Dati bibliografici
Autore: Luigi Pietrobono
Tratto da: Nuovi Saggi Danteschi
Editore: Società Editrice Internazionale, Torino
Anno: 1954
Pagine: 37-54
Alle difficoltà mossemi dal Croce nel fascicolo de La Critica del 20 marzo 1936 (pag. 156) avevo già risposto, almeno in parte, nel Giornale Dantesco con un articolo, Per l'allegoria di Dante, testé riprodotto nel volume di Saggi Danteschi pubblicato a cura di miei scolari vecchi e nuovi. Ma giacché a lui non è dispiaciuto tornare sull'argomento, ci torno anch'io volentieri nella speranza si finisca con l'intenderci.
Tra l'allegoria che a Virgilio appiccò il medioevo e quella di Dante, quantunque siano due cose profondamente diverse, ho asserito che il Croce non fa differenza, e non facendo differenza è logicamente condotto a condannare in blocco le allegorie della Commedia come antipoetiche. Né credo, fin qui, d'aver inteso male il suo pensiero. Dichiarato infatti di non capire che valore mai si possa attribuire alla distinzione a cui mi richiamavo delle due forme di allegoria, riafferma la sua tesi, dicendo: «Che un altro venga a versare nel mio bicchiere d'acqua una dose di olio o che ve la versi io da me, nell'un caso e nell'altro olio ed acqua non si mescolano». Ma la poesia e l'allegoria di Dante sono fra loro proprio nello stesso rapporto dell'acqua con l'olio? Qui sta il punto, sul quale veramente avevo più che abbastanza insistito, dicendo che la spiegazione delle allegorie dantesche bisogna cercarla tutta e solo nella lettera.
Sarebbe curioso infatti supporre che Dante, per esempio, prima ha scritto il preludio della Commedia parlando di selva, di fiere e del resto, e poi si è industriato di dare ad esso il significato che i lettori avrebbero dovuto appostare nella sua scrittura. No. Per mezzo della selva oscura, delle tre fiere, del colle luminoso, di Virgilio e del Veltro, Dante ha inteso esprimere non un pensiero qualsiasi, ma il pensiero animatore di tutta l'opera, porre le basi del suo immenso edificio. E noi per intenderlo non dobbiamo tirar a indovinare, come disgraziatamente s'è fatto da molti: dobbiamo al contrario studiarci di dare a ciascuna espressione del poeta il suo senso preciso, tenendo il massimo conto della lettera e comportandoci con lui come con ogni scrittura che e interessi di capire. Molto meglio e molto prima di noi egli sa che sarebbe una stolta pretesa il voler b penetrare nel senso di un'allegoria, di una figura o di un personaggio senza prima chiarire diligentemente la lettera. Nel «litterale», egli insegna, sono inchiusi tutti gli altri sensi, l'allegorico il morale e l'anagogico; sì che l'interprete ha un dovere da osservare sopra ogni altro: quello di dichiarare con la maggior fedeltà possibile la lettera, le parole, le frasi, le espressioni dello scrittore. Solo così si può e si deve giungere alla spiegazione della selva, del colle e delle rimanenti allegorie del primo, come degli altri canti. Chi dubitasse che non riferisco esattamente l'opinione di Dante in fatto d'interpretazioni allegoriche, faccia una cosa molto semplice: rilegga il primo capitolo del secondo libro del Convivio, e troverà che questa sua dottrina il Poeta la espone in una forma così chiara e risoluta da non ammettere equivoci.
Ma la selva, si obietterà, il colle, le fiere e le altre figure del primo canto non portano impresso il loro significato morale con tanta evidenza che a tutti sia dato di coglierlo con certezza. Chi ha da fare con le allegorie tratta una materia, rispetto alla quale conviene star contenti alla probabilità, ora più e ora meno sodisfacente; andar oltre non è concesso. E la riprova la forniscono sei secoli di critica dantesca, durante i quali quanti sforzi non sono stati compiuti per chiarire in modo definitivo le allegorie di Dante? Ma sempre invano.
Non credo che questo sia storicamente vero; pure l'ammetto e chiedo a mia volta: Perché fino a oggi non si son avuti due studiosi della Commedia che convengano fra loro sulla significazione di tutti i simboli danteschi, ne viene per logica conseguenza, che questi non abbiano e non possano avere un senso ben definito che appaghi tutti e risponda a tutte le esigenze del testo? Sono fermamente persuaso che Dante, mente chiara se altra mai e per eccellenza dialettica, ha dato a ciascuno de' suoi simboli un significato preciso, in armonia con le parti e con il tutto, e ha avuto l'arte di esprimerli nettamente. Se non sono stati intesi a dovere e gli illustratori della Commedia non sono giunti mai a mettersi d'accordo, la colpa non è del Poeta o dell'allegoria, ma nostra. Dante il suo mondo lo ha espresso più che chiaramente; siamo noi che l’abbiamo ingarbugliato.
Consulti chi vuole gli antichi commentatori e i moderni, fermandosi sia pure al primo canto. Avrà sufficiente materia per vedere che tra essi non regna nessun accordo, e più che sufficiente per toccar con mano che l'accordo non vi può regnare, perché ciascuno dei primi ha creduto di sodisfare scrupolosamente al suo ufficio dando d'ogni figura quella spiegazione che, volta per volta, senza badare alle relazioni delle parti con il tutto, gli si offriva più ovvia, meglio rispondente alle sue idee, più consona con le sue vedute morali; e ciascuno dei secondi si è limitato a scegliere fra le opinioni diverse quella che, sempre a suo modo di vedere, gli è sembrata più probabile. Con questo sistema è naturale la confusione sia durata parecchi secoli e duri ancora. Non si è avuto il necessario rispetto né dell'insieme, né della lettera, come prova il saggio che ne do, d'importanza capitale.
Tra le fiere fattesegli contro a impedirgli il cammino al «dilettoso monte», il poeta ha collocato la lupa, descrivendola così che anche il più stordito ragazzo di scuola intuisce che essa delle tre è la peggiore di tutte. Orbene la maggior parte degli antichi e moltissimi dei moderni, fermandosi alla prima impressione suggerita dalle brame, di cui quella bestia apparisce «carca ne la sua magrezza», non ha esitato punto a dichiarare che essa simboleggia l'avarizia. Né, continuando a leggere, si sono meravigliati che quel Dante, il quale nel preludio della sua sinfonia dell'avarizia avrebbe fatto il peggiore dei mali, nello svolgimento, invece di assegnarle il cerchio ultimo del baratro, mutato parere, ne ha fatto uno dei mali meno gravi punendola nell'alto inferno, mentre alla radice di questo ha cacciato Dite, il cui maledetto superbire, come si farà poi confermare da Beatrice, fu «principio del cader».
La contradizione, più che evidente, avrebbe dovuto, direi, richiamar l'attenzione sul significato attribuito forse con troppa fretta alla lupa, e consigliar gli studiosi a ricercare, se non fosse stato possibile conciliar Dante con se stesso e co' suoi primi chiosatori. L'una cosa e l'altra sarebbe stata relativamente facile, purché si fosse osservato che presso gli antichi la parola avarizia suona assai spesso sinonimo del vizio che preferiamo chiamar cupidigia, per attenerci così al linguaggio del Poeta, come a quello di san Paolo, che la definisce radix omnium malorum. Sarebbe bastata dunque un po' di riflessione per sospettare che quella mala bestia non dev'essere figura dell'avarizia, quale la intendiamo oggi comunemente, e per accorgersi che le qualità, date dal Poeta alla lupa, non convengono e non possono convenire in tutto con l'avarizia, la quale, a dir la verità, ce la immaginiamo carca d'una sola brama, mentre la lupa dantesca è «carca di tutte brame» e madre delle colpe più gravi - Anche della superbia? anche dell'invidia? - Anche di queste e di altre, senza dubbio. Si apra il Purgatorio al canto XVII e non si stenterà a trovare che il Poeta lo dichiara esplicitamente, una volta che per lui superbo è
chi per esser suo vicin soppresso
spera eccellenza e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo;
invidioso
chi podere grazia onore e fama
teme di perder perch'altri sormonti,
onde s'attrista sì che 'l contrario ama;
e iroso
chi per ingiuria par che aonti,
si che si fa de la vendetta ghiotto
e tal convien che il male altrui impronti.
(115-123)
Si vada al canto XX, e si vedrà che l'avarizia fu una cosa sola con la lupa (v. 10), è vero, ma che Dante lì parla d'un'avarizia che è cupidigia e non altro che cupidigia, se le anime tra gli esempi del male punito nella quinta cornice rammentano Pigmalione che fu “traditore ladro e parricida”, e Polinestore che «ancise Polidoro”.
Tanto l'ira, quanto l'invidia e la superbia son generate da una mala brama, com'è chiaro a chiunque non ignori come il male altro non sia che mala volontà, e dovrebb'essere chiarissimo ai lettori di Dante, il quale non si contenta di accennare di passaggio alla dottrina, espostagli da Virgilio intorno all'amore quale sementa d'ogni virtù “e d'ogne operazion che merta pene”, ma ci torna su, fingendo di non aver capito che sia quell'amore di cui il maestro gli ha ragionato (Purg. XVII, 91-139, XVIII, 13-39); e intona il XV del Paradiso ribadendo che ogni iniqua volontà si risolve in cupidigia. Ma poiché i luoghi da citare a conferma sarebbero troppi, mi ristringo a riferire quello che ci offre l'Epistola ai Cardinali d'Italia. Dopo detto che la cupidigia sacerdotium vetus abominabile fecit, rivolgendosi agli elettori del nuovo papa esclama: Cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem, quemadmodum et vos, que numquam pietatis et equitatis, ut caritas, sed semper impietatis et iniquitatis est genetrix. Si può giurare che nell'atto di scrivere della lupa che si ammoglia a molti animali, per la mente di Dante passava lo stesso pensiero e la stessa immagine che parlando ai cardinali. E non aggiungiamo che nel periodetto riferito sono come compendiate alcune delle idee fondamentali di Dante, perché la dimostrazione ci menerebbe troppo lontano dall'argomento.
Non taceremo però che un maggior rispetto della lettera avrebbe messo in grado di fermare un altro punto di grande importanza per l'esegesi del poema. Oltre a essere carca di tutte brame, la lupa
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide.
(Inf. I, 95).
Davanti un'affermazione di tanta gravità, qualora i lettori non andassero dietro a spiegazioni bell'e fatte, avrebbero dovuto aggrottar le ciglia e domandarsi: Qual male dunque diremo che si celi in corpo a quella bestia malvagia? L'avarizia, quale l'intendiamo noi, no di certo; ma nemmeno questo o quello degli altri vizi capitali, non essendocene nessuno di tal virulenza da dover disperare di liberarsene. Come non c'è fondo di valle, da cui non si possa scorgere un lembo di cielo, così non esiste gravità di misfatto che c'impedisca di rivolgerci a Dio con la speranza che ci aiuti a rilevarci. È doottrina cristiana notissima; e Dante le deve una delle sue terzine più grandi:
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei.
(Purg. III, 121).
Ma è perfettamente inutile continuare nella ricerca. Un peccato che offende tutti, senza eccezione, e dal quale l'uomo, per quanto buon volere ci metta, non può salvarsi da sé, nella teologia cattolica c'è e si chiama peccato originale. La lupa di Dante, una volta che non si spiega, se non facendola equivalente a questo, bisognerà pur rassegnarsi a dire che rappresenta una nuova colpa originale. Ve ne manca il coraggio? Avete torto. Caso mai sarebbe dovuto mancare a lui; ma il Poeta non esita punto a scrivere, non solo, ma a farsi ordinare da Beatrice in persona che, tornato al mondo, deve far conoscere in quale condizione ha veduta la pianta – “dispogliata di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo” - e non tacere che essa “è or due volte dirubata quivi”, nel luogo cioè dove l'aveva veduta (Purg. XXXII, 38, XXXIII, 57).
Quando misi fuori la prima volta questa interpretazione del poema, qualcuno mi obiettò che la colpa di origine, come fa intendere la parola stessa, poteva commetterla solamente Adamo. E aveva ragione, se voleva dire che di primi uomini ce n'era stato uno solo, quello creato da Dio, e che i suoi discendenti potevano tornar a commettere lo stesso peccato e non commetterlo essi per i primi; ma poiché la colpa umana altro non fu, per Dante, che violazione dell'interdetto, non si vede per qual ragione i figli non potessero rinnovare la colpa del padre. II fatto sta che così non parve a Dante, il quale asserisce solennemente che la pianta del paradiso terrestre, quella stessa da cui Adamo spiccò il frutto proibito, è stata dirubata la seconda volta, e, quasi avesse preveduta una simile difficoltà e volesse risponderle in anticipazione, si fa diligentemente istruire da Beatrice intorno alla natura di tal dirubamento:
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio
che solo a l'uso suo la creò santa.
(Purg. XXXIII, 58-60)
A chi direbbe la santa donna e per qual fine parlerebbe ammonendo in tal guisa, se l'offendere da capo la giustizia divina fosse impossibile? Al contrario, aggiunge che non occorre, dirubando la pianta, avere la stessa intenzione dell'antichissimo padre; perché il male è nel fatto per se stesso, anche se si schianti con le più oneste intenzioni del mondo, come dimostra Costantino imperatore, il quale, racconta l'aquila nel cielo di Giove,
con le leggi e meco
sotto buona intenzion che fe' mal frutto
per cedere al pastor si fece greco.
(Par. XX, 55-57)
Ma la sua retta intenzione non ha impedito che per quella divisione dell'impero “sia ‘l mondo indi distrutto”. Come mai? Chi ami saperlo può sodisfare agevolmente alla sia curiosità rileggendo la seconda parte del primo libro di Monarchia, dove è largamente dichiarata per quali motivi iustitia potissima est in mindo quando violentissimo et potentissimo subiecto inest; huiusmodi solus Monarcha est: ergo soli Monarche insistens iustitia in mindo potissima est (XI, 8), insieme con tante altre cose utili a conoscersi per veder nettamente nel pensiero di Dante.
Può darsi, anzi si darà quasi di sicuro che il Croce non faccia nessun conto di simili discorsi, poco o nulla importandogli che la lupa simboleggi l'avarizia, o la cupidigia quale causa precipua delle tristissime condizioni in cui gli uomini, al parere del Poeta, erano ricaduti dopo la donazione di Costantino, o qual altro male si voglia. Ma ho preferito questo esempio e mi sono indugiato un poco sopr'esso, per due ragioni non prive d'interesse anche per un lettore moderno.
Innanzi tutto credo di aver dimostrato, altrove, in maniera inconfutabile che per aprire le allegorie di Dante si richiede una cosa sola: di attenersi rigorosamente alla lettera, servendosi naturalmente di tutti i sussidi che ci possono venire dalla conoscenza dell'età in cui il Poeta visse e, più ancora, dalla conoscenza di ognuna delle sue opere. Facciamo lo stesso per il chiarimento di ogni scrittura. E poiché ciò che ho tentato rispetto alla peggiore delle tre fiere, sarei disposto a ripeterlo per ciascuno dei così detti problemi danteschi, i quali son problemi solo per colpa dei commentatori, smaniosi di trovar la spiegazione prima d'aver letta attentamente l'opera intera, e incuranti di chiedersi se la spiegazione non fosse più giusto cercarla nell'insieme, e non separatamente, volta per volta, secondo che ci s'imbatte in luoghi più o meno allegorici; per me rimane indiscutibilmente provato che la confusione si deve in tutto e per tutto ai chiosatori, che si son messi alla loro fatica senz'aver prima afferrato il pensiero che circola in tutta la Commedia e la anima, e, quel ch'è peggio, senza osservare la norma fondamentale d'ogni lavoro di tal fatta, la quale esige che s'interpreti il più fedelmente possibile la lettera del testo preso a illustrare.
In secondo luogo, chiarito che sia il significato della lupa, molte figurazioni della Commedia acquistano immediatamente un altro valore, si fanno “di color nuovi”: cessano, voglio dire, di apparire parti strutturali pure e semplici, inventate caso per caso a fin di dar modo al Poeta di costruire le sue scene e gittarvi dentro i suoi sentimenti, e si appalesano come membra di un unico organismo, e quindi necessarie, d'una necessità che deriva dalla concezione stessa del poema.
Se gli uomini, per esempio, in seguito alla scissione dell'unità dell'umana famiglia prodotta da Costantino col donar Roma al papa, hanno ricommessa la colpa di Adamo e sono, secondo Dante, nel medesimo stato dei vissuti avanti la Redenzione, tutti fuori del retto cammino, nessuno più avrà il diritto di aver a noia l'allegoria della “selva oscura”, dov'è un “passo che non lasciò già mai persona viva”, dicendo che sono indovinelli, impossibili a decifrare con certezza. L'immagine della selva per rappresentare lo stato della barbarie primitiva si può dire che non l'ha creata lui, ma il genere umano. È antichissima, e l'adoperiamo tuttora parlando di selvaggi o di uomini rinselvatichiti. Dante ha avuto il buon gusto di servirsi di una metafora consacrata da secoli a esprimere la sua idea, che se in qualcosa si differenzia da quella dei poeti greci e latini, si differenzia in ciò che per lui la vera barbarie, il male che è male, consiste nel peccato. Poteva, dicendo che nella selva è un passo “che non lasciò già mai persona viva”, temer di riuscire oscuro, una volta che si rivolgeva a lettori cristiani, i qual devono sapere dal primo all'ultimo che il peccato è morte e nel paccato originale nasciamo tutti?
Si tenga ben fermo il significato della lupa e si vedrà che l'apparire delle tre fiere a respinger Dante “dove il sol tace” viene da sé. Il male aveva ripreso il suo dominio incontrastabile su tutti i viventi, li aveva di nuovo assoggettati al suo potere, così che per virtù sua nessuno valeva a sottrarsene. Poteva permettere che Dante se ne liberasse e riconquistasse la sua libertà? - Non poteva - Perciò aizza contro il Poeta l'una dopo l'altra tre fiere, cominciando naturalmente da quella da cui egli era stato già sedotto, ossia dalla lonza che è lussuria, o gola, o avarizia; o ira, o accidia, colpe in cui cadono la maggior parte degli uomini e che nel baratro occupano i cerchi dell'incontinenza che sono i più ampi. Ma visto che alle lusinghe della fiera snella questa volta Dante non cede, anteponendo ad essa le bellezze eterne, l'inferno si prova a sgomentarlo con il leone, che è violenza. Visto che nemmeno così ottiene l'intento, manda finalmente la lupa, che per le ragioni esposte è ridiventata invincibile a forze umane; ond'egli è costretto a ruinare, piangendo, verso la selva oscura.
Ma perché proprio tre le fiere, né una di più, né una di meno? - Per la semplice ragione che esse figurano le tre forme principali del male, che è uno e trino, come il bene a cui si contrappone.
Intanto per una grazia specialissima Dante è uscito fuori del laberinto della selva selvaggia e muove i primi passi verso il colle della felicità terrena. Giungerà? Non è concepibile, se prima il mondo non sia redento dalla nuova colpa umana. Anche i patriarchi dell'Antico Testamento, sebbene virtuosi e credenti nel Cristo venturo, rimasero in potere di Dite fino a che il Possente non scese a infrangere le porte del Limbo. E fino a che non venga un grande, capace di ucciderla, la lupa seguiterà a far irremissibilmente sue prede.
Di qui l'annunzio del Veltro, e di qui pure la necessità per Dante di tenere “altro viaggio”. La struttura del poema obbedisce al pensiero che lo informa. Anche per la elezione di Virgilio? - Anche per quella -.
Per ricondurre il mondo sotto l'impero della legge e riconciliarlo a sé, nella Redenzione operata dal Verbo, Dio aveva scelto a ministro della sua giustizia il popolo di Roma (Conv. IV, v). Nella nuova, anche se si compia secondo un processo meno alto e magnifico, si può supporre che Dio ricorra a un altro popolo e si serva di un altro segno, che non sia quello sacrosanto dell'aquila? No, di certo, se ripensiamo che i giudizi divini sono immutabili, come sapeva bene il Poeta allorché fa che Giustiniano, rivolto a Carlo II d'Angiò, lo ammonisca in tono alquanto irrisorio di non darsi a credere “che Dio trasmuti l'arme per suoi gigli” (Par. VI, iii). Roma doveva dunque intervenire con l'opera sua. E se doveva intervenire, quale fra gli spiriti magni più degno di rappresentarla di Virgilio? Egli il cantore del giusto e pio figliuol d' Anchise, venuto da Troia in Italia per fato divino; egli il vate dell'Impero la cui giurisdizione si sarebbe estesa su tutto il mondo umano; egli colui che a preparare l'avvento dell'Impero e della Chiesa aveva condotto il suo eroe a secolo immortale, e nell'imminenza della nuova fra aveva, obbedendo alla ispirazione del cielo, profetato:
Secol si rinova:
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova.
(Purg. XXII, 70-72)
Si provi chi vuole a trovare parole che meglio riassumano il messaggio, che Dante deve, per ordine dell'alto, annunziare a' suoi contemporanei, e dovrà riconoscere che Virgilio è il duca, il signore e il maestro nato del nuovo poeta. L'Eneide e la Commedia hanno la stessa ispirazione, dicono la stessa cosa, mirano allo stesso fine.
Tuttavia a riscattare il genere umano dalla colpa di Adamo la giustizia non sarebbe bastata, essendo noi ordinati a godere due felicità: si richiedeva anche la pietà. E Dio aveva eletto a tal fine un altro popolo, l'ebraico, che con la progenie di David avrebbe dato alla luce Maria. Seguendo da vicino lo stesso disegno, ora ha mandato sulla terra una giovinetta, Beatrice, la quale rende come nessun'altra l'immagine di Maria. Si capisce allora perché costei, su nell'empireo, nel punto che il gran dramma incomincia chiami a sé Lucia personificazione della giustizia divina, come ci fa intendere scendendo in forma di aquila dalle penne d'oro, e Lucia si affretti a sollecitare l'aiuto di Beatrice, personificazione della pietà divina, di cui è ministra la Chiesa; perché vedessimo che, non altrimenti dalla prima volta, in cui operarono le Tre persone divine, la pace novella con gli uomini sarebbe stata fatta in perfetta concordia da quella Trinità femminile del bene.
In breve, la struttura della Divina Commedia dipende tutta da un unico pensiero; e presumere di risolvere il problema dell'unità estetica del poema senza curarsi di sapere qual è l'idea che domina la mente di Dante, l'esalta, l'accende e le dà il suo tono, a me sembra vanità. Come noi delle verità più certe, egli è convinto che Dio ha formato l'humana civilitas così che questa per giungere alla felicità temporale ed eterna a cui aspira, ha bisogno assoluto delle due guide supreme, dell'Imperatore e del Pontefice. Ma poiché a' tempi suoi l'un sole aveva spento l'altro, per la cupidigia che aveva ammaliati tutti, n'era seguito che l'umana famiglia s'era interamente sviata. Possibile durare in perpetuo in tale stato? Un uomo della fede religiosa di Dante non poteva ammetterlo: doveva pensare di necessità che il bene avrebbe di nuovo trionfato sul male. Quando? Di lì a non molto; perché Dante ha il chiaro presentimento che nel mondo si prepara qualcosa di nuovo. Un segno l'ha riscontrato nell'apparizione di Beatrice, creatura di cielo, e un altro nei fenomeni mirabili che per mezzo di visioni e rivelazioni lo hanno persuaso che le sue buone disposizioni d'animo e d'ingegno in tanto le aveva avute, in quanto un giorno gli sarebbero servite a dire di lei ciò che non fu mai detto d'alcuna e a dare l'annunzio del prossimo rinnovamento del mondo. Ma s'è sviato anche lui dietro lo splendore indicibile degli occhi della donna gentile e ha dimenticata la missione a cui era mandato; o meglio, ha creduto di adempirvi in una maniera alquanto diversa, non dicendo le lodi di Beatrice, che è fede, ma quelle della ragione. Dopo lunghi anni trascorsi in questo errore, in grazia d'una mirabile visione impetratagli da Beatrice, si ravvede. Lascia incompiuto il Convivio, inteso alla celebrazione della donna gentile e si dà anima e corpo alla Commedia per gridare a tutti coloro che soffrono, oppressi dal male: Sollevate le vostre anime. La salvezza è più vicina che non si creda. Il mondo sta per riprendere il cammino segnatogli da Dio e dalla storia. Per preparare l'avvento al grande che immancabilmente verrà, io vi ridirò le cose vedute nei regni eterni dello spirito, e vi persuaderete che al conseguimento dei fini altissimi dell'uomo è necessario che la famiglia umana sia una e abbia per guida le virtù della giustizia e della pietà.
Ma mentre noi diciamo queste cose solo per esporre il suo pensiero e incuranti perfino di ricercare la parte di vero che contengono - tanto siamo lontani dal suo modo di vedere! - egli le dice con ben altra convinzione. Dante crede fermamente a quanto asserisce; crede di essere stato investito da Dio della missione di predicarlo agli uomini, e si mette all'alto lavoro, non per comporre un poema, non per creare un'opera d'arte, ma per obbedire alla voce interiore che glielo comanda e rendere così il servizio più grande all'umanità presente e futura, con la passione di un veggente, con lo stesso ardore dei profeti più grandi dell'Antico Testamento.
Chi non muova da questo punto, non penetrerà mai fino in fondo nello spirito del Poeta, e lo intenderà solo in parte. La Commedia è nata da una convinzione che si è formata adagio adagio e, dopo lunghi contrasti, ha preso alfine l'anima di Dante e l'ha rivolta interamente a far manifesta l'alta visione ch'egli ebbe della vita mortale e immortale. Sotto il velame delle sue figurazioni palpita sempre il suo grande sogno, politico morale e religioso insieme, ma sogno che non è frutto di una più o meno poetica immaginazione, bensì d'un'idea dominante, vagheggiata amata invocata con la fede più viva.
Come dunque si potrebbe concedere che per capire e gustare la sua poesia non occorre decifrare le sue allegorie? Alle allegorie Dante ha consegnato in gran parte il suo pensiero, per cui esse non sono un indovinello, ma una forma di linguaggio, una maniera di esprimersi.
Concederò volentieri che non sempre questa maniera ha favorito l'opera d'arte; ma non perché tra essa e la bellezza ci sia un dissidio insanabile, che non permette loro di star insieme, come non stanno insieme e non si combinano l'acqua e l'olio. Le allegorie della Commedia traggono l'origine dallo stesso principio che ha presieduto alla formazione di tutte le favole e di tutte le parabole che sono state scritte. Possibile che né a Esopo, né a Fedro, né a Lafontaine sia mai accaduto di creare una bella favola? A me pare ce ne siano di quelle destinate a piacere finché dura il mondo. E lo stesso si dica delle parabole del Vangelo di Gesù. Chi oserebbe sentenziare che quella del chicco di senapa, del figliuol prodigo, del fariseo, del pubblicano e della adultera, per citare le più note, non siano belle? Ma chi d'altra parte, si sentirebbe di provar che non sono nate da un pensiero morale, o non siano la veste, assunta da questo o quel pensiero nella mente del compositore di parabole e di favole? La mitologia greca non credo che abbia avuto origine diversa. Ma allora, quanta poesia ci toccherebbe gittar a mare, se fosse vero che dov'è allegoria non è poesia, e dov'è poesia non è allegoria. L'arte è un fiore che sboccia così, da sé, in chi è nato poeta; ma ritengo sia molto difficile determinare volta per volta quanta parte vi abbiano avuto le radici e il tronco, i rami e le foglie, l'aria e la terra, il calore e la luce.
Uno, per esempio, dei luoghi più fitti di allegorie va dall'ottavo al decimo dell'Inferno. La poesia vi è diffusa così largamente che nessuno credo sia stato mai tentato di giudicare quei canti non belli. Al contrario, a giudizio quasi universale, sono fra i più vivi della prima cantica, quantunque molte cose non si siano ancora finite di capire.
Il contegno di Dante verso Filippo Argenti non si spiega. Proprio lui, il Poeta, lo ha collocato nell'alto inferno; non dunque fra le anime più nere. E neppure ci ha raccontato misfatti tali da giustificare il trattamento che gli serba: è uno spirito bizzarro, un orgoglioso e nulla più. Non ha compiute azioni che facciano benedire alla sua memoria, ma nemmeno che la disonorino. Nondimeno con nessun'altra anima d'inferno Dante si mostra così implacabile, così spietato. Non contento dell'odio che gli porta lui, fa che Virgilio, l'umanissimo Virgilio, approvi e lodi la sua bramosia di vendetta, lo abbracci e lo baci, subito che ha respinto quel disgraziato tra gli altri cani. È l'unico bacio che dia all'alunno in tutto il suo viaggio, e perché poi? Per l'amaro disdegno con cui questi ha risposto a quel furioso. Non contento ancora, fa che Dio stesso assecondi le sue ire contro quel “misero grande matto” e intervenga direttamente ad appagargli la brama di vedersi vendicato. Se i compagni di pena danno tutti insieme addosso all'Argenti e ne fanno strazio, il Poeta fa intendere molto chiaramente di dover questa gran soddisfazione a Dio stesso:
Dopo ciò poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
(VII, 58-60).
E dire che Dante è caduto come corpo morto al racconto di Francesca, ha provata una grande pietà di Ciacco, e alla vista della ridda a cui son condannati gli avari e i prodighi non ha nascosto d'aver “Io cor quasi compunto”, Un disdegno della stessa specie, ma non della stessa gravità, l'ha sentito solo contro i vilissimi del Vestibolo. Sì che la crudeltà usata con l'Argenti ci colpisce e ci disorienta alquanto. Possibile ammettere che si debba a un risentimento personale, come fantasticarono alcuni fra gli antichi e hanno ripetuto alcuni dei moderni? Che Dante cioè facesse il viaggio, che si fa solo per motivi altissimi· e per singolarissima grazia divina, anche per dare sfogo alle sue ire private? Non escludo che l'abbia fatto, perché nelle sue opere ci fornisce prove in abbondanza che nell'ira doveva apparire tremendo; ma non posso concedere l'abbia fatto in modo da scoprirsi. Dopo pochi canti si sarebbe dimenticata l'ispirazione principale della Commedia e si sarebbe posto in aperta contradizione con l'ufficio commessogli.
Queste e altre ipotesi le facciamo, perché non si ha nelle mani il filo conduttore del suo pensiero. Proviamo un po' a ripescarlo, partendo sempre dall'idea della corruzione totale del mondo, cagionata dalla scissione dell'unità dell'Impero per la donazione di Costantino.
La lupa, l'abbiamo ripetuto a sazietà, “non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide”. Lascerà passare Dante e Virgilio, che ormai si appressano alla Città di Dite, dove ha inizio il suo regno? II regno cioè della cupidigia, madre di empietà e ingiustizia, come di empi e ingiusti, o con forza o con frode, son pieni i cerchi contenuti dentro quelle mura di fuoco, dagli eretici ai traditori? Sarebbe curiosa che Dante se ne fosse dimenticato. Ma son dubbi che con il nostro Poeta non hanno ragion d'essere. I suoi mondi egli li ha costruiti con tanta arte, che non si perita di attribuirne l'architettura allo stesso Dio:
O somma sapienza, quanta è l'arte
che mostri in cielo in terra e nel mal mondo!
(Inf. XIX, 10).
Non aveva alcun sentore di romanzi teologici, né di ruderi abbelliti da una ricca vegetazione di rose rampicanti, e gli pareva che ci fosse arte anche nell'ordine e nell'armonia delle parti con il tutto. Infatti la resistenza più fiera al suo passaggio, in corrispondenza esatta con il prologo, egli immagina di averla incontrata preciso alla porta di Dite da quei lupi più veri e maggiori, che sono i diavoli.
Avvertito dal terremoto che, nel passaggio misterioso di Dante traverso l'Acheronte, ha squassato il baratro da capo a piedi, l'inferno è alle vedette e si prepara a spiegargli contro tutte le sue forze, aspettando di coglierlo al varco dove si crede inespugnabile. I Poeti invero camminano ancora lungo le sponde della palude stigia che già, per far segno dell'avvicinarsi del nemico, non sappiamo da chi, due fiammelle vengono accese alla cima dell'alta torre, a cui un'altra risponde di lontano quasi per dire: Siamo intesi. Gli ordini sono immediatamente trasmessi, come mostra il pronto sopraggiungere di Flegias, che con parole minacciose tenta di indurre i Poeti ad arrendersi prima d'ingaggiar battaglia. Ma Virgilio gli fa ringoiar la subita ira, e montano sulla barca. Se non che alle minacce vane di Flegias tien subito dietro l'aggressione pericolosa di Filippo Argenti; più pericolosa forse di quanto comunemente non si reputi, una volta che Virgilio in un impeto di commozione abbraccia e bacia Dante, esclamando:
Benedetta colei che 'n te s'incinse!
I chiosatori in genere tiran diritto, paghi di capire così all'ingrosso che qui il dolce duca manda una benedizione alla madre di Dante. Pochi o nessuno si domandano che modo di parlare sia questo, per il quale riceviamo l'impressione che la madre sia nel grembo di Dante, e non viceversa. Rigiratela come volete: l'espressione non cesserà d'essere strana. Ma questo il Poeta lo sa benissimo, tanto che richiama principalmente sopra di essa l'attenzione dei lettori invitandoli a mirare “la dottrina che s'ascende sotto il velame delli versi strani”, Non prevedeva che i chiosatori avrebbero dato così poco peso alla lettera; mentre lui ricorre a un costrutto molto eteroclito, perché a quel punto ognuno cerchi d'intendere a quale madre il maestro alluda e in che senso costei possa essere e sia veramente in lui. La chiarezza del suo pensiero non gli è giovata; non gli è giovato di rappresentar Virgilio nell'atto di circondarlo con le sue braccia, d'incingersi in lui - intingere in latino significa circondare, recingere - nel punto stesso in cui benedice alla madre: peggio ancora, non gli è giovato il dichiararlo da sé pochi canti appresso, allorché si fa dire da Ser Brunetto:
La tua fortuna tanto onor ti serba
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fìa dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta.
(Inf. XV, 70-78).
Per entrar nel senso riposto dell'episodio dell'Argenti basta farlo seguire dai versi riferiti. Un fiorentino, di parte Nera e nero di fango, si avventa contro Dante per finirlo, ma n'è impedito da Virgilio che lo ricaccia indietro in mezzo ai cani suoi pari. Per questa volta l'erba è rimasta lontana dal becco che voleva farsene strame. E il becco è di un'autentica bestia fiesolana, che, entrata in furore volge i denti contro se stessa, e fa strame di se medesimo. La pianta che bramava divorare era sorta davvero di mezzo al letamaio fiorentino, molto affine, credo, a quel brago dove stanno come porci gl'iracondi; e in essa riviveva davvero “la sementa santa” di Roma, della quale una volta che Firenze era “bellissima e famosissima figliuola” (Conv. I, III, 4), sarà stato sicuramente figliuolo il fiorentinissimo Dante.
Detto questo, ascoltate cioè le parole di ser Brunetto, l'episodio s'illumina in ogni sua parte e ogni ombra svanisce. Si spiega perché Virgilio abbracci e baci l'alunno: lo ha salvato per un pelo dai furiosi che lo avevano cacciato in esilio, condannato al taglio della mano e a essere arso vivo. Ma perché salvar Dante significava conservare al mondo uno dei pochissimi fedeli di Lucia, personificazione della giustizia divina, il dolce padre che la rappresenta non può trattenersi dal benedire a colei che lo aveva generato. A chi dunque? L'unica espressione, che costringe a un po' di sottigliezza per essere in tutto chiarita, s'incontra, se non m'inganno, nel verso:
Benedetta colei che 'n te s'incinse!,
il più strano senza dubbio di tutto il canto. Ma l'avviamento a risolvere il piccolo enigma ce l'offre il Poeta stesso rassomigliandosi a una pianta in cui rivive il santo seme di Roma. Come la pianta, nata da un seme, produce a sua volta altri semi in cui il primo rivive e si perpetua; così in Dante, nato di seme romano, rivive la virtù romana, che è appunto quella che lo salva dal tentativo di quell'iracondo e alla quale Virgilio benedice. Mi si chiederà da che cosa si rilevi ciò che affermo. Prima di tutto dal fatto che in realtà Dante è salvato da Virgilio, cantore della giustizia dell'Impero e quindi rappresentante di Lucia. In secondo luogo da alcuni passi paralleli del poema, dove Dante rappresenta Virgilio in funzione di madre e sé in funzione di piccolo figliuolo. Scendendo e risalendo per le ripe della bolgia dei simoniaci il maestro, con non piccola sorpresa dell'alunno, lontanissimo dal sospettare che quegli adempia, e di sua spontanea volontà, a un ufficio tanto umile, se lo reca tutto su al petto, proprio come la madre fa con il figliuolo (XIX, 125), e poi lo abbraccia di nuovo per deporlo al colmo del quarto ponte. “Quivi soavemente spuose il carco”, proprio come fanno le madri1 . Di lì a poco per sottrarlo ai roncigli dei diavoli della quinta bolgia, da capo, Virgilio, “come la madre ch'al romore è desta”, piglia Dante, se lo stringe al petto e si gitta supino sulla ripa pendente della bolgia degl'ipocriti, dice il Poeta,
portandosene me sovra 'l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
(Inf. XXIII, 50).
Raffiguratevelo in quella posizione e poi dite se Virgilio non rassomigli davvero a una mamma, grave del suo portato.
È chiaro dunque che nei casi che per una o per un'altra ragione il santo seme di Roma corre pericolo d'esser soffocato, la madre in persona di Virgilio accorre e lo salva. Son particolari della vita di Dante che ignoriamo; ma dall'aggressione improvvisa dell'Argenti e dall'inseguimento dei diavoli è lecito arguire che il Poeta, convinto sul serio d'essere stato eletto ad assertore e difensore dell'autorità imperiale necessaria alla giustizia e alla pace del mondo, dovette credere d'essere scampato dai Neri, che lo cercavano a morte, per l'intervento di una donna di cielo, da lui chiamata Lucia, perché solo col nome avrebbe fatto pensare al minor luminare, che moralmente significa la giustizia divina e storicamente Roma.
Alla medesima conclusione si arriva se stiamo fedelmente alla lettera, e, com'è primo dovere degl'interpreti, ci studiamo di dare alle parole quel significato a cui non ripugnano e che ne spiana l'intelligenza. “Benedetta colei che in te s'incinse” significa: Benedetta colei che cinse sé intorno a te, che ti circondò cioè e ti difese, proprio come fa Virgilio intanto che pronunzia queste parole. Con la quale spiegazione non si esclude punto il senso che tutti danno a quel verso, ma senza curarsi di ricercare se una benedizione a madonna Bella avesse la sua ragione in quel punto e in quell'ora. Anche Geremia, accennando a un misterioso nascimento, ricorre a una frase simile: foemina circumdabit virum (XXXI, 22), essendo anche materialmente vero che una donna “gravida d'infante” - questo il costrutto degli antichi (Testi fiorentini del dugento e dei primi del trecento ... a cura di A. Schiaffini, pag. 213, Firenze, Sansoni) - lo circonda davvero con il proprio corpo, lo nutre di sé e lo difende. Potrei convalidare la mia interpretazione con le Epistole quinta, sesta ·e settima, e, premesso che in latino viscera vale pure figliuolo, riferire in proposito che nell'ultima di esse Firenze è rassomigliata a una vipera versa in viscera genetricis (VII, 24): immagine che ha il suo perfetto riscontro e si concreta in Filippo Argenti che si avventa contro Dante, il figliuolo più fedele di Roma genitrice. Me ne dispenso per non ripetere qui ciò che ho esposto altrove, facendo vedere come le scene dello Stige altro non siano che una geniale trasfigurazione dei fatti più memorabili che accompagnarono l'opera infelice di Arrigo VII, a volte con le stesse parole dei cronisti del tempo e delle Epistole sopra ricordate; come la "trista conca" riproduca, adattandola ai bisogni dell'arte, quella in mezzo a cui siede Firenze; “la morta gora” rimandi evidentemente all'Arno, degenerato in un fiume infernale, sulle cui rive ci sono già quasi tutte le bestie - porci, cani ringhiosi e lupi - che le popolano su nel mondo, come sanno quanti ricordano il XIV del Purgatorio; e come, finalmente, tra le Epistole e le rappresentazioni dello Stige e della Città di Dite, oltreché somiglianza di espressioni, si scopra lo stesso stato d'animo, la stessa passione (Il poema sacro, val. II, capp. I, II e III, Zanichelli, Bologna 1915). Se qui mi permetto di richiamarle, gli è per dimostrare che la conoscenza dell'allegoria, sempre utile, è spesso necessaria alla intelligenza della Commedia, e quindi della poesia di Dante, salvo non si arrivi a sostenere che il conoscere ciò che più vivamente appassiona un poeta non importa a gustarne e valutarne l'arte.
Nondimeno mi rendo benissimo conto della fermezza con cui il Croce, tutte le volte che l'occasione lo tenta, torna all'attacco contro l'allegoria, come cosa del tutto estranea alla poesia. Egli ha in mente una specie di allegoria, che in sede estetica e anche fuori di questa merita d'essere incondizionatamente riprovata: di quella cioè che consiste nello scovar tra le parole di un poeta dei sensi nascosti, che l'autore non si è mai sognato di metterci; o di quella che consiste nel dire una cosa intendendone un'altra; ovvero nel fare a nascondino, come scrive lui stesso, nel comporre indovinelli e sciarade, che poi, come osservai altra volta, non sarebbero neppure indovinelli e sciarade, se con quei segni, quelle parole e quelle figure non esprimessero, sebbene in maniera piuttosto oscura, ciò che il compositore di essi pretende sia indovinato da chi si diletta di simili giuochi e ha tempo da perdere. Ma la Commedia di coteste allegorie è affatto ignara: la Commedia conosce soltanto quelle che si compongono di racconti immagini e rappresentazioni, trovate a bella posta per manifestare un determinato pensiero, e sono quindi impossibili a spiegarsi, se prima non se ne intendono le parole, come insegna Dante nel capitolo primo del secondo libro del Convivio.
Ma Dante, si osserverà, ha anche dichiarato di proporsi nel Convivio di “mostrare la vera sentenza” di quattordici sue canzoni, e soggiunto che tale sentenza “per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosta sotto figura d'allegoria” (Conv. I, II, 17). Chi potrebbe negarlo? Ma una volta che, accingendosi all'interpretazione delle sue canzoni, il Poeta prova il bisogno di parlare dei diversi sensi in cui si possono intendere e si devono esporre le scritture, e, distinto l'allegorico dagli altri, non si stanca di ripetere che la chiave di tutti è e dev'essere il “litterale” come quello che sempre “dee andare innanzi”, perché ne la sua “sentenza li altri sono inchiusi” e senza di esso “sarebbe impossibile e inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico”; e ci ragiona su e ne fornisce le prove per conchiudere che “la litterale dimostrazione è fondamento de l'altre, massimamente de l'allegorica”, e che “impossibile è a l'altre venire prima che a quella”; possiamo essere più che certi che egli conosceva un'allegoria intimamente unita con la lettera, che non si scopre se non per mezzo della lettera, la quale sempre è “subietto e materia de l’altre sentenze, massimamente de l'allegorica” (Conv. II, I): un’allegoria dunque ben diversa da quella a cui accenna nel libro primo, che non può essere decifrata se lui non la conta.
Oltracciò, Dante è convinto d'un'altra verità, che oggi si direbbe lapalissiana; ed è che si parla e si scrive per farsi intendere. “Le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa” (Conv. I, II, 7). “Lo sermone lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa (ossia lo manifesta), e più virtuoso quello che più lo fa” (V, 12). “Queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere disposte (ossia esposte) a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese” (VII, ii). La propria operazione del volgare “è manifestare conceputa sentenza” (X, 9). “E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto si è più amato e commendato: dunque è questa la sua prima bontade” (XII, 13).
Se si pensa che tali riflessioni si leggono in quello stesso libro primo del Convivio dove, poche pagine innanzi, egli aveva scritto che il senso allegorico delle sue canzoni non era possibile scoprirlo senza la sua dichiarazione, due sono le ipotesi possibili: o che Dante si curasse molto poco di dire e disdire, di mettersi in aperta contradizione con se medesimo, o che in que’ due diversi luoghi parlasse di allegorie di diversa specie. Sapendo per mille prove qual sottile e attento ragionatore egli sia, e quanta premura si prenda di chiarire i luoghi in cui si potrebbe coglierlo in contradizione, la prima ipotesi è da scartare senz'altro. Non resta che attenersi alla seconda, la sola possibile e vera, e concludere che alla fine del secondo capitolo del primo libro conviviale egli allude a quella specie di allegoria con cui durante il medioevo si pretese scovare in Virgilio sensi ai quali egli non aveva mai pensato; com'è la sua allorché assicura che la donna gentile, di cui s'innamorò dopo la morte di Beatrice, è la filosofia, signora rispettabilissima, ma che per quanto si cerchi in quelle canzoni non c'è, perché lui, componendole, non s'era mai curato di mettercela; e al principio del secondo libro ragiona invece dell'allegoria vera e propria, che si ha quando, per esempio, in cambio di dire d'essersi accorti di vivere in un tempo in cui nessuno o soltanto pochissimi tengono il buon cammino, si dice d'essersi ritrovati per una selva oscura; in cambio di raccontare che volendo rimettersi sulla via del bene uno ha trovato difficoltà, prima nelle male abitudini acquisite durante il periodo del proprio smarrimento, poi nella violenza che infieriva su tutte le terre d'Italia e poi nella cupidigia che aveva tolto a tutti la possibilità di far giustizia e ottenerla, si racconta che uno è stato impedito da tre fiere, ossia dalle tre forme che il male assume; in cambio di affermare che non è possibile liberarsi da sé dal male predominante e non si può giungere più al proprio fine, se il cielo non ci mette lui le mani, si scrive che ci vuole il soccorso della potenza di Maria, della giustizia di Lucia e della pietà di Beatrice; per dare a intendere che l'inferno farà l'estremo di sua possa, perché il cielo non gli ritolga le prede ricchissime ch'è tornato a fare tra gli uomini in seguito alla donazione di Costantino, si faranno apparire sulla torre dalla cima rovente tre Furie, simboli dei tre mali - violenza, frode e tradimento - che rimangono a vincere. - A vincere, si dirà e molto a proposito, resta pure l'eresia che s'incontra subito di là dalle mura di Dite. - Infatti, giacché que’ due viatori dell'oltremondo fanno chiaramente capire di non aver punto paura delle Furie, l'inferno invocherà l'apparizione del Gorgon, in cui è una minaccia della quale Virgilio invece mostra di temere moltissimo. Perciò ordina subito a Dante di voltarsi indietro e di chiuder bene gli occhi, spiegando anche all'alunno la gravità irreparabile del pericolo:
ché se il Gorgon si mostra e tu 'I vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso.
(lnf. IX, 56).
E Dante, docile, non pur si volta indietro e chiude gli occhi, ma se li tappa con le mani. Al maestro tuttavia non è bastato, e glieli chiude anche con le sue. Più chiaro di così il Poeta non poteva far capire che il vero pericolo di morte, la vera via per non uscir più dall'inferno, e quello che Virgilio reputava la tentazione più temibile d'ogni altra, sarebbe consistita appunto nel guardare il volto di Medusa. E sia, si dirà; ma che mai rappresenta quella testa? Se non vi lasciate pigliare dall'impazienza, di qui a poco il Poeta vi farà sorgere alla fantasia la faccia pallida e lagrimosa di Cavalcante de' Cavalcanti, dal mento in su, come fosse separata dal busto. Scendendo giù, nell'”orribil sabbione”, poneteci ben mente e vedrete che le faccie dei tre paterini che girano a ruota e tengono costantemente gli occhi volti a Dante, sono anch'esse come avulse in qualche modo dal busto. Scendete un pochino più giù, e nella quarta bolgia, che è di coloro i quali abusarono della parola di Dio, ecco che vi riappariranno faccie stravolte così che le lagrime cadono sulla schiena di quelli “scellerati”. Continuate a scendere. Nella bolgia nona, che è dei “seminator di scandalo e di scisma”, stupirete vedendo Bertran dal Bornio portare il proprio capo “pesol con mano a guisa di lanterna”. Fate ancora un po' di cammino e giunti che sarete al fondo ultimo del baratro, levando Io sguardo alla tre faccie di Dite, non vi sarà difficile avvertire che esse pure sono come indipendenti dal corpo che è uno. Da tutte insieme queste figurazioni si raccoglie che il Gorgon, ossia una testa separata dal suo principio, altro non può significare che una mente la quale, credendo di bastare a se stessa, ora per ira, ora per invidia e ora per superbia si separa dal suo principio, che è Dio, o dalla sua Carità.
Voglio dire con questo che facendo così largo uso di simboli Dante ha creato sempre poesia? A volte sì e a volte no, come avviene a tutti. Ma non per ciò si dimostra men vero che per capir la Commedia è necessario, oltre tante altre cose, spiegare le allegorie attenendosi rigorosamente alla lettera.