Dati bibliografici
Autore: Giorgio Padoan
Tratto da: Il pio Enea, l'empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante
Editore: Longo, Ravenna
Anno: 1977
Pagine: 30-63
Già il Foscolo nel suo Discorso sul testo della Commedia aveva avvertito che si rischia di fraintendere i significati più intimi del capolavoro dantesco ove non si colgano, interamente e in tutte le loro implicanze, la tensione escatologica che anima tante e tante pagine tra le più vibranti della Comedìa e il carattere di messaggio profetico che ha determinato la concezione stessa del «poema sacro»: a «chiunque considera nell'autore il poeta anziché dl legislatore di religione, Dante e quel secolo, temo, si rimarranno mal conosciuti».
La magistrale indicazione foscoliana - una di quelle intuizioni che testimoniano dello straordinario acume critico dell'autore dei Sepolcri, e che rendono le sue note di storia letteraria estremamente preziose - è stata spesso considerata con diffidenza, soprattutto per le conseguenze che occorreva di necessità trarne, che avrebbero turbato profondamente tutta una serie di comodi schemi :ideologici, su cui riposava ( e continuò a riposare) la pacifica interpretazione della Comedìa come opera pressoché esclusivamente poetica; e ciò, nonostante che non pochi autorevoli dantisti - basterà fare i nomi di Luigi Pietrobono e di Michele Barbi - non siano rimasti del tutto insensibili dinanzi ad una prospettiva interpretativa che tenesse conto anche di questo particolare aspetto della Comedia, prepotentemente proposto dal testo stesso. È soprattutto a Bruno Nardi che va il merito di aver più conseguentemente e più fruttuosamente insistito in questa direzione, sì da dare ad un suo studio, rimasto meritamente famoso, il titolo emblematico di «Dante profeta». In anni più vicini, mentre .il Nardi ha infaticabilmente ribadito la sua convinzione (con annotazioni che, soprattutto nei suoi ultimi contributi, partendo da quella linea interpretativa finiscono con il coinvolgere grossi problemi d'autenticità per altri scritti danteschi, quali l'Epistola a Cangrande o il De situ et forma aque et terre), alcuni hanno continuato a parlare del «profetismo» di Dante: ma si deve pur ammettere che la «communis opimo» ha finito col lasciare piuttosto in ombra quest'aspetto del poema, limitandosi, semmai, a ripetere formule generali e generiche in cui si riconosce una qual certa affinità tra la Comedìa e la letteratura di «visioni», senza peraltro affrontare, con la chiarezza e la risolutezza necessarie, le delicate implicanze che ne risultano. Anzi, proprio in questi amni si registra, soprattutto in Italia, piuttosto la tendenza a lasciar cadere quella linea interpretativa, a minimizzare il carattere profetico del poema, a ridurne la effettiva tensione escatologica a qualche passo particolare, a qualche singola affermazione, come componente laterale e non essenziale dell'opera; si vuole ora, contro l'interpretazione che fu cara al Foscolo, mettere soprattutto -in luce per la Comedìa il carattere fondamentale di invenzione poetica , di «romanzo teologico», di «itinererium» filosofico, sottolineandone quasi esclusivamente i valori letterari o teologici; ed anzi si tende a sviluppare un accenno (utile se mantenuto nei suoi limiti) di Ernst Robert Curtius, nel volume, estremamente ricco e prezioso, Europaiscbe Literatur und lateinisches Mittelalter, che mira ad inscrivere la Comedìa, almeno in parte, nell'àmbito culturale di quella letteratura filosofeggiante ed allegoristica francese che produsse l'Anticlaudianus di Alano da Lilla: soprattutto per qualche affinità (non esclusiva però di altre fonti) tra l'itinerario dantesco a Dio e il viaggio di Fronesis attraverso le sfere celesti fino alla sfera della Trinità trascendente, con la guida della Ragione, poi della Teologia ed infine de1la Fede (secondo la consueta triplice distinzione dei-gradi della conoscenza umana). Alano avverte i suoi lettori che nell'Anticlaudianus il senso letterale è il meno imporrante e che la verità è celata nell’allegoria (avvertimento del resto, in quel caso, quasi ovvio); ed ecco dunque che anche il senso letterale della Comedìa è parsa a non pochi studiosi mera fictio in funzione del vero che è nell'allegoria. E però differenze profonde e sostanziali separano inconciliabilmente Anticlaudianus e Comedìa; basta aprire il poema dantesco per rendersene conto: e ·non parlo - s'intende - della diversa validità poetica dei testi, o della diversa impostazione filosofica (sorgendo l'uno sul tronco del neoplatonismo chartriano, e risentendo l'altra profondamente di Influenze di varia origine, ad esempio anche del misticisrmo vittorino), ma del tono stesso, che nelle due opere è profondamente ed innegabilmente diverso. Credo sia opportuno perciò rimettere sul tappeto con decisione alcuni interrogativi di fondo, nel desiderio - più che di convincere dell'esattezza di determinate soluzioni - di avviare finalmente una discussione spassionata ed aperta quale la serietà del tema esige, di rompere una buona volta quel muro di perplessità e di scetticismo che ha impedito che il problema posto dalla componente escatologica e profetica della Comedìa venisse affrontato davvero e chiarito nei suoi aspetti generali e particolari, ed anche nei suoi eventuali limiti, e soprattutto nel tentativo di aiutare a superare quella impasse che si è determinata tra i due diversi criteri interpretativi, per cui risulta evidente il rischio – dall’una parte come dall’altra – di una valutazione della Comedìa per lo meno parziale ed univoca. Se tanto importante è la posta in gioco, è pur necessario che il discorso prende l’avvio dalle constatazioni le più immediate, anche a costo di dover ripetere dapprima cose notissime. È il pedaggio che si deve pagare alla chiarezza: e se la pazienza del lettore non vien meno, per conto mio la pagherò volentieri.
La prima domanda è dunque questa: Dante, scrivendo la Comedìa, intendeva render conto di una visione che riteneva (o voleva far ritenere) d'aver realmente goduta per grazia divina, straordinariamente concessagli (e non importa ora stabilire il senso ed i limiti di questa “vision”, quanto appurare se al senso letterale della Comedìa occorra dare, secondo il suo autore, un significato ben preciso), oppure si limitava a prospettare un viaggio avvenuto per phantasiam, cioè di mera invenzione poetica, e mentaliter, cioè intellettuale, filosofico?
È un fatto che nella Comedìa ogni dichiarazione dell'autore appare sempre intesa a far credere che la descrizione del mondo ultraterreno derivi da qualcosa di più che da semplice invenzione di fantesia. Dante non ci presenta personificazioni di astratti come è nell’Anticlaudianus, né parla mai di viaggio filosofico; bensì afferma con risolutezza (e già nella conclusione della Vita Nuova XLII) che una visione (Par. XVII 128; XXV 5-6) è alla base del poema sacro “al quale ha posto mano e Cielo e terra” (Par. XXV 1-2); e di visione egli parla esplicitamente anche nella conclusione della terza cantica, e nel significato il più profondo del termine: quello che rinvia alla visione beatifica, non alla “visione” nell’accezione letteraria. Queste espressioni potrebbero fors'anche sembrare suggerite dalla cosidetta « fictio poetica». Ne compaiono però altre, assai più gravi e, francamente, inquietanti: archiviare le quali con quella medesima etichetta (se ciò fosse possibile, ma non lo è) sarebbe invero assai comodo, risparmiandoci pesanti interrogativi. L'Alighieri dichiara più volte e senza perifrasi (e lo fa ripetere, altrettanto chiaramente, e da Beatrice e da Cacciaguida) di essere stato investito dal Cielo di una particolare missione, e che è proprio per questa che, come a pochi altri mortali (cfr. Par. XV 28-30), per due volte - la prima da vivo, per « superinfusa gratia Dei » - gli è dischiusa la porta del Paradiso; e ricorda, come antecedenti al proprio viaggio, il raptus al Paradiso di S. Paolo, che fu il costruttore della Chiesa, e il viaggio all'Inferno di Enea, che pose le basi dell'Impero: due viaggi .non immaginari o filosofici, ma l'uno ritenuto reale e verità indiscutibile dai cristiani e da Dante, l'altro ammesso come discesa storicamente avvenuta, oltre che da Dante («e fu corporalmenre»), da una folta letteratura medievale sulle Sibille e sull'Eneide; come, del resto, storica era ritenuta la figura dell'eroe troiano, le sue peregrinazioni, il suo arrivo nel Lazio. Fin qui le regole della « fictio poetica» potrebbero anche apparire non infrante, ma, semmai, largamente violentate da quelle arditezze di espressione (che però pongono già la Comedìa su un piano per [o meno non consueto); mentre risulta assai singolare la citazione di quei due antecedenti, così significativi e scelti non a caso tra altri possibili (Ercole, Teseo, Orfeo ecc.); i quali assai meglio avrebbero chiarito il pensiero dell'autore, se egli avesse pensato a quel viaggio come ad una finzione poetica. Ma una tale tesi non regge, a meno di voler negare la più chiara evidenza, dinanzi alle precise parole di S. Pietro, dopo quella tremenda maledizione contro il papa usurpatore e i Caorsini e i Guaschi che del sangue della Chiesa «s'apparecchian di bere»:
e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo
(Par. XXVII 64-66)
Dante - non lo si negherà - era cristiano fervidamente e sinceramente credente, e viveva in tempi in cui si dava a queste cose un peso assolutamente diverso da quello cui ci ha abituato Ia mentalità moderna. L'anima, l'Oltretomba, la visione beatifica erano problemi cui ci si accostava con la più assoluta serietà; e non era certo priva di gravità una tale affermazione addirittura attribuita a S. Pietro: particolarmente in quegli anni di estrema crisi religiosa, in cui l'abdicazione contrastatissima di Celestino, e il pontificato di Bonifacio, e la guerra con i Colonna, e lo schiaffo di Anagni, e la cattività avignonese, e la questione della povertà, e l'aspra polemica minorita, e i sempre vivi fermenti ereticali, segnavano un momento tragico nella storia del cristianesimo occidentale, e da più parti si aveva l'impressione d'aver ormai toccato il fondo e si predicava prossima la fine della storia dell'uomo, l'avvento dell'Anticristo e del Messia giustiziere. È questo il contesto storico in cui è nata la Comedìa; dichiarazioni tanto gravi (basti pensare all'invettiva di S. Pietro: «Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, | il luogo mio, il luogo mio, che vaca | ne la presenza del Figliuol di Dio, | fatt'ha del cimitero mio cloaca...») non rientrano certo nelle linee e nell’uso dell'invenzione poetica quale essa poteva intendersi nel secondo decennio del sec. XIV, e tanto meno nell'àmbito di quella «epopea teologica e filosofica» di cui parla il Curtius a proposito dell'Anticlaudianus: ché esse si inseriscono assai meglio nella grande fioritura di opere mistiche, escatologiche e gioachimitiche, che tocca nei secc. XII-XIII i suoi punti più alti. Non conosco esempi letterari di quel tempo ove ci si giovi di espedienti di tale gravità per una finzione di fantasia, moralistica o letteraria (per utili termini di raffronto si vedano Uguccione da Lodi o Bonvesin da la Riva, nei quali mai si registra il tono assunto da Dante); né fatui analoghi si riscontrano nel De universitate mundi di Bernardo Silvestre o nell'Anticlaudianus di Alano: nella Visio Alberici invece - quella Visio che non fu certo scritta con intenti letterari, e che venne illustrata anche nell'affresco di una chiesa di Fossa, diocesi dell'Aquila - il monaco Alberico, dopo essere asceso attraverso i vari cieli all'Empireo, riceve proprio da S. Pietro l'ordine di rendere pubbliche le rivelazioni avute. Per dichiarazioni di quel genere un credente sa di giocarsi l'anima; tanto più che Dante non si limita a coinvolgere il principe degli apostoli, chiama in causa persino Dio stesso: quando lo invoca affinché gli infonda tanta virtù da poter in qualche modo descrivere agli uomini quella visione beatifica che egli afferma essergli stata, tanto straordinariamente, concessa:
O isplendor di Dio, per cu' io vidi
l'alto triunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com'ro il vidi!
(Par. XXX 97-99)
e poco più innanzi:
O somma luce che tanto ti levi
da' concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch'una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria
(Par. XXXIII 67-75)
Non è tanto l'uso del verbo «vedere», in sé comprensibilissimo e ricco in tal senso dì una tradizione letteraria, sono piuttosto il tono e il contesto che colpiscono. Non è possibile credere che Dante non si rendesse conto - ammesso che per lui si trattasse solo di « finzione poetica » - che in questa formulazione (e l'elenco si può allungare a volontà) le sue parole potevano essere accettate per vere da lettori semplici e pii ( e non solo dalle sprovvedute donnette veronesi di cui ci parla il Boccaccio, ma da chiunque vivesse appassionatamente quella grave crisi della cattolicità). Quanti, durante il Medioevo, non proclamarono a voce o per iscritto, e non certo sempre in malafede, di aver avuto una visione o di essere stati, davvero, e non per meditazione filosofica, nei regni dell'Oltretomba? A decine, a centinaia, miracoli, visioni, profezie, grazie particolari, punteggiarono la pietà del Medioevo, ne affollarono la letteratura religiosa, divennero argomento di prediche, di agiografie, di pitture, di racconti popolari. Senza andar molto lontano, basta scorrere la produzione mistica o le biografie di santi e di sante scritte nei secc. XII-XIV o gli stessi Actus beati Francisci et sociorum eius per trovarne esempi a piene mani: da frate Egidio che fu rapito al terzo cielo come S. Paolo, a frate Bernardo da Quintavalle che fu rapito in Dio «frequentissime», a frate Giovanni d'Alvernia che
fuit elevatus in tam admirando lumine quod vidit omnia creata in Creatore, tam celestia quam terrestria, et omnia suis gradibus ordinate distincta... nichil videbat nisi Deum in omnibus et super omnia et in tra omnia et extra omnia, et ideo ibi tres personas in Deo et unum Deum in tribus personis... Fuerunt etiam sibi ostensa in eadem visione quecunque facta fuerunt per Christum a casu primi hominis usque ad ingressum Christi in vitam eternam…
Altri esempi soccorrono innumerevoli, già in quello stesso testo, ed è qui inutile elencarli. Il fatto è che .in quei tempi di esaltata ed esaltante religiosità, quando la letteratura agiografica e mistica era presente ed attiva in misura oggi assolutamente impensabile, quando l'Apocalissi era libro letto, studiato, amato, commentato come non mai, il grande esempio dei profeti biblici continuava ad agire, suggerendo parole · e scritti: Geremia, al quale Dio comandò di riferire agli uomini la sua parola:
'Tu ergo accinge lumbos tuos, et surge, et loquere ad eos omnia quae ego praecipio tibi... Vade et dama in auribus Ierusalem, dicens: Haec dicit Dominus...' (I 17 - II 1);
Ezechiele, al quale Dio ordinò:
'Fili hominis, mirto ego te ad filios Israel... Tu autem, fili hominis, audi quaecunque loquor ad te, et noli esse exasperans... aperi os tuum et comede quaex:unque ego do tibi'. Et vidi: et ecce manus missa ad me, in qua erat involutus liber, et expandit illum coram me, qui erat scriptus intus et foris, et scriptae erant in eo lamentationes et carmen et vae ... Et dixit ad me: 'Fili horninis, vade ad domum Israel, et loqueris verba mea ad eos' (II 8 - III 4);
S. Giovanni, al quale fu ordinato di scrivere la visione avuta:
'Quod vides, scribe in libro...' (Apoc. I 11).
Ed era rimasta famosa l'esortazione di S. Paolo alla profezia:
Sectamini charitatem, aemulamini spiritalia: magis autem ut prophetetis. Qui enim loquitur lingua, non hominibus Ioquitur, sed Deo; nemo enirn audit. Spiritus autem loquitur mysteria. Nam qui prophetat, hominibus loquitur ad aedifìcationem et exhortationem et consolationem. Qui loquitur lingua, semetipsum aedificat: qui autern prophetat, Ecdesiam Dei aedificat. Volo autem omnes vos loqui linguis: magis autem prophetare... Potestis enim omnes per singulos prophetare; ut omnes discant et omnes exhortentur... Itaque, fratres, aermrlamini prophetare... (I ad Cor., XIV 1-39).
È una tradizione che nei secc. XII-XIV ritrova nuova vita e nuove voci, da Gioachino da Fiore, «di profetico spirito dotato» (lo afferma Dante, ma era riconoscimento assai diffuso), ad Jacopo da Massa, al quale (lo afferma Angelo Clareno) «scientia et inrelligentia Scripturarum et funirorum cognitio divinitus data est». E Dante non rimane certo estraneo a quelle voci, a quella religiosità tanto sofferta, a quella polemica; sì da accoglier per la «magna meretrix» dell'Apocalissi l'interpretazione cara proprio agli ambienti spirituali, quelli più legati alla sensibilità mistica cui qui si è accennato: secondo la quale nella «meretrix» era raffigurata non la Roma pagana, bensì la Chiesa corrotta.
È pressoché ovvio ricordare come il linguaggio della Comedìa assuma spesso appunto toni biblici, e dalla Bibbia riprenda concetti, immagini, espressioni, al punto che il Dempf non ha esitato a parlarne, forzando persino un poco le tinte, come di una « Apocalissi gioachimitica». Anche nelle più belle epistole dell'Alighieri, quelle in cui egli - privo di ogni autorità ufficiale (Ep. XI 9: «de ovibus pascue Iesu Christi minima una sum»; ma cfr. S. Paolo, I ad Cor. XV 9: «minimus apostolorurn») - si rivolge ai potenti d'Italia, all'Imperatore, ai cardinali, il linguaggio biblico appare spiegato iin tutta la sua potenza: alle citazioni da testi sacri ( queste consuete nell'epistolografia imperiale e curiale) si susseguono sommandosi e sovrapponendosi gravi ammonizioni, roventi minacce, esaltanti esclamazioni, testimoniando la convinzione dell'autore d'essere chiamato a proclamare la verità e a richiamare ad essa tutti, e particolarmente le più grandi autorità della terra, laiche ed ecclesiastiche: con tono profetico dunque, poiché il profeta biblico, più che colui che annunzia cose future, è colui che si scaglia contro la corruzione del suo tempo, che minaccia e che esorta. Tale motivo profetico venne sempre più precisandosi e radicandosi nell'animo di Dante: i toni di ammonimento, presenti nell’ideazione stessa dell'opera, -si infittiscono e si incupiscono nel Purgatorio, arroventandosi nel Paradiso nell'invettiva più aspra. Minimizzare o, peggio, negare tutto ciò significa rinunciare a capire perché Dante potesse chiamare «sacro» il suo poema, significa rischiare l'alea di un totale fraintendimento della Comedìa.
Ma questo insistere sulla realtà della visione e questo tono profetico sono essi ad imporsi a Dante -per la forza insita nel suo stesso realismo e per la foga della sua appassionata polemica, oppure derivano da una scelta deliberata e consapevole dell'autore, da una sua ben meditata convinzione? Sarà utile, a questo proposito, rileggere l'Epistola a Cangrande; e quest'altro anello del medesimo problema ci offrirà ulteriori elementi che possono illuminare meglio quanto si è già osservato: poiché - come è noto - l'Epistola offre nella sua seconda parte le linee generali per l'interpretazione della Comedìa, ed anzi vi si commentano i primissimi versi del Paradiso.
Per l'Epistola la critica più recente è giunta ad runa impasse assai curiosa: poiché - in polemica con alcune affermazioni di Francesco Mazzoni (il quale partendo proprio dall'Epistola parla della Comedìa come di itinerarium filosofico) - Bruno Nardi nega, soprattutto per questa medesima ragione di fondo, che la seconda parte di quell'importante documento possa essere di Dante. In effetti, se I'Alighieri scrivendo il suo capolavoro appare convinto di essere stato investito dal Cielo di una missione tanto importante, non è possibile che nello spiegare egli stesso il poema dia altra interpretazione, in evidente contrasto con troppi passi della Comedìa; donde il giudizio reciso del Nardi: «All'autore di questa seconda parte dell'Epistola, basta, per la difesa del Poeta, considerare la vicenda narrata da questo come finzione poetica che cela un senso allegorico. Con tale avvedimento, questo teologo, qual si dimostra, ha avviato l'interpretazione del poema sacro sul binario della comune teologia, e, svalutandone il senso letterale, ne ha attenuato gli ardimenti profetici e le roventi invettive». Il Mazzoni e il Nardi rappresentano dunque due posizioni antitetiche che m una sola cosa concordano, sia pure per trarne opposti risultati: che la par-te esegetica dell'Epistola a Cangrande avalli una lettura della Comedìa come finzione poetica. Io invece ritengo di dover negare una tale conclusione, dal momento che a me pare che l'Epistola riaffermi apertamente proprio la realtà del viaggio oltremondano di Dante, differenziandosi in ciò, in modo sintomatico, dai commentatori trecenteschi del poema: i quali - dinanzi ad un testo esplosivo qual è la Comedìa, che, per le precise dichiarazioni e le aperte accuse in essa contenute, non poteva certo essere considerata con benevolenza negli ambienti di Curia, e dinanzi al giudizio perentoriamente negativo dato dal domenicano Guido Vernani ( e non era certo il solo) - cercarono di proporre la «lettura» meno «pericolosa», negando anzitutto la realtà del viaggio dantesco. Tale interpretazione fu affermata con la maggior risolutezza dal figlio stesso di Dante, Pietro, che più degli altri si sentiva direttamente impegnato a difendere la memoria del padre. Un esempio sufficientemente chiaro ci è offerto dalle chiose apposte a questi primi versi del Paradiso:
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant'io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto
(Par. I 4-12)
Ci troviamo di fronte a verbi alquanto precisi («fu' io, e vidi... chi di là sù discende... potei far tesoro...»), affermazioni che prese per se stesse, per quel che significano, e nel contesto storico dell'esistenza di una fiorente letteratura di «visioni», appaiono chiare ed eloquenti. Pietro, ben più dei commentatori precedenti, insiste sul fatto che esse debbano invece essere intese in senso esclusivamente allegorico e di finzione: «de Paradiso hoc mistice pertractando»; «recitaturus de celestibus et de Paradiso, unde poetando fingit se descendìsse, subaudi theologice contemplando; unde Joannis, III: Nemo ascender in celum nisi qui de celo descendit»; «dicit quod venit, cum intellectu et phantasia subaudi»; e questa interpretazione, che Pietro sottolinea con una solerzia che non può non rivelarsi persino eccessiva, scoprendo la preoccupazione che la sollecita, viene poi ancor più insistentemente ribadita nelle redazioni successive di quel commento, secondo un'involuzione di Pietro - che si manifesta, ad esempio, anche nella chiosa a «colui che fece per viltade il gran rifiuto» - rivelatrice della tendenza a negare anche l'innegabile pur di cercare di conciliare le affermazioni più radicali del padre con le esigenze religiose e culturali di quegli anni. Sulla stessa linea di Pietro (che, oltretutto, era imposta dagli eventi storici e dal maturare di una nuova mentalità e di una nuova cultura) si pongono anche i commentatori successivi: Benvenuto da Imola: «volens... describere superexcellentiam celestis regni, quod nunc parat poetice representare»; «"fu' nel cielo", scilicet mentaliter, non corporaliter», «"chi discende di lassù", idest revertitur a celo ad ipsam terram, sicut ego redii finita longa via profunde speculationis mee»; e Francesco da Buti: «"fu' io": cioè fu' io Dante, e questo si de' intendere ch'elli ci fu intellettualmente, ma non corporalmente, ma finge secondo fa lettera ch'elli vi fosse corporalmente». Di fronte a queste precisazioni, così esplicite e nette, può essere utile interpellare l'Epistola a Cangrande; se essa è di Dante (come a me pare certo), ecco qui un'ottima occasione per l'Alighieri per chiarire in modo definitivo ed esplicito il proprio intendimento. In essa non ricorre neppure una di quelle affermazioni che con tanta frequenza punteggiano invece le chiose corrispondenti di Pietro e degli altri commentatori: non un solo accenno al fatto che quei versi non significhino quello che normalmente essi indicano, e che siano perciò da intendere in senso «fittivo», «mentaliter», «per phantasiam», «per phylosophiam», «poetice», ecc.; laddove, nel caso, una sola parola sarebbe bastata al poeta a precisare un punto così importante, a dissipare ogni possibile dubbio, a stroncare una Interpretazione di tanta gravità, e che non poteva non essersi già proposta a qualcuno dei lettori delle due prime cantiche, che circolavano. Invece nell'Epistola quei versi sono tradotti tali e quali, senza amplificazioni: «dicit se dicturum ea que vidit in primo celo» (§ 50); «dicit se fuisse in primo celo et quod dicere vult de regno celesti quicquid in mente sua, quasi thesaurus, potuit retinere» (§ 52); «dicit quod fuit in celo illo quod de gloria Dei, sive de luce, recipit affluentius» (§ 66); «postquam dixit quod fuit dn loco illo Paradisi per suam circumlocutionem, prosequitur dicens se vidisse...» (§ 77). Ma non ci troviamo a dover fare i conti solo con espressioni ripetute asciuttamente, anche se ciò è già di un qualche peso. Il fatto essenziale per questo discorso è che nell'Epistola - proprio come abbiamo visto per la Comedìa - si afferma esplicitamente che non di viaggio metaforico si tratta, né di immaginazione di fantasia, bensì di vera e propria «elevatio ad coelum» (espressione che nei primi decenni del sec. XIV ha un solo, preciso, incontrovertibile significato). Dante vuole premunirsi da possibili accuse e in particolare da coloro che, prendendo lo spunto dall'affermazione che egli non ricorda tutto ciò che vide in cielo, avrebbero potuto commentare: «Per forza non può ricordare tutto: perché, che egli sia stato davvero in cielo, è una frottola bella e buona. Non lo conosciamo tutti, e non sappiamo tutti che non è affatto un santo?». Contro queste ragioni (le medesime che hanno ispirato il famoso motto «Nemo propheta in patria»: e cfr. Matth. XIII 57) l'Epistola non obietta: «ma è un'espressione che non va intesa sul piano della realtà», «ma si tratta di poesia», «ma è un viaggio intellettuale», bensì: «Si vero in dispositionem elevationis tante propter peccatum loquentis oblatrarent, legant Danielem, ubi et Nabuchodonosor invenient contra peccatores aliqua vìdisse divinitus, oblivionique mandasse» (§ 81). L'esempio addotto è di una limpidezza cristallina e propone una difesa ferrea del senso letterale del poema sacro: vera e per volontà divina fu la visione di Nabucdonosor, la quale, ancora per grazia divina, fu poi spiegata a Daniele. Conseguentemente, nell'Epistola si riafferma che anche per Dante, benché peccatore, di visione vera si è trattato: «Nam "qui oriri solem suurn facit super bonos et malos et pluit super iustos et iniustos" [Matth. III 45] aliquando misericordirer ad conversionem, aliquando severe ad punitionem, plus et minus, ut vult, gloriam suam, quantumcunque male, viventibus manifestat» (§ 82). Né, a sostegno della deficienza di memoria, l'Epistola si appella a giustificazioni di finzione poetica o a ,significati allegorici ed extraletterali, o ad esperienze teologico-poetiche come quella di Alano, che avrebbero potuto, nel caso, essere esplicitamente e facilmente indicate; bensì si adducono tre esempi biblici di visioni (ancora una volta) realmente avvenute: 1) il raptus al cielo di S. Paolo; 2) la visione che S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni ebbero della trasfigurazione di Cristo; 3) la visione della gloria di Dio avuta da Ezechiele: rinvii chiari, espliciti, estremamente seri, interpretabili in un solo senso:
Et hoc insinuatur nobis per Apostolum ad Corinthios loquentem, ubi dicit: «Scio hominem, sive in corpore sive extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium celum, et vidit arcana Dei, que non licet homini loqui» [II ad Cor. XII 2-4]. Ecce, postquam humanam rationem intellectus ascensione transierat, quid extra se ageretur non recordabatur. Et hoc est insinuatum nobis in Matheo, ubi tres discipuli ceciderunt in faciem suam, nichil postea recitantes, quasi obliti [Matth. XVII 6-9]. Et in Ezechiele scribitur: «Vidi et cecidi in faciem meam» [Ezech. II 1] (§§ 78-80).
E se tutto questo non fosse ancora sufficiente, l'Epistola rinvia fieramente chi non vuol prestar fede all'autore a tre testi: «Et ubi ista invidis non sufficiant, legant Richardum de Sancto Victore in libro De contemplatione, legant Bernardum in liibro De consideratione, legant Augustinum in Iibro De quantitate anime, et non invidebunt» (§ 80). Non rimane che riaprire quei libri espressamente indicati e registrare una ennesima prova che Dante vuol riferirsi proprio e solo a visioni realmente godute per grazia divina. Riccardo da S. Vittore («che a considerar fu più che viro»: Par. X 1.32) infatti nel suo De gratia contemplationis afferma che sei sono i gradi della contemplazione:
Primum [genus contemplationis] itaque est in imaginatione et secundum solam imaginationem. Secundum est in imaginatione secundurn rationem. Tertium est in ratione secundum imaginationem. Quartum est in ratione et secundum rationem. Quintum est supra, sed non preter, rationem. Sextum supra rationem, et videtur esse preter rationem.
I primi due gradi spettano all'immaginazione, che è indotta dall'ammirazione delle cose visibili a venerare la grandezza del Creatore; il terzo ed il quarto alla razionalità, che dall'esperienza delle cose visibili riesce ad intuire anche le invisibili; le ultime due si pongono al di sopra della ragione, per la rivelazione divina che consente la conoscenza di ciò cui nessun ragionamento umano potrebbe da solo pervenire, o che è addirittura tanto al di sopra della mente umana da risultare in contrasto con la razionalità (ad es.: l'unità e la trinità di Dio). Mentre i primi quattro gradi possono essere acquisiti dall'attività umana «sine ulla animi alienatlone» (pur senza escludere anche per questi l'intervento della grazia divina), per gli ultimi due «totum pendet ex gratia», sì che si può pervenire all'estremo e più completo grado di conoscenza solo «per mentis excessum». E più innanzi Riccardo precisa che l'intelletto umano, ispirato «divinitus», può elevarsi «supra scientiam», «supra industriam» e talvolta persino «supra naturam»: a questo terzo grado appartengono tutte le profezie. La mente umana conosce pertanto tre momenti: la «dilatatio», la «sublevatio» e l'«alienatio»: «primus surgit ex industria humana, tertius ex sola grania divina, medius autem ex utriusque permissione, humane videlicet industrie et gratie divine». È proprio ai due più alti gradi della contemplazione (e più particolarmente all'estremo, che è la «visio beatifica») ed alla «mentis alienatio» che Dante intende riferirsi; proprio a proposito della visione e del successivo venir meno della memoria Riccardo cita lo stesso esempio addotto nell'Epistola a Cangrande:
Notandum quoque quod quidam ea que per mentis alienationem conspiciunt, ad semetipsos reversi iuxta communem animi statum, nullo modo capere vel recolligere possunt. Hinc est quod rex Nabuchodonosor somnium vidit, sed excussus a somno visum somnium ad memoriam revocare non potuit;
e al grado della «mentis alienatio» si perviene
quando presentium memoria menti excidit, et in peregrinum quemdam at humane industrie invium animi statum divine operationis transfigurationis transit.
Ma l’importanza di questo trattato supera certamente la pur notevole utilità di questo esplicito rinvio dantesco, poiché esso rappresenta il più cospicuo tentativo - nell'àmbito della grande corrente di pensiero e di religiosità mistica che dai Vittorini prese appunto il nome - di riscattare le visioni soprannaturali dall'esperienza esclusivamente ascetica, per inserirle nei gradi della conoscenza, teorizzandole dunque come possibilità sempre e continuamente aperta all'uomo, come fatto straordinario ma che pure rientra nell'ordine naturale voluto da Dio. E si badi: visioni vere, non «mentaliter», non «poetice». Rispetto al trattato di Riccardo, rimangono in seconda linea gli altri due testi, che confermano queste conclusioni, senza nulla aggiungere che sia di particolare rilievo. Nel De consideratione San Bernardo, dopo aver distinto sottilmente «consideratio» e «contemplatio» (che erano usati correntemente come sinonimi), indica il primo grado della «consideratio» nell'analisi delle cose visibili, e il secondo nella trattazione filosofica delle cose invisibili:
at omnium [graduum] maxirmus, qui, spreto ipso usu rerum et sensuum, quantum quidem humane fragilitati fas est, non ascensoriis gradibus, sed inopinatis excessibus, avolare interdum contemplando ad illa sublimia consuevit. Ad hoc ultimum genus illos pertinere reor excessus Pauli [...] Vis tibi has considerationis species propriis distingui nominibus? Dicamus, si placet, primam dispensativam, secundam estimativam, tertiam speculativam. Horum nominum rationes definitiones declarabunt. Dispensativa est consideratio sensibus sensibilibusque rebus ordinate et socialiter utens ad promerendum Deum. Estimativa est consideratio prudenter ac diligenter queque scrutans et ponderans ad vestigandum Deum. Speculativa est consideratio se in se colligens, et, quantum divinitus adiuvatur, rebus humanis eximens ad contemplandum Deum.
L'Epistola a Cangrande si riferisce appunto a questo terzo grado, per cui S. Bernardo cita il raptus paolino. Sant'Agostino nel De quantitate animae non tocca propriamente la questione della deficienza di memoria dopo la visione, ma, distinguendo i vari gradi che l'anima umana può raggiungere, afferma che il più alto, il settimo, consiste «in ipsa visione atque contemplatione Veritatis»
neque iam gradus, sed quaedam mansio, quo illis gradibus pervenitur; guae sint gaudia, guae perfructio summi et veri boni, cuius serenitatis atque aeternitatis afflatus, quid ego dicam? Dixerunt haec quantum dicenda esse iudicaverunt magnae quaedam et incomparabiles animae, quas etiam vidisse ac videre ista credimus. Illud plane ego nunc adeo tibi dicere: nos si cursum quem nobis Deus imperat, et quem tenendum suscepimus, constantissime tenuerirmus, perventuros per virtutem Dei atque sapientiam ad summam illam causam, vel summum auctorem, vel summum principium rerum omnium.
Anche sant'Agostino ammette dunque la visione beatifica come sommo grado di conoscenza, che fu ed è concesso da Dio all'uomo, sia pure eccezionalmente.
Laddove Dante avrebbe potuto facilmente parlare del proprio viaggio - sarà bene ripeterlo - come di «itinerarium» teologico o poetico e rinviare alla bibliografia relativa, egli invece precisa che la Comedìa non è stata scritta «ad speculandum» e sottolinea ripetutamente con chiarezza e decisione che si è trattato di visione vera e propria, «divinitus». Di tali dichiarazioni dobbiamo perciò prendere atto, per tentare di comprenderne i significati più intimi e per intendere meglio la personalità, certo complessa e non univoca, del sommo poeta. Cercare di eludere il grosso problema che questi passi propongono - come, sostanzialmente, è stato fatto, o perché presentano un Dante non del tutto corrispondente agli ideali dell'ortodossia cattolica, modernamente intesa, o perché implicano problemi cui la sensibilità e l'estetica dei giorni nostri si sentono profondamente estranee - non serve a nulla e a nessuno. I sofismi, per eleganti che siano, non risolvono mai niente; e questo problema è tale da non poter essere ulteriormente eluso senza grave danno per una reale comprensione del mondo culturale e spirituale dell'Alighieri.
Da queste considerazioni scaturisce immediatamente una seconda domanda. La Comedia è dunque da ritenersi, secondo -il suo autore, libro profetico in toto, come quelli della Bibbia, cioè ispirato direttamente da Dio? Proprio per ciò che si è ora osservato, la Comedìa poteva infatti prestarsi ad essere intesa come opera di rivelazione, tanto più che vari libri della Bibbia, dai Salmi al Cantico dei cantici all'Apocalissi si presentano sotto veste formalmente poetica. Ogni autore biblico - è concetto acquisito dalla cultura medievale, almeno da S. Bonaventura in poi (ma è già esplicitamente dichiarato -in S. Girolamo) - ha avuto un proprio modo di esprimere il messaggio divino, modo in cui è ravvisabile la sua personalità, la sua cultura, il suo particolare gusto: i libri biblici assumono quindi una loro dimensione letteraria, tanto più che si avvalgono anche del modo poetico di esposizione (soprattutto attraverso l'impiego di simboli e di metafore). Nei commenti alla sacra Scrittura, come in altre opere (ad esempio, anche nelle Esposizioni del Boccaccio), si trova ripetutamente citato un famoso passo del De celesti hierarchia, attribuito a Dionigi l'Areopagita, ove appunto si asserisce:
Et enim valde artificìaliter theologia poeticis sacris formationibus in non figuratis intellectibus usa est, nostrurn, ut dictum est, animum revelans, et ipsi propria et coniecturali reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctas Scripturas;
e Alessandro di Hales, discutendo del «modus tractandi» della divina teologia, che è «poeticus, historialis vel parabolicus», proprio avvalendosi di questo passo di Dionigi afferma: «sacra Scriptura valde artificialiter secundum modum poeticum traditur». S. Bonaventura nelle sue Expositiones bibliche mette più volte in rilievo la bellezza anche stilistica dei testi commentati, In Librum Sapientie: «Stylus enim huius libri, secundum Hyeronimorn, grecam redolet eloquentiam», «elegantissimus stylus», ecc.; e soprattutto nel commento In Lamentationes Hieremie:
liber iste triplici adornatur musica et rhetorica venustate. Primo in eloquentia, quia scribitur metrice, sed differenter, quia, ut dicit Rabanus, duo prima alphabeta metro Sapphico scripta sunt, et dicitur metrum Sapphicum a muliere Sappho, que ipsum invenit, et est pentametrum constans ex trocheo et spondeo et dactylo et duobus trocheis. In hoc igitur metri genere tres tales versus premittuntur, et concluduntur in commate versus heroici; verbigratia: «Iste confessar, Domini sacratus» etc. Metrum heroicum dicitur, quo describuntur facta heroum: quod solos continet versus hexametros. Tertium vero alphabetum, quod tertio subditur capitulo, trimetrum est... Amplius secundo adornatur commatibus rhetoricis in sententiis... Sicut enim dialectica habet artem locorum suorum ad veritatem persuadendam, sic rhetorica habet locos suos ad affectionem excitandam… ecc.;
mentre analoghe affermazioni si riscontrano naturalmente anche nel Breviloquium. E il commento al Cantico dei cantici attribuito a S. Alberto inizia:
Incipit carmen dramaticum, et est drama amatoria cantilena que ab amantibus canitur absque expressis personis. Carmen ergo dramaticum dicitur, ubi diverse persone introducuntur, nec tamen nominantur, sicut in hoc libro a diversis personis absque nominibus laudes canuntur.
Pertanto anche per i libri biblici si può definire il «modus tractandi» (cioè stilistico); il quale, secondo S. Bonaventura (Breviloquium, Prologus) è
modus narrativus, preceptorius, prohibitivus, exhortativus, predicativus, comminatorius, promissivus, deprecatorius et laudativus;
ed aggiunge:
et quia magis movetur affectus ad exempla quam ad argumenta, magis ad promissiones quam ad ratiocinationes, magis per devotiones quam per definitiones, ideo Scriptura ista non debuit habere modum definitivum, divisivum et collectivum ad probandum passiones aliquas de subiecto ad modum aliarum scientiarum...
Questi schemi però conoscono differenti adattamenti nei vari commentatori; secondo Nicola da Lira, ad esempio, per le epistole paoline il «modus tractandi» è invece proprio «diffinitivus, divisivus et probativus». Non è perciò il caso di trarre affrettate conclusioni dalla definizione dell'Epistola a Cangrande secondo la quale la «forma sìve modus tractandi» della Comedìa «est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et curo hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus et exemplorurn posìtivus» (§ 27): essa sta ad indicare semplicemente che di volta in volta sono usate nella Comedìa espressioni poetiche, fittive, descrittive, digressive ecc. , senza dare ad alcuno di quegli aggettivi importanza preminente o generale.
Che la Comedìa potesse in effetti essere ritenuta opera ispirata lo dimostra - se non lo stesso Vernani nella sua preoccupata Intenzione di scartare assolutamente proprio tale eventualità accusando Dante d'essere in realtà «vas diabuli» - l'aperta ammissione di Guido da Pisa, uno dei primi esegeti dell'Inferno, nel proemio del suo commento, ove, tira l'altro, cita un versetto dei Salmi che è addotto da S. Tommaso per sottolineare la singolarità della sacra Scrittura:
Re vera potest ipse [Dantes] dicere verbum prophete dicentis: «Deus dedit michi linguam eruditam» [Is. L 4], et illud: «Lingua mea calamus scribe velociter scribentis» [Ps. XLIV 2]. Ipse enim fuit calamus Spiritus Sancti, cum quo calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et gloriam beatorum. Ipse enim Spiritus Sanctus per istum aperte redarguit scelera prelatorum et regum et principurn orbis terre.
La questione, nonché non oziosa, risulta sollecitante se si esaminano con attenzione le affermazioni dell'Epistola a Cangrande a proposito dei quattro sensi. Già nel Convivio (II I 2-6) Dante aveva citato la quadruplice distinzione di sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico); il senso allegorico, se adattato alle opere dei poeti, comportava la svalutazione del senso letterale, il quale, anche per Dante, era la «veritade nascosa sotto bella menzogna»:
sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre.
Per capire lo spazio cui-turale entro cui si muove questo passo dantesco occorre tener presente come alla fine del sec. XIII e nei primi decenni del sec. XIV toccasse il suo punto più alto la tendenza all'interpretazione moralistica dei testi antichi, che aveva dietro di sé una lunga storia, e che mirava, nella ricerca del senso nascosto sotto la lettera, a vedere riflessa in ogni poema la storia dell'anima umana nel suo viaggio terreno verso Dio, secondo una religiosità «naturaliter christiana»: onde persino il Catone lucaneo è - lo attesta Dante nel Convivio (IV XXVIII 15) - «figura» di Dio; quando addirittura non si volle vedere nei personaggi più emblematici della mitologia pagana (soprattutto in Ercole) la prefigurazione, non genericamente dell'unica e vera divinità, bensì di Cristo stesso. E tuttavia, nel proporre nel Convivio esempi per il senso morale e per l'anagogico, l'Alighieri preferiva ricorrere a passi scritturali (l'episodio dei tre discepoli presenti alla trasfigurazione di Cristo e l’inizio del salmo 113, «quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popol d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera»), avvertendo che vi è differenza tra i poeti ed i teologi nell'applicare i sovrasensi: ed infatti nella sacra Scrittura (che è soggetta appunto all'interpretazione dei teologi) il senso letterale non è «bella menzogna», bensì verità.
Il preciso schema enunciato nell'Epistola a Cangrande come necessario per l'interpretazione della Comedìa (distinzione tra senso letterale e senso allegorico, quest'ultimo poi ulteriormente suddiviso in allegorico propriamente detto, morale ed anagogico) non riprende quello esposto nel Convivio, ma si pone su un piano del tutto differente:
Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versibus: «In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est ludea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciarnus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempere Moysis; si ad allegoriam, nobis signifìcatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem (§§ 20-21).
Questo schema si ritrova già m Rabano Mauro, ed era quello comunemente noto per essere di prammatica nell’esegesi sacra, di cui - secondo vari teologi, tra i quali S. Tommaso - esso era privilegio: ed in effetti la quadruplice distinzione non si ritrova negli accessus ai poemi antichi e nei commenti ad opere letterarie, di cui si esalta invece genericamente, come afferma Alano per il proprio Anticlaudianus, la «litteralis sensus suavitas», unitamente alla «moralis instructio» e alla «allegorie subtilitas». Illustra significativamente questo punto un passo, in cui sono ricalcate analoghe espressioni di S. Tommaso, del Prologus del famoso commentatore biblico Nicola da Lira, contemporaneo di Dante, alla Glossa ordinaria:
Habet tamen iste liber [scil. Biblia] hoc speciale, quod una littera continet plures sensus, cuius ratio est quia principalis huius libri auctor est ipse Deus: in cuius potestate est non solum uti vocibus ad aliquid signifìcandum (quod etiam homines facere possunt et faciunt), sed etiam rebus significatis per voces utitur ad significandum alias res; et ideo commune est omnibus libris quod voces aliquid significent, sed speciale est huic libro quod res significate per voces aliud significent. Secundum igitur primam significationem, que est per voces, accipitur sensus litteralis, vel historicus; secundum vero aliam significationem, que est per ipsas res, accipitur sensus mysticus, seu spiritualis, qui est triplex in generali; quia si res significata per voces referatur ad significandum ea que sunt in nova lege credenda, sic accipitur sensus allegoricus, si autem referatur ad significandum ea que per nos sunt agenda, sic est sensus moralis vel tropologicus; si autem referatur ad significandum ea que sunt speranda in beatitudine futura, sic est sensus anagogicus.
Alcuni studiosi - vanno ricordati almeno il Singleton e il Montano - hanno compreso che con ciò Dante veniva a differenziare il suo poema dalle altre opere letterarie; mentre anche il de Lubac, che ha tracciato con molta dottrina la storia di questi moduli interpretativi, ha dovuto riconoscere per l'Epistola a Cangrande che «il n'est plus question ici, comme à propos du Convivio, de "beau mensonge"» e, facendo proprio un giudizio del Gilson, ha rilevato che «Dante... a voulu lui [scil. à son poème] appliquer "le principe fondamental des interprètes de la Bible: dans la Divine Comédie, comme dans l'Ecriture, les choses mèmes signifient"». Poiché il de Lubac non è un dantista, e non si è proposto quindi nessun problema interpretativo della Comedìa, egli si è limitato a sottolineare come nell'epistola di Dante sia un «désir d'assirniler son oeuvre, autant qu'il etait possible, quant a l'intention simbolique, à la Bible elle-mème», segnalando che tale adattamento non era cosa consueta: «C'est qu'en effet, si théologique qu'en soit le dessein, un poème humain n'est pas l'Ecriture». Il de Lubac, naturalmente, ha pensato alla Comedìa come ad un «poème humain», senza pensare che per Dante invece potesse essere un «poema sacro», ove si narrano cose conosciute per rivelazione, e al quale quindi a giusto diritto poteva essere applicato lo schema interpretativo normalmente riconosciuto come esclusivo dell'esegesi sacra, e non solo per quella che il de Lubac chiama «l'intention simbolique» ma per lo stesso senso letterale (preso nel suo complesso, e non per ogni singola parola). È comunque certo che l'affermazione dell'Epistola è di sconcertante arditezza. Non solo dunque l’affermazione dell'esistenza di sovrasensi mistici non comporta necessariamente una svalutazione del senso letterale della Comedìa, ma proprio l'esempio addotto dall’'Epistola, l'esodo ebraico dall’Egitto, sta a sottolineare la storicità, la verità del primo senso, e che la Comedìa, come la Bibbia, non solo nei «verba» ma nelle stesse cose significate «significa de le superne cose de la etternal gloria» (cfr. Conv. II i 6). Onde il subiectum allegorico della Comedìa («homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem, iustitie premiandi et puniendi obnoxius est»: § 25) solo apparentemente è mera ripetizione del subiectum letterale, cioè la descrizione dello stato delle anime dopo morte, in quanto è un rinvio non a verbis ad res, come poteva essere per le opere poetiche in generale o per le canzoni del Convivio, bensì a rebus ad res: soggetto che si articola poi nel senso morale («ea que per nos sunt agenda», cioè, «il moral senso spettante a noi che vivi siamo», come afferma il Boccaccio) e nel senso anagogico, che è l'allegoria posta sul piano dell’eterno («Io spirituale, il quale a' dannati apartiene», «ea que sunt speranda in beatitudine futura»).
Mi pare perciò che il Nardi non abbia visto del tutto giusto ritenendo la definizione, che l'Epistola dà del subiectum letterale della Comedìa, «un soprassenso che non è quello della lettera», per cui per l'autore della parte dottrinale dell'Epistola «il vero soggetto della Commedia... non è il viaggio di Dante Alighieri fiorentino con la sua propria individualità ricca di tante esperienze e di accese speranze, ma la visione dello stato delle anime dopo la morte, secondo la lettera, e [a giustizia divina nel punire e nel premiare le opere dell'uomo secondo il senso allegorico. Quindi il modus agendi o tractandi del poema, in quanto poetica finzione senz'altra realtà che quella fittizia e immaginaria, è da perdonare al poeta in grazia del mondo teologico nel quale egli ci introduce con l'allegoria». In realtà, queste affermazioni, che il Nardi giustamente combatte, sono di una folta schiera di dantisti: ma non dell'Epistola. L'Epistola afferma che per la Comedìa il soggetto letterale è lo «status animarum post mortem simpliciter sumptus», cioè lo stato delle anime dopo morte, quale dunque esso è in realtà; non dice: «secondo finzione poetica», «mystice» o equivalenti. Ed infatti il viaggio di Dante è il mezzo di cui si è servita la divina Provvidenza per far conoscere agli uomini la sorte delle anime «in queste rote, / nel monte e nella valle dolorosa» (Par. XVII 136-137): è questo il punto più importante del messaggio che è stato affidato a Dante, e questo è il soggetto della Comedìa affinché sia possibile («causa fìnalis») «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (§ 39). Con questa definizione della causa finale della Comedìa ci troviamo dinanzi ad un'altra affermazione estremamente significativa, cui i critici non hanno concesso tutta l'attenzione che merita: il fine della Comedìa non è di ammonire genericamente coloro che vivono nel peccato per indurli a pentimento - come afferma Pietro, in una ennesima distorsione del dettato paterno: «ut... vitiosos homines a vitiis removeat et remotos ad purgandum se ipsos dirigat... atque perfectos in sanctitate et virtute corroboret» - bensì riportare tutti gli uomini («viventes in hac vita») sulla via che è stata smarrita per difetto di coloro cui spetterebbe indicare la strada della salvezza, e ricondurre l'umanità - secondo il noto salmo - dall'Egitto a Gerusalemme. È per quelle eccezionali e tragiche condizioni del suo tempo che trae ragion d'essere la missione di Dante, terzo dopo Enea e dopo san Paolo: si ricordi la lupa che «non lascia altrui passar per la sua via, / ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide» (Inf. I 95-96). Nessuno dei commentatori trecenteschi (e basterebbe questo ad assicurarci dell'autenticità di quelle pagine preziose) afferma con altrettanta chiarezza questo valore profondo della Comedìa, che si pone come messaggio di redenzione per tutta l'umanità:
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi
(Purg. XXXIII 52-57)
Ma fermarci a queste constatazioni significherebbe dare al nostro problema un'impostazione monca o, quanto meno, unilaterale: e proprio qui sta, a mio modo di vedere, il nodo che occorre affrontare. L'esperienza proposta dalla Comedìa non è né unitaria né univoca, bensì estremamente complessa, mosse articolata, formata da elementi che possono anche risultare non omogenei. Per quanto determinante possa essere nella Comedìa la componente escatologica, per quanto l'autore sottolinei ripetutamente, nel poema come nell'Epistola a Cangrande, la realtà della grazia goduta, è anche registrabile una netta e consapevole separazione tra il «poema sacro» e la Bibbia, tra la Comedìa e la letteratura delle «visioni». Anzitutto occorre ricordare come quelle profezie, quelle visioni, quelle grazie particolari che costituiscono l'elemento predominante della pietà religiosa del Medioevo non pretendevano di porsi su1lo stesso piano della Rivelazione biblica: i raptus dei primi seguaci di S. Francesco come le visioni di S. Brigida come anche il profetismo gioachimitico erano esperienze generalmente ritenute vere, senza che ciò implicasse per i cristiani o per la Chiesa un nuovo rapporto con i libri della Rivelazione; e già si è detto come, anche secondo Riccardo da S. Vittore, la visione per grazia divina, pur costituendo fatto straordinario, fosse ritenuta possibilità sempre e naturalmente aperta all'uomo. La separazione della Comedìa dai libri biblici è segnata nettamente dalla stessa importante affermazione dell'Epistola secondo la quale Dante, e soltanto egli (non lo Spirito Santo), è l'autore della Comedìa: «Agens igitur totius et partis est ille qui dictus est [scil. Dantes], et totaliter videtur esse», in dichiarata differenziazione (pur nell' accorta sfumatura: «videtur esse», anziché «est») dunque dalla Scrittura, per la quale, accanto all'autore terreno, si cita nei commenti il «principalis auctor», lo Spirito Santo. Dante sottolinea con forza questo assumersi totalmente l'onore e l'onere della «bella veste» del poema sacro, con espressioni che pongono ripetutamente in primo piano il suo personale sforzo di autore, che ribadiscono che il poema è opera sua, merito suo:
O Muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente, che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate
(lnf. II 7-9)
veramente quant'io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto
(Par. I 10-12)
Anche per l'autore biblico si ammetteva una sua personale responsabilità nel fatto stilistico: ma espressioni recise ed insistite come queste non si situano certo in quella prospettiva.
Ed è questa la parte di verità colta da quei dantisti che pongono l'accento piuttosto sul letterato Dante, sul poeta che aveva già espresso un proprio mondo artistico in forme poetiche, accumulando una notevolissima esperienza tecnica, e non solo tecnica. Bisogna cioè fare i conti anche (e, in ultima analisi, soprattutto) con la deliberata adesione dell'autore ai canoni della tradizione rettorica e letteraria, di cui egli si sente partecipe e nella quale già con il titolo stesso di Comedìa intese inscrivere la sua opera, nella precisa volontà di «far poesia», cli essere continuatore della grande arte classica, di fare letteratura insomma: desiderio ed ambizioni che in sé rimangono estranei alla produzione cli « visioni» e di «profezie» propriamente detta, o che comunque non vi appaiono sottolineati con altrettanta forza, sì che, nonostante i forti elementi che legano la Comedìa a quelle opere e soprattutto a quella tensione mistica, il poema sacro risulta tutt'altra cosa, distaccandosene in modo singolarissimo. E d'altra parte Dante non intende perciò escludere l'intervento divino per la Comedìa: esso si è manifestato nelle cose che il poeta riferisce d'aver vedute, non nel come egli le viene riferendo. Possiamo avvicinarci un po' di più alla comprensione di questa ambivalenza considerando il valore che Dante attribuisce ,all’Eneide: a quell'Eneide in cui, soprattutto per il libro sesto, l'interpretazione escatologica medievale vedeva fuse altissima esperienza letteraria e narrazione di fatti storicamente avvenuti, magistero poetico e rivelazione divina (anche se si riteneva che Virgilio l'avesse accolta inconsapevolmente e frammentariamente, come era accaduto per la quarta Egloga), a quell'Eneide che non sarebbe spiaciuto a Dante appellare «divina»: divina perché poema dell'Impero voluto da Dio, divina per la scienza che lasciava trapelare in più punti la rivelazione celeste inconsapevolmente accolta, divina per la bellezza dei versi che consacrò in Virgilio l'«altissimo poeta». Dante definisce la sua Comedia «poema sacro»: sacro perché prendeva le mosse da una visione voluta dal Cielo, poema perché opera stesa in forma letteraria dal poeta Dante; e pertanto alla sua composizione avevano cooperato e «posto mano» «e Cielo e terra».
Questo duplice aspetto della Comedìa rispecchia dunque i due motivi fondamentali di quei primi decenni del sec. XIV: i fermenti messianici impliciti nell'ansia stessa di rinnovamento spirituale e l'ambizione letteraria; elementi, in sé e per sé, eterogenei, e che tuttavia nella Comedìa riescono a coesistere, ad equilibrarsi, a fondersi, proprio sull'esempio della Bibbia e dell'Eneide insieme. È questo il punto da cui occorre partire per comprendere il capolavoro dantesco: mentre è vano il tentativo di rivendicarne l'unità ideale appellandosi alla «poetica medievale», che in proposito offre agganci generici e refutabili. Ma qui il discorso deve affrontare un problema appassionante. Il desiderio della gloria poetica è in Dante talmente forte («Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus»: De vulg. eloq. I xvii 6) che la convinzione, o la volontà, di dover riferire un messaggio celeste non riesce ad imporsi a scapito di quello, anzi. La consapevolezza delle proprie straordinarie capacità, la fierezza per il proprio capolavoro, l'ambizione di meritati riconoscimenti inducono l'Alighieri a sottolineare ripetutamente le estreme difficoltà espressive che egli deve superare nel ridire si alte cose, in gara con la grande poesia fatina cui intende riallacciarsi direttamente tagliando via secoli di storia. Gli onori che toccano ad altri (e penso soprattutto ad Albertino Mussato) gli fanno poi rimeditare più amaramente la mirabile impresa che l'ha reso «per più anni macro» e il lungo e doloroso esilio. La Comedìa doveva significare anche la fine delle peregrinazioni, il ritorno glorioso in Firenze, fa corona d'alloro:
con altra voce ormai; con altro vello
ritornerò poeta; e in sul fonte
del mio battesmo prenderò 'l cappello
(Par. XXV 7-9)
L'uomo Dante, personalità complessa ed eccezionale, visse in un hic e in un nunc ben determinati, e si trovò a contatto con una realtà ben precisa, di fronte ai mille ostacoli che le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi sogni, incontravano nel momento stesso in cui dovevano tradursi in parola scritta, di fronte a contraddizioni in cui una posizione tanto singolare rischiava di porlo in ogni momento: poiché da cultura. dell'Alighieri e quella sua stessa tensione escatologica cominciavano ad appartenere, ogni anno più, al passato; mentre andavano guadagnando terreno, in quegli anni decisivi per la letteratura europea, nuovi ideali e nuova cultura, di cui sarà grande esempio l'Africa del Petrarca. Dall'Inferno al Purgatorio al Paradiso gli interessi e gli atteggiamenti dell'autore vengono mutando a poco a poco, e la situazione politica, le sue disavventure umane, le nuove condizioni culturali spingono Dante ad un sempre più accentuato radicalismo di idee, a sempre più marcate sottolineature delle proprie posizioni e delle ,proprie speranze; aspre invettive gli si arroventano nel fuoco delle disillusioni più amare, mentre nuove ansie di gloria lo inducono a rivendicare fermamente i valori letterari del poema. Maturava allora una ben diversa situazione che l'Alighieri non poteva non avvertire; non è a caso che proprio nella terza cantica, dove pure la componente escatologica è ribadita con ancora maggiore forza, vadano infittendosi le dichiarazioni sulla grande capacità artistica dell'autore («L'acqua ch'io prendo già mai non si corse»), gli anditi alla consacrazione poetica, resi vivissimi dagli onori attribuiti al Mussato ed acuiti dalle sollecitazioni di Giovanni del Virgilio. La Comedìa è nata sul finire di una civiltà. Pochi anni dopo la morte dell'Alighieri già si attuava il tentativo di integrare il «poema sacro» nella nuova cultura nascente: il desiderio di riaffermare la piena «ortodossia» del sommo poeta, la venerazione dei molti lettori, le nuove esigenze spirituali e culturali, tutto premeva in quel senso. Profonde ragioni storiche misero in crisi dunque quell'ambivalenza che ho qui rapidamente indicato. Tra Dante profeta e Dante poeta fu il secondo ad appartenere all'avvenire: ma, così ridimensionato, non era già più il vero Dante.