con il lettore intende principalmente occuparsi l'analisi retorica qui proposta.
L'efficacia comunicati va e persuasi va dell'allegoria si misura, nel medioevo, con l'eredità pagana e con due distinte condizioni culturali: la conoscenza del mondo secondo il modello cristiano e l'attivazione di un nuovo universo mitico. La tradizione allegorica fiorita tra IV e XIV secolo, infatti, è disseminata di opere esegetiche che leggono il mondo attraverso i testi sacri e i testi pagani e di opere letterarie che propongono nuovi miti o ne riattivano di tramontati. L'allegoria interpretativa, o allegoresi, e l'allegoria creativa sono dunque i prodotti di una stessa storia e di uno stesso processo culturale. La Commedia fiorì sull'innesto di questi due rami principali, secondo l'esempio della grande tradizione dei poemi allegorico-scientifici mediolatini: la Cosmographia di Bernardo Silvestre, il De Planctu Naturae e l’Anticlaudianus di Alano di Lilla furono senza dubbio tra le fonti primarie dell'allegoria dantesca , particolarmente in virtù dell'ideazione di un immaginario al tempo stesso persuasivo e argomentativo, produttore di miti e interprete veridico del mondo.
La ricerca dei legami tra queste distinte modalità conoscitive, che anima la scoperta dei tipi allegorici della Commedia, consente di impostare in modo nuovo l'antico dilemma che vedeva contrapporsi l'allegoria dei teologi all'allegoria dei poeti. La resistenza dello schema binario all'usura dei secoli e la considerazione pressoché universale da parte della dantistica si devono, e certo non senza fondamento, alla teoria esposta dallo stesso Dante. Inaugurando l'operazione poetica e insieme esegetica del Convivio, egli distingue l'allegoria dei teologi, scaturita dalla verità della littera (historia), dall'allegoria dei poeti, intessuta di belle menzogne, cui il trattato viene ascritto, come si ricorderà, senza restrizioni (Cv., II, i, 2-4) . Il passo, ancorché lacunoso, è l'unica dichiarazione di poetica allegorica sicuramente dantesca - se si esclude -cioè l'epistola a Cangrande - che possediamo, e presenta la questione in termini tanto generali da averne suggerito l'estensione anche al poema. Qui, però, l'allegoria diviene più sistematica e anche più ambigua rispetto al trattato giovanile: la paradigmaticità del viaggio non è proposta al lettore con la forza dell'allusione o della fictio, ma con quella dell'exemplum e della veridicità, mentre il viaggio in corpore, nella sua inverosimiglianza, non può che rappresentare un itinerario spirituale, un cammino tutto interiore. Certo è che Dante iscrive la Commedia nella storia della salvezza e dunque non può non comunicare una verità.
La questione se il viaggio appartenga alle belle menzogne dei poeti, sia pure dei moderni poeti cristiani, ovvero alla verità dei teologi, ha condotto a risposte tanto persuasive quanto antitetiche, ciascuna fondata su una logica connessione delle prove, testuali e culturali, per molti versi ineccepibile. Trovare una collocazione sicura della Commedia nello schema proposto da Dante nel Convivio, ed esplicitamente solo per il Convivio, è tuttavia, se non addirittura fuorviante, senz'altro meno pertinente di quanto sembri . Inoltre, lo schema riserva non poche sorprese, quando si considerino le osservazioni di Boccaccio, che gettano luce sulla vivacità del dibattito attorno al vero poetico.
Per difendere i poeti dall'accusa d'esser mentitori, Boccaccio ripercorre la storia a ritroso. I poeti greci nascosero sotto il «fabuloso velame» addirittura la verità divina, che volevano difendere dagli sguardi indiscreti del popolo; quel fabuloso velame era quindi una veste misteriosa, allusiva e profetica e i poeti pagani non mentivano affatto. La questione della verità o della menzogna della littera viene da Boccaccio così definitivamente liquidata. Ma egli si spinge ancora oltre: se a noi sembra che quegli antichi poeti abbiano mentito, ciò è dovuto non alla loro intenzione di mentire, ma al fatto che la verità in cui credevano è stata poi smentita dalla verità cristiana. Non solo gli antichi poeti non fingevano, dunque, ma mascheravano sotto la bella veste allusiva l'unica verità ch'erano in grado di conoscere prima della Rivelazione; ai poeti cristiani, infine, spetta il compito di comunicare sotto il fabuloso velame la verità rivelata . Se ne può dedurre che i poeti cristiani avessero ancor meno diritto di inventare menzogne per nascondere quella preziosa verità, e che fossero, piuttosto, indotti a immaginare una forma retoricamente ornata, in grado di persuadere ad accogliere il messaggio cristiano anche i lettori meno avveduti. Qui potrebbero concentrarsi la forza veridica e la natura retorica e persuasiva dell'allegoria dantesca. Di fatto, le riflessioni di Boccaccio, accantonato il binomio menzogna/verità, si concentrano attorno alla qualità del vero e ai modi poetici per esprimerlo.
Secondo Barariski, il metodo biblico viene adottato da Dante nel poema per «sancire la verità del suo racconto» , mentre inusitata appare l'indagine su quale sia questa verità, giacché non di un solo tipo si poteva disporre approntando un poema filosofico, e da molti secoli. La questione allegoria dei teologi/allegoria dei poeti può essere riformulata in modo più proficuo, se si considera la comunicazione del vero come suo fondamento. Risolutiva, in questo senso, si profila la combinazione nell'allegoria del vero inteso come corrispondenza a stati di cose e del vero inteso come partecipazione, che afferiscono, rispettivamente, al pensiero logico e al pensiero mitico . L'interesse teorico per l'allegoria medievale si sostanzia di una ricerca per così dire archeologica, sulle tracce di quanto rimane, fossilizzato o ancora vivo, delle espressioni di quel conoscere e di quel sapere. Viene così alla luce che, nel poema, la creazione di un oltremondo come paradigma del mondo presuppone l'adesione emotiva a un racconto e insieme implica, perché ne sia potenziata l'efficacia, l'intenzione di proporre non tanto un mondo possibile, che ci aspetteremmo come lettori moderni, quanto uno stato di cose reale e dotato di senso.
Nel medioevo, spetta all’allegoria farsi interprete di questo bisogno di pienezza ma anche di esattezza: riattivando antichi miti e forgiandone di nuovi, come Natura nei poemi di Chartres, l'allegoria produce l'effetto di una partecipazione emotiva, mentre con lo sviluppo dell'allegoresi sorge un'interpretazione del mondo (anche solo testuale) che chiede d'essere verificata. L'allegoria medievale porta a compimento il processo di separazione tra il pensiero logico e il pensiero mitico, tra il mythos e il logos, e tra i loro tipi di vero; ed è anzi proprio qui il cuore della sua crescente vitalità.
A voler fissare delle definizioni che si presuppongono reciprocamente, il mythos va inteso come il racconto che si fonda sulla verità intesa come partecipazione (una verità che è intrinseca alla coscienza e all'esperienza individuale), essendo il logos quel discorso razionale che cerca una verità fondata sull'oggettività e che scaturisce dalla separazione tra concreto-individuale e astratto-universale. L'allegoria medievale appare come uno degli esiti più coerenti del processo di separazione tra queste forme del conoscere , e insieme come la loro riconciliazione in chiave letteraria: essa comunica un messaggio universale attraverso un immaginario popolato e animato da personaggi, situazioni, luoghi ritratti in senso individuale. La forza espressiva dell'allegoria si misura proprio in rapporto alla tensione tra questi due suoi nuclei vitali: tanto più un componente dell'immaginario sa comunicare un senso generale e astratto, tanto maggiore è l'efficacia dell'allegoria. Come vedremo, lo studio diacronico delle forme allegoriche rivela che esse hanno avuto un processo evolutivo: dalla schematica illustrazione di concetti astratti, gradualmente si passa a complesse rappresentazioni, la cui littera si fa sempre più autonoma dal sovrasenso. La mirabile molteplicità degli espedienti allegorici nella Commedia è appunto il prodotto di una tale evoluzione.
Jauss ha dimostrato che l'origine della poesia allegorica va ascritta alla progressiva autonomia dall'esegesi biblica, più precisamente, l'allegoria volgare si svilupperebbe dall'historia della Bibbia . Per un altro verso, ha inoltre proposto un parallelo tra allegoria e mito: l'allegoria è un enigma a soluzione certa, per accedere alla quale è indispensabile una chiave; chi non la possiede, ed è perciò relegato nella littera, percepisce il senso nascosto con la forza che promana dal mito di un mondo misterioso e oscuro; può accadere perciò che, attraverso l'allegoria, il poeta medievale ricrei l'atmosfera emotiva e cognitiva della sospensione, che era propria del mito . Necessario al processo di nascita dell'allegoria, dunque, è l'accesso del mito al dominio della letteratura; contemporaneamente, s'impone il riuso della verità del mythos. L'allegoria medievale eredita da questa forma del conoscere sia il potenziale paradigmatico, sia la ricerca di un modello del mondo, che, nel corso dello sviluppo delle letterature volgari, acquisisce un suo particolare ambito di vero. In questo senso si può parlare di una progressiva autonomia della littera delle grandi opere allegoriche: si tratta di un processo che giungerà a compimento con la Commedia.
La questione mythos/logos, nella sua complessità, è nota; nondimeno, ripercorreremo in breve alcuni suoi momenti fondanti, al solo scopo di cogliere lo spessore storico dei riflessi in ambito allegorico. Il fatto che nel mito si sia imposta, nello spettro delle verità che era in grado di comunicare, la verità partecipata si deve al progressivo depotenziamento del suo valore sapienziale, da cui si sviluppò, in epoca classica, una filosofia autonoma dal sapere. Da qui derivò tanto la ricerca della spiegazione del mondo nel mondo stesso, quanto la distinzione tra mitologema (racconto) e sua interpretazione: se il mito non fu più in grado di dar senso alla realtà, la verità con cui si presentò alla coscienza dovette necessariamente occupare un ambito diverso, mentre il racconto si assicurò un'interpretazione coerente con il nuovo assetto culturale. Al mito non restò che proporre un modello del mondo e un paradigma d'ordine soprattutto morale, una verità che richiedesse la partecipazione emotiva, più che la verifica nella realtà posta fuori della coscienza.
Se questo è il quadro generale dal quale affiora la vitalità culturale dell' allegoria medievale come risposta alle sollecitazioni del mythos e del logos, da un punto di vista storico-letterario, la Commedia proviene da un altro lungo percorso, avviato dai poemi allegorici come la Psychomachia di Prudenzio: l'allegoria di questi poemi, scaturita dall'esegesi biblica, era infine approdata all' allegoresi universale dei poemi di matrice neoplatonica e alle forme letterarie mature del Roman de la Rose, nei quali convergeva anche una tecnica interpretativa ormai molto raffinata.
Cronologicamente le due forme allegoriche sono definibili con approssimazione. Mentre per l'allegoresi possediamo una data d'inizio - al VI secolo risalgono le prime interpretazioni dei testi omerici - più problematica è invece la datazione delle prime opere allegoriche creative, il cui sorgere apparve più gradualmente . Seguendo le tappe principali di questo itinerario, segnaliamo, per cominciare, la questione terminologica. La prima occorrenza probabile di allegoria per indicare il procedimento retorico (e non la sua interpretazione) risale all'epoca ellenistica . L'allegoria intesa come allegoresi ebbe dai greci il nome uponoia fino all'attestazione di allegoria che troviamo in Plutarco. I latini tradussero il termine allegoria dapprima con permutatio - che troviamo nella Rhetorica ad Herennium - poi con inversio, che troviamo in Cicerone e Quintiliano.
Il fenomeno dell'allegoria come tropo, sporadico anche se non trascurabile nella classicità, prese forma letteraria definita in epoca tardoantica, con le opere latine di Prudenzio e Marziano Capella, che affermarono il costrutto allegorico - principalmente con l'uso sistematico della personificazione - come componente - irrinunciabile della rappresentazione. Solo molto più tardi l'allegoria si sarebbe sistemata in una struttura articolata, sia in lingua latina, con i poemi della scuola di Chartres, sia in volgare, iniziando in Francia con Raoul de Houdenc quella forma laica dell'allegoria che avrebbe raggiunto il suo culmine nei due Romande la Rose .
In area italiana, l'allegoria si manifestò e diffuse nelle forme del viaggio allegorico-didattico e della rappresentazione oltremondana, che trovarono esempi significativi nel XIII secolo, con le opere di Brunetto Latini, Giacomino da Verona e Bonvesin da la Riva . Parallelamente, si moltiplicarono i lavori esegetici, intenti a predisporre nuove letture dei testi pagani e della Bibbia, spingendo in superficie i sensi che il velo della littera lasciava trasparire.
Contemporaneamente all’emergere dell'allegoria creati va come fenomeno culturale di importanza crescente, l'allegoresi assunse il compito di tradurre nel nuovo sistema culturale una lunga eredità, per dar corpo a due esigenze diverse ma tutt'altro che inconciliabili: interpretare i testi per interpretare il mondo e creare un sistema di miti che richiedesse una partecipazione emotiva. Una doppia esigenza si cela infatti dietro l'allegoresi dei testi del passato: risignificarli in funzione di un nuovo contesto storico-culturale e confermare loro autorevolezza . La lettura allegorica si configurò così, sin dai suoi esordi, non come ricerca del significato (delegata piuttosto alla lettura letterale), ma come operazione di semiosi. La moltiplicazione dei sensi che ne derivò era generata dalla varietà dell'interpretazione allegorica delle divinità e dei miti (allegoria metafisica, fisica, storica), la cui applicazione non era determinata dall'oggetto, ma dall'esito, cosicché uno stesso mito poteva esser interpretato in più modi .
La storia dell'esegesi mostra che esisteva una pluralità di metodi interpretativi possibili. L'interpretazione filosofica e fisica dei miti e delle divinità era già attiva nell'esegesi di Omero ed Esiodo, dai tempi dei presocratici, con Teagene di Reggio (VI sec.), fino alla scuola stoica; attraverso la mediazione di Filone d' Alessandria, arrivò ad Origene, Ambrogio e Agostino, diventando «part and parcel of scriptural exegesis» . L'interpretazione morale, derivata dalla tradizione platonica, pervenne al medioevo attraverso Macrobio; infine, la tradizione stoica utilizzò anche l'interpretazione grammaticale ed etimologica . Tale fenomeno si venne sviluppando nel corso del XII secolo, quando l'affermazione della filosofia naturale, aprendo nuove prospettive all'interpretazione dei miti antichi, generò una moltiplicazione di sensi allegorici . Ma l'ambito specifico dell'allegoria si andò definendo con progressiva precisione. Se inizialmente l'allegoria indicava «il complesso dei sensi aggiunti all'historia», successivamente si affermò come uno di essi .
L'esegesi biblica latina, grazie anche alla tradizione greca, concilia la ricerca dell'intentio, riposta sotto il velo mosaico (2Cor.3), con il gusto per l’aenigrna e per la sua decifrazione virtualmente infinita, ma su quest'ultimo punto non tutti gli esegeti concordano. L'istanza del logos, che attraverso gli strumenti retorico-grammaticali riportasse la Bibbia sul piano di una verità effettuale, e l'istanza mitico-sacrale costituirono livelli distinti di lettura con il triplice senso (storico, allegorico, tropologico) di Origene (Alessandria 185 ca. - Tiro 253 ca.), da cui sarebbe in seguito scaturito il quadruplice senso (letterale, allegorico, morale, anagogico) , senza contare la varietà, nell'esegesi origeniana, della tipologia in funzione del profetismo veterotestamentario . Non può esser trascurato, neanche in questa rapidissima rassegna, l'apporto di Tommaso d'Aquino. L'ermeneutica tomista è in larga misura funzionale alla filosofia teoretica; da qui deriva la preminenza del senso letterale come l'unico che, in quanto esprime l'intenzione dell'autore, è utilizzabile a fini argomentativi . L'ermeneutica di Tommaso, definita da Spicq «réelle», fondata su parole e grammatica, analizza il senso letterale tenendo conto dell'eventuale impossibilità di determinarlo con precisione , mentre resta innegabile che la sacra scrittura manifesta la verità, finalizzata alla salvezza umana, attraverso verba (sensus litteralis) oppure attraverso res che sono a loro volta figurae di altre res (sensus spiritualis). Il contributo di Tommaso consiste dunque in un notevole incremento dell'immanenza del senso nel mondo, ma anche nella littera, che vede così aumentare le potenzialità comunicative, fino ad aprire la prospettiva dell'allegoria creativa e della metafora ; la rivalutazione della littera contiene perciò le premesse teoriche della critica al senso spirituale compiuta da Tommaso per la prima volta . Per quanto possa apparire paradossale, la rivalutazione della littera passa per l'introduzione del sensus parabolicus, secondo il quale il vero senso letterale non è la figura, ma ciò che viene figurato .
Anche per lo sviluppo dell'allegoria creativa tra IV e XIV secolo appare decisivo l'impulso impresso dal cristianesimo, ma sarebbe fuorviante esaurirne lo spettro comunicativo nella contaminazione di dottrina e teologia, da cui pure trasse alimento. In ambito cristiano, secondo Jauss, la poesia allegorica medievale costituisce una svolta rispetto al mondo antico, proponendosi come una forma poetica che è al tempo stesso un modello del mondo corrispondente alla cultura cristiana . Andrà senza dubbio tenuta nella giusta considerazione la non esclusività della matrice cristiana, per non incorrere nel rischio di sottrarre dalla letteratura allegorica opere come il Roman de la Rose. È altrettanto incontrovertibile l'influenza esercitata dalle Scritture sulla formazione dell'immaginario simbolico e allegorico: basti pensare al notissimo passo paolino (2Cor.3), nel quale si contrappone la natura immortale dello Spirito alla natura effimera delle apparenze e a Gal.4, 24, dove s'invita il lettore ad interpretare allegoricamente le due spose di Abramo, Sara e Agar.
Ricerca del senso riposto (sententia) nella littera, al di là del senso letterale o crammaticale (sensus) , e creazione letteraria di una pluralità di sensi presuppongono la percezione del mondo come universo dotato di senso, in attesa di interpretazione: il "Libro" della Natura ha origine dalla concezione allegorica biblica dell'universo creato per simboli , da cui discende l'interpretazione agostiniana dell'allegoria in facto, distinta dall'allegoria puramente verbale delle opere umane (De Trinitate, XV, ix, 15, PL 1096, CCSL, vol. La. p. 482).
In stretta contiguità ideale con questo universo simbolico nasce - per restar fedeli all’ambito letterario prossimo a Dante - l'allegoria dell'oltremondo, il cui innegabile processo di semiosi riceve dall'autore la dignità di consistenza effettuale e di verità salvifica. Proprio la separazione tra mythos e logos permette di individuare lo spazio di vitalità per l'allegoria dotata di un proprio vero, indipendentemente dal modello biblico la cui verità è historia, ossia verità dell'accaduto. Se si ammettono il pensiero mitico e il pensiero logico tra le fonti ispiratrici dell' allegoria, non è più indispensabile annettere al metodo biblico, per molti aspetti irriproducibile, la letteratura che, intorno al XII secolo, iniziò ad affermare una propria verità autonoma: partecipare ad un racconto e verificare un modello del mondo, ad esempio fisico, sono funzioni conoscitive che non chiamano in causa necessariamente l'allegoria dei teologi, mentre, in ambito medievale, si presuppongono non di rado reciprocamente. Non è inconsueta la conversione di un modello letterario partecipabile dal lettore in paradigma morale (il viaggio allegorico-didattico), così come la ricerca della verità al di sotto di un integumentum è spesso accompagnata dall'ideazione di un mondo possibile con valore di realtà, come è il caso di Bernardo Silvestre, esegeta dell'Eneide e autore della Cosmographia.
Se l'allegoria medievale si presenta come l'erede principale del mito nelle sue forme storiche e nelle sue relazioni con il logos, combinando in modi assai vari la verità-partecipazione e la verità-corrispondenza, rispetto al nostro campo d'indagine un'importante conseguenza della distinzione di tipi di vero è la possibilità del loro coesistere. La separazione tra pensiero mitico e pensiero logico è resa possibile dalla nascita della filosofia, ed ha per così dire un inizio storico, ma entrambe le modalità hanno continuato a convivere come istanze conoscitive culturalmente fondanti.
Se le condizioni del suo straordinario sviluppo sono queste, dunque, si possono estendere all'allegoria medievale le osservazioni di Eco sulla metafora: dal momento che l'allegoria ha senso solo in un preciso contesto culturale - e ciò è particolarmente vero per il medioevo che ne sistematizza l'uso - proprio dallo studio dell'allegoria si può ricavare il contesto culturale che ne attiva la comunicazione , mentre la retorica appare come l'angolo di visuale privilegiato per vedere affiorare i processi comunicativi.
Riconsiderare l'allegoria nell'ambito della comunicazione persuasiva implica, dal punto di vista letterario, che essa sia trattata come espediente dell'ornatus, una delle tre virtù dell'espressione (insieme a puritas e perspicuitas ), consistente nel creare una sorta di straniamento dall'espressione ordinaria, che persegue l'obiettivo del docere, quanto all'aspetto intellettuale della persuasione, del delectare e del movere, quanto alla persuasione emozionale, da realizzarsi con la seduzione del gradevole o con l'intensità del patetico . L'uditorio cui la comunicazione allegorica viene destinata è naturalmente rappresentato dal lettore implicito, che dovrà lasciarsi ammaestrare o sedurre, assecondando gli intenti dell'autore (destinatore). Secondo la ben nota trattazione di Lausberg, spetta all'ornatus il compito di dar forma concreta a questa organizzazione discorsiva e di produrre lo straniamento: con i tropi (la metafora, ecc.) vengono deviate espressioni ordinarie in verbis singulis, mentre la sostituzione di un pensiero esplicito con uno implicito in un'unità estesa di discorso, in verbis coniunctis, spetta all'allegoria. Accorda legittimità alle deviazioni dalla norma (stabilita per consuetudine) il dominio dell’ornatus, che esaudisce il desiderio di bellezza e soddisfa il bisogno di comunicare, connaturati nell'essere umano.
Questione non trascurabile, e preliminare, è il rapporto reciproco tra norma linguistica (grado zero) e deviazione (o scarto), questione, invero, che fonda ogni lettura retorica, ma che appare tanto più sfuggente in considerazione della distanza temporale che ci separa dal poema. Cosa, infatti, ritenesse normale, consueto, un lettore del XIV secolo ci è per molti aspetti ignoto. La lettura proposta si sottrae, nondimeno, alla retorica del silenzio: per un verso, cioè, rinuncia all’assolutezza delle sue conclusioni e, per un altro, affida al contesto storico la verifica delle ipotesi. Il poema fiorì in un preciso sistema letterario: sia la sua langue, sia la sua parole non possono, dunque, che essere contestuali e come opera inserita in un sistema di segni, linguistici e simbolici, la Commedia appare osservabile sotto il profilo retorico.
Per quanto riguarda l'allegoria, la prospettiva retorica è tutt'altro che univoca: le definizioni presentano infatti non trascurabili oscillazioni. Prima del XIII secolo, la sede deputata a trattazioni di tipo teorico è piuttosto quella grammaticale che quella retorica, sul modello fino ad allora indiscusso di Donato e Prisciano . Al chiarimento della formula donatiana, secondo cui l'allegoria è il tropo che intende trasmettere un significato diverso da quello apparente, sono indirizzati gli sforzi di vari trattatisti e glossatori del XIII secolo, tra i primi a porre in evidenza l'applicabilità della definizione di allegoria a qualunque tropo: la vulgata medievale infatti, in sintonia con la tradizione classica, assegna l'allegoria alla classe del tropo. Il mutamento di direzione (o traslato) si mostra suscettibile di fraintendimenti con figura, come non mancava di osservare già Quintiliano («Quin adeo similitudo manifesta est ut ea discernere non sit in promptu», Inst. Or., IX, 1, 3), che aveva trovato anche una soluzione al problema: «Est igitur tropos sermo a naturali et principali significatione traslatus ad aliam ornandae orationis gratia, vel, ut plerique grammatici finiunt, dictio ab eo loco in quo propria est tralata in eum in quo propria non est: "figura", sicut nomine ipso patet, conformatio quaedam orationis remota a communi et primum se offerente ratione» (Inst. Or., IX, I, 4). L'allegoria, classificata tra i tropi, viene così definita da Quintiliano come un discorso modificato nel suo contenuto, ma non come la configurazione linguistica del mutamento, che è invece affidata alle figurae: su questa sottile distinzione, di importanza decisiva, torneremo più avanti.
Quintiliano elabora inoltre una definizione, che sarà ripresa costantemente nel corso di tutto il medioevo: «Allegoria, quam inversionem interpretatur, aut aliud verbis, aliud sensu ostendit, aut etiam interim contrarium»; può essere attuata attraverso una serie continua di metafore, ma non necessariamente; inoltre, il suo dominio connotativo può restare del tutto implicito (tota allegoria) o essere esplicitato nel quadro della rappresentazione allegorica, attraverso opportuni segnali (permixta allegoria) (Inst. Or., VIII, 6, 44 e segg.).
Più restrittivo, Cicerone aveva attribuito lo spostamento del senso alla connessione di più metafore: «modus autem nullus est florentior in singulis verbis neque qui plus luminis adferat orationi. Nam illud, quod ex hoc genere profluit, non est in uno verbo tralato, sed ex pluribus continuitatis conectitur, ut aliud dicatur, aliud intelligendum sit» (De Oratore, III, 41, 166). La straordinaria diffusione della letteratura allegorica nel medioevo non produce, paradossalmente, una definizione originale del tropo, che si discosti da Cicerone e Quintiliano , cosicché troviamo ricalcate le formule continua translatio (per altro, già presente in Aristotele) e inversio. Ai trattatisti sembra urgere più che una definizione dell'allegoria una sua netta demarcazione rispetto agli altri tropi . Isidoro di Siviglia conia una traduzione delle parole di Quintiliano destinata a diventare canonica nel medioevo: «Allegoria est alieniloquium, aliud enim sonat, aliud intelligitur» (Etymologiarum Libri XX, PL LXXXII, col. 115).
Nelle tassonomie moderne, che definiscono il tropo come la svolta semantica di una parola , si è andata consolidando la collocazione dell'allegoria tra le figurae sententiae, nell'ornatus in verbis coniunctis: secondo Lausberg, l'allegoria è una figura sententiae che sostituisce il pensiero che si intende con un altro pensiero contiguo ed è perciò uno dei procedimenti retorici che operano lo slittamento dell'espressione dalla norma, ma per agire solo sul pensiero. Lo stesso Lausberg, del resto, non manca di ricorrere all'ambigua categoria di tropo per definire l'allegoria: aggiungendovi la specificazione «di pensiero», designa la sostituzione come caratteristica del mutamento messo in atto dall'allegoria .
Una seconda eredità della retorica classica e medievale, la tipologia allegorica, sembra rimasta in ombra nell'indagine sull'allegoria dantesca, mentre un'accurata analisi retorico-formale dei tipi allegorici nella letteratura francese si deve ad Armand Strubel. Non sono mancati esegeti dell'opera dantesca sensibili alla varietà dei modi allegorici. R. Hollander ha individuato quattro tipi di allegoria, riducibili a tre, con ciò aumentando di un tipo la bipartizione proveniente dal passo del Convivio: due tradizioni della personificazione (una proveniente dalle interpretazioni omeriche, l'altra di matrice cristiana), che confluiscono nell'allegoria dei poeti; «the allegory of the rhetoricians» formulata da Isidoro di Siviglia attraverso l'espressione alieniloquium; infine, l'allegoria dei teologi . Jean Pépin distingue nel poema dantesco tre tipi di espressione allegorica: l'allegoria proclamata; l'allegoria trasparente; l'allegoria enigmatica .
La tipologia che viene qui proposta su base retorica intende entrare più nel dettaglio. La carenza di una teoria adeguata dell'allegoria, proprio nell'epoca che più ne ha fatto uso, e persino di una definizione soddisfacente e nuova, induce a riflettere sulla pervasività dell'allegoria, che si realizza nel testo in una molteplicità di figure retoriche e di schemi discorsivi . Prova decisiva di questa ipotesi troviamo nientemeno che in uno degli auctores: Quintiliano. Attingendo ad una tradizione già consolidata (lnst. Or., VIII, 6, 44 e segg.), Quintiliano inizia la rassegna dei tipi allegorici elencando alcune modalità fondamentali: la metafora continua, l'allegoria di un nome in un contesto "proprio"; l'allegoria mista, l'allegoria del linguaggio comune, gli exempla, l'aenigma, l'ironia, o scherno, con tutti i sottotipi, la beffa (scherno dissimulato). Ricorda poi che questi tipi allegorici sono comunemente accolti come tali, mentre alcuni retori considerano veri e propri tropi le cosiddette species allegoriae (sarcasmo, asteismo, antifrasi, paroimia) e, quasi di sfuggita, sembra convenire con costoro, sollevando dubbi circa la possibilità di assegnare all'allegoria le caratteristiche di un genere. Se un genere, infatti, «nihil habet proprium» una tale implicazione risulta a Quintiliano inaccettabile e sostanzialmente falsa: «allegoria vero habet aliquid proprium» (Inst. Or., VIII, 6, 58).
Nonostante dubbi e riserve, dunque, la tipologia quintilianea si tramanda, con piccoli aggiustamenti, a tutto il medioevo. In epoca tardoantica ritroviamo sette tipi nella classificazione di Donato , e la tipologia viene accolta anche da Agostino, che ne approfitta per chiarire il rapporto tra allegoria ed aenigma proprio sull'opposizione binaria genus/species: «Huius autem tropi, id est allegoriae, plures sunt species in quibus est etiam quod dicitur aenigma. Definitio autem ipsius nominis generalis omnes etiam species complectatur necesse est. Ac per hoc sicut omnis equus animal est, non omne animal equus est, ita omne aenigma allegoria est, non omnis allegoria aenigma est» (De Trinitate, XV, ix, 15, PL 1096, CCSL, voi. La, p. 481).
Decisivo per l'ambito retorico è poi il contributo di Isidoro alla diffusione dei tipi: «huius tropi plures sunt species». Si tratta dei soliti sette tipi: ironia, antiphrasis, aenigma («quaestio obscura»), charentismos, paroemia, sarcasmos, astysmos. «Ironia est sententia per pronuntiationem contrarium habens intellectum; Antiphrasis est sermo e contrario intelligendus; Aenigma est quaestio obscura, quae difficile intelligitur, nisi aperiatur; Charientismos est tropus quo dura dictu gratius proferuntur; Paroemia est rebus et temporibus accomodatum proverbium; Sarcasmos est hostilis irrisio; Huic contrarius est astysmus, id est urbanitas sine iracundia» (PL LXXXII, coli. 115-116). Le stesse species allegoriae si incontrano, in ambito esegetico, in Beda, autore di una delle prime ricerche retoriche sulla Bibbia (De schematibus et tropis, PL XC, col. 184); ma è sulla scorta dell’auctoritas di Isidoro, che si muove l'Ars versificatoria di Matthieu de Vendòme , uno dei principali trattati retorici disponibili nel tardo medioevo. Oltre ad alcuni di questi tipi, anche le definizioni di tropi e figure approntate da Quintiliano si mostrano molto utili per delineare una tipologia allegorica e precisare quali siano le forme del vero operanti nel poema dantesco.
In mancanza di segnali esterni riconoscibili , non resta che la littera come dato sul quale misurare gli slittamenti tra senso e sovrasenso (alterazione del grado zero); sulla base di quanto scrive Quintiliano, perciò, possiamo distinguere all'interno della littera il piano della significazione, che spetta al tropo come discorso deviato, dal piano della comunicazione, il luogo in cui si realizza la deviazione per mezzo difigurae. Si è posto, per questa via, il problema della corretta definizione dell'oggetto di ricerca, quali passi del poema, cioè, fossero suscettibili di interpretazioni allegoriche per volontà dell'autore. In effetti, i due piani della significazione e della comunicazione permettono di isolare le procedure di rinvio al sovrasenso, che appaiono classificabili da un punto di vista formale; quanto ai contenuti, inoltre, il sovrasenso sembra costituito da un numero finito di temi, riproposti da motivi riconoscibili.
Per determinare con ragionevole sicurezza l'allegoricità di un passo ci si può affidare alla sua concreta enunciazione. In teoria, dal momento che nell'atto di leggere il lettore accresce il patrimonio di competenze utili a proseguire la lettura, il rinvio ad altri sensi diviene progressivamente più implicito, a seconda del luogo testuale in cui si situa. In teoria, dunque, ogni passo della Commedia potrebbe rinviare a quanto lo ha preceduto e al patrimonio nel frattempo acquisito dal lettore; ma non sarebbe questo, evidentemente, il suo senso allegorico. La significazione che si dispone su più livelli di senso diviene oggetto d'attenzione se l'enunciazione si dimostra eccedente rispetto alle attese del lettore implicito, o addirittura predittiva. Il piano della comunicazione, inoltre, non è necessariamente un punto di vista diverso dal quale considerare l'enunciazione che implica sovrasenso; la comunicazione di un altro senso attraverso figure retoriche è semplicemente una diversa modalità di rappresentazione allegorica, alla cui analisi si addicono strumenti retorici.
La messa a fuoco dei due piani evidenzia, nella Commedia, l'autonomia della littera dal sovrasenso comunicato (un'autonomia che si realizza in un'effettiva immanenza del senso), e con ciò il costituirsi di un tipo di vero che le appartiene non solo in quanto fonte generatrice di altri sensi, ma in quanto narrazione, Se dunque l'allegoria si presenta come attitudine alla deviazione e come sua concreta messa in opera, distinguere i due piani ha un importante effetto: permette di cogliere la specifica consistenza della littera. L'opacità della littera è già parte integrante dell'allegoria medievale, come non ha mancato di mettere in evidenza Hollander. L'errore di pensare la littera come un veicolo trasparente e inerte, utile al solo obiettivo di lasciar affiorare il senso nascosto, è un errore di prospettiva storica: il cristianesimo, già prima di Dante, aveva da tempo oltrepassato la fase puramente simbolica, gnostica, del mondo come via alla verità nascosta, per approdare ad un'esperienza che solo attraverso il mondo e nel mondo trovasse la pienezza del senso riposto nella creazione . In particolare, con il XIII secolo, la cultura medievale era passata dal linguaggio simbolico, tipico dell'epopea, al linguaggio segnico, proprio del romanzo, secondo la terminologia di Julia Kristeva: l'universo delle corrispondenze trascendentali, verticali, si tradusse, allora, nel mondo orizzontale e multiforme dei segni imposti solo dall'intelligenza umana. Dietro questo decisivo mutamento si celava la disputa tra realisti e nominalisti .
Del resto, Dante non leggeva neppure l'Eneide, notoriamente sottoposta a secolari interpretazioni allegoriche , in modo da trapassarne la littera, che non era fabula, ma non apparteneva neppure all'universo dell'historia o a quello tipologico rappresentati dall'archetipo irriproducibile della Bibbia. L'oggetto del lungo studio e del grande amore consisteva nella ricerca di un impasto tra verità partecipabile e verità verificabile. I concetti di fabula, integumentum, involucrum, che in gran parte della tradizione allegorica, soprattutto esegetica, designavano l'aspetto letterale del racconto, avevano subìto considerevoli slittamenti semantici nel corso del medioevo. Lo studio del concetto di fabula ha riservato in questo senso non poche sorprese. Dronke sostiene che, con l'era patristica e specialmente con Agostino, i termini integumentum e involucrum ricevettero «new shades of meaning»: alcuni significati nascosti dietro i racconti acquistarono validità, benché una vera e propria funzione conoscitiva sarebbe stata attribuita ai «fabulous modes» non prima del XII secolo . A questa altezza cronologica, fabula indicava non solo la pura finzione e la favola con protagonisti animali, ma, in significativa coincidenza con integumentum e involucrum, anche il mito . Proprio in quanto la littera aveva ormai conquistato visibilità e spessore, e con ciò l'accesso al mythos, il suo ambito di vero coinvolgeva la partecipazione e la persuasione retorica.
Le varie finalità di tropi e figure permettono di individuare i diversi tipi allegorici : tanto gli uni quanto le altre, coinvolti nello slittamento dal senso proprio al senso altro, svolgono quella funzione che, elaborando la terminologia del Gruppo µ può essere definita "metalogica" e che chiameremo, più semplicemente, funzione allegorica . Ciò che specializza un traslato in veicolo allegorico è appunto la sua capacità di mediare tra tutti i sensi coinvolti o di alludere alla presenza di altri livelli di senso. Sul piano della significazione, la funzione allegorica viene svolta da un discorso retoricamente costruito, per indirizzarne gli esiti ora sul versante del logos, ora su quello del mythos. L'allegoria, inserita dal Gruppo µ tra i «metalogismi», assume così la fisionomia di quel genere retorico - per proseguire il tentativo di Quintiliano - del dire altro (alieniloquiumi, cui afferiscono le species allegoriae rispondenti alla funzione allegorica: le figure allegoriche.
Se l'allegoria non è una figura retorica codificata in modo puntuale, ma è definita su base etimologica come dire altro o è assimilata alla metafora che si prolunghi per una porzione consistente di testo - in quanto translatio, appartiene al genus transferendi e non al genus narrationis -, è invece sicuramente identificabile come una procedura di rinvio ad un senso ulteriore a partire dal letterale. Sulla littera come organizzazione di questo senso e insieme come veicolo del sovrasenso (o dei sovrasensi) può essere condotta un'analisi dell'allegoria in chiave retorica. Nell'ambito della ricerca formale, Strubel ha riconosciuto, sia pure soltanto in un corpus di testi limitato al XIII secolo e all’area francese, i segnali del rimando ad altro senso proprio a partire dalla littera, mentre il sovrasenso viene comunicato da una molteplicità di figure retoriche . Questa impostazione comporta, oltre al vantaggio di isolare Io slittamento del senso in alcuni procedimenti letterari codificati, la possibilità di individuare segnali «paradigmatici», ossia culturali, esterni ad un dato testo , particolarmente utile nei casi in cui l'allegoria diventa oscura (aenigma).
La lettura della Commedia che viene qui proposta si articola, dunque, in due principali direzioni argomentative: la rassegna dei luoghi testuali dove l'allegoria si costituisce come alieniloquium - come rinvio, più o meno mediato, ad una pluralità di livelli di senso - e la tipologia delle figure allegoriche, che mettono in opera il sovrasenso attraverso figure. Parlando in termini molto generali, si può dire che dove si afferma l'alieniloquium come necessità di comunicare una verità sovraordinata, prevale la funzione del logos (necessità di un'interpretazione; teleologismo della narrazione, ecc.); mentre dove si afferma la ricerca nella littera di un vero immanente, attraverso il ricorso alle figure che chiamiamo allegoriche, prevale la funzione del mythos (la verità della littera richiede soprattutto partecipazione). Le due specie allegoriche nei casi più complessi possono non essere alternative, e, anzi, proprio nella commistione di mythos e logos l'allegoria attualizza le sue potenzialità espressive. La tipologia proposta si basa sull'individuazione dei campi di forza ora dell'una ora dell'altra forma allegorica.
L'oltremondo di per sé presta a tali campi di forza lo scenario simbolico appropriato: il viaggio come racconto degno del più classico mythos e la fissazione della mutevolezza della storia nel logos dell'eternità sarebbero probabilmente inconcepibili senza l'ideazione di un oltremondo. La relazione di simmetria tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi, una relazione fondata sulla contiguità, è uno degli aspetti più interessanti dell'allegoria dantesca e delle ragioni del suo immaginario. La simmetria che sussiste in via costante tra mondo e oltremondo non va intesa però come una scelta di realismo, neppure nella constatazione dell'ovvia finalità simbolica per soddisfare la quale, secondo la ben nota allegoria in factis, le creature del mondo sono state predisposte. La simmetria tra i due mondi nel contesto dell'analisi retorica che è stata condotta sembra soddisfare, piuttosto, due esigenze: additare alla verità dell'esperienza oltremondana e suscitare la partecipazione del lettore. Esigenze che si configurano come premesse tutt'altro che secondarie della persuasione : l'oltremondo da immagine speculare si fa modello del mondo.
Dal punto di vista dell'allegoria, l'oltremondo dantesco, in osservanza dell'allegorismo universale, è ideato come una sorta di libro . Di questa natura testuale dell'allegoria dantesca si trovano numerosi segnali disseminati un po' in tutte le cantiche, come si avrà modo di verificare (si vedano, ad esempio, I.I.1.1. e II.IIl.1.4.). L'interpretazione del libro-oltremondo da parte del lettore implicito consiste perciò ora nello scioglierne i segni empiricamente allusivi, ora nel decifrarne l'ambito connotativo. Il rimando a sensi nascosti può materializzarsi, come detto, in forme discorsive (piano della significazione, alieniloquium), o in figure codificate dalla tradizione retorica (piano della comunicazione, figure allegoriche).
Sul piano della significazione, oggetto specifico della prima parte del lavoro, l'esistenza di un altro livello di senso viene suggerita da un discorso che si sovrappone alla littera con l'intento di attribuirle dei valori connotativi, ideati da Dante, tuttavia, come immanenti ad essa. L'alieniloquium come funzione del logos si manifesta in modi differenti. In genere, nelle glosse (I.I. 1. 1.) il sovrasenso è esplicitamente sovrapposto alla littera, benché si possa verificare il caso di glosse intradiegetiche che rimandano ad un senso più ampio senza interrompere la narrazione, e anzi utilizzandone gli espedienti. Degno di rilievo è l'episodio di Pier delle Vigne: qui, come si vedrà, a rinviare al tema del viaggio come esperienza vissuta e alla conversione in realtà del vero partecipato è la glossa di Virgilio che, per giustificare la lacerazione del ramo da parte di Dante, richiama l'episodio di Palinuro nell'Eneide e l'incredulità di Dante-lettore. Il gioco di rinvii non è misurabile sul rapporto tra tipo e antitipo e propone la convertibilità di ogni specie di vero: il vero della partecipazione (il racconto dell'Eneide) viene convertito in vero effettuale (la verifica di Dante nel viaggio), mentre il vero effettuale viene tradotto in vero della partecipazione (la presunta verifica si realizza non nell'esperienza del mondo ma nel racconto di un viaggio tra i morti). Nell'ambito dei rinvii espliciti ad altri sensi, si possono isolare le tre principali finalità persuasive dell'allegoria come espediente dell' ornatus: il docere (persuasione intellettuale), il delectare (persuasione emozionale dell'ethos) e il movere (persuasione emozionale del pathos, volta a determinare il compimento di un'azione). La scansione dei tipi di rinvio segue pertanto questa tripartizione. In particolare, si osserverà che il delectare ha tradizionalmente come suo luogo naturale proprio l'exordium, cui Dante affida l'invocazione .
II sovrasenso altrove è chiamato direttamente in causa dalla stessa narrazione, come nel contrappasso (I.II.) che rappresenta, per lo più senza interventi esplicativi, un sistema di valori implicito nella struttura di premi e castighi. Le funzioni del mythos e del logos, infine, possono essere attivate come grado zero del sovrasenso. Nella littera si consuma, in questi casi, ora la partecipazione ad un mito, autonoma da moralizzazioni o da altri interventi propri del logos (I.III.), ora la spiegazione di un evento oltremondano per corrispondere all'istanza del logos senza attivare la partecipazione emotiva né del lettore né dei protagonisti (I.IV.). Abbiamo così una littera che comunica solo il mythos o una littera che comunica solo i contenuti del logos: nel primo caso, la narrazione si fa paradigma di un sovrasenso del tutto immanente, nel secondo si fa portavoce di un corredo dottrinale valido per il poema nel suo complesso (si veda il caso di Glauco: Pd., I, vv. 67- 72). Il sovrasenso, tanto con l'attivazione del mythos quanto con quella del logos, è al suo grado zero: verso il basso c'è il racconto letterale, verso l'alto il vero e proprio racconto allegorico. Ciò che caratterizza il grado zero b rispetto al rimando immediato, cui pure somiglia, è il fatto di non essere intradiegetico e di presentarsi per lo più in formule impersonali; le sue finalità sono ancora in ambito allegorico per il valore connotativo che esso comunque proietta sulla littera del viaggio.
La seconda parte del lavoro è dedicata alle figure allegoriche, ossia a quelle figure che svolgono una funzione allegorica, specializzandosi nel rinviare al sovrasenso. Di ognuna di esse è stata evidenziata la funzione specifica, cosicché la rassegna non fosse cadenzata in base al luogo del rinvenimento, di per sé non necessariamente significativo: quella che inizialmente s'era presentata come una bruta rassegna ha rivelato, in corso d'opera, delle costanti comunicative.
I due tipi di costruzione allegorica che aprono la seconda parte del lavoro sono classificati secondo la celeberrima distinzione jakobsoniana tra principio dell' analogia o della selezione e principio della contiguità o dello spostamento, resi operativi, nel testo letterario, principalmente attraverso la metafora e la metonimia. L'analogia, in particolare, viene qui considerata come una modalità che organizza il senso in funzione del sovrasenso instaurando una relazione strutturale tra fenomeni, per altro già definita come uno dei princìpi del montaggio allegorico in area francese . Per analogia, fenomeni tra loro separati narrativamente o logicamente sono posti sullo stesso piano di significazione complessiva. Si può immaginare, dunque, che l'oltremondo si strutturi come un universo altamente semiotico, nel quale vengano istituiti dall'autore dei percorsi interpretativi per analogia. All'analogia (II.I.) rispondono la similitudine e la metafora . La similitudine può avere finalità diverse; interessante per la concezione del vero è la similitudine che colloca il viaggio dantesco in un ambito mitologico. Anche la metafora assolve la funzione allegorica secondo una tipologia di rinvii articolata. In alcuni casi, il sovrasenso è presente come grado zero: la metafora è un «parlare aperto», che allude ad una comparazione veritiera e immanente. In altri casi una metafora può alludere al senso complessivo del viaggio, esplicando a pieno il valore analogico di questa scelta allegorica. Infine, non è sembrata produttiva, ai nostri scopi, la classificazione, pur in uso nel medioevo, delle metafore a seconda del tipo di sostituzione .
La contiguità regola invece il ricorso alla metonimia: l'effetto allegorico viene ottenuto attraverso uno spostamento di tipo logico da un ambito di significazione ad un altro (la sineddoche, che consiste nello spostamento di tipo quantitativo, non sembra svolgere alcuna funzione allegorica nel poema). La metonimia «consiste in uno spostamento della denominazione al di fuori del piano del contenuto concettuale»; lo spostamento, inoltre, si verifica attraverso delle «concatenazioni», Della classificazione tradizionale, ripresa ed elaborata da Lausberg , sono emersi dal poema solo due sotto-tipi: sostituzione, nell'ambito della concatenazione, della causa per mezzo dell'effetto e sostituzione del simbolo all'oggetto astratto simbolizzato.
Con "amplificazione" si vuole indicare la modalità di rappresentazione del senso attraverso la messa in evidenza di un suo elemento costitutivo, di un 'ideanucleo . A differenza degli antichi retori, nel XII e XIII secolo con amplificazione s'intende «developper, allonger (un sujet)» e a questo scopo sono finalizzati una decina di procedimenti retorici; tra questi, spicca la prosopopea, o personificazione . Per lo più l'idea centrale del sovrasenso compare come una figura attorno alla quale si condensa, sotto forma di immagine, il contenuto astratto (dottrinale, morale, ecc.) del senso sovraordinato. Strubel parla di una figura matrice che per amplificazione reduplica l'analogia primaria tra senso e sovrasenso .
Nel caso di Dante, la figura incaricata di amplificare un elemento del senso perché affiori progressivamente il contenuto del sovrasenso dà voce e forma ai suoi costituenti primari: è il caso, per citare l'esempio più frequente, di tutti i possenti guardiani dell'inferno, che amplificano il senso del luogo loro assegnato e della funzione svolta per mezzo della rappresentazione stessa, dell'enumerazione delle qualità e delle azioni compiute. Al principio dell'amplificazione di un senso riposto nella littera rispondono quindi i tipi dell'abstractum agens, i due tipi delle personificazioni (tautologica e attanziale) e l'aenigma che in Dante amplifica il profetismo.
Il procedimento retorico dell'abstractum agens è molto diffuso nel medioevo e corrisponde all'incirca alla conversio di cui parla Geoffroi de Vinsauf ; nella trattatistica moderna esso è stato definito da Glasser «die Moglichkeit, den abstrakten Begriff als auf die Menschen wirkendes Wesen zu bezeichnen» . Sussiste una relazione tra abstractum agens e allegoria: per un gioco del pensiero («Gedankenspiel»), l'allegoria trasforma la semplice finzione linguistica (I'abstractum agens) in una vera e propria rappresentazione . Strubel, infine, vede nell' abstractum agens, che considera niente più che un fatto linguistico, l'origine della personificazione allegorica, che ne scaturirebbe come la metafora allegorica si sviluppa dal semplice tropo .
La collocazione dell'abstractum agens tra i tipi allegorici osserva le condizioni prescritte per tutte le altre figure. Anche in questo caso si deve verificare, cioè, uno scarto dal valore denotativo della raffigurazione, senza che venga plasmato un nuovo significato. La misura dello scarto è variabile e la funzione allegorica ha finalità distinte. Come vedremo, può accadere che l'abstractum agens si presti, per lo scambio tra astratto e concreto che lo caratterizza, alla resa contemporanea di un'esperienza vissuta e del suo valore dottrinale (Pg., XXX, vv. 28-48, in II.III.1.4.).
Quanto alle personificazioni, ci si potrà forse chiedere se ne esistano di estranee ai processi allegorici, tanto ci appaiono le une agli altri connaturate . Dall' analisi della Commedia, invece, emerge una risposta affermativa: Dante si serve anche di personificazioni che non comunicano altri sensi, e che si dispongono rispetto ali' edificio allegorico come elementi di fregio, necessari all’armonia delle parti ma non alla struttura portante della narrazione. L'osservazione dei diversi usi della personificazione, e il riscontro con la tradizione letteraria antecedente, ha reso indispensabile introdurre nuovi termini. Chiameremo personificazioni tautologiche questi elementi di fregio, nei quali essere e significare coincidono. Concrezioni visibili di idee astratte, presenti in tutta la tradizione allegorica da Prudenzio in poi, le personificazioni tautologiche hanno un carattere meramente denotativo, se isolate dal contesto; imbrigliate nel gioco degli attributi, tanto più efficaci quanto più inequivocabili, compiono azioni determinate dalla loro stessa natura, quando ne compiono; se pronunciano discorsi, esprimono concetti meccanicamente generati dall'entità astratta cui prestano il volto; la loro presenza è insomma piuttosto un segnale di allegoricità del contesto, che un vero e proprio congegno allegorico. Solo in quanto segnali della presenza di un altro senso, dunque, le personificazioni tautologiche vengono accolte nella tipologia.
Delineato questo tipo, ne è affiorato un secondo, quasi per via di contrasto: la personificazione che intendiamo denominare attanziale è il ponte di passaggio verso il vero e proprio personaggio, e sviluppa in senso narrativo le caratteristiche tradizionali della personificazione. Può esser considerata una sorta di personaggio altamente formalizzato, ma anche un'entità non più costretta nella denotazione, per quanto artificiosa, propria della personificazione tautologica, che abbiamo descritto: il suo ambito di significazione è ampiamente connotativo e viene quindi inscritta di diritto tra le figure allegoriche. L'azione compiuta eccede l'ambito denotativo (che era proprio, ad esempio, della rappresentazione di Fortuna che gira la ruota del mondo) per svolgere una funzione squisitamente narrativa (poniamo, Minosse che attorciglia la coda tante volte quanti cerchi deve sprofondare l'anima dannata). La personificazione attanziale non è un personaggio, ma il suo non è più un ambito meramente denotativo: con l'azione, essa imprime alla connotazione un impulso narrativo. Questa personificazione è nella Commedia un mezzo allegorico tra i più fertili e tra i più significativi, ma non ne mancano esempi anche in secoli precedenti.
Personificazione tautologica e personificazione attanziale non nascono contemporaneamente. Mentre nei primi poemi allegorici (Psychomachia, De Nuptiis Philologiae et Mercurii, De Consolatione Philosophiae) incontriamo solo personificazioni tautologiche, man mano che l'allegoria si sviluppa come genere letterario, abbandonando progressivamente l'ambito esegetico, la personificazione esce dalla formularità meccanica della sua rappresentazione e diventa narrativa (Romande la Rose).
Una tipologia della personificazione di carattere diacronico , ma improntata ai princìpi della linguistica trasformazionale e dunque anche sincronica, è stata elaborata da Kristeva. Se ne distinguono due casi: la personificazione radicata nella cultura simbolica (in vita fino al secolo XIII) è denotata per mezzo dei suoi attributi, che nella personificazione del!' età posteriore (personificazione segnica) mancano del tutto; la personificazione, nel frattempo, è divenuta infatti di per sé significante . La nostra classificazione comprende, come si è visto, due complementari tipi di personificazione: la tautologica, che dice solo se stessa attraverso gli attributi caratteristici - solo in parte coincidente con quella "simbolica" di Kristeva - e la personificazione attanziale, che esercita il ruolo di attante della narrazione.
L'accumulazione indica una modalità di rappresentazione che, per comunicare il sovrasenso, affianca elementi tra loro assimilabili da un punto di vista formale. Se immaginiamo l'allegoria come somma di un certo numero di dettagli , un sistema di simboli o una topografia si manifestano come l'esito della disgregazione dell'idea-nucleo. In altre parole, il senso che viene ricomposto mostra le tracce della scomposizione. In linguistica ad essere giustapposti sono i membri di una frase, purché non ripetuti ; qui consideriamo i simboli come equivalenti a tali membri, essendo l'allegoria la "frase" da essi composta. Il tipo più diffuso di accumulazione con funzione allegorica, infatti è il sistema di simboli. Si ricorre solo per comodità al concetto di simbolo, consapevoli che nel medioevo simbolo e allegoria sostanzialmente coincidevano, essendo la loro distinzione, come noto, un'acquisizione otto-novecentesca; qui useremo, dunque, il termine simbolo nel senso proposto da Kristeva.
Un sistema simbolico tipico è quello della processione nel paradiso terrestre, dove si allude ad un senso complessivo ricomponendo in unità il significato dei singoli elementi. Alla processione partecipano personificazioni tautologiche e simboli che singolarmente presi non hanno funzione allegorica, mentre nel loro insieme e nell'intrecciarsi delle loro azioni alludono ad un senso sovraordinato. L'accumulazione può essere realizzata combinando elementi di una descrizione paesaggistica o topografica, considerabile come un sotto-tipo del sistema di simboli; si è scelto di trattarne a parte per mettere in rilievo la sua indiscutibile compattezza figurativa.
L'ultima figura allegorica rilevata nel poema è l'ironia, definita nel medioevo come il discorso che allude al contrario di ciò che dichiara. Nei trattati medievali con ironia di parola si indica per lo più l'enunciazione del contrario che, accompagnata da opportuni segnali gestuali, è propria dei discorsi orali; nel nostro contesto è invece pertinente l'ironia di pensiero, che appare come un espediente logico. Sono stati riscontrati i casi della dissimulazione (con fine narrativo: discorso di Virgilio ad Anteo, lf, XXXI; con fine morale: l'inganno di Dante a Frate Alberigo, If, XXXIII); il doppio ribaltamento delle funzioni di un personaggio (i Malebranche, personificazioni attanziali nel girone dei barattieri, che diventano fide scorte, ma solo transitoriamente, lf, XXI); lo scambio tra narrativo ed extra-narrativo (invettiva in Pg., VI). In sintesi, l'ironia indica come forma di rappresentazione del sovrasenso il rovesciamento del senso.
Lo strumento retorico si è rivelato efficace per esplorare i rinvii ad altri sensi contenuti nel racconto dantesco: la tipologia ha portato alla luce le procedure retoriche dell'allegoria celate dall'autore nella littera della Commedia. Dante, vir bonus dicendi peritus, manipola la materia narrata e il suo senso allo scopo di persuadere un uditorio davvero composito: Firenze, la patria nemica e il suo «ingrato popolo maligno»; l'Italia tutta, invischiata nella cupidigia dei potenti; e poi la «futura gente», quel pubblico senza tempo che sarà chiamato dall'opera a sentenziare la condanna dell'immeritato esilio. Alla messa in opera di questa impresa retorica in piena regola sembrano prender parte tutti gli attanti: Dante-auctor, Dante-agens, le guide, i personaggi, e infine il lettore. Il viaggio tra i morti offre l'impasto di verità che abbiamo cercato di scomporre: la verità che il viaggio dimostra e verifica e che ha per oggetto il mondo esterno, la natura e soprattutto la storia, con la logica degli eventi e delle cause morali e politiche che ne sta al fondo; e insieme la verità di ideali, di fede, di sentimenti, sistemati in un nuovo mito, cui partecipare. Scomporre, si spera, non significa dissolvere: senza quell'impasto di verità, l'allegoria non è che artificio e bella menzogna.