Dati bibliografici
Autore: Pompeo Giannantonio
Tratto da: Dante e l'allegorismo
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1969
Pagine: 187-228
Le pagine che precedono ci hanno permesso di accertare come, attraverso i secoli, il tema dell'allegoria abbia operato, di volta in volta, sul pensiero, sulle coscienze e sulle creazioni artistiche degli uomini dando vita ad una ricca letteratura. Certo l'area su cui l'allegoria ha esercitato la sua influenza non può circoscriversi nella sua interezza, né possono mettersi allo scoperto tutte le vene sotterranee che portano lontano e in punti disparati la sua linfa. Tuttavia noi abbiamo tentato di distinguere, nella fuga dei secoli, le grandi correnti dell'esegesi allegorica e il loro unitario sviluppo per cercare d'intendere non solo questo interessante aspetto dell'umano pensiero, ma anche, e più di tutto, per verificare come esse abbiano concorso alla formazione di quella spiritualità medievale, di cui Dante è il maggiore esponente. Infatti· a Dante e alla sua opera mirava la nostra lunga indagine, con la quale abbiamo cercato di chiarire a noi stessi questa particolare angolazione della coscienza medievale, che affonda le sue radici nelle età aurorali dell'umana civiltà. Ecco perché la nostra ricerca è stata accurata ed ampia in un terreno particolarmente difficile, dove non sempre certi nessi tra spiritualità e letteratura sono individuabili.
Dante, non c'è dubbio, fruiva di una vasta esperienza culturale e non poteva sottrarsi ad una suggestione letteraria, che si poneva al centro della spiritualità del suo tempo. Egli, come tutti gli scrittori medievali, possedeva una dimensione metafisica della realtà e solo con l'allegoria poteva perciò soddisfare a questa imperiosa esigenza spirituale. Si è tentato di fare, perciò, da parte nostra, un restauro storico di un problema che non è stato sempre inteso nella sua pienezza, perché la realtà medievale è assai difforme dalla nostra moderna esperienza, a cui, incautamente, sogliamo ricondurre quel lontano mondo. Ne consegue che la Commedia e tutte le opere coeve vengono, a volte, affidate ad un'interpretazione che è storiograficamente insicura e culturalmente inadeguata, perché si perdono di vista l'età in cui l'opera venne prodotta e gli interessi che sollecitavano il suo autore . Questo clima, appunto, abbiamo voluto ricreare attraverso probanti e tipizzanti testimonianze di opere e di autori, che concorsero alla elaborazione di un concetto, verso cui, in tutti i tempi, si mostrarono solleciti uomini di pensiero e di cultura.
Dante non solo subì l'influenza della sua età, per quanto riguarda specificamente l’allegoria; ma prese parte al grande dibattito che da tempo, come s'è dimostrato, s'andava conducendo intorno ad essa. Egli nel Convivio, come è noto, non solo ha dato una valutazione del rapporto tra lettera e allegoria, ma ha ampiamente discusso ed approfondito il problema esegetico secondo le tradizionali direttive dell'ermeneutica scritturale. Infatti accetta come acquisita la quadruplice ripartizione dei significati: «le scritture si possono intendere e deonsi esponete massimamente per quattro sensi» e subito dopo pone l'accento, in modo particolare, sul senso letterale e su quello allegorico: «L'uso si chiama litterale [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico] , e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna» . Dell'allegoria egli subito dopo porta un valido esempio: «Si come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre» . Il richiamo, per dimostrare la validità dell'allegoria, a questo antico mito, cantato da Ovidio e inteso nel suo valore allusivo da tutti , mette in condizione l'autore di rinviare la dimostrazione di come «questo nascondimento fosse trovato per li savi» al penultimo trattato, che, come si sa, non fu poi scritto. È appena il caso di far rilevare che il termine «nascondimento» traduce il corrispondente «integumentum» - di cui si è discorso nel II capitolo di questo volume - che si usava riferire tanto all'area dell'allegoria mistica quanto a quella profana e che veniva considerato sinonimo del termine classico «involucrum» . Anche in alcune espressioni apparentemente innocue Dante dunque è saldamente legato alla tradizione esegetica.
Con un «veramente» avversativo Dante all'allegoria teologica contrappone, nel continuare la sua esposizione sui quattro sensi, l'allegoria poetica che era palese nel citato esempio del mito di Orfeo: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo che li poeti seguitano, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» . Egli, anche in questa distinzione, si riannoda al secolare dibattito che è stato da noi esaminato nelle pagine precedenti e che aveva richiamato l'intelligenza dei migliori esegeti cristiani per porre su diversi piani l'allegoria poetica o fisica o civile o mitica e l'allegoria teologica o mistica o spirituale, alla quale ultima si dovevano anche ricondurre la tropologia e l'anagogia. Ma su questo criterio di interpretazione della poesia viene ad innestarsi un più ampio criterio di poetica, per cui il discorso diviene più serio e più articolato. Questa enunciazione del modus poeticus come criterio di esegesi allegorica ci conduce inevitabilmente alla poesis del De vulgari eloquentia e alla definizione ivi contenuta. Dante in quell'opera ribattezzata, felicemente, in un ms. di Berlino, ora a Tubinga, Rectorica Dantis, sostiene che «revisentes igitur ea que dieta sunt, recolimus nos eos qui vulgariter versifìcantur plerumque vacasse poetas; quod procul dubio rationabiliter eructare presumpsimus, quia prorsus poetae sunt, si poesim recte consideramus; que nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita» . È ovvio che l'accento del nostro discorso si ponga sulla parola fictio, la quale altro non dovrebbe significare, coerentemente con il nostro assunto, che finzione allegorica o invenzione allegorica. D'altra parte, a tale conclusione perveniamo non solo per le tante considerazioni dotte e filologiche, già addotte da insigni dantisti , ma anche per il fatto mai ricordato, che Stefano di Tournai, da noi già citato, scrisse un’opera allegorica, il cui titolo era appunto Quoddam figmentum Nanoniae metrice compositum, che richiama l'altra più celebre e di uguale ispirazione di Giovanni di Garlandia, Integumenta Ovidii: è chiaro tanto per la natura delle due opere quanto per l'accezione medievale delle due parole che figmentum e integumentum esprimevano lo stesso concetto di finzione, adoperata dai poeti nelle loro opere. D’altra parte, la stessa presenza nel titolo della opera di Stefano del participio compositum ci deve rendere guardinghi nell'attribuire a figmentum il valore di composizione già esplicito nel verbo. Ma su questo problema· e sulle sue implicazioni successive v'è una larga letteratura , per la qual cosa mi sembra superfluo insistervi ulteriormente, pur ritenendo, per quanto ci siamo sforzati di dimostrare nelle pagine precedenti, che ogni soluzione deve essere sempre rapportata alle sempre vive premesse culturali del mondo dantesco.
La puntualizzazione del momento poetico, operata da Dante nell'ambito dell'allegoria, si risolve, nel processo di ricerca della verità e di analisi della creazione artistica, in una migliore valorizzazione dell'allegoria e in una definitiva collocazione di questa nella scala dei valori letterari. Infatti, egli, dopo aver accennato al senso morale o tropologico, proprio della Scrittura, e per la cui esemplificazione adduce l'episodio evangelico della Trasfigurazione di Cristo, alla quale furono presenti solo tre apostoli, «in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia» , passa a considerare il senso anagogico o sovrasenso al quale è affidata, come s'è già detto, l'interpretazione spirituale e mistica della Scrittura. L'anagogia, punto d'arrivo di ogni ricerca allegorica e mistica contemplazione della verità divina, gli offre la possibilità di determinare, con una norma generale, i rapporti tra lettera e allegoria. L'esemplificazione, a cui ricorre per quest'ultimo senso, è quella stessa di cui tutta la letteratura esegetica si era servita, vale a dire la narrazione biblica dell'uscita degli Israeliti dall'Egitto: «Questo è quando spiritualmente si pone una scrittura [...] sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera» . Questo fatto, storicamente vero e quindi letteralmente ineccepibile, non è men vero per «quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa o libera in sua potestate» . Dante qui riafferma, in perfetto accordo con la precedente ermeneutica, la validità della lettera e la sua inequivocabile priorità nella scala esegetica: «E in dimostrar questo, sempre la litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed irrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico» . La motivazione di questa logica e graduale procedura esegetica rafforza il valore dell'allegoria e ribadisce la separazione dei due momenti interpretativi: «È impossibile, però in ciascuna cosa che fa dentro e di fuori, è impossibile venire al dentro se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire l’altre, massimamente a l'allegorica, sanza prima venire a la litterale» . Il trattatista, non c'è dubbio, vuole qui ancora una volta ribadire l'importanza della lettera e in questa enucleazione di valori esegetici il testo poetico prende il sopravvento su quello scritturale nella sua stima valutativa, poiché gli esegeti cristiani tendevano a sminuire sempre più il valore verbale in favore di quello spirituale. Echi del pensiero aristotelico e tomistico sono largamente individuabili in queste formulazioni, così come si possono riudire in esse tante altre consonanze culturali delle età precedenti, ecco perché poesia e testo sacro non si diversificano nel suo esame, ma una concessione all'opera d'arte viene subito fatta in un ambito di valutazione genetica che è in ultima analisi, una prospettiva esegetica: «Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l'oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata. Onde con ciò sia cosa che litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l'altra, massimamente de l'allegoria, impossibile è prima venire a la conoscenza de l'altre che a la sua» . Questa, però, è solo una breve parentesi in favore della poetica in una enunciazione teoretica, che vuole chiarire, innanzi tutto, la più generale questione dell'analizzare e dell'interpretare; ma ciò non sminuisce il significato polemico delle sue affermazioni nei riguardi dei teologi, che svilivano il senso letterale a tutto vantaggio di quello spirituale.
L'autore, infatti, ispirandosi ad una formula aristotelica sostiene, di rincalzo, il principio genetico delle cose naturali e artificiali, che è sempre da collocarsi in un punto o fondamento da cui quelle si originano o si dipartono: «Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che 'l dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è a l'altre venire prima che a quella» . La lettera, quindi, è alla base di ogni discorso esegetico e l'interpretazione dei testi non può prescindere dalla dimostrazione, che è indispensabile per conseguire la scienza e la verità. Il riconoscimento dell'importanza della lettera, come punto di partenza di ogni indagine esegetica, ci riporta al secolare dibattito della scuola vittorina, che, come si ricorderà, poneva come condizione irrinunciabile, per una valida intelligenza dei testi sacri, la comprensione del valore e del significato verbale. Ma a noi sembra che in forza delle precedenti indagini sul mondo patristico e monastico si debba, per quanto riguarda il pensiero dantesco, distinguere la lettera scritturale dalla lettera poetica, poiché la prima ha sempre una genesi sacrale e divina, mentre la seconda porta nel suo seno l'invenzione e l'intenzionalità del poeta. L'allegoria, poi, che si racchiude in un testo poetico, poiché è legata ad argomenti umani, è più aperta ad un discorso che si proponga una ricerca effettiva della verità; ecco perché Dante, iniziando l'esame delle tre canzoni filosofiche del Convivio, sostiene che «sopra ciascuna canzone ragionerà prima la litterale sentenza, e appreso di quella ragionerà la sua allegoria, cioè la nascosa veritade» . Siamo, così, perfettamente in armonia con la tradizione esegetica, che riconosceva tanto alla lettera quanto all'allegoria un proprio settore di indagini; ma nel contempo raccomandava che, in questo genere di ricerca, l'itinerario ermeneutico procedesse con ordine e che l’allegoria seguisse, perciò, la lettera e fondasse su di questa il suo discorso interpretativo, come in una gerarchia di valori.
In Dante, e Io abbiamo già rilevato, confluiscono tutti i grandi temi della cultura medievale, per il cui tramite egli giunge all'arte ed alla poesia. Colpiscono, infatti, anche nelle prime sue opere giovanili, la cura della ricerca stilistica, l'uso discreto dell'ornato retorico e la volontà di distinguersi, perfino nella forma dei suoi scritti, dagli altri letterati. Egli riconosce, d'altra parte, che Io studio è indispensabile per conseguire la perfezione nell'arte poetica nella stessa misura della ispirazione: «Prius Elicone potatus, tensis fidibus ad supremum, secure plectrum tum movere incipiat». Ne consegue che l'ingegno è inseparabile dall'esercizio e dalla scienza per fare poesia, ecco perché, parafrasando e interpretando allegoricamente - si noti questa caratteristica lettura del passo virgiliano - alcuni versi dell'Eneide (VI, 126-31) egli riafferma la necessità della cultura nella inventio e nella elocutio poetiche: «Ma apprendere ad usare tale cautela [con l'inventio] e tale discernimento [con l' elocutio], come si conviene, questa è impresa e fatica, poiché giammai può avvenire senza ingegno animoso, e studio assiduo della arte, ed abito di scienze. E son questi coloro che il poeta nel sesto dell'Eneide chiama cari a Dio e sublimati dell'ardente valore sino al cielo i figli degli dèi, benché figuratamente parli. E però si riprovi la stoltezza di coloro che, privi di arte e di scienza, nel solo ingegno fidando, prorompono a cantare le cose più alte nella forma più elevata, e cessino da tanta presunzione; e se essi sono oche per natura o infingardaggine, non ardiscono imitare l'aquila, che tende agli astri» . La poesia, quindi, non era, come per i romantici, folgorazione, ma cultura, riflessione e invenzione secondo il tradizionale concetto del Medioevo. Questo concetto tutto medievale della poesia si affianca in Dante alla concezione, anch'essa medievale, d'un itinerario biografico-artistico della propria persona. Insomma egli vede una sincronia tra le proprie opere e la propria vita come testimonianza paradigmatica di operosità e di riscatto della condizione umana nella temperie della vita .
In tale prospettiva l'esame del suo pensiero non può prescindere dai dati che scritti e vicende ci suggeriscono in una valutazione complessiva della sua figura; ecco perché la lettura delle sue opere va condotta con quella gradualità che rispetti la cronologia biografico-artistica dell'autore. Le enunciazioni sull'allegoria, da noi esaminate, vanno perciò rapportate alla Vita Nuova per seguire quella graduale conquista del sapere e per conoscere quella, parimenti graduale, presa di coscienza del poeta. Ma egli stesso si preoccupa di richiamarci a questo personale itinerario dello spirito e dell'intelletto, quando afferma che « se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo che sia, più virilmente si trattasse ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene» . Egli, quindi, non solo con l'opera più matura non vuole «derogar » ossia togliere autorità e valore all'opera giovanile, ma intende questa integrare e interpretare perché «in quella dinanzi, a l'entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata» . L'allegoria, come si vede, è sempre il mezzo con cui si può giungere alla comprensione di un'opera senza obliterare, però, la lettera. Dante riconosce tanto valido questo metodo interpretativo, che intende applicarlo anche alle proprie canzoni giovanili, per le quali temeva possibili condanne o travisamenti, poiché erano state scritte in un momento di ardente passione. Quindi «timore d'infamia» e «desiderio di dottrina» informano questa sua esegesi, con cui si propone di dimostrare che «non passione ma vertù sia stata la movente cagione» delle sue canzoni, per le quali intende anche far conoscere «la vera sentenza [...], che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria» . Tornano in queste proposizioni i temi tradizionali dell'esegesi, vale a dire l'analisi letterale e l'interpretazione allegorica, non disgiunti, in questo caso, da un riscatto sul piano etico dei traviamenti passionali, che trovano nella dottrina ausilio e comprensione. L'esercizio dell'allegoria esplicandosi, perciò, nell'ambito del sapere, della morale e della tradizione vuole contribuire ad una migliore intelligenza della poesia.
Dante, come s'è osservato, affidava all'allegoria il riscatto della propria giovinezza «fervida e passionata» e intendeva con essa ripristinare la sua fama agli occhi dei suoi conoscenti ed amici, rivelandosi nella sua vera natura di uomo saggio e onesto, che soffriva «ingiustamente pena d'essilio e di povertate», mentre «peregrino, quasi mendicando» per le regioni di Italia andava «mostrando contro sua voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata». Egli, pur desiderando «con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo» restante della sua vita errabonda nel «dolce seno» della sua Firenze, «nel quale nato e nutrito» fu; pur riconoscendo di essere «legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade», tuttavia, per salvaguardare il suo buon nome e per «desiderio di dottrina dare», voleva documentare il suo amore per la saggezza, intesa come perfezione di sapere che si conquista per «scienza». Di questa scienza «ultima perfezione de la nostra anima» Dante imbandirà un convito «dove lo pane de li angeli [cioè la sapienza] si manduca» e dove sarà «ministrata» la vivanda di «quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiale, le quali sanza lo presente pane [cioè l'interpretazione] avevano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado» . Quindi le canzoni saranno la vicenda del convito, mentre il pane ne sarà il commento, ossia l'interpretazione (la «disposizione») in prosa volgare, che metterà in luce la bontà d'ogni canzone, ossia la «sentenza vera» che la informa e regge.
Un legame, come si vede, fra il Convivio e la Vita Nuova è innegabile, anche se lo stesso autore, con la visione finale di quest'ultima, con l'annunzio di un'opera in lode di Beatrice, con i richiami nel Convivio e nella Commedia all'opera giovanile, abbia offerto il pretesto per andare al di là delle sue intenzioni, che certamente non miravano a fare delle sue tre opere volgari una trilogia ingenuamente mistica la prima, filosofica la seconda e altamente religiosa la terza , ma che volevano indicare solo alcune tappe del suo itinerario biografico e spirituale. Ovviamente il problema, per quanto ci riguarda, va visto in quella prospettiva di nesso allegorico che si può stabilire tra le tre opere, come tema comune, che rispecchi la realtà culturale del tempo. Dante, già nella sua opera giovanile, prima cioè che in lui subentrasse la «riflessione» del Convivio, dava chiaramente importanza al senso allegorico: «E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano cosl [allegoricamente] sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico [il Cavalcanti] e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente» . Ma la Vita Nuova oltre a registrare queste significative parole, che denunziano la presa di coscienza, da parte del poeta, dell'esegesi allegorica fin dai primi anni della propria g1ovmezza, sviluppa ed attua quella dottrina stilnovistica in cui la bellezza femminile raffigura i valori della fede e si pone come mediatrice tra l'uomo e Dio. Questi principi, a ben pensarci, non solo trasferiscono nell'area della cultura laica una concezione prettamente religiosa , ma si muovono nell'ambito di quella spiritualità medievale che amava proiettare nel trascendente fatti e ideali della vita transeunte'. Il problema che si pone sul piano allegorico, a proposito della Vita Nuova, è quello della donna gentile, che alla presenza del poeta «si facea d'una vista pietosa e d'un colore palido quasi come d'amore» e gli ricordava la perduta Beatrice, la «nobilissima donna che di simile colore si mostrava tuttavia» . È noto, poi, come egli nel Convivio simboleggerà nella donna gentile la Filosofia: «Questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia», della quale, per le sue caratteristiche ideologiche, non si poteva nulla pubblicamente esprimere: «Donna di cui m'innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente portare» . Ma Dante ha avuto la cura di raccontarci questo suo itinerario culturale che è, dopo tutto, un'accurata analisi dei propri sentimenti e dei propri ideali: «Principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né 'I mio né l'altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'Amistade avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente vi entrai tanto entro, quanto l'arte di grammatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere» . In verità, a questo punto, bisogna precisare che il poeta, fin dagli anni dell'amoroso «libello», aveva appreso molte verità filosofiche, anche se non riusciva pienamente ad afferrarne le dimostrazioni e a dedurne le conclusioni. Si ricordi, a questo proposito, la definizione che dà dell'Amore in termini aristotelico-scolastici: «Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è un accidente in sustanzia» . Quindi il poeta riprende, sulla scorta di Cicerone e di Boezio, quel dialogo con la cultura filosofica e con le grandi idealità del passato consolandosi ed esaltandosi nel contempo. Si schiudeva, così, al suo sguardo trasognato e alla sua mente desiderosa di verità, un nuovo mondo, ricco di fascino e di dottrina . Ecco perché questo congedo dalla giovinezza spensierata e turbinosa, questa conquista del sapere si rivelano straordinariamente fecondi: «Come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori da la 'ritenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio, io che cercava di consolarme trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella» . Dante nel prendere a propria consolatrice la Filosofia, allegorizzata in una donna, non solo seguiva l'esempio boeziano, ma si riannodava ad un passo, meno noto ma non meno caratterizzante, di san Girolamo a commento di un passo davidico . Siamo, come si vede, sempre in quel circolo di cultura classico-patristica, che costituì la cifra dell'età medievale.
Cicerone e Boezio, dunque, furono gli «auctores», che iniziarono Dante al fascinoso cammino nel mondo del sapere per mezzo degli studi retorici, di cui essi furono illustri rappresentanti, e su questo sentiero egli s'incontrò con la «donna gentile», ossia con la Filosofia, sperimentando, con lo studio assiduo, la bontà dei precetti dei due maestri: «Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me [...] ne lo amore, cioè ne lo studio, di questa donna gentilissima Filosofia, con li raggi de la stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in ciascuna scienza· la scrittura è stella piena di luce, ]a quale quella scienza dimostra» . Gli scritti di Cicerone e di Boezio esercitarono, quindi, la loro efficacia persuasiva sul poeta e l'esperienza amorosa della «donna gentile» si tramutò in un simbolo intellettuale, in una palingenesi spirituale. Desiderio di verità e ansia di conoscere spinsero il poeta a rigenerarsi nello studio della filosofia, perché per «ultima natura, cioè vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l'uomo amore a la veritade e a la vertude» . Da questi motivi altamente nobili egli fu indotto ad incontrarsi con la filosofia, allegorizzata nella «donna gentile», e ciò tiene più volte a ribadire per allontanare ogni diversa interpretazione: «Questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione» . Quindi Dante abbandona i diletti della carne per sollevarsi in una sfera di pura contemplazione e crearsi, con lo studio e la meditazione filosofica, un distintivo di vera nobiltà. Sopravvivono in questa posizione concettuale del poeta temi stilnovistici, che sono premessa ed avvio di questa sua nuova conquista intellettuale . Ma di tale «nobiltà» avevano discorso non solo gli stilnovisti, ma anche Andrea Capellano, secondo il quale «solo prodezza di costumi fa l'uomo di nobiltà lucente, e di risplendente bellezza il fa parere. Noi uomini tutti da uno fummo dirivati e uno nascimento avemmo secondo natura: non bellezza, non ornamento di corpo, non ricchezza, ma solo fu prodezza di costumi quella che prima li uomini per nobiltà conoscere fece e nelle generazioni indusse differenza [...]. Adunque, solo prodezza degna è di corona d'amore» . In questo ambito di esperienza culturale e sentimentale bisogna collocare la «donna gentile» per comprendere la sua genesi e la sua assunzione a simbolo di dottrina e di elevazione.
Resta, però, sempre aperto il problema se la «donna gentile» sia nata, fin dai tempi della Vita Nuova, sotto il segno dell'allegoria, oppure, successivamente, con tale interpretazione si sia voluto da parte del poeta riscattare la propria travagliata giovinezza applicando alle sue rime i canoni dell'ermeneutica medievale . A noi qui preme far notare, prescindendo da qualunque soluzione che si voglia dare al problema, che l'allegoria lo impegnava, sia pure per nobilitare gli amori giovanili, negli anni in cui scriveva il Convivio, vale a dire mentre stava per varcare la soglia dell'oltretomba con l'inizio del poema sacro. Tutto questo mette conto rilevare sia per seguire l'itinerario biografico-culturale del poeta, sia, più di tutto, per riannodare la sua arte e la sua opera a quel mondo di cui abbiamo cercato di tratteggiare, a grandi linee, la complessa spiritualità . Anche in questa esperienza giovanile, comunque, il poeta si solleva alla contemplazione di una bellezza, che è sempre immagine o riflesso della bellezza divina.
Certo l'attribuzione d'un significato allegorico originario alla donna gentile e pietosa della Vita Nuova comporta una serie di difficoltà, alle quali non si possono sempre trovare soluzioni soddisfacenti. Infatti, volendo vedere in questa donna la Filosofia, che consola e conquista il poeta, non possiamo mettere d'accordo tale allegoria con la repulsa da parte del poeta, alla fine dell'opera, della donna gentile, da cui, e il riconoscimento è grave, s'era «lasciato possedere alquanti die contro la costanzia de la ragione». Questo finale rinsavimento di Dante farebbe, quindi, pensare ad un fallito incontro tra lui e la Filosofia, che, si badi bene, è, a suo dire, un «malvagio desiderio» , degno, perciò, di essere allontanato e dimenticato in fretta. Quindi il primo approccio tra il poeta e la Filosofia era stato deludente e occorrevano il disagio dell'esilio e la mediazione di Cicerone e Boezio per far mutare questo «malvagio desiderio» della Vita Nuova nell'amore del Convivio per la «Filosofia, la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d’onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade» . Ma, viceversa, non accordando valore allegorico originario ai sonetti della donna pietosa nella Vita Nuova, alle due canzoni «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete» e «Amor che ne la mente mi ragiona» del Convivio e a tutte le rime amorose, scritte dopo la morte di Beatrice, l'esaltazione della Filosofia, fatta dal poeta nel Convivio, risulta per lo meno surrettizia.
La prima difficoltà potrebbe essere superata con l'accettazione dell'ipotesi della rielaborazione dell'opera specie nella parte finale e la seconda con il riconoscere valore allegorico solo alle rime del Convivio, nate nel clima della crisi filosofica del poeta . Ma, come m tutte le questioni, la soluzione è duplice, per la qual cosa a ragioni valide per orientare un discorso in una data direzione se ne contrappongono altre non meno solide e convincenti. Comunque è un fatto incontrovertibile che Dante fosse, tanto negli anni della Vita Nuova quanto in quelli del Convivio, nell'ambito della cultura allegorica; quindi se la donna gentile inizialmente non intendeva significare la Filosofia, un simbolo doveva pure impersonare, come avveniva per le coeve rime amorose.
C’è, tuttavia, un gruppo di rime, composte, probabilmente, per la medesima donna, che vanno sotto il nome di «rime allegoriche e dottrinali», secondo la definizione e l'ordinamento dato dal Barbi all'edizione del ‘21. Esse sono le due canzoni Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete e Amor che ne la mente mi ragiona, che trovano posto nel Convivio, la ballata Voi che savete ragionar d'Amore e i due sonetti Parole mie che per lo mondo siete e O dolci rime che parlando andate. A queste rime si aggiungono, sempre nel quarto libro ordinato dal Barbi, due canzoni dottrinali, Le dolci rime d'amor ch'io solia e Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, la prima delle quali è stata accolta nel Convivio. Queste rime hanno una propria allegoria genetica come lo stesso poeta ha cura di avvertirci nel Convivio, specificando, come s'è visto, che per la donna cantata nelle due canzoni si deve intendere la Filosofia e di conseguenza lo stesso deve farsi per la ballata e per i sonetti. Su questo punto sembrava ci fosse unanimità di consensi, dopo una secolare disputa che aveva visto impegnati insigni studiosi , finché non sono riprese le ostilità tra fautori e oppositori del significato allegorico delle Rime. Così Renucci e Montanari , pur interessandosi della questione nei limiti consentiti a studi di carattere generale sul poeta, accolgono l'interpretazione realistica. Il Camilli, con saggi più specifici, pone una base teorica alla sua tesi, con cui vuol dimostrare che le due prime canzoni del Convivio non possono intendersi come testo originariamente allegorico, mentre la loro interpretazione letterale e realistica risulta più coerente e più logica. Da qui si deduce che l'allegoria delle due canzoni è surrettizia, vale a dire volutamente sovrapposta dallo stesso autore posteriormente . Un esame dall'interno permette al De Robertis di affermare che le due canzoni V ai che 'ntendendo e Amor che ne la mente sono saldamente legate ai sonetti per la donna gentile della Vita Nuova, anzi sono il loro logico sviluppo . Ovviamente le tesi realistiche non possono a lungo sostenersi, perché troppo evidenti sono i valori allegorici delle rime da noi esaminate, anche se alcune contraddizioni dello stesso autore proiettano delle ombre su quella che dovrebbe essere la soluzione più logica . Su questa via dell'allegorismo, anche se il problema della donna gentile rimane insoluto, Dante rinveniva un mondo culturale e ideologico congeniale ai suoi gusti e alla sua educazione, ecco perché, qualunque soluzione si voglia adottare, è opportuno tener presenti gli ideali e la formazione del poeta. Dante, dopo queste esperienze poetiche ed allegoriche, volle continuare certamente su questa via e, vincendo il pregiudizio secondo il quale in volgare si potesse rimare solo trattando materia amorosa, si pose a svolgere in versi temi dottrinali. Questa errata concezione della poesia volgare egli aveva esposta nella Vita Nuova: «E lo primo che cominciò a dire sì, come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra materia che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore» . Il poeta, quindi, abbandonò tale posizione negativa nei riguardi del volgare e prese a trattare, mentre cresceva il suo interesse per la filosofia, temi dottrinali. Nacquero così le due canzoni dottrinali: Le dolci rime di amor ch'io solia e Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato. 'La prima di tali canzoni dimostra come la nobiltà dell'uomo abbia origini metafisiche, ecco perché essa è un dono divino. Questa nobiltà, concessa per celeste favore a date persone, rende queste inclini alla virtù e quindi felici. Ovviamente la formulazione di questo concetto filosofico sulla vera nobiltà e sulla virtù lo portano a enunciare, nella seconda canzone, un altro conseguente principio sulla leggiadria che è costituita da virtù, amore e letizia. Il poeta aveva, quindi, scoperto un altro filone poetico, mentre di pari passo s'inoltrava nello studio della filosofia, per la quale si accingeva a scrivere altri versi laudativi ed allegorizzanti. A questo nuovo clima intellettuale bisogna ricondurre le altre due canzoni Amor che movi tua vertù dal cielo e I o sento sì d'Amor la gran possanza e il sonetto Due donne in cima de la mente mia, nei quali preminente mi sembra il motivo allegorico-filosofico, in quanto sviluppano quei temi d'amore di bellezza e di virtù, di cui abbiamo discorso. Il sonetto, in modo particolare, accentua questo carattere morale, anzi allegorizza il passaggio dalla poesia amorosa a quella filosofica . Nell'itinerario intellettuale del poeta bisogna, prima che si passi a considerare altro suo genere di rime, inserire la tenzone con Forese Donati, che registra un'esperienza stilistica e biografica di cui si gioveranno le successive «petrose» . Con quest'ultime, infatti, dall'esperienza stilnovistica del suo esordio, di cui si ebbe una ripresa successiva con le rime per la pargoletta e con la canzone Amor che movi, e dall'altra esperienza allegorico-dottrinale si giunge al terzo stile dantesco, quello delle «petrose». Queste rime, composte, secondo l'ipotesi, accettata anche dal Barbi, fra il 1296 e il 1298, sono comunque la proiezione e il simbolo o di una violenta passione del poeta per una donna insensibile al suo amore o il travaglio per l'immaturità intellettuale che gli impediva la comprensione della Filosofia. Nell'un caso e nell'altro ancora una volta il poeta affidava a componimenti letterari la raffigurazione del proprio sentire e trasferiva in immagini o allegorie il proprio tormento. Ma nelle «petrose» anche la forma stilistica concorre a rappresentare questo travaglio lirico-morale del poeta con un sordo martellare di rime, con una compiacente scelta di vocaboli aspri, con un duro susseguirsi di gutturali e dentali . Svanita è la dolcezza dello «stil novo» dalla sua lirica, perché non è più l'amore a suggerirgli «rime dolci e leggiadre»; al suo posto succede la durezza, non perché il poeta voglia rinnegare una importante conquista della sua arte, ma perché una passione violenta squassa il suo animo ed un tetro incubo oscura il suo cuore. Egli stesso, quasi a giustifica di questa conversione stilistica, ci dichiara:
«Così nel mio parlar voglio esser aspro»,
(CIII, 1)
come si addiceva, cioè, alla materia del suo canto.
Dante, nel De vulgari eloquentia, proprio nel secondo libro, nel quale si prefigge di svolgere un'indagine critico-stilistica sulla tradizione lirica e sull'espressione poetica, ricorda, come poeta esemplare, il trovatore Arnaldo Daniello, che chiaramente riconosce come maestro di stile, di tecnica poetica e di alta ispirazione lirica . Infatti, Dante riconosce nel trovatore provenzale lo stile «sapidus et venustus etiam et excelsus» proprio dei sommi «dittatori», tra i quali quello si è autorevolmente inserito con la canzone «Sols sui che sai lo sobraffan chem sorz», nella quale non si deve ammirare, come in tutte le sue liriche, solo la retorica, l'artificio del periodo, l'arditezza d'iperbati, di «caras rimas» e di rime equivoche, di sensi ardui e di nuove parole e forme, di compiacenti allitterazioni e di rimalmezzo, ma anche, e in modo particolare, l'eccellenza dell'ispirazione amorosa e del contenuto. Questo valore bisogna anche attribuire alle parole che Guido Guinizelli, additando a Dante il trovatore provenzale, pronunzia nella settima cornice dei lussuriosi:
«O frate, disse, questi ch'io ti cerno
col dito» e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno:
Versi d'amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi»
(Purg. XXVI, 115-120)
Dante, quindi, esalta in Arnaldo Daniello il «miglior fabbro», ossia il migliore artefice e poeta del «parlar materno», vale a dire della lingua volgare, che va intesa in contrapposizione alla lingua latina, nella quale eccelleva il «maestro e duca» Virgilio, che con la sua arte
«mostrò ciò che potea la lingua nostra».
(Purg. VII, 17)
Si tenga presente che in quel «fabbro», attribuito da Dante al trovatore provenzale, si deve vedere non solo l'abile stilista o cesellatore di versi, ma anche il poeta altamente ispirato, che sa contemperare, in un equilibrato dosaggio, il tormento interiore e la passione amorosa con i difficili componimenti del suo trobar clus . Nelle sue sestine, appunto, le rime, ritornanti e incrociantisi sempre di strofa in strofa con l'uso obbligato delle stesse parole, diventano spia del suo · travaglio e simboli della sua tormentata condizione amorosa. Queste parole, che si ripetono alla chiusa d'ogni verso, rievocano immagini di passione e di solitudini in un disperato esercizio metrico.
A questa perizia tecnica di un grande poeta Dante, quindi, chiese ausilio per rappresentare una quadrilogia poetica di ritmi sordi, fondi e aspri, il suo cupo tormento, nato dall'indifferenza della donna vagheggiata e dalla delusione amorosa. La prima «petrosa», «Io son venuto al punto de la rota», è una canzone che, in cinque strofe più il congedo, dà per sfondo alla triste passione amorosa un paesaggio tetro, arido e avverso, su cui ruotano sinistri pianeti tra riarse folate di vento, pesanti cortine di nebbia, grevi scrosci di pioggia e turbinii di neve, bruciate vegetazioni tropicali, tartarei fiotti di vapori, immense stagnanti solitudini. La seconda «petrosa», «Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra», è una sestina simile nella struttura a quelle di Arnaldo Daniello e racconta, con minore ossessione anche se con la medesima costrizione ritmica della prima, la storia dell'innamoramento per la donna-pietra. Il contrasto, tra l'incrollabile passione e la durezza o petrosità della donna, si svolge sul lieve gioco delle parole-rima, fra gelidi paesaggi di ombre e di neve, fra serenanti visioni di angoli primaverili, fra inaccessibili apparizioni della silvana figura della donna. La natura scatenata e orrida della prima «petrosa» si è ora placata e ingentilita per rendere ancora più doloroso e amaro il rifiuto amoroso della donna . La terza «petrosa», «Amor, tu vedi ben che questa donna», è una sestina duplicata, ossia ogni stanza è formata da dodici versi e le parole-rima sono appena cinque, dimodoché l’artifizio ritmico osa l'ultima disperata sortita per mettere in mostra virtuosismo verbale e freno stilistico. Le immagini, in questa rigida gabbia metrica, si pietrificano, il discorso diviene faticoso, i motivi si raggelano nelle parole-rima, che come un tonfo chiudono il verso e che, non a caso, risultano essere: freddo, petra, luce, e non luce, tempo, donna, quasi a sottolineare una desolazione senza fine. L'ultima «petrosa», «Così nel mio parlar voglio esser aspro», assommando questa tensione ritmica e verbale, si scioglie in canto disteso e meditato. Il virtuosismo metrico e la passione ardente delle prime tre qui si fondono, i due piani artistico-psicologici si frantumano per ricomporsi in una forma che domina e piega le parole e le immagini in un canto che raccoglie e rimescola i precedenti temi poetici. L'asprezza del verso si attenua, ma non scompare, perché deve raccontare il tormento e la passione, la cupezza e l'insensibilità dei protagonisti di una storia d'amore e di illusioni.
Certamente l'ambizione letteraria e il disagio morale del poeta hanno ispirato queste rime, che segnano una dimensione nuova delle raffigurazioni umane. Infatti, ai sordi ritmi, alle tetre immagini, alle rime obbligate, alle parole aspre, ai suoni cupi sono affidate le evocazioni di tormenti e di disprezzo, di slanci passionali e di freddezza. Ma c'è di più, alla simbolica pietra, fredda, dura e immota vengono demandati dal poeta i compiti di allegorizzare l'indifferenza di donna , che segna un'altra tappa della vicenda biografica ed intellettuale di Dante. Così si può tracciare una linea continuativa tra le varie fasi dell'esperienza umana del poeta, mentre le varie donne scandiscono il tempo di questo itinerario, le cui tappe etico-culturali vengono appunto impersonate allegoricamente da esse
L'esilio per Dante sopraggiunge quando egli credeva di poter dare alla sua città cultura, sapere ed equilibrio m una fase cruciale della sua storia sconvolta dalle fazioni e insanguinata dalle lotte fratricide. Di questa dura condizione di esule rimbalzano gli echi amari nelle successive liriche del tempo e la canzone «Tre donne intorno al cor mi son venute» racchiude proprio il dramma dell'uomo ingiustamente bandito e crudelmente perseguitato . L'allegoria, ancora una volta, gli viene incontro per dargli modo di raffigurare nelle tre donne la Giustizia universale o il Diritto naturale, il Diritto umano e la Legge civile, esiliate, come lui, dagli uomini, ecco perché ognuna di esse si mostra
«... dolente e sbigottita
come persona discacciata e stanca
cui tutta gente manca
e cui vertute né beltà non vale».
(Rime, CIV 9-12)
Lo stesso Amore, esiliato come le tre donne, si è rifugiato nel cuore di altro esule e consola le germane esortandole a non abbattersi. Egli giudica quindi onorifica la sua similare sorte di esule («L'essilio che mi è dato onor mi tegno»; «Cader co' buoni è pur di lode degno»), ma, subito dopo, la dolorosa realtà attenua la fierezza dell'uomo giusto e onesto con il pensiero della lontananza dalle cose sue più care. Dopo un cenno ai suoi errori, probabilmente politici, giunge il congedo, nel quale il poeta affida all'allegoria il segreto dei suoi riposti sentimenti, che potrà essere scoperto solo da persona virtuosa. Le altre canzoni riprendono o sviluppano temi consueti e completano l'ampio panorama lirico di Dante, in cui l'allegoria continua a tenere un posto cospicuo.
Anche in campo teoretico il poeta affrontò il problema dell'allegoria, che, come s'è detto, costituiva tanta parte della cultura medievale e come tale, quindi, non poteva sfuggire alla sua mente, pronta a cogliere tutti gli aspetti salienti della sua età. Egli, nella epistola a Cangrande della Scala, che tranquillamente si può ritenere scritta verso la fine dell'ultimo decennio della sua tormentata esistenza ritorna per naturale riflessione su quei motivi che avevano informato la sua opera, rimeditandoli alla luce della propria esperienza. In fondo, ad ognuno accade, dopo fasi altamente operose della propria umana vicenda, di soffermarsi a riconsiderare il passato e ad evincere dalla propria opera quei temi che hanno guidato, come fili conduttori, un lungo travaglio di pensiero e di creatività. Questa osservazione logica e niente affatto irreale ci potrebbe da sola indurre a ritenere autentica l'epistola; ma altre ragioni ben più valide e meno contingenti ci rafforzano in un convincimento, che, dopo tutto, affonda le sue radici in quel mondo dottrinale, di cui abbiamo ricostruito alcune componenti e da cui si dipartono i problemi dibattuti da Dante nell'epistola.
La struttura dello scritto, che ha i primi quattro paragrafi composti ritmicamente secondo le regole del «cursus» e i rimanenti ventinove paragrafi scritti in forma espositiva e senza ritmo, potrebbe far pensare all'intervento di due diversi autori, tesi che ha trovato credito in questi ultimi tempi. Ma a parte il fatto che la Monarchia e la Quaestio de aqua et terra hanno ugualmente il prologo scritto in prosa ritmica, mentre il resto è tutto un intreccio di sillogismi scolasticamente architettati, l'autore stesso ci avverte alla fine del quarto paragrafo che «pertanto, terminata la formulazione della lettera, dirò brevemente qualche cosa a mo' di commentatore per introduzione dell'opera offerta» . Essendo la lettera di accompagnamento dell'offerta del Paradiso a Cangrande terminata, il seguito, che è solo una esposizione che rifletteva la maniera scolastica d'argomentare, doveva essere svincolato dalle regole del «cursus». Infatti le epistole dantesche sono state composte secondo le regole del «cursus» e non fanno eccezione i due prologhi della Monarchia e della Quaestio, perché essi venivano considerati dall'autore come una specie di lettera di presentazione delle due opere ai suoi lettori . Quindi la diversità stilistica delle due parti dell'epistola avrebbe una sua giustificazione, confermata dal congedo che ribadisce l'intenzione di Dante di aver voluto scrivere un commento per la sua opera e non un'epistola, commento che ora deve interrompere perché «rei familiaris angustia» l’opprime e gli toglie quella serenità indispensabile alle meditazioni e all’esposizione.
Ma proprio su questa diversità stilistica delle due parti della epistola si è fondata la critica di questi ultimi anni per respingere l'intera paternità dantesca dell’opera e per attribuirla, di conseguenza, a diversi autori. Rifare la storia di questa diatriba, che vede schierati su opposte posizioni insigni dantisti ed acuti filologi , esula dai compiti di questa nostra ricerca; tuttavia, per i motivi addotti da noi e da altri e a conferma di quanto abbiamo cercato di dimostrare, nelle pagine precedenti, sulla cultura medievale e sulla dottrina, di cui Dante fu illustre esponente, non possiamo nascondere la nostra preferenza per la tesi che sostiene l'autenticità integrale del documento, il quale ci offre la chiave per penetrare nel mondo dottrinale del poeta e scoprirvi i temi più suggestivi.
Questa epistola, infatti, attraverso il riesame delle linee fondamentali del pensiero dantesco, così come si era venuto formulando dalla Vita Nuova al Convivio, dal commento alle Rime alla Monarchia e alla Commedia, pone i termini ermeneutici fondamentali del poema, definendone la poetica che lo ha ispirato e sintetizzandone la complessa problematica, in cui s'è disciolta l'invenzione generale. I temi centrali dell'autobiografia interiore del poeta sono riconsiderati in un'esperienza culturale ben determinata e nella finzione fantastica del viaggio ultramondano, che ricrea, figuratamente, la condizione umana dell'essere, il suo destino e la soluzione eterna del suo vivere fino alla conquista della libertà morale, da cui si originano premi e castighi ultraterreni: «Il soggetto di tutta l'opera dunque, presa solo letteralmente, è lo stato delle anime dopo la morte inteso genericamente; infatti su esso e intorno a esso si svolge il procedimento di tutta l'opera. Se poi l'opera si prende allegoricamente, il soggetto è l'uomo secondo che meritando e demeritando per la libertà d'arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo» . Questa libertà viene conquistata attraverso un lento processo catartico del poeta, protagonista nel mondo ultraterreno, per via naturale, ossia con la ragione che rettamente ci consiglia e guida verso la felicità terrena, e per via soprannaturale, ossia con la grazia che ci indirizza verso la beatitudine celeste per la fruizione della divina bellezza.
Rivive, nell'esposizione dantesca, il complesso itinerario della purificazione individuale, che, trasfigurando l'umana esperienza e universalizzando i motivi etico-gnoseologici della dottrina della filosofia e della scienza, innalza a itinerario esemplare e parenetico, a paradigma di elevazione e di salvezza per l'intera umanità, la vicenda umana e ultramondana del poeta, che ha saputo ritrovare la retta via, quando carenza di potere spirituale e temporale rabbuiavano il mondo. Da questa dimensione umana e metafisica scaturisce la duplice visione letterale e allegorica del poema: «Il senso di quest'opera non è unico, anzi può dirsi polisema, cioè di più sensi; infatti, il primo senso è quello che si ha dalla lettera, l'altro è quello che si ha dal significato attraverso la lettera. E il primo si dice letterale e il secondo allegorico o morale o anagogico» . Appunto lo «status animarum post mortem» è il senso letterale dell'opera, che rielabora questo dato fabuloso e fantastico adattandolo al concetto di allegoria, esposto nel Convivio (II, I, 8-11), e includendovi la «sentenza», ossia la validità dell'azione umana, sottoposta al giudizio di Dio. Fine dell'opera è «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» . Il genere filosofico è il «morale negotium», ossia l'etica che intona tutta l'opera ad una necessità pratica «quia non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars». Ma la complessità dell'opera presuppone una indagine speculativa, che non si esaurisca nella mera contemplazione ma si proietti nell'azione: «pertractatur ad modum speculativi negotii, hoc non est gratia speculativi negotii, sed gratia operis» . Risulta evidente, a questo punto, come il processo di rigenerazione individuale e di redenzione etico-religiosa abbia raggiunto il suo culmine e si sia configurato in un modello esemplare, dopo aver superato le condizioni soggettive, umane, storiche, politiche e contingenti del protagonista. Il legame tra il senso allegorico-dottrinario del poema e la varia esperienza di vita e di sentimenti, ivi trasfusa, balza netto e preciso da questa epistola-commento; ma Dante non esaurisce in questa forma precettiva il proprio messaggio, né conclude in un paradigma logico-filosofico l'azione redentrice, perché è consapevole, come nel caso del Paradiso, che «la materia in cui si svolge il presente trattato è straordinaria» e di conseguenza l'esordio di tale cantica «indica l'utilità, quando dice che narrerà ciò che è massimamente stimolante del desiderio umano, cioè le gioie del Paradiso; accenna alla straordinarietà, quando promette di dire cose tanto ardue tanto sublimi cioè le condizioni del regno celeste; mostra la possibilità, quando dice che dirà ciò che ha potuto ritenere nella mente; se infatti ha potuto lui lo potranno gli altri» . V'è in questa triplice formulazione dell'impegno poetico la soddisfazione di aver contribuito a rendere migliori gli uomini, ai quali non sarà negata la visione beatifica di Dio, se procederanno sul retto sentiero della virtù. L'elevazione fino all'Empireo, concesso al poeta come a Paolo, non si esaurisce in un dato eccezionale e preferenziale, ma si colloca tra le mete esemplari di tutti i buoni e gli onesti. Questa ascesa è l'ultima conquista della mente, la suprema visione dell’intelletto che «per la connaturalità e affinità che ha alla sostanza intellettuale separata, quando s'eleva, s'eleva tanto, che dopo il ritorno manca la memoria per aver trasceso la facoltà umana» . Nel compiersi della trasumanazione si conclude l'itinerario mistico-biografico del protagonista, che si placa, poiché dopo aver «trovato il principio o primo, cioè Dio, non v'è nulla da cercarsi oltre, poiché è l'Alfa e l'Omega, cioè il principio e la fine, come indica la visione di Giovanni» . Anche le giustificazioni di questa totale pienezza della letizia superumana ed intellettuale accentuano quel carattere mistico del viaggio ultraterreno e pongono un alto sigillo all'incessante ricerca del vero e alla raggiunta redenzione.
L'utilizzazione di questi concetti interpretativi, esposti nell'epistola a Cangrande, da parte dei più antichi commentatori, che erano assai attenti a cogliere il valore allegorico del poema, ci dice come essi rispecchiassero le attese dell'epoca e rievocassero quegli indirizzi esegetici, che già furono del poeta. Non bisogna, quindi, dimenticare queste condizioni intellettuali e spirituali del tempo se si vuole giungere a quella legittima comprensione del poema, che segna un dato incontrovertibile della civiltà letteraria del Medioevo e il supremo approdo del pensiero aristotelico-scolastico. D'altra parte, lo stesso autore sembra ribadire questa collocazione dell'opera nell'ambito della storia, quando, volendo esemplificare il «polisemos», si volge al canonico passo biblico dell'uscita di Israele dall'Egitto, tema ricorrente, come sappiamo, in tutte le esegesi scritturali precedenti. Su questa via di tradizioni e di dottrina accerta che il senso letterale del passo significa semplicemente l’«exitus fìliorum Israel de Egipto», che l'allegorico «nostra redemptio facta per Christum», che il morale «conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie» e che l'anagogico «exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem». Ma la riconversione degli ultimi tre sensi in quello allegorico è il segno più convincente di questa fruizione della lezione esegetica del tempo, quando la scolastica aveva saputo interpretare in questa direzione il lungo travaglio dell'ermeneutica patristico-monastica: «Et quanquam isti sensus mistici variis appellantur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab ‘alleon’ grece, quod in latinum dicitur ‘alienum’ sive ‘diversum’»
«E questo sia suggel ch'ogn'omo sganni»
(Inf. XIX, 21)
sugli stretti legami del poeta con la sua età, alla quale giungevano concluse le tante proposte esegetiche dei secoli antecedenti. In questo circolo culturale, quindi, va ricollocata la Commedia per ammirarne la genuinità e comprenderne il messaggio.
L’allegoria, che lo stesso Dante, infatti, nel Convivio e nell’epistola a Cangrande, ha avuto cura di dichiararci e determinarci, ha contorni e limiti precisi che è opportuno rispettare, se si vuole condurre un discorso efficace e coerente che abbia come meta la stessa intelligenza critica del poema. Egli, come si è detto, ha nettamente distinto la lettera dall'allegoria, nella quale ultima vanno ricondotti tanto il senso morale quanto quello anagogico; quindi solo due ordini di letture possono concorrere alla generale comprensione di un'opera, che, nella sua genesi, rispecchia appunto questa esigenza ermeneutica. In questa chiarificazione concettuale si riodono tutti i temi del secolare dibattito patristico-monastico, che prendeva avvio e conforto dalla età classica, e si può individuare quel nucleo di pensiero dantesco che si riannodava non solo alla speculazione tomistica, ma a tutta una ricca tradizione di pensiero e di sapere filosofico. L'allegoria dantesca, secondo tale prospettiva, si collocava nel solco dell'esegesi biblica, a cui opere letterarie allegorizzanti tentarono di adeguarsi, ma senza ereditarne lo spirito e il valore. Si rimane perciò nella spiritualità dantesca solo quando ci si richiami al suo mondo culturale e si ripercorra il suo complesso itinerario mistico-dottrinale.
Ma all'allegoria non si può chiedere di violentare il senso stesso della parola, né ci si può affidare al suo ausilio per instaurare un discorso diverso da quello che la lettera proponga. Ecco perché occorrono moderazione ed acume nell'affrontare un'esegesi che voglia scoprire il valore effettivo di un testo, senza, cioè, incorrere in quei furori ermeneutici che vogliono ad ogni costo mettere allo scoperto sensi nascosti e dottrine misteriche, laddove la sola lettera è sufficiente per far intendere il giusto pensiero dell'autore. Questi sono eccessi che sollecitano in senso inverso il dettato di un'opera e che compromisero, in tempi non lontani, l'intelligenza del poema dantesco. Dopo questa opportuna precisazione occorre distinguere, nella stessa allegoria, non solo il senso morale e anagogico, ma anche quello tropologico o parabolico, che, secondo la tradizione patristico-monastico-tomistica, da noi esaminata, cade più sotto il senso letterale che sotto quello allegorico. Così, Dante, quando parla della selva in cui si ritrovò smarrito, si esprime in una forma tropologica o parabolica per alludere al proprio traviamento morale e su questa via egli s'incontra con san Tommaso, che distingue il senso letterale dalla figura, in quanto quello indica ciò che è in esso raffigurato, ossia ciò che il senso letterale significa: «Sensus parabolicus sub litterali continetur; nam per voces signifìcatur aliquid proprie et aliquid figurative, nec est litteralis sensus ipsa figura sed id quod est figuratum. Non enim cum Scriptura nominat Dei brachium, est litteralis sensus quod in Deo sit membrorum huiusmodi corporale; sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa» . Quindi si può concludere, ripetendo un discorso già fatto, che il senso parabolico con san Tommaso va a vivificare la lettera e resta confinato in essa. Questa chiarificazione ci ripropone il tema della «figura», che ebbe, nella letteratura cristiana, grande risonanza, dopo l'assunzione fattane dall'apostolo Paolo nell'area del linguaggio anfibologico. Paolo, come già abbiamo rilevato in precedenza, adoperava il termine τύπως che corrisponde al latino «figura» per indicare l'anticipazione o figurazione del Cristianesimo nel Vecchio Testamento. Si ricordino a tale proposito, oltre ai numerosi esempi già registrati, il passo della I Cor. 10 che al verso 6 definisce gli Ebrei nel deserto τύποι ήμϖν ossia figure di noi stessi (figura facta sunt nostri); quindi la figura veniva a riscattare la Legge mosaica, ritenendola una specie di profezia del Cristo veniente e dei cristiani futuri . Si veniva così a stabilire un'altra accezione nel mondo dell'allegoria e il termine avrà fortuna presso i Padri fino a san Tommaso, che, come s'è visto, si serve di esso e dei suoi derivati per definire il linguaggio parabolico. Per quanto, infine, riguarda Dante, egli si serve di figure per indicare il proprio traviamento, come la già indicata selva che poco più avanti viene sostituita, con lo stesso valore etico-figurale, da fiumana o da valle; egli, però, adopera anche il linguaggio reale per esprimere lo stesso concetto, come quando nel Purgatorio CXXIII, 117), additando Virgilio a Forese, dichiara: «Di quella vita mi tolse costui», ossia mi fece uscire da quella vita di traviamento.
Nella Commedia linguaggio reale e linguaggio figurato si alternano, non solo nel tessuto poetico dell'intero poema, ma anche nel contesto dello stesso discorso o episodio con efficace promiscuità. Si pensi a tal proposito, rimanendo sempre nel tema del traviamento, al rimprovero di Beatrice nel Paradiso terrestre. Ivi il rimprovero viene indicato con «spada»; la sollecitudine affettuosa nel riprendere e punire diviene bellissima immagine sensoria: «d'amaro / sente il sapor de la pietade acerba»; i sospiri e le lagrime per il dolore che afflisse il poeta alle parole di Beatrice si raffigurano in «spirto e acqua» e così via. E, sempre in quell'episodio, si ricordi la terzina in cui con la figura del seme si vuole indicare il vizio con tutto un continuato linguaggio figurato:
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa 'l terren col mal seme e non colto,
quant'elli ha più di buon vigor terrestro.
(Purg., XXX, 118-20)
e l'altra terzina, ove, con la figura dell'uscio, con cui si signifìca l'inferno, si confonde il successivo linguaggio reale senza creare iato o confusione:
Per questo visitai l'uscio d'i morti,
e a colui che l'ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
(Ivi, 139-41)
Altre immagini dantesche, che si richiamano in un certo senso al significato allegorico del poema, fanno parte di questo linguaggio figurato, che Dante attingeva dalla tradizione patristico-monastica, dalla sua familiarità con le opere ascetiche e dalla spiritualità della sua età. Siamo, come si vede, sempre nell'ambito di quella cultura medievale, che sostanzia il pensiero e l'opera del divino poeta. Riferendoci, appunto, a quel suo mondo non possiamo fare a meno di notare come il senso reale sia insito nel linguaggio figurato con spontanea e istantanea significazione, come si giunga cioè al valore effettivo della parola senza ausilio di riflessione o di distinzione, perché la parola-immagine reca già in sé, per l'uomo medievale, il suo significato reale e la sua percezione immediata . Certo, per noi moderni è difficile afferrare simultaneamente il valore del linguaggio figurato, ma appunto in questa nostra impossibilità si può misurare la distanza che ci separa da Dante e dal suo mondo.
Dante ci ha dato, nell'ultimo capitolo della Monarchia, la chiave per intendere l'allegoria fondamentale del suo poema. La Provvidenza, infatti egli afferma, ha concesso all'uomo due fini per la propria esistenza: la felicità di questa vita (beatitudinem huius vite) che consiste nell'attuazione della virtù ed è raffigurata nel Paradiso terrestre (per terrestrem paradisum figuratur) e la felicità della vita eterna (beatitudinem vite eterne) che consiste nel godimento della visione di Dio (in fruitione divini aspectus), a cui non si può giungere se non con l'aiuto divino, che è dato intendere nel Paradiso celeste (per paradisum celestem intelligi datur). Si giunge a queste felicità in vario modo: alla prima con la filosofia, vale a dire con la ragione umana, e alla seconda con la teologia, vale a dire con la Grazia divina. Ma, nonostante la conoscenza che abbiamo della prima per mezzo dei filosofi (per phylosophos tota nobis innotuit) e della seconda per mezzo dello Spirito Santo, che ci rivelò la verità soprannaturale (supernaturalem veritatem) attraverso Gesù e i suoi discepoli, i profeti e gli scrittori sacri, tuttavia la cupidigia umana sarebbe disposta a buttarsi dietro le spalle queste conquiste se gli uomini, che sono cavalli vaganti nella loro bestialità, non fossero, nell'itinerario terrestre, trattenuti col morso e col freno ( «in camo et freno» compescerentur in via). Ecco perché furono assegnate all'uomo due guide, l'una spirituale nel Sommo Pontefice e l'altra temporale nell'Imperatore, che possono riportate il genere umano nella tranquillità della pace se si placano i flutti della cupidigia (nisi sedatis fluctibus blande cupiditatis genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret) . Dante, appunto, ha inteso col suo poema richiamare la necessità del ritorno delle due guide al proprio distinto compito, poiché solo sotto la loro direzione l'umanità potrà ritrovare la smarrita pace. Due guide, infatti, Virgilio e Beatrice, la filosofia cioè e la teologia, lo indirizzano nel viaggio ultraterreno e un richiamo al loro imminente ritorno fra gli uomini è racchiuso in quella comparsa vicina e provvidenziale di colui (il Veltro e il Dux), che spazzerà dal mondo la cupidigia (la lupa), causa di rovina delle famiglie, della patria e della Chiesa, e ricondurrà l'umanità alla felicità terrena (Paradiso terrestre) e alla felicità divina (Paradiso celeste). Questa generale visione politico-religiosa della sorte umana risponde perfettamente a quella spiritualità medievale, che vedeva il mondo e la vita come proiezione del trascendente e l'esperienza individuale come testimonianza e paradigma della divina grazia. Dante, infatti, introduce nella vasta cosmografia ultraterrena la sua persona attestante e giudicante dall'inferno all'Empireo e con lui tutta l'umanità risale dalla colpa alla grazia con l'aiuto del sapere umano e teologico .
Anche Agostino, l'eccelso paradigma su cui ogni uomo medievale amava modellarsi, rivide la propria vicenda biografica su uno sfondo di provvidenziale favore e la rivisse come trama. catechetica per i propri simili nelle Confessioni. Questo dramma bio-cosmografico divenne in Agostino dottrina euristica e narrazione edificante, mentre si tradusse per Dante in sentimento di dolore e d'amore, impeto d1 sdegno e di fede, pellegrinaggio espiante e ascesa mistica, che unitariamente permearono e accesero la forte fantasia del poeta. Questi incentivi non soffocarono l'estro poetico, né offuscarono l'espressione, anzi avvivarono di immagini e venarono di passione il divino suo canto, nel quale si accoglievano le voci del suo mondo e della sua cultura delle sue sventure e del suo credo , mentre mendico ed errabondo,' come il divino Omero, andava di terra in terra. Quasi al termine della sua fatica, che lo aveva «fatto per più anni macro», mentre stava per porre l'ultimo «suggello» al «poema sacro», l'originaria fiamma ispiratrice lo divorava e le terrene preoccupazioni gli fornivano materia e Io crucciavano ancora, poiché poteva dire, senza iattanza, con giusto orgoglio della propria opera:
Con altra voce ornai, con altro vello
ritornerò poeta, ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò 'I cappello.
(Par., XXV, 7-9)
L'allegoria, in questa unitaria visione di vicissitudini personali, di coetanei eventi, di dottrina, di religiosità e di passioni, si fonde con la poesia immedesimandovisi. Ovviamente, non tutto il poema è percorso dall'allegoria, né occorre necessariamente tentare di scovarla dovunque, anche dove la sua presenza obiettivamente è inesistente, perché sempre la misura deve guidare la lettura critica d'un'opera e, a maggior ragione, quella della Commedia, la cui intelligenza è prova di equilibrio e di acume. Dante, infatti, non intese fare opera criptografica o misteriosofica, perché la sua personalità, forte ed intera, rifuggiva da espedienti ed infingimenti; né volle creare intenzionalmente sovrastrutture concettuali ed ambigue, perché sempre il suo discorso ebbe il pregio della schiettezza e della comprensibilità. L' allegoria, perciò, non è fuori della poesia, ma palpita in essa, facendovi risuonare la voce della personalità e delle idealità dantesche con una adesione totale e spontanea ai grandi temi che appassionarono l'autore. Fusione, quindi; di poesia e di allegoria come in unico corpo, in cui attività intellettiva e flusso sanguigno scandiscono lo stesso battito vitale.
Dante, come s'è detto, perseguì l'altissimo intento di proporre la via del riscatto e della salute alla società cristiana del suo tempo, sconvolta dal disordine morale e civile, travagliata dalla carenza dell'autorità politica e religiosa. Corruzione e miseria affliggevano gli uomini della sua età, perché avevano appunto tralignato dai loro scopi istituzionali le due guide che la Provvidenza aveva assegnato agli uomini, ossia il Pontefice e l'Imperatore in sfrenata e ignominiosa lotta concorrenziale fra di loro. Ma, in questa desolante situazione politico-religiosa, il poeta cristiano continua a credere e a sperare nella bontà di Dio, i cui disegni sono sempre imperscrutabili, pertanto ha la certezza che qualcuno sarà inviato dal seno del Padre per rimettere ordine fra gli uomini e per ricondurli verso quella felicità terrena e celeste, che Dio aveva assegnato all'umanità, che Gesù salvatore rinnovellò con il suo sangue e che le rispettive guide, l'Imperatore e il Pontefice, in comunità d'intenti e di concordia, riprenderanno a perseguire. Ma la speranza in un futuro migliore non è disgiunta dalla fede nella Rivelazione cristiana e dal senso di giustizia per i mali presenti, mentre l'angoscia lo turba e la fazione lo avvilisce. Acceso, quindi, dal sacro fuoco dello sdegno, desideroso di mostrare i danni delle colpe e di affermare la forza del diritto, animato da una fede grande e operosa si annunzia, novello profeta, all'umanità sofferente e fidente; come Enea , l'eroe pio della classicità, e Paolo, l'apostolo ardente della cristianità, egli può violare con la fantasia, per segnalato privilegio divino, i misteri della morte e peregrinare nei regni oltremondani per constatare le pene, le purgazioni e i trionfi serbati ad ogni uomo dopo la terrena vicenda. In questa missione di profeta, pellegrino e giudice dell'umanità la sua poesia si risolve in vaticinio e dall'allegoria attinse la forza e la linfa per voli superni . In questo modo e su questa strada poesia e allegoria s'incontrano e celebrano la loro solida unione.
S’inseriscono e si fondono in questa ampia concezione profetico-religiosa le vicende personali e cittadine, le passioni e gli odi, gli amori e le vendette, le attese e le delusioni, il misticismo e le profanazioni, la politica e la religione in una continua alternanza di temi, che vivificano la complessa trama del poema ed alimentano l'alta ispirazione . Tutto, quindi, il mondo delle esperienze e degli ideali di Dante si riversa nell'opera, che diviene non solo l'itinerario d'un'anima travagliata, ma lo specchio di un'umanità che soffre nel presente e spera nel futuro fino al suo ultimo supremo riscatto. In tal modo la ristretta cerchia delle mura fiorentine si slarga fino ad abbracciare l'universo, la unilaterale esperienza di un uomo diviene la vicenda dell'umano destino, il credo etico-politico di un singolo commisura l'intera umanità. Ed allora non possiamo ricondurre questo poema a schemi prefissati, non possiamo isolare nella sua unitaria ispirazione motivi determinati, non possiamo frantumare la sua compattezza in visioni unilaterali. L'opera va vista nel suo insieme e giudicata nella complessità dei suoi temi, che si originano dalla dottrina, dalle passioni, dalla filosofia, dalla storia, dalla tradizione e dalla religione come una grandiosa polifonica orchestrazione. Ecco perché il poema dantesco, come ben vide Leopardi, è un «misto di narrativo e di dottrinale, morale ecc.» , senza che l'una voce obliteri l'altra, senza che le parti si disarmonizzino, senza che gli episodi si disarticolino.
In tutta questa fitta trama di motivi si muove, e la cosa potrebbe sembrare singolare, lo stesso autore come protagonista, facendo avvertire la sua presenza sempre e dovunque per condannare o assolvere, ricordare o dimenticare, pregare ed imprecare; ma, in questa singolare posizione, s'individua ancora un altro aspetto della coscienza medievale, che amava divenire attrice di una vicenda che poteva essere sua o di un altro, ma che conservava sempre le caratteristiche di un evento cosmico . Dante fa perciò della sua biografia e del suo travaglio psico-intellettuale un emblema che universalizza come vita di ogni uomo nelle medesime condizioni di sofferenza e di redenzione. Si origina così l'allegoria che ha la medesima insorgenza genetica della poesia, perché il mondo, la vita e gli eventi sono espressioni o simboli di una più vasta cosmografia universale. Questa concezione risale alla visione scritturale dell'universo e il Medioevo la portò innanzi intera e univoca così come la formularono i primi esegeti . A queste fonti si richiama Dante, la sua fantasia ripercorre l'itinerario mistico-biografico che fu già dei profeti e la sua mente si affligge in quei valori che la civiltà del suo tempo aveva innalzato a simboli di vita e di virtù.
Due personaggi del poema, Virgilio e Beatrice, ci danno la misura esatta dell'allegorismo dantesco, perché, nonostante che siano stati concepiti come personaggi allegorici, subito si rivelano come persone reali che vivono tuttavia nella concezione profetica e redentrice del poema la loro vita di simbolo e di realtà in perfetta sincronia.
Dante, nel libello giovanile, si propose «di non dire più» di Beatrice «infìno a tanto che [ ... ] potesse più degnamente trattare di lei» e fedele a questo solenne impegno egli introdusse, nella parte conclusiva del suo poema, la donna che lo rimbrotta, gli parla o l'esorta come persona viva con i suoi sentimenti e i suoi attributi umani. Virgilio racchiude nella sua persona quell'amore del sapere, che fu l'altro costante sentimento della vita di Dante, che volle nel poeta latino celebrare la sapienza antica e la forza dell'intelletto umano senza l'ausilio della rivelazione divina. L'amore ispiratore delle Rime, accolte poi nella Vita Nuova, e l'amore del sapere, figurato nella « Donna gentile» del Convivio, erano quasi due sentimenti antitetici che sconvolsero la vita del poeta, ma, poi, nella più matura riflessione, si conciliarono e si fusero nella Commedia in un fine più alto che trascendeva la stessa persona dell'autore: alla «Donna gentile» sottentra Virgilio e così Beatrice e Virgilio divengono simboli altissimi di sapere divino e di sapere umano senza perdere nella ricreazione fantastica tutti gli attributi umani.
Beatrice opera e vive nel mondo ultraterreno con la naturalezza e la spontaneità di persona vera, né la teologia impaccia o condiziona i suoi spontanei atti di donna sollecita ed innamorata, mentre la sua femminilità si depura del superfluo e si staglia più nitida sullo sfondo dell'eternità. Anche Virgilio guida con paterna sollecitudine il poeta-pellegrino, i suoi gesti e le sue parole denunziano la presenza di un uomo reale, né la scienza terrena frena il suo gestire o trasfigura il suo parlare. Beatrice e Virgilio, quindi, pur assommando nelle proprie persone una vita sensitiva e un'idealità intellettiva conservano sempre, nell'economia del poema, una propria autonoma esistenza, fatta di «argomenti umani» e di sensibilità terrestre; così quando Beatrice siede nell'Empireo con «l'antica Rachele» e con le altre donne beate non è persona meno reale e palpitante di Virgilio che discute nel nobile castello con gli altri grandi dell'antichità. Ma Beatrice, guidando Dante nella mistica ascensione dei nove cieli, espone ed insegna al poeta quella sapienza divina, di cui ella è immagine vivente; ma non si riesce a vedere una frattura né una sovrapposizione fra la donna «gentilissima» e il simbolo «teologante», perché le due parti sono saldamente fuse e l'allegoria non sforza o condiziona la sorte umana del personaggio. Anche per Virgilio si possono fare le medesime considerazioni. Dante avrebbe potuto chiedere ad altro personaggio dell'antichità la rappresentazione della scienza umana; e il «maestro di color che sanno» avrebbe potuto essere officiato in una raffigurazione del sapere. Ma Virgilio non era solo il saggio antico o il cantore di Enea; era il sublime modello del «bello stilo» e il maestro perciò dell'arte poetica che aveva scaldato il suo giovanile cuore di ambizione; era il sapiente, in cui bontà e stile, dottrina e arte avevano celebrato un alto connubio. Guida, quindi, migliore, in perfetta adesione a quella ricca spiritualità medievale che ritrovava in Virgilio il saggio e il poeta sommo dell'antichità, egli non poteva scegliere per il suo itinerario di redenzione e di fede . E proprio la condizione di personaggio storico dona a Virgilio maggiore forza creativa e migliore disponibilità simbolica in una trama bio-cosmografica . Il poeta latino diviene così guida del poeta volgare, ma i suoi atti e le sue parole non lo isolano in un'arida funzione di pedagogo e di saccente, bensì lo umanizzano sempre più, man mano che la via verso la vetta del Purgatorio viene percorsa. Ancora una volta Dante ha saputo fondere lettera e allegoria, personaggio reale e simbolo senza che l'una condizione soffochi o distrugga l'altra. Questa sorte reale e fantastica vivono tanti altri episodi del poema e nella lettera della loro trama narrativa si racchiude, senza smagliature o sovrastrutture, la loro vita allegorica.
In questa visione generale degli intenti e della realtà bisogna esaminare tutto il poema, che ubbidiva, nella sua genesi e nella sua ispirazione, a quella spiritualità medievale, di cui abbiamo cercato di delineare le componenti. Non bisogna, infatti, mai dimenticare come il mondo medievale abbia operato sulla coscienza del suo maggiore poeta, né trascurare tutti quei motivi dottrinali che arricchiscono la sua personalità, perché, diversamente, si fraintenderebbe il valore e il messaggio del suo poema. Il Medioevo aveva una sua ben definita spiritualità, che noi moderni stentiamo a riconoscere e ad individuare; ecco perché ci sentiamo estranei a quella che fu la più alta conquista della civiltà religiosa di ogni tempo. Ma, per converso, siamo portati a giudicare ed intendere i monumenti di quella civiltà senza la necessaria preparazione e predisposizione, per cui rischiamo, spesso, di sminuirne il valore e smarrirne il significato. Non si dimentichi, perciò, in una seria e responsabile esegesi dantesca, l'età in cui visse ed operò il poeta e con essa la cultura, le credenze, gli eventi, gli entusiasmi e le passioni che lo informarono e, nello stesso tempo, lo condizionarono in modo inconfondibile.