Dati bibliografici
Autore: Rocco Montano
Tratto da: Dante filosogo e poeta
Editore: Salerno, Roma
Anno: 2016
Pagine: 165-174
Nella stessa Lettera a Cangrande, a cui abbiamo fatto riferimento, Dante spiega che il suo poema è passibile di una interpretazione allegorica. Egli però chiarisce che il procedimento da seguire in questo caso non è quello comunemente applicato alla lettura dei poeti, ma quello che i teologi adoperavano per la Bibbia. La distinzione che egli così richiama era ben nota e molto netta per gli interpreti e teologi, ed è assai importante tenerla presente per una corretta interpretazione del Divino Poema.
Nel sistema seguito dai poeti e dagli interpreti di opere letterarie era stabilito che vi fosse un senso letterale, favoloso e fittizio, e, al di là di esso, significato da esso, un senso morale. La poesia era detta «favoloso integumento del vero». E l'esempio classico di questa forma di letteratura erano le opere di Ovidio, nelle quali c'erano delle favole, quella di Narciso o di Ero e Leandro, in cui era racchiusa una verità morale. Così nelle poesie allegorico-dottrinali che Dante aveva scritte e in parte commentate nel Convivio, la donna gentile, il suo riso, i suoi atti disdegnosi, le vesti lacerate delle tre donne venute a consolare l'esule erano certamente immagini inventate per parlare della Filosofia o della Giustizia. Questo sistema di composizione letteraria e di interpretazione era non solo molto diffuso, ma poteva passare per l'unico possibile. Era stato questo, certamente, il modo più semplice e più facilmente, più comunemente accettato per dare alla letteratura una qualche cittadinanza nel mondo cristiano: la rappresentazione artistica valeva ed era ammessa non per se stessa, ma per gli insegnamenti morali che per mezzo di essa il poeta poteva dare.
Si trattava in sostanza di un sistema che già il mondo classico aveva sviluppato e seguito, e il Cristianesimo lo aveva ereditato come la più facile giustificazione della poesia. Nell'ambito del pensiero e della estetica antica non era stata forse nemmeno possibile altra diversa legittimazione dell'arte. Avendo concepito che la vera realtà è quella del mondo delle idee, mentre le cose sensibili sono solo una immagine e una copia imperfetta del mondo vero, Platone aveva asserito che l'arte e la poesia, in quanto ci richiamano alla realtà sensibile e destano passioni ed emozioni le quali distraggono dalla contemplazione delle idee, dovrebbero essere bandite dalla città perfetta. Lo stesso Aristotele, che pur era mosso dal proposito di rivendicare il valore della poesia contro la condanna platonica, non aveva potuto pervenire a una vera giustificazione. Nonostante le sue esigenze realistiche, in effetti la verità era rimasta per lui quella della forma e degli universali. Il vero culmine della vita umana era restata la contemplazione filosofica.
La poesia in questo sistema aveva. certamente una funzione. Essa era in qualche modo necessaria. a crea.re nell'animo umano uno stato di assuefazione o di catarsi; con la visione di cose che destavano pietà o terrore essa liberava la mente da cosiffatte passioni e permetteva all'uomo di raggiungere l'equilibrio e la medietà che per il filosofo erano sinonimi di virtù. Ma si trattava in sostanza di una semplice utilità morale. L'arte non aveva a che fare con la contemplazione del vero. E, in conclusione, il mondo post-classico, trovandosi in presenza di opere, come quelle di Omero, che trattavano delle passioni e delle gelosie degli dèi, non aveva saputo far di meglio che considerare quelle opere d'arte e la poesia in generale come una creazione favolistica, racchiudente un insegnamento morale. Si era così diffuso il sistema delle interpretazioni allegoriche, e il Cristianesimo per vari secoli non aveva conosciuto altra via per dare alla poesia una giustificazione. L'opera di Ovidio, ricca di elementi favolistici che più si prestavano a una interpretazione allegorico-morale, raggiunse così una popolarità non uguagliata forse da nessun'altra opera. Il Roman de la Rose, col suo misto di figurazioni profane e di riferimenti allegorici, fu, nel secolo XIII, come la più caratteristica e più pregiata espressione della letteratura medievale.
Ma è da dire che una forma di letteratura come questa, fondata su elementi favolistici che spesso, col pretesto, falso o sincero, della allegoria e della moralizzazione, erano assai profani, fu ben lontana dal trovare consenso presso i teologi più avveduti e anche presso le coscienze cristiane più sensibili. Non solo i più rigidi esponenti dell'ascetismo e della semplicità, come s. Pier Darniani o s. Bernardo, condannarono senza posa ogni forma di letteratura, ma anche Abelardo, uno dei più grandi umanisti del suo tempo, sostenitore audacissimo della validità del pensiero classico, proclamò più volte e con ferma decisione che il Cristianesimo doveva assolutamente far proprio e inasprire il bando platonico contro i poeti. Non si trattava, certamente, di bandire l'arte, fa bellezza dal mondo cristiano: il Medioevo concepì la bellezza come uno degli attributi di Dio e uno dei segni della sua presenza nel mondo. Ed è certamente un pregiudizio l'idea, spesso diffusa, che la coscienza medievale, tutta dedita alla ascesi mistica, non poté apprezzare la bellezza del mondo: in nessuna altra epoca troviamo forse tante esaltazioni della bellezza del creato quante ne troviamo nel Medioevo.
Ma la poesia - almeno quale era allora conosciuta, quella classica o quella che sulla scia dei classici si era venuta formando, o quella delle popolari cantiones - non poteva non apparire come una forma di inutile e spesso pericoloso adornamento del vero, o una concessione a profane figurazioni. La verità della teologia o anche delle singole scienze era cosa ben più diretta e genuina e degna della coscienza cristiana. Cosi non possiamo meravigliarci che s. Tommaso, l'animo e il filosofo più aperto alle attività della vita e alle aspirazioni e conquiste umane, abbia qualificato la poesia come «infima inter omnes doctrinas» (Summa Theologiae, r, q. 1, art. 9, arg. 1). Non c'erano, al suo tempo, veri, grandi esempi di poesia cristiana che egli potesse apprezzare fuori degli inni religiosi, privi di ambizioni letterarie, composti per le esigenze immediate del culto. E la letteratura allegorica, bisogna dire, corrispondeva ben poco alle esigenze di una visione cristiana del mondo ed era in contrasto con gli stessi presupposti fondamentali dell'arte.
L'allegoria fu, in verità, la grande tentazione dell'occidente cristiano, ma fu anche la grande strada sbagliata dell'epoca. Non parliamo solo degli elementi favolistici, amorosi, profani di cui molto spesso essa si valeva. Il fatto è che nella concezione cristiana del mondo - contrariamente alla concezione greca - le cose, la realtà sensibile sono esse la Realtà; è il mondo dell'esistenza in tutti i suoi ultimi elementi il mondo in cui noi dobbiamo cercare Dio. Dio stesso è esistenza e non altro: Ego sum. «Le cose - chiarisce profondamente s. Tommaso - tanto hanno di verità, quanto hanno di esistenza». Non si tratta più di essenza o di forma come in Aristotele, ma dell'atto di esistere, che è dell'ultima creatura come della più alta. E questo vuol dire che una visione, un'arte cristiana, per essere veramente valide devono essere rivolte non a vani elementi favolistici, ma alla interrogazione diretta della realtà; devono considerare le cose nel loro essere sensibile, ritrovare il valore di ogni particolare, riconoscere in ogni aspetto, anche il più brutto e lontano, un fatto divino. Un'arte cristiana può essere solo un'arte realistica. Il fondamento di ogni considerazione del mondo non può essere che quello indicato da s. Paolo: «Le cose invisibili di Dio sono conosciute attraverso le cose visibili ove queste siano comprese» (ad Romanos, 120).
S. Tommaso non conobbe probabilmente la Chanson de Roland, né erano state ancora composte, al suo tempo, le Laudi in cui Jacopone da Todi doveva trovare alcuni dei più profondi accenti per dire il dolore di Gesti e della Madonna. La letteratura era, sostanzialmente, o una letteratura di evasione o di astrazione allegorica. Lo stesso Dolce stil novo, tranne che per alcune delle poesie di Dante a cui abbiamo accennato, comprese nella Vita Nuova, si mantiene su un piano di astrazione filosofica e di evasione che ha poco a che fare con il realismo cristiano. A parte questo, la letteratura allegorica è, come si è detto, in contrasto con le stesse esigenze fondamentali dell'arte. Essa consiste di segni e figure, a cui convenzionalmente il poeta attribuisce uno o un altro significato: la rosa può significare la virtù e la purezza o l'intelligenza o la scienza. Nel Romande la Rose c'è una moltitudine di simili astratte personificazioni. Di esse solo il nome o alcuni tratti convenzionali rivelano l'entità: sono come etichette che ci permettono di identificarle; e l'effetto della rappresentazione non è quello di comunicarci certe emozioni, ma di presentarci segni e figure da decifrare o da riconoscere.
L'arte, noi sappiamo, mira proprio al contrario: a darci la sensazione diretta, l'emozione profonda della realtà. Il poeta non mira a mettere tabelline e segni convenzionali, ma dà il corrispondente reale, concreto, individuale della realtà di cui egli ha avuto esperienza. Egli ci fa assistere a qualcosa che è, in un certo senso, più diretta, più capace di suscitare emozioni, pili vera della stessa realtà. Ciò che egli adopera sono immagini, cioè esempi del reale ispirategli dall'emozione profonda che egli ha ricevuta, non figure costruite artificialmente. Invece di immagini viventi, il senso della realtà, la letteratura allegorica ci dà figure che hanno la funzione, arbitrariamente assegnata dall'artista, di significare altre cose. Si tratta allora soltanto di una costruzione intellettuale. Si potrebbe dire perciò che un'opera fallisce al suo compito di creare poesia nella misura in cui essa si avvale di procedimenti allegorici. Certo il Roman de la Rose, la più tipica espressione dell'allegorismo medievale, è ben lontano dall'essere un'opera d'arte. Né vi è errore più grande che quello di coloro che mettono il poema di Dante sullo stesso piano. La qualifica che spesso si adopera per la Divina Commedia, definendola un poema allegorico-dottrinale, è indubbiamente la più inesatta che si possa trovare.
Dante - abbiamo accennato - poté pensare a un poema dottrinale inteso a celebrare in Beatrice il simbolo della Fede e ad illuminare la riscoperta che egli aveva fatta dell'accordo fra la Natura e la Grazia. Era probabilmente un'opera di questo genere quella che egli presentiva quando, nella conclusione della Vita Nuova, annunciava un'opera in onore di Beatrice quale nessun poeta aveva mai creata. Questa, come abbiamo detto, è per molti critici e lettori la Divina Commedia. In verità, la rivelazione soprannaturale spostò nettamente i termini dell'opera da comporre. Il fatto di dover comporre un'opera intorno ad una esperienza religiosa effettivamente provata fece in modo che all'astratta figurazione dottrinale e allegorica si sostituisse il concreto racconto di cose accadute. Si trattò non di ordire una favola immaginaria, intesa a definire la relazione della ragione e della fede, ma di narrare un evento reale, una grande avventura dell'anima. L'atteggiamento del poeta fu allora quello di chi rivive una storia, parla di cose accadute, reali, ritrova il senso delle cose viste nella loro individualità.
Così il problema dell'arte cristiana e della giustificazione della poesia era d'un tratto risolto. Dopo secoli di astratte immaginazioni e di equivoci favolistici era la prima volta - se si toglie la Chanson de Roland, che fu tuttavia un risultato episodico - che il Medioevo si accostava in una grande opera di poesia alla realtà vissuta, ai fatti, alla esperienza umana. È questo il grande acquisto che prima di tutto la letteratura fa con Dante, ed è qui il primo fondamento del divino Poema. Ed è chiaro che solo l'urgenza di rivelare un fatto soprannaturale poté fare in modo che il poeta si liberasse di procedimenti allegorici e passasse a un modo di narrazione diretta, storica. Non c'è altro modo di spiegare la genesi del Poema e il distacco di Dante dalla letteratura allegorica medievale se non quello di riconoscere che ad un certo momento Dante ebbe da dare la comunicazione diretta di un fatto miracoloso.
È tuttavia ben certo che noi non possiamo pensare alla Commedia come a una narrazione psicologico-realistica, al resoconto di una specie di alpinismo a rovescio, entro un abisso a forma di imbuto, o di una forma di escursione aerea dietro una fidanzata che parla di Teologia, attraverso luoghi dove il Poeta trova persone della propria città e si ferma con loro a evocare lotte, passioni comuni. Purtroppo nella lettura dell'opera dantesca si è oscillato fra due posizioni quasi ugualmente prive di ogni adeguatezza. Da una parte la si prendeva come una selva di allegorie da decifrare; come una forma di rappresentazione figurata della Ragione e della Fede. Dall'altra parte si voleva che essa fosse una storia realistica di incontri e visioni di carattere nettamente mondano e realistico, sia pur mescolata a uno schema teologico astratto. Il fatto è invece che il Poema tratta di una materia sacra, ci presenta degli eventi che come quelli della Bibbia sono veri, hanno un fondamento storico, ma, essendo fatti ordinati da Dio, hanno un profondo senso religioso e necessariamente hanno il potere di significare qualcosa che trascende il singolo evento. Anche la storia che il poeta narra, come quelle di Giacobbe e di Abramo, si svolge nel modo che Dio ha voluto, e come quelle ha un valore di esempio, rivela ciò che deve essere, il senso dell'umano destino.
Dobbiamo considerare, a questo proposito, che Dante non può aver attraversato i regni della perdizione e della salvezza solo per avere una esterna visione di essi. Passare attraverso il mondo del male, giungere al regno dei cieli, doveva necessariamente significare, per lui, essere nel male, partecipare della beatitudine celeste. Calarsi nell'Inferno significa vivere in una condizione di peccato mortale; passare attraverso le fiamme del Purgatorio significa espiare; essere nel regno della luce non può non comportare l'essere illuminati, trovarsi nella Verità. In altri termini il viaggio di Dante è sostanzialmente un cammino di personale redenzione. Egli fa questa esperienza per essere egli stesso salvo. Andando, è come se rifacesse il suo esame di coscienza: rivive i propri peccati, si innalza al perdono e alla luce. Per essere degno del messaggio divino egli deve vedere, ma deve, prima di tutto, fare in se stesso l'esperienza della redenzione. Perciò abbiamo detto che il Poema è la storia della avventura di un'anima.
Noi assistiamo ad una lotta, al dramma della sua anima, all'incontro con le forze del male; conosciamo la disperazione, la lenta vittoria. E questo cammino non è nella sostanza se non l'immagine o la ripetizione di quello che si è svolto nella vita reale; riandiamo, nell'oltretomba, per esperienze che in qualche modo sono quelle dello smarrimento e della salvezza ritrovata dietro Beatrice. La vicenda che si svolge nella sopratemporalità del miracolo è appunto il processo alla sua vita terrena, l'esperienza rifatta per meritare il perdono. Ma agli occhi del lettore medievale - e ai nostri, se sappiamo leggere il Poema con l'animo con cui Dante lo ha dettato - la storia di un uomo o, meglio, la miracolosa orditura di fatti voluta da Dio non poteva non avere valore di esempio, di "segno" valido per tutti. La mente, nel Medioevo, era portata a vedere in ogni fatto e in ogni avvenimento una traccia della volontà divina e un insegnamento. Le cose erano come un indizio: una scala richiamava l'ascesa a Dio, la tenebra era la realtà del demonio, il sole era la Luce, un desiderio non buono era la Tentazione. Si tendeva all'universale e i libri erano letti con questo animo. L'Eneide era per il lettore medievale la storia dell'anima dalle fiamme del peccato alla terra promessa.
La base e la scuola per questa tendenza a cercare in ogni fatto un segno universale era la lettura della Bibbia. La storia che il Poeta si accingeva a dire, cli fatti ordinati direttamente da Dio, relativi alla salvezza, non poteva non avere un significato per la vita di ognuno. Nel pellegrino dei regni oltremondani era l'immagine dell'Uomo; le forze che erano venute in suo aiuto erano la Ragione, la Parola rivelata. Dante ha prima di ogni altro visto nella vicenda che egli raccontava questa più profonda dimensione; in più di un punto l'ha indicata. Il Poema anche per lui era come una sorta di rappresentazione sacra in cui erano il Peccatore, l'Angelo, la Tentazione, la Grazia, e le vicende si svolgevano in un'atmosfera di miracolo e di mistero.
Ma non si trattava di un significato aggiunto, di un secondo senso. La Commedia ci presenta delle figure concrete, non dei segni. È la storia stessa che suggerisce certe indicazioni di ordine universale, si pone come esempio della storia dell'Uomo in assoluto. Questo è ciò che accade in fondo per ogni grande opera d'arte. Nel caso di Dante, questa dimensione più vasta non può non essere più esplicita e continua. Il fatto che l'opera dica una vicenda di ordine miracoloso, direttamente legata alla volontà divina, non può non trarre la mente di chi legge a significazioni più alte e generali. Quando ci si ponga dal punto di vista del Poeta - e ogni lettore, in misura maggiore o minore, deve ritrovare questa attitudine, con la guida del poeta stesso, se vuole avere una cognizione della realtà che egli ha rappresentata -, i fatti acquistano necessariamente un valore di simbolo.
Dante stesso ha spiegato nella Lettera a Cangrande che nel suo caso l'interpretazione da seguire deve essere quella comunemente applicata alla Bibbia, nella quale, secondo quanto dicevano i teologi, c'è un senso storico, letterale e un senso allegorico-morale. Anche la Commedia, cioè, deve essere considerata come una narrazione storica nella quale i fatti - come la storia di Abramo o quella dell'Esodo di Israele dall'Egitto - sono da accettare come veri (anche se sono narrati in maniera adatta alla umana capacità), ma hanno nello stesso tempo un valore che riguarda l'anima di ogni uomo. Si tratta infatti di eventi ordinati da Dio in modo che abbiano significato. «Dio - si diceva - ha il potere di esprimersi con i fatti, allo stesso modo che l'uomo si esprime con le parole». Si distingueva quindi una allegoria in rebus, propria della Sacra Dottrina, e una allegoria in verbis, propria del discorso umano e delle opere dei poeti. Nel primo caso il significato letterale è storico, si riferisce a fatti reali; le parole usate nelle definizioni dei teologi sono historicus vel litteralis, le stesse parole che s. Tommaso aveva adoperate per la Sacra dottrina al principio della Summa Theologiae (I, q. 1, art. 10, arg. e co.). Ed è questa forma di allegoria, ben lontana dalle fittizie creazioni dei poeti, che Dante dichiara espressamente di aver seguita.
L'esempio che egli fa è quello dell'Esodo: fatti che sono veri ma hanno il potere di significare. Il problema è in questo caso quello di interrogare la successione delle cose per intuire che cosa Dio ha voluto manifestarci intorno al destino dell'anima. L'interpretazione allegorica ha per sua base la storia: «historia est, de qua [...] veritas allegoriae exprimitur», aveva detto Ugo di San Vittore. E come in molti casi facevano i teologi, Dante avverte in qualche punto del suo Poema di stare attenti a tutti gli elementi della narrazione, prima di passare alla interpretazione allegorica (Purg., VIII 19-21):
Aguzza qui, lettor, ben h occhi al vero,
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggiero.
I critici interpretano questi versi come un invito a guardare al significato riposto, ascoso dietro al significato letterale, e non riescono a spiegare come mai nel terzo verso il Poeta dica poi che il trapassar dentro è leggero. Appare come una contraddizione. Ma Dante vuol dire invece che bisogna stare attenti prima di passare oltre; il "vero" è per lui quello letterale, storico; a questo bisogna guardare.
Il fatto fondamentale - sappiamo dunque anche dalle dichiarazioni esplicite del Poeta intorno alla allegoria - è una storia. Non si tratta di una favola morale i cui dettagli possano essere anche trascurati perché conta solo il significato metaforico. Nella Divina Commedia, come nella Bibbia, gli eventi sono reali, sacri; bisogna accettarli nella loro integrità, con la riverenza con cui si accetta il miracolo; è principalmente l'animo con cui guarderemo che ci farà riscoprire in essi un significato valido per la nostra anima. Non si tratterà di decifrare rebus. Nella massima parte dei casi non si è tenuto conto da parte dei lettori della indicazione data dallo stesso Dante. Il fatto che egli fosse un poeta faceva pensare che nel suo caso si dovesse applicare il sistema di allegoria di cui si parla nel Convivio (l'allegoria come finzione che il Poeta ha seguita nelle composizioni delle Canzoni e dichiara di voler seguire nel commento); e si è concluso che le proposizioni della Lettera a Cangrande sono contraddittorie, o che la Lettera stessa non sarebbe autentica. Il vero è che solo nello spirito e sulla base della attitudine teologica suggerita dal poeta stesso, considerata cioè come la storia di una miracolosa vicenda, la Divina Commedia acquista il solo significato possibile, coerente. Fuori delle finzioni allegoriche e delle astratte figurazioni della letteratura medievale, l'opera ci riporta a una grande epica, a una sorta di Eneide sacra, a fatti in cui è da cercare il senso assoluto, religioso della nostra vita.
Si tratta, in un certo senso - nell'allegoria di cui il Poeta parla -, di qualcosa che si avvicina piuttosto a ciò che nel mondo moderno noi chiamiamo "simbolismo". Dove è da ricordare che mentre l'allegoria presenta costruzioni intellettuali, segni convenzionali che per sé non hanno nessun valore, ma hanno la sola funzione di indicare qualche altra cosa, il simbolo è qualcosa di reale, ha già in sé un significato, è nello stesso tempo concreto e capace di suggerire un senso di valore universale. La poesia in genere è un fatto simbolico; mira a dare non secondi sensi, ma suggestioni dirette, non figure astratte, ma fatti individuali, cose aventi la stessa concretezza della realtà. E in questo senso la Divina Commedia può essere detta, assai più precisamente, un'opera simbolica. Si può dire che in essa Dante è il simbolo dell'uomo, Virgilio è simbolo della Sapienza classica o della natura non ancora sorretta dalla Luce soprannaturale. Così anche il ghiaccio dell'Inferno è il simbolo della perdizione dell'anima, di ciò che è contrario al fuoco dell'Amore; il buio attraverso il quale il pellegrino deve passare dice la distanza da Dio e, allo stesso modo, il Sole, che riappare sulla spiaggia della montagna del Purgatorio, è la prima riscoperta di Dio.
Esistono tuttavia fondamentali differenze tra il simbolismo moderno e questa forma di simbolismo che nella terminologia medievale si chiamerebbe allegoria in re. Nella esperienza di noi moderni la poesia in genere non esprime il senso di una realtà sacra, miracolosa, né mira a suggerire l'ordine divino delle cose. Il simbolismo moderno in genere evoca diversi stati d'animo, ci richiama ad altre esperienze, non a più alte, divine presenze. È questione specialmente di corrispondenze (come dice il titolo di una poesia di Baudelaire che è una delle tipiche espressioni di questo gusto letterario); in molti casi il moderno simbolismo tende a creare impressioni di altre realtà per mezzo di immagini e di parole: suoni, espressioni suggeriscono altre sensazioni; nella maggior parte dei casi l'artista gioca su sensazioni indefinite, sulla ricerca del vago, si mantiene su un piano di arte pura estraneo a implicazioni etiche o metafisiche: «il senso; se ve n'è uno - dice Mallarrné in un famoso passo - è evocato attraverso interni miraggi delle parole stesse».
Il simbolismo del Medioevo, e quello di Dante in particolare, concerne cose che obiettivamente rimandano alla realtà soprannaturale. Non si tratta di corrispondenze con altre sensazioni, ma di una direzione precisa verso Dio a cui le cose ci richiamano. Sono non suggestioni poetiche, ma fatti e cose, numeri che obiettivamente hanno riferimento a qualcosa di trascendente: un serpente ha qualcosa del diavolo o suscita lo stesso tremore; il numero tre ha qualcosa del divino. «Universus enim mundus iste sensibilis quasi quidam liber est scriptus digito Dei». I fatti devono avere, in misura più chiara o meno chiara, una qualche relazione col volere di Dio.
Il simbolismo moderno è connesso con impressioni soggettive; rimanda ad altre esperienze che non sono in generale a un livello più alto, soprannaturale. Nell'un caso e nell'altro si parla di analogia. Ma nella spiritualità moderna "analogia" significa solo eco di situazioni differenti o distanti. Nel mondo medievale "analogia" significa similarità delle cose con Dio, o anzi presenza di Dio nelle cose. La relazione è in questo secondo caso in-finitamente più forte, presenziale; e nello stesso tempo è di carattere ascendente.
Questo è un po' comune a tutta la visione medievale della realtà. Ma prima di Dante la letteratura non aveva saputo rendere questo senso trascendente insito nella realtà. E nel caso della Commedia, bisogna aggiungere, trattandosi di una vicenda interamente ordinata da Dio, la certezza di poter individuare nei singoli fatti un segno della realtà soprannaturale o della storia morale dell'Uomo è assai più grande e diretta. La storia dell'uomo che discende all'Inferno e sale sulla montagna della espiazione, gli interventi divini, gli episodi e le figure non possono non avere un significato. Ci si trova davanti ad una rappresentazione sacra. Ed è questo, ben al di là di una finzione allegorica o di una narrazione puramente realistica, ciò che effettivamente Dante ci ha dato.