Dati bibliografici
Autore: Ettore Mazzali
Trattp da: Dante. La vita, il pensiero, le opere
Editore: Accademia, Milano
Anno: 1979
Pagine: 91-134; 147-150
Non possiamo essere sicuri che la «mirabile visione» di cui Dante discorre alla fine della Vita nuova prefiguri il poema. Può essere che Dante abbia iniziato il suo poema anche prima dell’esilio, a Firenze, e che poi una parte almeno del lavoro giovanile sia entrato nella redazione definitiva, magari dopo una vasta rielaborazione. Non sappiamo se credere alla notizia riferita dal Boccaccio sul ritrovamento dei primi sette canti dell’Inferzo che il poeta avrebbe lasciati a Firenze e che si sarebbe fatti inviare nel 1306 per continuarli. Comunque si conoscono gli anni nei quali furono pubblicate le due prime cantiche, e cioè il 1317 e i 1319. La terza cantica sarebbe stata inviata a Cangrande della Scala, accompagnata da una famosa Epistola della cui autenticità molto si è discusso. Il poema, diviso in tre cantiche e in cento canti (34 costituenti la prima cantica, 33 costituenti la seconda e 33 la terza), in terza rima, cominciò così le sue fortunose vicende editoriali. Sulla fine del Trecento prevalse il titolo Comedia, cioè il nome del genere letterario cui Dante in due luoghi della prima cantica aveva assegnato il suo poema. Il titolo fu poi consacrato dall’edizione veneziana stampata dal Giolito a cura di Ludovico Dolce nel 1555, ma a Comedia si aggiunse l’attributo divina a indicare la materia dell’opera. Invece i titoli delle tre cantiche, semplicissimi, risalgono a Dante: Inferno, Purgatorio, Paradiso.
Il poema si costruisce su un sistematico disegno allegorico. Tre sono le cantiche e 33 i canti per ciascuna cantica (il canto introduttivo però porta i canti dell’Inferno a 34) per un totale appunto di cento canti. I numeri sono multipli di 3 e di 10, numeri che esprimono perfezione e grazia (si pensi alla struttura ternaria della Trinità). Anche la terza rima propone il numero tre. Ma quello che più conta è l’allegoria del viaggio. E qui è necessario richiamarsi all’Epistola a Cangrande. Si tratta di un trattato in forma di lettera dedicatoria: infatti esso accompagnava l’omaggio del Paradiso in manoscritto al signore di Verona. Dell’autenticità di questa lettera — l’ultima, cronologicamente parlando — si è dubitato a lungo: ancora Bruno Nardi, rilevandone il carattere di «scuola», cioè la genericità didattica, la riteneva apocrifa (cfr. Il punto sull’Epistola a Cangrande, Firenze, Le Monnier, 1960). Ma Francesco Mazzoni (L’Epistola a Cangrande, in «Rendiconti» dell’Acc. dei Lincei, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, serie VIII, vol. X, fasc. 3-4, marzo-aprile 1955), paragonando fra di loro le argomentazioni della lettera e le interpretazioni dei commentatori, rileva che questi ultimi hanno assunto il comportamento tipico dei copisti di fronte a un manoscritto: ne hanno accolto cioè, fra diverse lezioni testuali, la lectio facilior. Dunque l’Epistola non poteva appartenere alla «scuola», fornitrice sempre di testi facili e didatticamente agevoli, ma è un prodotto culturale di tipo individuale, tanto da poter essere frainteso e degradato dai commentatori. Così è accaduto che l’agers di cui parla Dante nella lettera sia stato banalmente interpretato come auctor, mentre, a giudizio di Mazzoni, agens è uno specifico ter- mine filosofico che indica «personaggio» soggetto di un’esperienza, e nel nostro caso sta a indicare Dante stesso. Conclude Mazzoni che la lettera è autentica e databile 1316-1317. Bruno Nardi invece ritiene autentici soltanto i primi quattro paragrafi (sono quelli nei quali il poeta si rivolge al suo protettore dedicandogli la terza cantica). Ora noi non dobbiamo lasciarci irretire dalla suggestiva proiezione moderna (da Proust in poi) dell'autore nel personaggio, dal sottile e ambiguo rapporto proustiano fra l’autore e il personaggio che lo rappresenta. E tuttavia la lettera (che qui si giudica autentica) è estremamente importante perché rappresenta la sola «poetica» che Dante ci abbia lasciato del suo poema (il De vulgari eloguentia non rispecchia ovviamente il poema, è un antecedente tutto autonomo e isolato rispetto al poema). Entro l'impostazione dottrinaria infatti si possono individuare concetti d’autore, strettamente aderenti alla poesia, e per così dire riflessioni interne alla poesia e nella poesia maturate. Nel sesto paragrafo sono indicati gli elementi compositivi di un’opera poetica: «subiectum, agens, forma, finis, libri titulus, et genus phylosophie». Il subiectum è così individuato:
Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.
Dunque il soggetto di tutta l’opera, intesa soltanto letteralmente, è lo stato delle anime dopo la morte in senso generale; infatti il procedimento di tutta l’opera si svolge reggendosi su di esso e intorno a esso. Ma se poi s'intende l’opera allegoricamente, il soggetto è l’uomo che per meriti o per demeriti e in virtù della libertà d’arbitrio deve sottostare alla giustizia che comparte premi e castighi.
Il soggetto non è dunque monovalente, bensì presuppone una lettura, diremmo oggi, a più piani o pluralistica. Dante (o l’autore della lettera, che comunque ha un abito mentale e culturale assai vicino, oltre che coevo, a quello di Dante) ricorre anche qui, come in tutti i casi assai impegnativi, alla Bibbia e cita i primi versetti del salmo CXIII, «In exitu Israel de Aegypto», lo stesso cioè — e questo è molto importante — che appare nel canto secondo del Purgatorio (46). Come si realizza ora il «modus tractandi» che ci conduce dal senso letterale del soggetto ai «plures sensus» che il medesimo soggetto assume su di sé? Il senso letterale è l'uscita dei figli di Israele dall'Egitto ai tempi di Mosè, cioè è un fatto per cui il senso letterale coincide con il senso storico. I sensi mistici sono invece tre, l’allegorico propriamente detto, il morale e l’anagogico, e sono necessari appunto perché il soggetto è duplice. Infatti al soggetto storico (l'esodo) si affianca l’altro soggetto (in latino alienum subiectum, in greco alleon, dunque allegorico), e cioè la redenzione dell’uomo. Se si bada bene, una volta definito il senso allegorico fondamentale (la redenzione), i due sensi morale e anagogico sono soltanto due variazioni della medesima interpretazione mistica, in quanto per il senso morale l’anima si converte dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia («conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie») e per il senso anagogico l’anima fatta santa esce dal servaggio di questa corruzione alla libertà della gloria eterna. Meno interessante perché rigorosamente retorico il discorso sulla forma. Il titolo Comedia viene spiegato solo dopo: esso indica che il poema principia narrando cose orribili e fetide (sono le cose dell’Inferno) e termina prosperamente con il Paradiso, mentre la tragedia al contrario principia ammirabile e benigna e si conclude fetida e orribile (come fetido è il puzzo dei capri, dai quali prende il nome); e indica anche che lo stile nel quale il poema è scritto è piano e umile, si vale della lingua volgare nella quale discorrono anche le donnette («ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, qui locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant»). In quanto poi al fine del poema, esso si ripone nel suo significato mistico cioè nel proposito di rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità («finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis»). Dunque il poema è un’opera didattico-morale, ossia un’opera di etica pratica, che insegna a comportarsi secondo virtù e giustizia («genus vero phylosophie... est morale negotium sive ethica, quia non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars»). Perciò l’agens, ritornando ora al nostro discorso iniziale dopo che abbiamo appreso quanto ci è necessario, è l’uomo che procede dallo «status miserie» allo « status felicitatis»: l’agens deve essere collocato nel contesto dei se[??] mistici del poema. Ma a questo punto la lettera a Cangrande p[??] a illustrare le due parti del Paradiso, dedicato appunto al signore di Verona, ossia ne illustra il prologo (I, vv. 1-36) e la parte esecutiva che su per giù corrisponde «alla parte narrativa. Quest’ultima parte ci interessa però meno, perché è povera di indicazioni stimolanti, e si integra in un discorso generale di retorica.
Le indicazioni che il poeta ci propone affermano dunque un fatto fondamentale: la Commedia narra il viaggio individuale del suo autore attraverso i tre regni dell’oltretomba, ma appunto perché è un viaggio escatologico, esso coinvolge allegoricamente l’uomo impegnato in un’ardua esperienza spirituale di redenzione. «Il viaggio del poema — avverte Singleton in Viaggio a Beatrice cit., p.9 — è il viaggio del cuore inquieto e la sua presenza nella struttura ne costituisce il vero organo vitale». Il cuore inquieto deve essere inteso nel senso rigorosamente cristiano quale lo intende sant'Agostino: «quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» (così si legge all’inizio delle Confessioni).
Ma il viaggio ha di necessità due dimensioni. Il viaggio nell'aldilà è infatti il viaggio di un uomo bene individuato, di Dante fiorentino «natione, non moribus» , mentre il viaggio allegorico non ha un protagonista definito se non l’uomo cristiano che, uscito dai termini del tempo e dello spazio, si redime e si realizza in Dio. Il viaggio letterale si compie entro i limiti della durata della «visione»: da esso il poeta «ritorna» sulla terra, nel carcere che egli del resto non ha mai lasciato, per di più con assai fioca memoria di quello che ha visto e udito nei tre regni dell’oltretomba. Il viaggio allegorico iscrive invece l’iter della redenzione umana nell’eternità: è un itinerarium mentis, ispirato oltre che ai vaghi influssi neoplatonici a un testo concreto e ben conosciuto da Dante, l’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura. L’itinerario della redenzione tuttavia coinvolge il senso morale, cioè impone un certo modo di agire e di comportarsi, deve rispondere alla domanda «quid agas», cioè «che cosa devi fare». L’azione ci riconduce alla terra, rimette sulla scena l’uomo prigioniero del peccato sulla terra che può volgersi finalmente al colle vestito dei raggi del sole (Inf. I, 16-17) soltanto se la buona volontà e la grazia di Dio lo soccorrono. Dunque anche il viaggio allegorico, pur concludendosi in Dio, non ignora chi è rimasto indietro sulla terra, «color che dietro a noi restaro». Di qui la struttura circolare del poema, di qui il realizzarsi nel poema della forma perfetta che è il cerchio. Senza l’antitesi terrena e la coscienza del peccato perenne, la redenzione e lo sbocco di questa nel viaggio trionfale sino all’Empireo e a Dio sfocherebbero la loro tensione gaudiosa, e lo stesso apparato allegorico vedrebbe compromessa la sua logicità. A che varrebbe il viaggio nell’aldilà se esso, una volta comunicato agli uomini, non fosse ripetibile e non divenisse dunque materia di un testo didattico? Il viaggio nell'aldilà è disponibile per così dire a tutti coloro che potranno intraprendere quel medesimo viaggio. Il viaggio letterale si rispecchia nel viaggio allegorico: Dante si è trovato nella «selva oscura» come si possono trovare e si sono trovati tutti gli uomini, e perciò «solo muovendosi all’interno dell’ambiguità poetica spinta al massimo grado si può realizzare in tali termini una organica transizione» (Singleton, Introduzione alla Divina Commedia cit., p. 36).
La grazia di Dio compie e realizza non soltanto la volontà di bene del pellegrino, del viator redimibile, ma anche l’intelletto. Tommaso d’Aquino, correggendo qui Sant'Agostino, troppo incline a esaltare le facoltà del cuore (il viaggio a Dio è per lui un viaggio d’amore), afferma che l’anima realizza la sua unione con Dio mediante l’amore e l’intelletto: «anima conjungitur Deo per intellectam et affectum». L’intelletto vede la verità, la volontà ama il bene. Anzi nei moti dell’anima razionale l'intelletto sta sopra la volontà, e la beatitudine sta riposta nella visione dell’intelletto:
E dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda.
Sono i versi 106-111 del ventottesimo canto del Paradiso.
Il viaggio dell'intelletto si compie attraverso tre visioni. Esse sono spiegate da Tommaso d’Aquino (I Isaiam prophetam, I): la prima richiede il lume naturale dell’intelletto ed è simile a una «contemplatio invisibilium per principia rationis»; la seconda si consegue «per lumen fidei» ed è quella di cui godettero i santi in vita; la terza raggiunge Dio quale oggetto della beatitudine «per lumen gloriae», è propria del cielo e fra i mortali a pochi è concessa, fra i quali fu Paolo. Dante esperimenta queste tre visioni, per ciascuna delle quali si giova di una guida: rispettivamente di Virgilio, di Beatrice e di Bernardo di Chiaravalle. Virgilio, la prima guida di Dante, è concesso il «lumen naturale» quello stesso di cui godettero in vita e godono ora nel Limbo i grandi filosofi e poeti dell’antichità, Platone, Aristotele, Omero così via. Per questo lume dell’intelletto Dante ripercorre il pensiero umano codificato da Platone e da Aristotele e le verità e erditate dai poeti, sottopone le esperienze vissute nell'inferno e nel purgatorio, e cioè sofferte nel male e nel riscatto espiatorio del male, alla verifica razionale. Il «lumen fidei», che san Tommaso chiama altrove «lumen sapientiae» e «lumen gratiae», corrisponde anche al secondo grado della cognizione umana di Dio («secunda est prout divina veritas, intellectum humanum excedens, per modum revelationis in nos descendit»: così nella Summa contra gentiles di san Tommaso, IV, 1). La rivelazione si congiunge alla sapienza perfetta e alla perfetta grazia, ma essa non può essere ovviamente affidata a Virgilio. Lassù nel paradiso terrestre viene d’un tratto a mancare Virgilio, immediatamente prima che vi scenda Beatrice, «regalmente ne l’atto ancor proterva». Conclusa l’espiazione (e l’ultimo rito espiatorio, il più amaro, quello della confessione, è condotto dalla stessa Beatrice), Dante ascende dietro la nuova guida di cielo in cielo e, nonostante che il paradiso prenda forma e colori e suoni e spazi sensoriali («così parlar conviensi al vostro ingegno / però che solo da sen- sato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno», spiega Beatrice in Par. IV, 40-42), l’intelletto di Dante «oltrepassa l'umano intelletto». Tanto che Dante può alla fine sprofondare nel «lumen gloriae», nella visione di Dio, cioè nella visione che possono conseguire soltanto i beati del Paradiso. Dante è guidato sino alle soglie della visione da Beatrice, ma non appena egli vi giunge, la beatissima va a occupare il suo seggio fra i beati e la sostituisce san Bernardo: il quale non proprio guida, ma prepara il poeta alla suprema visione e a un tempo ne impetra da Dio, attraverso la mediazione della Vergine, la grazia. San Bernardo infatti era stato già nell’Empireo, come san Paolo, quando era ancora in vita, «homo viator in via», in virtù della contemplazione: «contemplando gustò di quella pace» (Par. XXXI, 111).
Queste sono le luci intellettuali. Ma operano entro queste luci anche i movimenti della volontà. San Tommaso distingue nella Summa Theologiae tre conversioni o «motus voluntatis in Deum». Il moto finale verso e in Dio si compie in virtù di perfetto amore e di perfetta grazia (la «gratia consummata» corrisponde infatti sulla scala dei lumi intellettuali al «lumen gloriae»). L’intelletto vede Dio e la volontà Lo vuole possedere in amore. San Bernardo presiede a questo estremo movimento così dell’intelletto come della volontà: Dante si prepara al supremo attimo in amore, San Bernardo impetra per lui in amore. La seconda conversione richiede la «gratia habitualis»: per lei si compie l’itinerarium mentis, per lei Beatrice appare a Dante sul paradiso terrestre «vestita di color di fiamma viva», essendo il rosso il colore della carità, ed essendo la carità quella delle tre virtù teologali che muove soprattutto il viaggio dell’anima cristiana verso Dio, sul piano, è ovvio, della volontà. La terza conversione prepara a ricevere la grazia, ed è l'operazione perenne che Dio esercita sull’anima umana per convertirla a sé, sempre che l’uomo a sua volta si muova, rispondendo all’operazione divina, verso la forza, bene disponendo del suo libero arbitrio. Qui la concezione teologica di Dante, fedelissima a san Tommaso, riprende il concetto di forma e di materia che è concetto aristotelico, e giudica che l’anima sia materia disposta a ricevere la forma, cioè la grazia santificante: e questa è appunto l’anima del viator cristiano e l’anima di Dante che nel corso del viaggio letterale o storico si prepara a ricevere la grazia, cioè Beatrice, dietro la guida di Virgilio. Il viaggio giù nell’inferno e lungo il purgatorio corrisponde all’«ordo naturalis ad gratiam» che è anche un concetto tomistico. Se poi si vuole introdurre nell’itinerarium ad Deum il principio della giustizia, bisognerà considerare che ci sono due giustizie, quella intesa come ordine giusto dell’anima nel suo movimento verso Dio e di fronte a Dio, e quella storica, la cui presenza deve essere legittimamente rilevata nel poema. Esiste infatti un parallelismo evidente fra la missione di Roma imperiale e la missione di Virgilio guida a Dante, «poiché nella giustificazione che ebbe luogo sulla scena della storia, fu il popolo romano a portare il mondo alla giustizia, proprio come fa Virgilio con Dante; e la giustizia a cui Roma condusse il mondo, risultò essere la preparazione stessa della venuta di Cristo tra gli uomini» (Singleton, Viaggio a Beatrice cit., p. 105). Qui però l'argomento rischia di portarci addentro al «messaggio politico» del poema, del quale invece discorreremo più avanti.
Di tutta la costruzione allegorica del poema il perno è da individuarsi in un certo senso nel paradiso terrestre. Qui appare Matelda che rappresenta la condizione umana prima del peccato originale, condizione in tutto identificabile con la felicità; qui si compie la grande processione allegorica; qui Beatrice succede a Virgilio nella guida di Dante; qui si conclude il rito penitenziale del poeta (dell’uomo) e si avvia la preparazione a ricevere la grazia perfetta, e cioè al «lumen naturale intellectus» succede il «lumen fidei» o «lumen gratiae», alla «operatio Dei ad se animam convertentis» succede la «gratia habitualis» o grazia santificante; qui si pone il rapporto operante fra la vita attiva e la vita contemplativa, fra Matelda e Beatrice, dopo che queste due donne erano state prefigurate in sogno (si tratta del terzo e ultimo sogno di Dante, in Purg. XXVII, 94-108) da Lia e da Rachele. Già Aristotele nella sua Etica a Nicomaco (X, 7-8) aveva eletto la vita contemplativa, pur riconoscendo che la vita attiva è propria dell’uomo sociale e quella contemplativa è invece «superhumana». San Tommaso riprende Aristotele, e Dante si richiama all’uno e all’altro, anzi esplicitamente ad Aristotele. Nel Convivio (IV, XVII) aveva recato l’esempio evangelico di Marta e di Maria: Gesù loda Marta, così attiva nella sua casa, ma ancora più loda la sorella di lei Maria, intenta soltanto ad ascoltare le parole del Salvatore. E aveva concluso: buona è la vita attiva, ottima è la contemplativa. La contemplazione s’identifica con la pace nel De monarchia (I, VI):
Et quia quemadmodum est in parte sic est in toto, et in homine particulari contingit quod sedendo et quiescendo prudentia et sapientia ipse perficitur, patet quod genus humanum in quiete sive tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere divinum est iuxta illud «minuisti eum paulo minus ab angelis», liberrime atque facillime se habet.
E poiché come è nella parte così è nel tutto e nel singolo uomo avviene che sedendo e stando quieto si perfeziona in prudenza e sapienza, appar chiaro che il genere umano nella quiete ossia nella tranquillità della pace si trova nella condizione più libera e disponibile alla sua propria operazione che è quasi divina secondo il detto «lo facesti inferiore di poco agli angeli».
Si faccia qui attenzione a questa importante presenza della giustizia e della pace nel sistema allegorico dantesco, la prima come simbolo attivo, la seconda come simbolo contemplativo, e operanti in un sistema che come quello dantesco è a un tempo razionale e mistico, fondato sull’intelletto e sulla volontà. È importante indugiare brevemente sul sogno dantesco che rappresenta le due mogli di Giacobbe, Lia e Rachele. Esse, è vero, sono iscritte in un breve periodo ritmico di cinque terzine che ha l'andatura di un idillio sognato e prefigura anche la dolcezza e la mitezza del paesaggio dell'imminente paradiso terrestre. Ma a ripensare alle due donne dopo conclusa la lettura del Purgatorio, e via via che ci si persuade che in virtù della struttura di questa area fondamentale del poema Matelda riprende veramente Lia e Beatrice riprende Rachele, c’è da pensare che Lia rappresenti la giustizia e Rachele rappresenti la sapienza. Singleton pensa che questa identificazione possa essere stata suggerita a Dante da Riccardo di San Vittore, bene da lui conosciuto (cfr. De praeparatione animi ad contemplationem. Liber dictus Benjamin Minor). Così dal canto XXVII al canto XXXIII del Purgatorio la narrazione dei fatti, tutti interpretabili in chiave allegorica, converge sulla processione, e cioè sul processo giudiziario intentato alla Chiesa corrotta dalla cupidigia e prostituita al re di Francia, un processo che implica appunto l’opposizione etica della giustizia e della pace fra gli uomini. E questo è un fatto estremamente importante, che Dante, pur riconoscendo la superiorità della vita contemplativa su quella attiva, in verità nel poema istituisce un rapporto operativo fra l’una e l’altra assai ricco di conseguenze, fra le quali soprattutto l’unificazione dell’attività intellettuale e di quella politica dell’uomo in una superiore realtà etica. La giustizia prepara la pace e nella pace si realizza, così come la vita attiva prepara la contemplativa e vi si integra. La giustizia regge la rettitudine, la virtù operante (virtus agens), tanto che dalla perdita della giustizia, cioè dal peccato originale, l’uomo di generazione in generazione è rimasto prigioniero della «lacrimarum vallis», irretito dal peccato. Riconquistare la giustizia significa liberarsi dalle passioni disordinate. Ma c’è di più: la cupidigia, il massimo dei mali umani a giudizio di Dante, l’oggetto della denuncia più appassionata, più implacabile e più tenace fra le altre che attraversa tutto il poema, si colloca agli antipodi della giustizia. Ancora un solo passo e siamo in area etico-politica: nel mondo regnerà la pace quando regnerà la giustizia, cioè quando il monarca universale potrà assolvere — non impedito dai servi del male — alla sua altissima missione. A questo livello «sincretico», san Tommaso si dichiara concorde con sant'Agostino: «sicut dicit Augustinus, pax omnium rerum est tranquillitas ordinis» (cfr. In IV Sent. XLIX, q. 1).
Dante è «agens» in quanto, dicevamo, è personaggio soggetto di un’esperienza. Come autore, Dante è l’artefice del poema, ma come personaggio egli vive il poema come un’avventura o un viaggio, e in questo caso come un viaggio spirituale. Il personaggio che dice io è il soggetto dell’azione morale, pratica, mentre l’auctor è il soggetto del fare poetico. Tanto che Fergusson felicemente osserva (in Dante’s Drama of Mind cit., p. 40): «Interrompendo la trama del racconto e prendendo la parola come autore, Dante interrompe la nostra identificazione col pellegrino, e ci invita a considerare lo sviluppo del poema come poema». C'è anche un’osservazione di Singleton: nell’io di Dante coesistono l’uomo in generale che è il soggetto dell’agire e l'individuo storico, e cioè l’io trascendentale e l’io esistenziale, e talvolta anche la grammatica ce lo svela, come quando, proprio al principio del poema, la «nostra vita» sembra contrapporsi al «mi ritrovai», il plurale collettivo al soggetto singolare individuale. Ma questi due io si rifiutano e si escludono oppure coesistono davvero e collaborano fra di loro? Gianfranco Contini (in Dante come personaggio-poeta della Commedia, ora in Varianti e altra linguistica cit., p. 336) tenta dapprima di risolvere il problema sulla Recherche du temps perdu di Proust e conclude che la sutura dei due io si realizza perché la componente romanzesca si realizza nella vocazione letteraria («Il personaggio che dice io si riconosce come poeta, e la curva della vicenda consiste nell’evolvere dell’osservazione in rappresentazione»). Trasferendo il problema alla Commedia, è ovvio che la mediazione proustiana così nuova e innovatrice è assolutamente assente nell’ambito della cultura dantesca. D’altra parte la mens medioevale comporta la polisemia a cominciare dall’esegesi della Bibbia. Questo libro ha infatti un contenuto storico (per esempio l'esodo degli ebrei dall'Egitto) e un contenuto diciamo ideologico universale. Il senso letterale e il senso mistico del «testo» sono diversi e distinti. Singleton a questo punto pone una distinzione fra allegoria e simbolismo. L’allegoria è un’operazione ermeneutica e attiva, vede lo «status animarum post mortem» e lo interpreta, mentre il simbolismo rappresenta per metafore-simboli il libro scritto da Dio, e cioè la realtà che è veduta (cfr. Introduzione alla Divina Commedia cit., p. 48): è dunque anch’essa un’operazione attiva ed ermeneutica, ma si esercita sul veduto, non su ciò che è da vedersi. Ma Dante vede il da vedersi proprio perché vede il veduto, scopre e rivela l’allegoria, ma non la crea, perché l’allegoria è nelle cose. Così i tempi e i modi della redenzione umana, del suo riscatto dal peccato originale, o la realtà eterna della dannazione per coloro che hanno voluto per libero arbitrio la «seconda morte», sono visibili dentro lo «status animarum post mortem». E in quanto legge il veduto, il poeta scopre dietro i simboli le forme reali delle cose create. Scrisse san Paolo (Rom. I, 20): «invisibilia Dei per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur. Sempiterna quoque virtus eius ac divinitas relucet» (le cose invisibili di Dio si vedono in virtù delle cose che sono divenute intelligibili. Così riluce in eterno la virtù divina). Da allora la tradizione teologica cristiana giudica che due siano stati i libri scritti da Dio, il libro per antonomasia, la Bibbia, e il mondo creato. Il mondo, perfetto nella sua circolarità, è di fatto un insieme di cose, ma noi lo vediamo come un intreccio di simboli, fra i quali si aprono profonde analogie (cfr. S. Agostino, Confessioni, X, 35). Per Sant'Agostino e per Dante il segno è nella cosa, è espresso dalla cosa, e ci rimanda alla fonte prima delle cose, che è Dio. Perciò le cose vedute nell’oltretomba valgono come quelle terrene, sono altrettanto reali.
Ugo da San Vittore, conosciuto da Dante, parla addirittura di una lettura universale dell'universo. Le «cose invisibili divine» si rappresentano dunque per verba e per figuras. Le due rappresentazioni o letture «si attraversano»: allegoria e simbolo sono due momenti distinti di una più globale interpretazione dell’universo. Allora veramente interpretare, capire significa agere, non facere. San Tommaso distingue dietro la scorta di Aristotele l’azione che si mantiene nello stesso agente e l’azione che per così dire si consuma tutta nell’oggetto. Soltanto la prima azione («manens in ipso agente») opera nei campi del «sentire, intelligere et velle» e può essere beatitudine. L’autore del poema nel farsi della sua opera vi si realizza come vi si realizza il lettore: il poema è veramente di tutti, non già nel senso che sia aperto a tutti o almeno a un gran numero di lettori, come lo era il Convivio, nel senso che tutti i lettori se ne appropriano e vivono la realtà del poema come la loro propria: l’operazione opera, se ci è permesso questo bisticcio verbale, nel poema. Dante è dunque «agens» piuttosto che «auctor» anche perché egli si assume la responsabilità di tutti gli uomini, e non soltanto dei viventi, ma dei trapassati e dei nascituri per i secoli a venire. Dante parla per tutti coloro che sono «viatores» sull’arduo cammino della redenzione. Il soggetto, cioè il personaggio Dante, vive così intensamente la sua esperienza escatologica che egli si dimentica, si trasferisce e si realizza oggettivamente oltre che simbolicamente nell’umanità.
Eliot, il poeta inglese celebre anche per la sua attenzione dantesca, ci consiglia di considerare non tanto il significato delle «immagini» quanto il processo mentale originario che esprime l’idea linguistica nell'immagine della visione. Ossia l’allegoria è un'immagine visiva assai perspicua. Del resto l’immaginazione stessa di Dante è visiva («visual imagination»). Al tempo di Dante la visione nel suo pieno significato reale era ben possibile, un sogno cioè, ma estremamente disciplinato e semanticamente attivo («a more significant, interesting and disciplined kind of dreaming»). Nelle mani di Dante, ma anche nel contesto culturale di tutta l’Europa romanza, l’allegoria è la via per rappresentare il massimo di realtà con gli strumenti comunicativi più universali ed efficaci. Anche un altro poeta, questa volta italiano, Eugenio Montale, osservò che Dante fu un poeta centripeto (mentre noi moderni siamo centrifughi) ed ebbe una sua logica dei fatti che a noi sfugge.
Così è estranea ai nostri tempi l’oggettività poetica dell’allegoria o, come scrive Eliot, ci è difficile risuscitarla. Il fatto è che Dante personaggio, cosciente di sé, opera, come dice Contini, nell’eteronomia, cioè in un mondo che sta al di fuori di lui, ma non a lui estraneo, un mondo di dottrine codificate, di esempi poetici illustri tutti appropriabili, di personaggi e di eventi che non appartengono a lui o anzi gli si possono opporre. Si affida a tre guide, la prima delle quali, Virgilio, mossa da «tai tre donne benedette». E tuttavia questo Dante personaggio, «agens in rebus», si affianca a quel Dante poeta e artefice che nel poema proietta la sua saggezza e la facoltà di rivelare il vero e di profetare il futuro; è, come scrive Contini, un produttore di «auctoritates», comunica la dottrina e la accresce, agisce anche — come rivelatore e profeta — sul destino dell’umanità. Il lettore moderno è ovviamente autorizzato a spostare i propri interessi sul Dante poeta e artefice; tuttavia lo stesso De Sanctis si lasciava catturare dall’oggettività del poema sino a presentarcene i personaggi resecati dal testo e autonomi operatori nella cultura e nella vita di ciascun lettore .
a) Liturgia. Nel poema il rito liturgico è la prima sede in cui s'incontrano allegoria e simbolismo. La liturgia fa parte dell’apparato allegorico, perché ordina sapientemente e si direbbe -ritmicamente nel movimento i tempi e i passaggi dell’interpretazione allegorica del viator cristiano. E a un tempo è il linguaggio del reale stato d’animo del viator per segni, cioè per simboli. Se per esempio congetturiamo con Singleton che l'approdo delle anime sulla spiaggia dell’isola del purgatorio (Purg. II) sia collegato al l’Esodo (e, avverte Singleton, è la mattina di Pasqua), è necessario richiamarci alla liturgia della Chiesa, commemoratrice di eventi. «AI pari del poema, anche la liturgia congiunge sulla linea della storia dell’uomo e del dramma della sua salvazione cose che talvolta potrebbero ritenersi indipendenti» (cfr. il cit. Viaggio a Beatrice, p. 254).
Nell’Inferno la liturgia sembra concentrarsi in limine e in exitu all’abisso; e cioè in limine sulla porta dell’inferno e sulla scritta che la incornicia «al sommo», in exitu sullo «imperador del doloroso regno», terribile mostro-gigante a tre facce di colore diverso (vermiglia, bianco-gialla e nera) e dirompente con i denti delle tre bocche «a guisa di maciulla» Giuda, Bruto e Cassio (il traditore di Gesù, fondatore della Chiesa, e i due traditori di Cesare, fondatore dell'Impero). Ma il poema di Dante ha in tutte le sue parti e articolazioni una forte gravitazione centripeta, per cui la stessa trama allegorica del primo canto, il soccorso delle tre donne benedette nel secondo canto, l’esposizione della topografia morale dell’inferno nell’undicesimo canto, la trama dei contrappassi fra peccati e castighi, e gli stessi paesaggi «naturali», persino le comparazioni, ispirate a una energica evidenza anche naturalistica, contengono una dimensione rituale. Il Purgatorio poi, nell’istituire all’interno di sé tutto l’apparato monumentale della penitenza e della redenzione, sposta gran parte del simbolismo (interpretazione del reale) e dell’allegoria (significato dell’umiltà penitenziale) sui riti liturgici. Il canto-perno della seconda cantica è il nono che rappresenta nella porta del purgatorio, nei tre gradini che vi conducono e nell’angelo portiere i tempi della purgazione. In esso s’integra idealmente il discorso di Virgilio sull’amore «d’animo» che può errare «per malo obbietto, o per troppo o per poco di vigore» (canto XVII). Da esso si dirama l’organizzazione del movimento di salita lungo l’erto pendio della montagna. Soprattutto nel Purgatorio, se vogliamo servirci di un giudizio assai acuto di Francis Fergusson (in Dante's Drama of Mind. A modern reading of the Purgatorio cit.), «le due prospettive (quella dell’autore e quella del pellegrino), producono una sorta di effetto stereoscopico, quello di una realtà oggettiva e parzialmente misteriosa », e «la mobile tensione tra di esse produce il complesso movimento del poema e sostiene il suo susperse»; e già Hugo Friedrich (in Die Rechtsmetaphysik der Gottlichen Komodie ecc. cit.) aveva proposto un rapporto tra il «poeta» che giudica nella totalità della visione, e il «viandante» che procede di esperienza in esperienza verso il «tutto» e deve di necessità guardare le cose, leggere, interpretando, la realtà oggettiva.
Anche i «topoi» retorici servono a rappresentare simbolicamente il reale, ma la sensibilità esistenziale che vi opera all’interno ci conduce alla fine verso l’allegoria. Dante ha scelto per il suo viaggio l’abisso terrestre dell’inferno e una montagna erta e rocciosa, solcata da ripiani o da cornici sulle quali si muovono o giacciono o siedono i penitenti a seconda delle loro oggettive condizioni penitenziali. Ma il contraltare dell’abisso infernale è il cielo, più volte invocato dalle tenebre e dai lutti, e il contraltare di quel salire duro e affannoso la montagna — fissi gli occhi affaticati e tesi sulla roccia — è ancora il cielo che spazia tutto all'intorno, ma vi si aggiunge il mare: il mare infinito che circonda l’isola del purgatorio e che è richiamato persino — per analogia simbolica — nell'argomento del proemio a questa seconda cantica:
Per correr miglior acqua alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele
dove la crudeltà del mare è corretta dalla baldanza confidente della «navicella del mio ingegno» che «alza le vele per correr miglior acqua». E qui il simbolo rinchiuso nella metafora sensibilistica e realistica del mare allude pure a quella « compresenza di eventi e di figure che ogni cristiano sente di rivivere nella propria esistenza come simboli della grazia e della liberazione, onde accadrà che le acque del mar Rosso divengono acque purificatrici» (E. Raimondi, Metafora e storia cit., p. 67): cioè allude al famoso salmo biblico «In exitu Israel de Aegypto» che si è già incontrato nell’Epistola a Cangrande e il cui incipit forma integralmente il verso 46 del secondo canto del Purgatorio. Ma dove è la Bibbia (lo sappiamo appunto dall’Epistola appena da noi citata), qui è allegoria. Così, osserva ancora acutamente Raimondi, in un verso come «Ma qui la morta poesi’ risurga» (è il verso 7 del primo canto del Purgatorio) «l’antitesi di morte e risurrezione travalica evidentemente l'ambito retorico... per investire tutto l’uomo nella storia del suo peccato, della sua redenzione, e toccare così l'essenza di quel ritorno a Dio che sarà il tema fondamentale del Purgatorio» (op. cit., p. 68). Ancora dal simbolismo all’allegoria: e così, se vogliamo continuare con Raimondi la lettura del primo canto, la sfida tra le Pieridi e Calliope, che è un ricupero letterario ovidiano, proprio attraverso le Metamorfosi di Ovidio (libro V) riprende il tema del ver perpetuum di Proserpina e del suo ritorno a Cerere, cioè riprende il mito simbolico e allegorico a un tempo (interpretazione del reale e trasposizione allegorica, ossia morale, del medesimo) dell'innocenza perduta e della fecondità ritrovata: tema congeniale all'introduzione alla cantica penitenziale del poema. E la primavera, quasi a sigillare la cantica, ritornerà esplicitamente alla fine di essa con il mito Proserpina (Purg. XXVIII, 49-51), con il ver aeternum dell’età dell’oro cantata dai poeti classici (ivi, 139-144) e con la prima vera perenne che fiorisce nell’eden («qui primavera sempre ed ogni frutto», ivi, 143), di cui parla lassù, nel paradiso terrestre, Matelda. Così il motivo della rinascita si congiunge strettamente con quello della morte, il motivo della fioritura con quello della sterilità, e allora lo spessore reale, oggettivo della natura morta o vivente, del deserto e della primavera, si ricongiunge, aiutato dall’estrema levità del simbolo che è pure reale, con l’allegoria, con il fine morale (il «quid agas», la «conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie» che si legge nell’Epistola a Cangrande), e cioè con la visione biblica della peregrinatio dell’uomo sulla terra.
La liturgia dunque consiste anche nel situare il viaggio del pellegrino in un continuo rapporto (celato ma ritrovabile) con la vita esemplare di Cristo morto sulla croce per essersi assunto il peccato degli uomini e averlo riscattato con il suo sangue di peccatore-martire. I riti del paesaggio liturgico penitenziale si valgono della notte e dell’alba, del buio che declina e della luce che risorge . Il tema dantesco è quello della luce viva dell’alba che segue alle tenebre morte della notte: «Dolce color d’oriental zaffiro... / a gli occhi miei ricominciò diletto, / tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta» (cfr. Purg. I, 13-18). Segue subito dopo, in uno stesso periodo ritmico e simbolico-allegorico, il tema di Venere, del «bel pianeta che ad amar conforta» e che fa ridere di sé tutto l’oriente (ivi, 19-21). I due temi si congiungono all’interpretazione liturgica di Lucifero, e cioè del male domato e imprigionato, capace soltanto d’incrudelire su se stesso e sulle anime perdute, e così le due cantiche, l’Inferzo dall’aura morta e il Purgatorio dall’aura viva, si saldano l’una all’altra in un contesto unitario. Il terzo tema, quello delle quattro stelle «non viste mai fuor che a la prima gente» (cfr. ivi, 22-27), rappresenta liturgicamente il simbolo e a un tempo l’allegoria delle quattro virtù cardinali infuse. Catone è un personaggio liturgico, è un penitenziere e un cerimoniere. Tuttavia il personaggio conserva anche le fattezze dell'eroe romano, e gli studiosi hanno pensato al Catone della Farsalia di Lucano come al modello, abbastanza dissimulato, del Catone dantesco . Il segno simbolico qui è certamente bivalente: la sua proiezione allegorica fa anche di lui, oltre che un personaggio togato romano, un personaggio dell’Antico Testamento: «egli incarna nella viva e irrepetibile sostanza della sua persona l’idea di quel risveglio dalle tenebre, di quella vittoria sul regno delle ombre, che è poi, evento unico della storia, la resurrezione di Cristo e, attraverso di essa, la rinascita di ogni uomo» (Raimondi, op. cit. p. 83).
A questo punto per renderci conto di tutta la complessità pluralistica e analogica della liturgia nel poema occorrerebbe una lettura puntuale e filogico-euristica del testo nella sua integralità. Spesse volte i «segni» liturgici s’integrano in un imponente sistema di riprese e incroci che attraversano l’intero poema. Si pensi per esempio al tema dell'aquila, che è riconducibile a quello della giustizia e quindi si inserisce nel pellegrinaggio penitenziale, inarcandosi fra l'aquila del sogno (Purg. IX) e l’aquila del cielo di Giove (Par. XVIII e XIX); e qui, come in generale nelle aree liturgiche, Dante attinge largamente alle fonti bibliche, pur senza rinunciare alle amate fonti poetiche e simboliche classiche, da Virgilio a Ovidio, a Lucano e a Stazio . Quando poi dal sogno del nono canto del Purgatorio passiamo alla grande cerimonia liturgica della penitenza e dell'ingresso di Dante nel purgatorio, i gesti rituali nella loro stilizzazione rappresentano quanto meglio si può e narrano efficacemente il mondo dei «mysteria», sicché il poeta «agens» possiede saldamente la realtà che lo circonda. I gesti rituali sono tanto più solenni quanto più il penitente tace, ed estremamente realistici in virtù della «materia linguistica densa e attiva» (Raimondi), dell’energia e vitalità espressive, per cui ancora una volta sono i gesti e le cose, i densi spessori ver- bali delle immagini, ad aprire il varco ai sensi riposti e alla raffigurazione dei tre «tempi» tradizionali della penitenza («contritio cordis», «confessio oris» «satisfactio operis») . L’inventario tecnico-ieratico (uscio, porta, cardini, spigoli) permette a Dante, come osserva Raimondi, di trovare un felice punto d’incontro fra i repertori lessicali biblico e classico (per esempio l’immagine biblica dei «cardines ostiorum» si congiunge alle «horrisono stridentes cardine sacrae / panduntur portae» di Virgilio). Liturgica è la grande rappresentazione simbolico-visiva e allegorica della processione nel paradiso terrestre (a prescindere dai passaggi rituali di cornice in cornice, dal rito della cancellazione a uno a uno dei sette peccati capitali dalla fronte del «viator», dalla presenza degli angeli e dalle altre raffigurazioni penitenziali). È questa una liturgia che narra — nel contesto di una rappresentazione sacra o di una lauda drammatica — la passione di Cristo, la redenzione del genere umano dal peccato originale in virtù del sangue versato di Gesù, la fondazione e la corruzione della Chiesa, fattasi alla fine puttana nelle braccia del cupido suo amante, il re di Francia.
La cantica del Paradiso è a sua volta costruita sull’ascesa di Dante, che non è più ovviamente penitenziale, ma è ormai fruizione gaudiosa della corte di Dio, e non è più scala al perdono, ma accrescimento di letizia e di luce fino alla suprema visione di Dio: e a tal punto che tutto quanto si vede e si ode (ormai i sensi presenti sono soltanto i due sensi nobili, la vista e l’udito) è a un tempo nello spazio (il cielo) e fuori dello spazio (l’Empireo), perché i beati sono nel singolo cielo, cioè nella singola sfera, e a un tempo nella corte che cinge infinitamente Dio. Qui la liturgia spaziale concede pochi passaggi ravvicinati e accostabili a un paragone umano, terrestre, o a un discorso «effabile», quali i ritualissimi esami intorno alla fede, alla speranza e alla carità che i santi Pietro, Giacomo e Giovanni pongono a Dante (canti XXIV-XXVI). Nel Paradiso simbolismo e allegoria operano strettamente intesi a costruire una struttura monovalente: danze, musiche (o meglio armonie di sfere), movimenti e gradazioni policrome di luci per loro natura eisgono più areati e spaziali spessori della materia linguistica, e quindi i «segni», il linguaggio comunicativo della realtà celeste, si ritraggono o tendono a ritrarsi sulle grandi linee allegoriche della pura spiritualità, propria dell’anima redenta.
b) Il romanzo di viaggio. Il poema è anche questo, la storia avventurosa di un viaggio o, come traduce Adolfo Jenni in tedesco, una «Wanderung». Il poeta usa spesso i termini «viaggio» e «cammino»: è un viaggio tuttavia di un poeta in questo senso antico, più vicino letterariamente all’Odissea di Omero o al l’Eneide di Virgilio (e, aggiungiamo, al paesaggio esotico della Farsalia di Lucano) che non al viaggio interiore elusivamente narrato nella Recherche di Proust. E un viaggio articolato in tre tempi: la discesa lenta e perigliosa giù per i ripiani scoscesi e oscuri dell’abisso infernale, la salita altrettanto lenta, e faticosa su su lungo l’erto pendio del monte del purgatorio, di ripiano in ripiano; il volo velocissimo verso Dio attraverso i cieli. I primi due tempi sono chiusi nello spazio e nel contesto dei giorni, il terzo tempo è fuori dello spazio, ma si finge uno spazio «didattico», perché Dante si renda conto sensibilmente del diverso grado di beatitudine dei celesti, discesi provvisoriamente a questo fine nei diversi cieli, dal più basso al più alto; ed è fuori anche del tempo, se non fosse che la visione di Dante deve inscriversi in un tempo terrestre, allo scopo di poter poi essere ricordata (o se dimenticata, di averne la coscienza) e comunicata per messaggio poetico. Perciò il viaggio di Dante narrato dalle due prime cantiche è lento, perché è nel tempo, mentre è velocissimo in paradiso («ma folgore fuggendo il proprio sito / non corse come tu che ad esso riedi») perché è fuori del tempo. Il viaggio significa ascesa penitenziale all'indomani della fonda esperienza del male, significa salire la montagna del purgatorio dopo essere precipitati sino al fondo dell’abisso infernale, e significa alla fine ascesa trionfale nel paradiso. Dunque impegno a riscattarsi dal male e conquista trionfale. I tre diversi tempi spirituali non tanto sono raffigurati dai diversi ambienti, quanto sono visti dentro i diversi ambienti, implacabilmente oggettivi e reali, perché questi ambienti costituiscono gli habitat dove stanno le anime condannate alla seconda morte o redimibili o trionfali nella luce della fede e della carità, sono le reali situazioni dello «status animarum post mortem». Ecco dunque che fra una cantica e l’altra ed entro ciascuna cantica la realtà morale del peccato punito, della colpa in purgazione, della virtù premiata, e persino la realtà storica, che qui vuole dire terrena, delle anime (per esempio la virtù terrena dei grandi spiriti del Limbo, poeti e filosofi pagani, o antichi condottieri ed eroi, «attraversa» e illumina la loro oggettiva situazione di esclusi dalla «buona novella» di non-credenti) impongono personaggi diversi, diversi modi di trattare e di sentire, di salutare e di congedarsi, d’incontrarsi e di separarsi, perché la vicenda umana si rispecchia e si realizza in ciascun tempo del viaggio spirituale — il quale, non si dimentichi, né ci stancheremo di ricordarlo, è il vero viaggio reale —, in ciascuna fase della liturgia e della struttura allegorica. A chi si chieda — come Jenni — se Dante autore abbia pensato prima al procedimento del viaggio o a quello degli episodi, crediamo sia facile rispondere che Dante ha letto e interpretato i segni di ciò che ha veduto e quindi ha dovuto assumersi tutte le vicende umane, tutti gli affetti diversi, nel mentre compiva il suo viaggio in allegorico pensando a quanto età da vedere. Tutto si è svolto simultaneamente: si guarda alle cose e si pensa alle sovracose, si rappresenta il veduto e si aspira, potentemente, al da vedersi. In virtù del veduto, della realtà narrata, il poema è anche un lungo racconto di pericoli, di fatiche, d’incontri sorprendenti e imprevedibili, di speranze e di angosce, di ansia e di paura, e insomma di avventure straordinarie. I mezzi e le arti per discendere l’abisso sono diversi, c'è persino il volo sulle «spallacce» di Gerione con l’urto del vento al viso e di sotto e l’orribile scroscio finché Virgilio e Dante, scesi «per siffatte scale», vengono posati sul fondo dell’ottavo cerchio, e c'è l’altro «volo» per cui Anteo gigante raccoglie nelle mani i due poeti e li posa sul fondo di Cocito, del «pozzo scuro», e c’è la fuga giù per lo scosceso pendio della sesta bolgia per sottrarsi all’inseguimento dei diavoli ostili, e l’impedimento a entrare nella città di Dite, sempre per malvagio diabolico. Lo scenario muta poi di continui: lande cupe, arse dal fuoco o macerate dalla piaggia, tempeste ruinose, scorrere o appaludarsi di acque ai piedi delle ripide pareti di roccia, baratri fondi e spessi, fosse e avelli infuocati, mostri, e infine – paesaggio umano – il lungo arco degli habitat o degli atteggiamenti psicologici che il poeta incontra, dalla vile inerzia degli esclusi dal varco dell’Acheronte alla magnanimità mesta dei grandi spiriti del limbo alla passione degli incontinenti in amore, e via via alla fierezza di Farinata, al disperato ricupero del suo passato innocente proclamato da Pier delle Vigne, alla nobiltà spiritual di Brunetto Latini, alla solennità epica di Ulisse (che come Farinata rescinde sé dall’abisso), all’iracondo disperato dolore di Ugolino, agli affetti diversamente volgari e protervi (o a loro modo nostalgici e dolenti) dei dannati del basso inferno, e qui non è proprio necessario ripetere le classiche pagine del De Sanctis. Ma oltre Ugolino gli uomini scompaiono: l’immensa distesa di ghiaccio, investita dai venti lividi e freddi mossi dalle ali di Lucifero tace di un silenzio sinistro.
Sulla montagna del purgatorio le anime — come aveva giù indicato, in pagine rimaste esemplari dal punto di vista tonale, il Momigliano — sono vicine l’una all’altra, s’integrano in uno stesso lungo esercizio, giorno dopo giorno, ossia nell'esercizio dell’espiazione, partecipano a una liturgia perfettamente ritmata e uguale per tutti, attendono il giorno lontano del riscatto, vivono nella preghiera e nel raccoglimento, mentre intorno e sopra di loto st avvicendano i giorni e le stagioni, sono sospesi fra le incombenti della montagna e lo spazio immenso del ciel e del mare. Qui le variazioni del paesaggio e gli atteggiamenti psicologici individuali occupano una breve arco: qui i dialoghi intervengono a montare la linea narrativa della cantica, assumono cioè responsabilità strutturali che i dialoghi della cantica precedente non assumevano o assumevano parzialmente. Ma l’avventura mentale e spirituale del «viator agens» è intesa, forse più che nell’Inferno, perché qui egli è totalmente impegnato, vive il suo itinerarium penitenziale sino in fondo, senza potersene mai distrarre. E la fatica stessa dell’ascesa ha un suo ritmo liturgico. Il Paradiso è la cantica dello spazio infinito e del tempo perenne. Esso è un sistema ben costruito di variazioni dei linguaggi propri del regno celeste, la musica, il canto, la luce, la danza, tradotti nella versione ritmica fonico-verbale. Le ampie illustrazioni didattiche che si assumono Beatrice ma anche i beati per spiegare a Dante le ragioni teologiche veraci della realtà celeste e umana, e le ragioni di quella naturale, non sempre in verità, ma spesso si risolvono nella tensione affettiva della carità, perché è atto di carità l’insegnare altrui, è colloquio, è corrispondenza, è amore (a prescindere poi da quella che il Croce definì la gioia dell’insegnare e dell’apprendere). Accingendosi a far luce su un quesito oscuro (oscuro nella mente di Dante) l’anima del beato si accende, s’infiamma, abbaglia. A un certo punto la coscienza di Dante di sapere molto oltre le barriere dell’intelletto umano si fa essa stessa luce che avvolge e coinvolge i canti nei quali Dante si laurea (i canti XXIV, XXV e XXVI del Paradiso), e i canti dell'imminente aspettazione e poi della visione di Dio, che sono gli ultimi della cantica: tutti canti del trionfo. Ma, appunto, del trionfo di Dante «agens». Dante partecipa al trionfo come esponente dell’umanità redenta e accolta, dopo la morte terrena, in Empireo. Non dunque soltanto l'apparato liturgico, ma il viaggio stesso di Dante, nelle sue componenti narrative, risolve l’auctor nell’agers.
L’invenzione è tutt’una cosa con la teologia e con la storia. Questa è la virtù esemplare dell’arte medioevale, di realizzare i dati del reale (interpretato ossia letto per simboli) nel contesto dell'invenzione e viceversa. Così come la virtù propria dell’arte settecentesca sarà di interpretare razionalmente il reale per linee e terse prospettive. L’ambiguità ideologica o concettuale a livello di struttura nelle opere d’arte sarà piuttosto un prodotto romantico, esaltato poi dal «decadentismo» novecentesco. La storia, la cronaca si risolvono in qualche cosa d’altro. Alla storia appartiene, per esempio, la secolare augusta vicenda dell’aquila imperiale che, proposta già nelle due prime cantiche (o perché vi sta dissimulata o per allusioni e richiami), si dispiega nella sua imponenza sulla bocca dell’imperatore Giustiniano (Par. VI) e si realizza come operazione presente e attiva attraverso la denuncia e il proclama etico-religioso dell’aquila imperiale (ivi, XIX). Ma appunto è un fatto etico-politico e si può risolvere, senza residui, nel discorso altamente tonale e persino eloquente sulla predestinazione delle creature a Dio. La cronaca a sua volta (per esempio il delitto in casa Malatesta per cui cadono vittime Paolo e Francesca e così via) si trasferisce dall'area mondana nella quale noi moderni la collocheremmo, ammesso che ai tempi di Dante la cronaca potesse avere uno spunto mondano, nell’area etica, e regredisce spesso con una sua fosca potenza sulla vicenda psicologica e affettiva interiore. Dunque il problema romantico del rapporto di storia e invenzione (problema squisitamente goethiana) neppure si pone a proposito del problema dantesco. Così non si pone il problema dell’ortodossia o dell’eterodossia cristiana (e cattolica) di Dante. Che egli abbia collocato hanno in Paradiso Rifeo e Gioacchino da Fiore (e Jenni e Batkin ne hanno tratte illazioni diverse in aree critiche anche assolutamente diverse), che abbia invece gettati nell’abisso infernale tre papi e moltissimi ecclesiastici (i più per cupidigia), che abbia per bocca dell’aquila imperiale dichiarato redimibile «tal che non conosce Cristo» mentre molti che gridano «Cristo! Cristo!» saranno precipitati nell’abisso eterno, che tutto questo Dante abbia detto non rappresenta già la spinta popolare (cioè degli «strati più bassi della popolazione») verso «una decisiva trasformazione della società» e verso «l'instaurazione della giustizia sociale e della fratellanza» (cfr. Batkin, Dante e la società ecc., cit., p. 70), né rappresenta quella vasta area inventiva e quella «teologia rappresentata» di cui ci parla Jenni (Dante e Manzoni cit., p. 101). Certamente «le libertà di Dante non discordano con le dottrine ufficiali e si inseriscono nel sistema cattolico come una mitologia pronta Commedia ad amalgamarsi in esso», certamente «il mondo della Commedia è conchiuso, legato in se stesso, vivente di sue proprie leggi razionali e fantastiche» (ivi, pp. 101-102). Ma la realtà più propria del poema e della cultura «perfetta e circolare» medioevale sta appunto nella lettura del cosmo per segni simbolici, nel senso e nell’atto stesso della lettura che è interpretazione guidata dal vecchio e dal nuovo Testamento, ma non già precostituita, e liberamente proiettabile nella lettura del da vedersi, nell’allegoria. Ritorniamo insomma all’incontro di simbolismo e allegoria e alla libera operazione dell’agers. Di qui, osserva acutamente Jenni, la sicurezza tranquilla del pensiero teologico ed etico di Dante e invece, in opposizione, le incertezze e le perplessità psicologiche (così in Inf. VII, 111, il no e il sì tenzonano nel capo non per un problema di pensiero, ma per il sentimento della paura, e così in Purg. X, 58-60, c’è un conflitto in Dante, ma soltanto fra i sensi dell’udito e della vista). L'ascesa spirituale non comporta, come comporterebbe in un’opera d’arte moderna, romantica e postromantica, il dramma del pensiero pensante, e ha ragione Jenni di scrivere, con parole degne del suo Manzoni, che «il dramma della verità da conquistare man mano vi si distende, ma non ci vibra» (op. cit., p. 106).
Nel De monarchia ancora no, ma nel poema la monarchia universale di Roma (romana anche se sul trono siede un imperatore tedesco) prefigura sulla terra il regno di Dio. Il poema — insiste Erich Auerbach — «si fonda ovunque su una concezione figurale» (cfr. Mimesis cit., p. 212). Catone Uticense, Virgilio e Beatrice apparendo nell’aldilà compiono la loro apparizione sulla terra, là concludono sino alla perfezione (perfezione nel significato medioevale di compiutezza) la loro vita di qui. La personalità terrena è la figura di quella personalità compiuta che si realizza soltanto nell’oltremondo. Infatti i fenomeni terreni sono sempre provvisori, potenziali, chiedono (e non ottengono mai) di essere compiuti, cioè sono figurali: si realizzano nell’aldilà. Auerbach cita qui Etienne Gilson, che a sua volta si rifà a San Tommaso: «une sorte de marge nous tient quelque peu en decà de notre propre définition; aucun de nous ne réalise plénièrement l’essence humaine ni méme la notion complète de sa propre individualité» (cfr. Le thomisme, Paris 1927, p. 300). Così Catone in terra è stato soltanto il tutore della libertà politica, ma ora sulla spiaggia del monte del purgatorio egli, compiendosi, si fa il tutore della libertà spirituale e del riscatto dal peccato. Il simbolismo e l’allegorismo a loro volta si riscattano nel poema dal vizio dell’astrazione, perché l’aldilà, continuando e compiendo la realtà terrena, di questa realtà si riempie, ne trae i segni-simboli e la capacità di questi di risolversi in segni sensibili e sensitivi. Allora accade che l'evento politico si distenda anch’esso lungo un itinerarium ascensionale, saldato a una successione di affermazioni solenni, rituali, e di annunci. Il viaggio di Enea nell’Averno e nei Campi gli altri tutti» (Inf. XVIII, 48-50 e 120-123). In questo e in altri. luoghi del poema il giudice implacabile sa valersi dello «stile plebeo» per giuocare di astuzia e di malizia tanto feroci quanto grottescamente beffarde. Non a torto Jenni parla di «disinvoltura» da parte di Dante, giudice così facile, sicuro e sempre pronto a ciascuno dei suoi molti incontri. Sceglie nei personaggi che vede o che ascolta o con i quali discorre o epigrammeggia una sola virtù o un solo vizio, e in base a questa scelta unilaterale esalta o con- danna, mostra pietà solidale e persuasa o disprezzo iracondo. Tuttavia Dante non giudica mai a capriccio o soltanto per sfogare le sue rabbie e i suoi odii privati, ma giudica in piena tenace coerenza con la sua propria visione etica della vita e degli eventi. Ciascun personaggio è giudicato dentro un’azione «tipica», l’azione cioè che Dante ha scelto per individuarlo e sottoporlo al suo tribunale.
La passione politica, quando è ispirata da una profonda coscienza morale, integra e totale, libera da perplessità ed esita zioni, incapace di transazioni e accomodamenti, è sempre passione attiva. Alla passione attiva si richiamano l’epistole «politiche» di Dante: cinque si direbbe, ma in verità esse sono sei perché anche l’epistola che respinge le condizioni del rimpatrio è d'ispirazione etico-politica come le altre. Tre epistole furono scritte per la venuta di Arrigo VII in Italia. In quella dell’ottobre 1310, indirizzata ai signori e ai popoli d’Italia, l'esaltazione della missione di pace dell’imperatore rientra nel contesto della profezia del Veltro, è dunque implicitamente scritta per così dire ai margini del poema, alla sua gran luce. L’epistola agli scelleratissimi fiorentini, del 31 marzo 1311, ispirata alla Bibbia, profetizza lo sterminio divino che si sarebbe abbattuto sulla città insana empia, se essa avesse persistito nel tenere chiuse le porte della città al messo di Dio, Arrigo. La terza epistola è indirizzata allo stesso imperatore: è del 16 aprile dello stesso anno. Si muova il vendicatore della proterva insania contro la scelleratissima Firenze: perciò le due epistole gravitano su Firenze, costituiscono punto focale di un discorso che in una situazione psicologica più riflessiva e tranquilla Dante e Cacciaguida tengono nel cielo Marte (Par. XV-XVII).
La quarta epistola invita i cardinali italiani a eleggere un p che restituisse il soglio pontificio a Roma: siamo nel 1314, l'indomani della morte di Clemente V, il guasco «pastor sanza legge». Ma l’humana civilitas, operante anche nella lettera di dieci anni prima, scritta al cardinale Niccolò da Prato a nome del «consiglio e dell’università dei Bianchi» (1304), ci riconduce a quel nesso dottrinario e drammatico fra morale e politica che congiunge addirittura il quarto libro del Convivio e il De monarchia al poema. Infine l’epistola all'amico fiorentino del maggio 1315 rifiuta le umilianti formalità cui il poeta avrebbe dovuto sottoporsi per il rimpatrio. L’accento dell’epistola ci riporta di nuovo alla fierezza composta della profezia di Cacciaguida e della risposta di Dante: la «coscienza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca» (Par. XVII, 124-126).
Si potrebbe molto provvisoriamente ipotizzare una commedia astratta, costruita sui simboli di temi idealizzati: come i temi dichiarati da Dante nel Convivio (salus, venus, virtus, cioè armi, amore e virtù) o come le nascoste verità allegoriche a scoprire le quali il poeta invita i propri lettori. Oppure si potrebbe ipotizzare un mero poema enciclopedico didascalico in cui è ordinato ed esposto l’universo cosmologico, fisico, etico e storico. Ma no, l’oggettualità del reale pervade tutto il poema, e, come si è visto, la lettura dei simboli si esercita sul veduto, cioè sulla realtà, e per questa via il poema adombra le ascose verità senza cadere nell’astrattezza, e persino il paradiso comunica se stesso attraverso i suoi linguaggi sensibili (luci, colori, canti, danze e armonie) e «il fiume e li topazii / ch’entrano ed escon, e il rider de l’erbe / son di lor vero umbriferi prefazii (Par. XXX, 76-78). Questa storia dell’espiazione e della redenzione di un uomo è la figurazione della salvezza di tutta l’umanità e anche del suo riscatto in virtù dell’avvento del redentore dei due grandi istituti celesti e terreni, ora gravemente infermi per la corruzione o l’assenza dei loro capi: Chiesa e Impero.
Sappiamo già che cosa intende lo Auerbach quando parla di figura: gli eventi e i personaggi terreni si compiono nell’aldilà, essi in terra sono soltanto le figure (le prefigurazioni) di quello che saranno, totalmente realizzati, nell’aldilà. Non c’è sostanziale. divario nel poema fra la realtà della vita come noi la intendiamo e la realtà delle personificazioni allegoriche, degli animali simbolici, dei riti liturgici tratti dall’antica mitologia, dalla Bibbia, dalle tradizioni iconografiche e dai topoi retorici della primigenia cristianità. Angeli, santi e beati; dei e dee del paganesimo (le Muse, Apollo, Giove); la Fortuna; la Medusa e le Erinni; Pluto e Luci- fero; Caronte, Cerbero e i demòni; i grandi filosofi, poeti ed eroi dell'antichità, raccolti nel Limbo, ma anche proiettati sul monte del purgatorio e nei cieli del paradiso. L’aldilà dunque è percepibile ancor meglio che non sia il mondo terreno: gli abitatori dei tre regni danteschi si trovano in un'esistenza immutabile, e perciò definitiva sul piano esistenziale, rilevata e sensibile sul piano figurativo e stilistico.
Prima ancora dell’Auerbach Hegel aveva scritto una pagina famosa (che lo Auerbach giudica « una delle più belle pagine che mai siano state scritte su Dante »): « Invece di un avvenimento particolare (la Comedia) ha ad oggetto l’agite eterno, il fine ultimo assoluto, l’amore divino nel suo intramontabile accadere e nelle sue sfere inalterabili, e come luogo del suo svolgimento prende l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso ed in questa esistenza immutabile immette il mondo vivente dell’agire e del patire umano, anzi delle gesta e dei destini individuali. Sparisce qui, di fronte alla grandezza assoluta del fine ultimo e della meta di tutte le cose, ogni singolarità di interessi e fini umani; ma al contempo anche quel che nel mondo vivente vi è di più caduco e transitorio se ne sta davanti a noi in modo completamente epico, oggettivamente fondato nel suo intimo, giudicato nel suo valore e disvalore mediante il concetto supremo, Dio... In tal modo il poema abbraccia la totalità della vita più oggettiva: la condizione eterna dell'Inferno, della Purificazione e del Paradiso; e su queste basi indistruttibili si muovono le figure del mondo reale, secondo il loro carattere particolare, o piuttosto si sono mosse, ed ora con il loro agire ed essere sono irrigidite nella giustizia eterna, eterne esse stesse» (Cfr. G. W. F. Hegel, Estetica cit., p. 1462).
L'esistenza immutabile passa dal testo di Hegel a quello di Auerbach: le anime, irrigidite nella giustizia di Dio, si risolvono in un'arte straordinariamente oggettiva, cioè realistica. Ancora: i destini individuali rispecchiano il destino universale dell’umanità, | pongono per l’eternità l’alternativa inevitabile alla quale deve sottostare l’uomo in assoluto, o il trionfo celeste o la dannazione nell’abisso infernale. Di qui anche la perentorietà e autorità dei giudizi, delle sentenze giudiziarie; di qui la certezza delle profezie, che rispecchiano nel futuro, dove le realtà si compiono e conquistano la perfezione, il termine ultimo di quell’evento, di quel personaggio. La distinzione recata dalla teologia medioevale fra «status viae» e «status termini» o «patriae» diviene così stimolo a realizzare nel secondo il primo e a conservare nel secondo i tratti reali del primo.
Concludendo, Dante non viene irretito dallo «schema universalistico» astratto perché la lettura realistica dei simboli, la concretezza della raffigurazione allegorica che ne deriva, il concetto figurale che proietta nell’aldilà le più compiute e veraci realtà terrene, e non per astrarle, ma per meglio concretarle, la passione politica del municipalista (fiorentino) e la passione morale utopistica e profetica, infine lo stile «umile» (che al suo luogo opportuno esamineremo), tutto contribuisce a fare della Commedia uno dei capolavori della tradizione realistica. In questa direzione il salto dalla Vita nuova e dalle poesie stilnovistiche della giovinezza al poema è enorme. Laddove lo stilnovismo dantesco è galateo d’amore borghese tramato su un fitto apparato dottrinario aristotelico-averroista, dietro l’esempio del Cavalcanti, o anche contemplazione e celebrazione d’amore, dietro l’esempio del Guinizzelli, la Commedia è al contrario il poema della realtà, e soltanto per questa via può essere il capolavoro rivoluzionario ch’esso è. Il realismo non sta tanto nei personaggi biechi, plebei del basso inferno e nel loro linguaggio triviale, quanto nella capacità d’interpretare attraverso l’altro mondo e attraverso i simboli e le allegorie anche escatologiche quanto era più possibile della realtà del mondo.
Edoardo Sanguineti ha scritto sul realismo dantesco un saggio molto acuto, anche se qualche punta del suo discorso sembra a volte strafare. «È più realistico quel Bernardo in empireo che questo Caronte in averno», scrive per esempio Sanguineti (in Il realismo di Dante cit., p. 10). Il realismo gergale può essere a suo avviso uno pseudo realismo: le donne, le taverne e i dadi di Cecco Angiolieri sono soltanto «topoi» goliardici, meno realistici della squisitissima fenomenologia amorosa del Cavalcanti . La morte di Beatrice è nel contesto della Vita nova una morte ancora letteraria, un modo di concedere al rito galante della lagrima, come prima, in vita di Beatrice, del sospiro: essa, ovviamente in contesto stilistico diverso, ma tuttavia sempre nei modi letterari (in questo senso, artificiosi), si ripropone nella morte di Laura appresso il Petrarca. Ma nel poema Beatrice si è realizzata pienamente oltre la morte terrena, è divenuta tanto reale che in lei, creatura celeste e maestra di vita eterna a Dante, la vita terrena — il passato — non soltanto si mantiene, ma addirittura si esalta come stato, come condizione che si fa tutt’una cosa con la presente beatitudine. Così i vizi umani, moralmente lievitati, sono condannati in modo che la condanna storica, sociopolitica ed economica, s’integra con la condanna morale, e viceversa. La denuncia della cupidigia coinvolge l’etica della dignità umana quanto l’uomo è una creatura teologica fatta a somiglianza di Dia e l’odio del poeta verso il fiorino scellerato, simbolo dell’affarismo maledetto dei grassi mercanti e banchieri, complici della chi[??] affaristica .
L’osmosi fra i ceti e le persone che stanno o sono rimaste sulla terra e le anime dei morti è così istituzionale nel poema, perfetta che non esistono più un di qua e un di là. Non soltanto, ma la poesia del passato, con la sua sensibilità introversa o diffidente, nasce in area romanza con l’idoleggiamento di Laura morta nel canzoniere del Petrarca: Laura vive eterna nel cielo di Venere, eppure si direbbe che essa appare in sogno al suo amante terreno soltanto perché la memoria di lui si diletti di lei in modi sottilmente edonistici e persino con un lontano simulatissimo risveglio dei sensi. Dante sta a monte della poesia del passato: il suo tempo filosofico e poetico è il presente, perché anche il futuro è realizzato nel presente e a tal punto che le profezie, i giudizi hanno un contenuto assolutamente certo, e nell’aldilà sono pronti i posti che occuperanno alcuni viventi presentemente sulla terra (la fossa infocata dei simoniaci per Bonifacio, il trono per Arrigo VII), e addirittura nella Tolomea incontriamo l’anima del traditore frate Alberigo il cui corpo è ancora lassù sulla terra fra i vivi. Si può concludere con Contini (Varianti e altra linguistica cit., p. 370) che «l’intenzione della Commedia non è volta ad «una vita migliore», ma a un «aldiquà migliore».
Anche questo discorso ci porta da un lato a confermare il nesso poeticamente oltre che concettualmente operante fra la lettura realistica per simboli e l'apparato allegorico, da un altro lato a confermare l’unità narrativa di questo splendido romanzo di viaggio che è il poema di Dante. Ancora: la struttura realistico-figurale del poema fa sì che il personaggio umano, compiendosi nell’aldilà, esalti una sua virtù o un suo vizio, e si definisca quale egli veramente è per l’eterno. Non archetipi, ma termini di itinerari che dall’imperfezione muovono verso la perfezione: Francesca è la condizione della lussuria (perché amorosa), Farinata della passione politica, Pier delle Vigne dell’innocenza conculcata, Ulisse della frode intellettuale (la definizione è di Sanguineti), Ugolino dell’odio folle.
Diremo che la cultura di Dante, sorretta da un tal genio, avrebbe le dimensioni dell’universalità anche senza altri soccorsi. Tuttavia Dante è anche universale perché la sua cultura, chiusa e perfetta entro la sua circolarità, gli attraversamenti e le congiunzioni delle sue componenti, le sue interne osmosi e analogie, partecipa, come scriveva lo Eliot, alla mente unitaria d’Europa e scrive nella lingua romanza che con la sua matrice latina domina le comunicazioni culturali europee. Ovviamente la cultura di Dante non è sempre logicamente costruita e saldata e molto spazio tengono le auctoritates. Contini fa osservare che lungo tutto il poema Dante è affidato al patronato di autorevolissime guide, e quindi, già per questo, il poeta-personaggio opera in un quadro eteronomo, fuori del suo controllo razionale (cfr. Varianti e altra linguistica cit., p. 340). E insomma «l'armatura prefabbricata della conoscenza medievale lascia frequenti lacune di adattamento; e l’effettuale insorgenza, vorrei dire biologica, dell’istinto ripristina simmetrie e rapporti a cui magari la giustificazione teorica si piega imperfettamente».
Dante accoglie acriticamente molte tradizioni e istituzioni del suo tempo, e così accoglie la figura leggendaria e popolare di Virgilio. Si tenga presente che il poeta «augusteo» aveva costituito al mito dell’antica Roma contadina e municipale l’ideologia della missione universale dell'impero romano, voluta dagli dèi e ordinata al fine della pax romana. L’Eneide s’integrava così nell'impero di Roma. Ma poi, dietro la spinta della fecondissima istituzione allegorica medioevale, si procedette a incrociare la tradizione imperiale con la profezia, contenuta allegoricamente — si diceva — nella quarta egloga virgiliana, dell’imminente venuta di Cristo.
Poeta romano e precristiano, Virgilio acquisì nella cultura romanza la vasta indiscussa fama di essere anche un saggio misterioso e un esoterico veggente dell’oltre mondo perché aveva narrato la discesa di Enea agli Inferi. Alla fine lo si ritenne profeta di Cristo: il cantore dell’età augustea aveva cantato la pienezza dei tempi che vedevano il mondo pacificato da Augusto e assistevano alla missione di Cristo predicante in quella piccola e periferica provincia imperiale che era la Galilea. Dante erige alcuni pilastri reggenti la grande impalcatura del suo poema proprio su Virgilio: i primi due canti dell’Inferzo sono dominati dall’apparizione, dalla missione e dall’eloquenza del poeta latino che persuade Dante ad affrontare il grande viaggio, e in quanto al Purgatorio i canti sesto e ventiduesimo esaltano Virgilio il poeta civile e il profeta di Cristo, e il canto ventisettesimo, nella sua conclusione, sigilla con il suo solenne congedo la missione del duca, del signore e del maestro.
Virgilio non fu tuttavia soltanto un maestro che si era collocato all’incrocio delle due tradizioni, la classica e la cristiana. Fu anche un maestro di stile. Fu lui a far respingere allo scolaro cristiano e neolatino l’artificio stilnovistico e a insegnargli la semplicità, quella virtù cioè che è la sola poeticamente genuina. Da Virgilio apprende l’integrazione della sapienza nella poesia e viceversa, e ancora da Virgilio apprende la realtà della natura e degli affetti (si pensi ai paesaggi mediterranei e laziali dell’Eneide, e a quel romanzo d’amore tutto affettuoso e perciò reale che è la vicenda di Didone nel quarto libro del poema). Del resto Virgilio s’integra perfettamente nell’apparato allegorico del poema. Dell’alone leggendario medioevale non gli sono rimasti i poterti magici, taumaturgici, ma piuttosto gli è rimasta quell’alta dignità di sapiente e di poeta per cui è investito di una missione divina, quella di guidare l’uomo nella fase espiatoria dell’itinerario alla salvezza. Il potere di guidare Dante sino al paradiso terrestre, la conoscenza della strada, il soccorso degli angeli, ove sia necessario, tutto gli viene da Dio affinché egli possa contribuire al processo della redenzione cristiana. Insomma, per richiamarci al senso figurale di cui parla lo Auerbach, diremo che la figura del Virgilio terreno si compie e si fa perfetta nell’oltremondo dantesco.
Gli altri poeti latini che «attraversano» Dante sono Ovidio, Lucano, Stazio (qualche luogo dantesco coinvolgerebbe anche la presenza, sia pure marginale, di Orazio, di Giovenale e di Claudiano). Le Metamorfosi ovidiane costituivano per Dante e i di lui contemporanei una cosmogonia che si adattava al platonismo. Offrivano inoltre i ricchi spunti di una favolosa mitologia, utilizzabili per esempio nel contesto delle similitudini o per comunicare stati d’animo accesi da grandi passioni o sorpresi da un evento inaspettato, e un ricco repertorio onomastico. I due poemi di Stazio, l’Achilleide e la Tebaide, e quello di Lucano, la Farsalia, ebbero in area romanza la popolarità che ebbero i poemi di re Artù. Il poema di Lucano offerse oltre alle immagini di paesaggio, soprattutto a quelle del deserto, qualche spunto (forse) al personaggio di Catone in quanto eroe che si consacra alla patria («componite mentes / ad magnum virtutis opus summosque labores» e così via). In quanto alla Tebaide, essa e l’Eneide costituiscono — scrive Raimondi — «una sottintesa partitura d’accompagnamento, una voce di fondo capace di nuove analogie tematiche» (Metafora e storia cit., p. 104). Ovviamente s'incontrano poi nel poema riferimenti a figure mitiche che possono essere giunte a Dante e in generale alla cultura romanza attraverso tradizioni complesse: per esempio la figura della vergine Astrea, dea della giustizia, che attraversò la tradizione della poesia greca (fu soprattutto cantata da Arato nei suoi Fenomeni), approdò poi in quella latina nelle Metamorfosi ovidiane (Astrea lascia la terra dopo che gli uomini, sopraggiunta l’età del ferro, si corruppero profondamente, in Met. I, 149-150) e finalmente nella prosa di Lattanzio, cioè in un trattato sulla giustizia, dove è citato Arato. La giustizia però che appare nel testo della Commedia (Purg. XXII, 71) si trova nel contesto della famosa profezia virgiliana (Ecl. IV, 6): «iam redit et Virgo», che Dante traduce semplicemente con «torna giustizia». Ma, secondo Singleton, la tradizione pagana della giustizia deificata si trasferisce nella variante cristiana, in Matelda, il personaggio cioè che presiede al paradiso terrestre.
Il mondo antico — ha osservato Ernst Robert Curtius nel grande libro Europaische Literatur und lateinisches Mittelalter cit., — si realizza attivamente nella cultura romanza attraverso le codificazioni, gli apparati, i repertori, i lessici e le epitomi propri della cultura latina medioevale; e lo stesso Curtius avanza con fortissime probabilità l’ipotesi che Dante conoscesse, fra i testi latini medioevali, l’Anticlaudianus di Alain de Lille (e cfr. ora i riferimenti al testo di Alano suggeriti da Raimondi in Metafora e storia cit., pp. 50, 52, 59, 72, 99, 112, 115, 118, 140). E proprio l'apparato sistematico, la codificazione e gli exempla della cultura e della poesia pagane sono utilissimi strumenti per inserire quella cultura e quella poesia nell’organizzazione gerarchica dell'universo cristiano. Saldo alle due letture totalmente cristiane, cioè alla lettura del veduto per simboli (l’interpretazione della natura) e alla lettura del da vedersi nelle allegorie (l’interpretazione della Bibbia), Dante può ormai in perfetta ortodossia valersi della cultura pagana e della patristica o della scolastica in piena libertà, avvalendosene e proprio nel senso da lui voluto, o confutando e respingendo. Può per esempio dichiararsi non consenziente con la teoria agostiniana della storia o respingere certo dottrinarismo dogmatico scolastico, o come ovviamente ha ripudiato gli dèi falsi e bugiardi del paganesimo. Può invece accogliere la figura tardolatina del Virgilio saggio e profeta precristiano o larghe aree platoniche e neoplatoniche nelle versioni dei mistici della Chiesa, da San Bonaventura ai due di San Vittore. Ezra Pound così sintetizza i prece- denti poetici di Dante (Pound è un poeta, e perciò egli non ha interesse alcuno per le «poetrie» e le poetiche in sede teorica): la poesia stilnovistica, san Francesco, Riccardo di San Vittore, la tecnica ritmica appresa da Arnaut Daniel, dal Guinizzelli e dal Cavalcanti, il realismo della lingua parlata appreso da Ru- stico di Filippo. Nella unilateralità, il brevissimo elenco poundiano punta le sue carte con una certa sagacia sugli «istituzionalisti», cioè sui codificatori in rapporto con la latinità romanza (salvo ovviamente il cantico francescano e la poesia aperta, sperimentale di Guido Cavalcanti) e sui mistici, a spiegare quelle che il Momigliano definiva «melopee inebrianti». Ovviamente alle spalle di Dante gli inventori sono pochi, moltissimi i grammatici del gusto e dei «topoi retorici». Le fonti vive della poesia sono proiettate all’indietro di secoli, sono rappresentate dai maestri classici della latinità (e da quelli greci, attraverso la mediazione latina, nel campo della poesia, come, nel campo della filosofia, i mediatori del pensiero greco sono stati soprattutto gli arabi fino alla piena maturità della scolastica).
La lezione dei classici si articola e si definisce nelle sentenze, tutte da citarsi e da ricordarsi, dopo averle mandate a mente. «Classico — scrive Contini in Varianti e altra linguistica, p. 374 — è ciò da cui, almeno in un’eletta cerchia di utenti, si possono estrarre parole immodificabili, trovandole verificate nella propria, pur inedita, esperienza». Infatti i classici offrono stilemi resecabili dal loro contesto: noi stessi (e gli esempi sono recati da Contini) citiamo ancora locuzioni virgiliane quali «amica silentia lunae» e «maioresque cadunt altis de montibus umbrae» in virtù della loro affinata sensibilità «romantica». Tanto più nell’età dei cantieri poetici nei quali i bei modi retorici erano stati posti ordinatamente per essere cavati e fatti propri secondo esatte tipologie retoriche.
I «topoi» retorici ci aiutano anche a verificare la presenza capillare e continua dei due Testamenti nel poema. Può accade che ha nel linguaggio dantesco significhi suono di guerra e si accompagni a una visione di esercito (si parla dell’esercito imperiale di Cesare che si volge in occidente, «ove sentia la pompeiana tuba», cioè le trombe dell’esercito nemico di Pompeo) o che serva come mero strumento retorico (in «ch’om non s’accorge / perché dintorno suonin mille tube», per indicare un suono assai forte). Più spesso, anche nella variante #romba, la parola si richiama al giorno del giudizio universale: come quando il poeta denuncia i simoniaci che guastano le cose di Dio e vede incombere su di loro il giudizio universale, cioè in metafora il suono della tromba, o come quando afferma di lasciare il racconto a un bando maggiore della sua tuba, o quando definisce senz'altro «suon de l’angelica tromba» il suono dell’angelo giudice o quando annuncia «l’alto preconio che grida l’arcano / di qui là giù sovra ogni altro bando» .
È chiaro che in questi ultimi esempi tuba, tromba, preconio e bando sono parole di derivazione biblica, cui si affiancano altre molte variazioni, come la voce tua e tuo grido nell'ultimo discorso di Cacciaguida al discendente (Par. XVII, 130 e 133). E infatti «audivi... vocem magnam tamquam / tubae, dicentis...» (Apocalisse), «cum insonuerit vox tubae» in Giosuè, «audite vocem tubae» in Geremia, «clangorem tubae audietis» in Isaia, «mittit angelos suos cum tuba et voce magna» in Matteo, sino alla «vox clamantis in deserto» di Isaia, Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Il passaggio poi della parola tub4 dall’area classico- biblica (la fusione delle due tradizioni è già avvenuta) nel linguaggio mediolatino è confermato da Alain de Lille, poeta del secolo XII con la locuzione «aristothelica tuba proclamat». Ovviamente non soltanto Dante conosceva i testi dei due Testamenti, ma addirittura i libri sacri costituivano un patrimonio culturale comune, istituzionale, e in quanto ai testi classici si può credere con qualche ragione che Dante conoscesse i testi virgiliani e ovidiani, i poemi di Lucano e di Stazio, oltre ai Carmina e all’Ars poetica di Orazio, ma che i testi di Claudiano e di Marziale, nei quali si trova la parola tuba, gli pervenissero attraverso la mediazione della cultura poetica mediolatina. I significati di canto epico e di profezia ci portano agevolmente alle parole scriba e dittatore, comuni in area biblica, nella retorica mediolatina e nel poema di Dante.
Nel De monarchia si legge «scriba Christi» per indicare l’evangelista Luca e nello stesso trattato si legge «scriba egregius» per indicare invece un pagano, Tito Livio. Ancora più interessante questa sentenza tratta sempre dal De monarchia: «Nam quamquam scribe divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus» (perché se molti sono gli scrittori del sermone divino, uno solo ne è il dittatore, Dio) (cfr. Mon., III, IV). E tutti i lettori hanno fresca memoria della celebre terzina: «E io a lui: I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV, 52-54). Cantore viene invece da canere, e siamo in area classica latina. Cantare, scrivere, scriba e dictatore (colui che detta), notare e significare sono dunque parole che provengono dalle due tradizioni testuali, la classico-pagana e la biblico-cristiana, attraversandosi agevolmente l’un l’altra. Ad autorizzare questo incontro interviene il saldo e universale concetto, tipicamente medioevale, che il mondo antico prefigurò la «buona novella», così come l’impero pagano di Roma fu voluto provvidenzialmente da Dio perché vi si potesse sviluppare e diffondere il seme cristiano. Il Dante parzialmente tomista seguiva il suo maestro nel ritenere necessario alla cultura cristiana l’inglobamento del sistema aristotelico, cui poi il Dante poeta aggiungeva come necessaria la lezione dei grandi poeti della latinità. In questo senso Dante, produttore di auctoritates, è anche il destinatario e l’usufruitore a un tempo di altrettante auctorifates tradizionali; e insomma riceve e trasmette i segni delle due letture dell’uomo, quella della Bibbia e quella della natura. Si trattava di segni esemplari, di esempi, e per quanto essi possano apparire slegati e autonomi, ciascuno per se stesso, in verità essi si organizzano puntualmente in un compatto, chiuso e compiuto sistema spirituale.
Del resto — lo ripeteremo ancora a proposito dei topoi retorici nel capitolo dedicato allo stile — la cultura medioevale è una cultura di citazioni, e Dante traeva molte locuzioni, che apparentemente risalgono a poeti probabilmente da lui non conosciuti quali Ennio, Properzio, Marziale, Claudiano, Giovenale, dai testi della letteratura mediolatina, dai trattati di retorica e dalle raccolte di sentenze famose, quale la celeberrima raccolta di Isidoro di Siviglia, intitolata Etymologiae. Appunto a giudizio del Curtius (si cfr. Europaische Literatur und lateinisches Mittelalter cit.) i «topoi» danteschi sono per lo più collegati a un’ascendenza vicina, alla letteratura latina medioevale, e a questo proposito ne esamina alcuni, giovandosi di strumenti filologici assai affinati. È fin troppo evidente richiamati ai prologhi delle tre cantiche, ai personaggi, alle sentenze, alle similitudini intessute di evidenti ed energiche risonanze classiche e di presenze biblico-cristiane. Certe immagini di Dante sono strati ficate e tessono intorno a loro una trama di analogie e di concordanze biblico-classiche di eccezionale ricchezza. Basti pensare a un personaggio che abbiamo già incontrato, a Catone. Come gli altri pagani assunti in cielo, come le anime degli infedeli redenti (così annuncia l’aquila nel decimonono canto del Paradiso), Catone è un predestinato, e più volte Dante lo elogia nel Convivio e nel De monarchia, e addirittura gli sembra il «più degno... di significare Iddio» (Con. IV, XXVIII). E ne cita le parole, tratte dalla Farsalia («Tuppiter est quodcumque vides, quocumque moveris») nell’Epistola a Cangrande: è la sola testimonianza pagana sull’universalità del «lumen divinum» (messa accanto, osserva Raimondi in Metafora e storia, p. 80, alle rivelazioni di Geremia e a quelle dell’Ecclesiaste). Così i personaggi storici, anche pagani, sono pure serviti, quali «utensilia Dei», al realizzarsi del piano provvidenziale nella cosiddetta «storia». Così, in altro modo, Matelda nel paradiso terrestre congiunge l’antica visione di un’ancor più antica età dell’oro, favoleggiata dai poeti pagani, e in primis, da Virgilio, e la realtà «rivelata» dell’Eden, cioè lo stato di felicità perché in grazia di Dio o, guardando al poema, forse lo stato di giustizia (se Matelda significa Virgo, ossia la giustizia).
[...]
La realtà, quella che Contini definisce la storicità del poema, è rappresentata in fitte trame pluralistiche e realistiche, collegate alle realtà dei diversi affetti e alle realtà dell’intelletto, e dunque a un tempo letterali e simboliche, al varco sempre potenzialmente vicino ed aperto all’allegoria. Realtà di cose, di fatti, di paesaggi, enunciate, descritte, un gradino appena sotto il livello lirico, serrate a catena ma non premute e affoltite, varietà ordinata e organizzata. L’oltremondo coinvolge la terra: il poeta rappresenta veramente tutto l’universo a immagine di Dio. Il ritmo che muove tanta materia è mirabile, è un ritmo consapevole del suo ufficio, si dispone persino secondo le leggi dell’aritmetica e della geometria, come osserva Jenni. I fatti meteorologici (neve, brina, vicende delle stagioni e delle giornate), i fatti biologici (il folto bestiario di Dante) e i paesaggi raffigurano una cornice rurale, osserva Contini, che ogni tanto lascia varco a raffigurazioni cittadine.
Ci sono scene di natura assai efficaci: per citarne due soltanto, la scena estiva della «vallea» luminosa di lucciole vista dal villano che «al poggio si riposa», in estate, nell’ora che «la mosca cede a la zanzara» (Inf. XXVI, 25-30), o lo spettacolo del pascolo, prima delle capre già rapide e proterve, ora manse e tacite all'ombra «mentre che il sol ferve», poi del peculio che quieto pernotta (Purg. XXVII, 76-84). E ricordiamo tre scorci cittadini nel canto XXXI, cioè la cerchia turrita di Montereggioni, la pina di San Pietro a Roma e la torre della Garisenda a Bologna (vv. 40-41, 58-59, 135), o la scena suggestivamente visiva delle fiamme che si rispondono sulle torri della città di Dite (Inf. XIII, 1-6), o l'ampio quadro dell’arsenale dei veneziani in inverno con quel bollire acre e greve della pece tenace, dove si riparano le navi ferite (Inf. XXI, 7-18). Tuttavia queste immagini così reali e verisimili (al punto che si pensa che siano state vedute dal poeta) non possono stare indipendenti dal contesto simbolico: raffigurazioni evidenti, esatte, ma bisognose di rapporti, sia dello stato spirituale verso la cosa, sia delle cose verso lo stato spirituale. Di qui il giro ampio della similitudine con la forza maestosa e tranquilla del lungo periodo ritmico, di qui il facile tra- passo dalla forma della similitudine a quella della parafrasi, essendo questa ultima una similitudine tramata e distesa di dipendenti incidentali.
Sulle similitudini dantesche si è formata tutta una letteratura, né sono mancati i repertori, le antologie di questi affascinanti intrecci di stilemi. E se ne possono tracciare diversi tipi: la similitudine in passaggio, lieve e rapida, come l’immagine del papiro che imbruna un attimo prima che la fiamma lo arda, «che non è nero ancora e il bianco more » (Inf. XXV, 64-66); la similitudine costruita (mentre la precedente si regge sul cozze, questa seconda si articola come un dittico sul quale... tale, come... così), e si potrebbero qui ricordare i fossi che cingono i castelli cui si paragonano le dieci valli di Malebolge (Inf. XVIII, 7-18) o la già incontrata similitudine della pece della quinta bolgia con la pece nell’arsenale di Venezia, o la grande similitudine che in quattro terzine rappresenta il liquefarsi della neve già rappresa per gelo nelle foreste appenniniche e lo sciogliersi del gelo ristretto intorno al cuore di Dante ai rimproveri di Beatrice (Purg. XXX, 85-96).
Il primo tipo di similitudine è verticale, gravita sul secondo termine di paragone, il secondo tipo è orizzontale, istituisce un parallelo fra due termini posti sullo stesso piano. Poi ci sono le similitudini storiche, ambientali, naturali, e le similitudini che gravitano sui termini di paragone e quelle che tendono a spaziare: si confronti la struttura della similitudine tipica con le parafrasi che costruiscono quasi senza soluzione di continuità il discorso di San Tommaso su San Francesco (Par. XI, 28-75). Ecco infatti una serie di comparazioni implicite: la Chiesa è come la sposa di Cristo, i santi Domenico e Francesco sono come due prìncipi eletti dalla Provvidenza in favore della Chiesa, e il primo dei due è come uno splendore di cherubica luce e il secondo come un ardore serafico, san Francesco è come il Sole nato a riscaldare la terra, Assisi è come l’Oriente, ancora san Francesco è come lo sposo della Povertà. Queste comparazioni si contraggono analogicamente (« L’un fu tutto serafico in ardore / l’altro per sapienza in terra fue / di cherubica luce uno spendore»), mentre si tesse l'ampia rete delle incidentali («La provedenza, che governa il mondo » ecc. « però che andasse » ecc. «in sè sicura e anche a lui più fida») e la maestosa parafrasi per cui si individua Assisi par- tendo di molto lontano, dal corso dei due fiumi umbri Tupino e Chiascio, e disegnando una vasta area dell'Appennino umbro, finché Assisi e Oriente tracciano due linee d’intesa pregnanza metaforica che si congiungono appunto in virtù di analogia («nacque al mondo un Sole», «Non era ancor molto lontan da l’orto»).
La realtà, osserva Contini, «è esatta ma subalterna, incidentale, eteronoma», cioè entra in rapporto strumentale con le realtà simbolica e allegorica (le più vere realtà). La rappresentazione sensibile delle cose è inesauribile, ma sempre essa confluisce nel «sovrasenso». E poiché il sovrasenso è verità rivelata e sicura, la realtà sensibile non conosce perplessità o sfumature o morbidezze, ma è incisa, rapida, ferma. I molti luoghi geografici, italiani, francesi, fiamminghi, oltre a quelli mediterranei e africani tratti dal serbatoio greco-romano, sono così ravvicinati in sede descrittiva da rasentare la puntualità della cronaca di viaggio. I miti, tratti per lo più da Ovidio, sono altrettanti strumenti raffigurativi, si propongono l’evidenza dei retori latini o l’energheia. dei retori greci, ma appunto possono integrarsi nel Vecchio e nel Nuovo Testamento perché ne sono strumentalizzati così facilmente. Nello stesso modo sono strumentalizzate le sentenze proprie e altrui. Perciò in un contesto così ricco di traslati e di corrispondenze, e in un chiuso sistema di dottrine perfette, compiute, anche i cataloghi, gli elenchi di cose rivelano l’intensità di altrettanti segni simbolici (mentre nella poesia del Petrarca l'elenco è melodia prolungata per accumulo e crescendo di fonemi ritmici). Oppure il nome della persona, del luogo, sono coinvolti dalla polemica, dalla denuncia («Venedico sei tu Caccianimico», «e sei Alessio Interminei da Lucca», «son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana», «sappi ch'io fui il Camicion de’ Pazzi», «del villan d’Aguglion, di quel da Signa», «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura»). «L’indistinzione di esperienza e cultura — continua Contini — ha una manifestazione vistosissima nell’equiparazione delle persone storiche, tutte chiamate, nella coscienza davanti a cui si rap- presenta lo «status animarum post mortem», alla contemporaneità, e perciò non graduate da prospettiva» (Varianti e altra linguistica cit., p. 396). Tuttavia questa esemplarità dei personaggi tratti dalla storia ma liberati dai vincoli del tempo è anche e soprattutto giustificata dalla lettura simbolica della realtà umana. In questa direzione esemplare si giustifica anche l’elenco dei nomi che nel poema non è mai o quasi mai una semplice rassegna e si giustifica l'accostamento così astorico, così sincronico di personaggi classici e romanzi, di personaggi pagani e cristiani, così tanti non soltanto nell’Inferzo, il che è ovvio, ma anche nel Paradiso.