Dati bibliografici
Autore: Gianni Grana
Tratto da: L'Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca
Numero: 1
Anno: 1962
Pagine: 51-58
Il tempo in cui il Croce polemicamente separava nella Commedia i momenti di «poesia» come lirica dal «romanzo teologico», sembra ormai lontano. Scaduta nell'uso la nozione e la dizione stessa di «struttura», almeno nel senso più rigido della proposta crociana come «schema» e «architettura» precostituita, come storia o preistoria esterna della poesia, oggi più nessuno, credo, si sentirebbe di sostenere con così strenua decisione tali astratte distinzioni, nemmeno per artificio didascalico. Si direbbe che la lezione del Croce, oltre e malgrado le restrizioni crociane, del resto corrette e attenuate nel tempo, sia valsa proprio, per evoluzione e reazione, a guadagnare spazio e respiro alla poesia della Commedia, a riassumere anche l'organismo «romanzesco», etico-teologico-politico, nell'empito di un'epica mondana trascesa in ardita teodicea, nella storia interna di una poesia, restituita all'unità salda e all'Ideale coerenza della coscienza morale e artistica del Poeta.
La critica contemporanea avanza semmai altre e più concrete definizioni, meglio aderenti a una fertile e strenua dialettica interiore, mirando piuttosto a cogliere, in una genesi storica e psicologica complessa, i lineamenti armonici della sintesi creativa di Dante. Non sembrerà perciò ardito assodare poesia e teologia in un poema che si dice «sacro», per un tentativo di esegesi unitaria come quella che ci pare voglia proporre Giovanni Fallani in due recenti volumi, dedicati rispettivamente all'Inferno e al Purgatorio, e cui è logico supporre debba seguire un terzo per il Paradiso (Poesia e teologia nella Divina Commedia, voll. I e II, Milano, Marzorati, 1959-1961). Ci piace anzi vedere nell'iscrizione stessa del titolo, oltre che un suggerimento generico del contenuto dei volumi, un'intenzione programmatica e di sottintesa polemica. Alcune affermazioni esplicite, di indole teorica e in certo senso metodica, ci autorizzano a farlo. Il «Ritratto di Dante teologo», che apre la raccolta, ci richiama significativamente nell'esordio alle recise avvertenze del Boccaccio nel Commento della D. C.: «Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più che la teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio». L'equivalenza, se tale, non vuole essere evidentemente una indicazione di Poetica neppure per Dante, quand'anche si invalidi, o sii limiti, il valore pedagogico assoluto della pretesa fictio rethorico dantesca nell’esperienza poetica della Commedia. Ma il necessario aggancio storico illumina, più che un'arcaica idea dell'arte, un sentimento- delle cose e dell'uomo inscritti in un'economia sovrannaturale, che ha fecondato l'atto poetico di Dante, atto d'«amore» e di libertà interiore mosso dall'«unico» dittatore divino. È l'arduo paradigma di una reductio artium ad theologiam, già enunziato e teorizzato da Bonaventura, cui il Fallani accenna notando appena «l'orientamento della cultura antica e dell'umanesimo alla scienza o notizia delle cose divine», per concludere che «la Commedia compì l’aspirazione della «reductio» essendo un documento delle arti liberali e della teologia» (pp. 20-1). L'implicita coincidenza se non identificazione in Dante del poeta e teologo è il motivo-guida di queste escursioni nella tematica morale e religiosa della Commedia. Non già che egli riproponga il falso apprezzamento coevo di un theologus Dantes nullius dogmatis expers, sebbene vi si rifaccia nelle conclusioni; piuttosto si ricollega storicamente, e pur senza proposito, all'idea vichiana resa fertile nella critica dantesca del Foscolo, di un Dante poeta teologo tra i sommi delle età prime, alle origini della letteratura «quando ella emanava dalla divinazione e dall’allegoria». Che la Commedia sia insieme «un documento delle arti liberarli e della teologia» può essere rilievo troppo generico o troppo esterno, che si rifà alle fonti scolastiche di un’arte intesa in fondo dalla storia del gusto e dell’esperienza poetica di Dante.
Non dice ancora quanto profondamente penetri nelle fibre spirituali attraverso la cultura e la fede, quanto giovi a costituirsi in nucleo di poetica, quanto valga a formare e determinare i movimenti segreti di una coscienza, i nicchi fermenti di una sensibilità e di un travaglio artistico, nell’affannoso progresso di una poesia che risalendo dalle tenebre verso la mistica della luce e le alte geometrie cosmiche, va a smarrirsi presso un termine puntiforme, vertice e baleno di un'amorosa intuizione fantastica. Il «ritratto di Dante teologo», disegnato dal Fallani con sagace visione unitaria, da cui esula però un organico tentativo di storicizzazione dell'esperienza, e una illuminazione psicologica più intensa e draammatica, in questo senso rimane in parte irrisolto. I dati dell'itinerario ideologico e «teologico» e sia pure di un itinerarium mentis ad Deum, dalla filosofia alla teologia, i materiali della biografia culturale di Dante, hanno ,a volte il sopravvento sul tracciato di un faticoso e mosso accrescimento interiore, morale ideale e tecnico.
Bisogna precisare però il carattere di questi esili volumi Il grosso di queste pagine comprende alcune lezioni tenute dall'autore alla Pontificia Università del Laterano, per un uditorio di ecclesiastici quindi. Le altre sono lezioni tenute in varie altre sedi (quella sul tema «Liturgia e preghiera nel Purgatorio dantesco», all'Istituto Storico Artistico Orvietano, quella su «Sapienza e poesia nel Purg. dant.», nel Seminario di studi Danteschi di Terra di Lavoro, al Pa1azzo reale di Caserta; una lettura sul canto dei simoniaci per la Casa di Dante in Roma); e alcune note erudite apparse qua e là su riviste letterarie («Dentro Siratti». Il paragone della lebbra di Costantino; Di alcune chiese e personaggi danteschi in Lucca, Pistoia, Fano).
Il Fallani stesso, che tra l'altro è autore di varie letture dantesche e responsabile della «Lectura Dantis Romana» edita dalla S.E.I., sembra tenga a sottolineare il carattere di «lezione», quindi sintetico e divulgativo, della maggior parte di questi succinti capitoli, ai quali dunque non è lecito chiedere quanto non pretendono di offrire. I limiti di sviluppo sono talora avvertibili in una materia straripante e irta di questioni e problemi critici come questa, vero campo minato per chiunque si cimenti in un lavoro sintetico di largo raggio visuale. Avvedutamente il Fallani, senza affatto presumere di esaurirla in un'avara e schematica introduzione alla Divina Commedia, anche delle poche diremmo «classiche» tuttora correnti, delimita l'ambito di interesse ad alcuni temi centrali. Temi enormi ugualmente, beninteso; e basta scorrere l'indice di volumi per rendersene conto, Oltre ai già citati, leggiamo: «Allegoria della Prima Cantica», «La storia precristiana», «Virgilio e la pietas», «L'itinerario morale», «Lucifero», «Dottrina e poesia», per il primo volume; «La purificazione», «Il corpo e l'anima», «La natura dell'amore», «La struttura morale», «La mirabile visione», «La Chiesa e l'Impero», «Sapienza e poesia», per il secondo.
Temi evidentemente non esaudibili, anche solo per un impegno più modesto d'informazione (e il Fallani non si risolve a tanto) nelle agili linee di queste pagine compendiose, con una certa inclinazione al saggio letterario. Ma l'autore si muove con perizia e conoscenza nella gran selva, accennando discretamente a soluzioni personali, e in genere toccando con vigilante sicurezza argomenti anche gravi e contrastati, guidato da un cauteloso equilibrio e bon sens, che nell'incontro con temi più sentiti e stimolanti può anche assumere un'efficace incisività. Con un cospicuo bagaglio di letture critiche e un aggiornamento non comune su questioni anche particolari, specie in materia teologica, chiede sostegno alle risultanze di indagini altrui, alle quali debitamente rinvia con spessa annotazione bibliografica, specie nel I volume. Talvolta forse dà per risolti (o aggira abilmente) problemi ancora aperti o contesi, e aderisce senza discussione a tesi e indirizzi che non sempre godettero di buoni suffragi. Tanto per fare esempi, dal II volume, gratifica sic ei simpliciter di prodigalità, facendo sua la tesi discutibile del Rajna (p. 65), Ugo Capeto, fiero capostipite di una stirpe avara quasi per antonomasia. Definisce intuizione di «capitale rilievo» il controverso pareggiamento della donatio Costantini al peccato originale, sostenuto dal Pietrobono (p. 78). Ritiene l'umanesimo di Dante «largamente rilevato», fra i critici moderni, nelle brevi e sommarie pagine del Toffanin (p. 107), piuttosto che nella distesa e pur discussa trattazione del Renaudet. E a proposito dell'ordinamento morale del Purgatorio e delle sue fonti, ripete con le sue parole stesse, senza pronunziarvisi, le conclusioni persuasive ma non per tutti pacifiche del Busnelli, su un argomento non certo dilaniato come l'ordinamento dell'Inferno, ma discusso tuttavia, nelle sue basi dottrinali, e in rapporto, di identità o autonomia, con la struttura della prima cantica.
Sia nel ritratto del teologo, a proposito della formazione mentale e culturale di Dante, sia nei capitoli sulle allegorie della prima Cantica e sulla «mirabile visione», ci sembra sorvoli o non si soffermi convenientemente sulle discusse «fasi» del pensiero dantesco, e sul così detto «traviamento» morale e intellettuale di Dante. Quella che lui stesso chiama «ila polemica interna che travagliava l'anima di Dante» (II, p. 71) egli preferisce di massima considerare «trascorsa», momento concluso di un'esperienza risolta e semplificata. E quindi la sofferta cesura tra i «due tempi» della Vita Nuova e del Convivio è superata in labili accenti di accordo e continuità, e i trattati del Convivio assumono obiettivo rilievo per un complesso di temi dottrinali segnalati come un «antefatto della Commedia» (I, p. 15). Così pure l'incontro di Forese nel Purgatorio, quasi destituito di risonanza biografica e morale, pare richiami solo la gradita «voce dell'amicizia» (II, p. 67).
Di conseguenza, la «caduta» e il riscatto dell'uomo-Dante, che la scenografia oltremondana della Commedia solleva a emblema di una condizione umana universale, oltre ad essere limitato a una indeterminata deviazione intellettuale (II, p. 77), mi pare perda nelle pagine del Fallani l'alta dismisura drammatica che isola dà significato e valore al solenne rituale del giudizio e del lavacro nel Paradiso Terrestre.
Questi e analoghi rilievi, anche un po' minuti se si vuole, emergono da un'osservazione interna, problematica e critica. Ma, data la natura sintetica di questi scritti, l'interesse supera di necessità il particolarismo di una problematica serrata e di indagini laboriose, i cui esiti spesso sono, presupposti, in un discorso che tende ad assumere movenze più larghe e libere, quantunque attento a un controllo critico per lo più rigoroso. Molte questioni critiche vengono perciò eluse, e in fondo non fermano l'attenzione del Fallani, come può vedersi appunto nel capitolo che pure è intitolato «La struttura morale», tutto tramato di accenni eruditi e lievi notazioni psicologiche. E pare darcene egli stesso una valida ragione, quando conclude che l'ordinamento morale della seconda cantica [ma perché solo quello della seconda cantica?] non è un problema formalistico, un programma provvisorio: esso scaturisce dalla mente rigidamente ossequiente alla dottrina dogmatica, e a un tempo dalla fantasia che sa dare al monumento teologico ii calore dell’esperienza vissuta, nel realismo dei fatti e delle meditazioni, per l'unità della cultura e della vita spirituale» (II, p. 69).
Non può evitare invece un intervento nelle stringenti dispute sull'ordinamento dell’Inferno, anche per dare, com'egli dice, una sorta di «inventario dei testi danteschi per la distribuzione delle colpe nella città di Dite», secondo la critica più recente (I, p. 65). Ma più che addentrarsi nell'intrico delle ipotesi, per un riesame generale e un contributo alla soluzione, ne espone quasi lapidariamente i termini, riferendo alcune tesi principali, con preminente interesse informativo e una misurata pronuncia personale. Infatti, le formule quasi tipiche che egli registra sono l'ipotesi sofisticata d'origine pascoliana del Pietrobono, che estendeva all'Inferno con studiosa e minuziosa simmetria la classificazione ecclesiastica dei vizi capitali, e la tesi aristotelico-tomistica del Busnelli, alla quale sembra accedere il Fallani. Tra lo schema aristotelico, quello ecclesiastico e quello composito, variamente sostenuti dai critici, ragionevolmente riconosce «fondamentale» per l'intero sistema infernale il primo, ossia la triplice distinzione dei mali abiti formulata nell'Etica ed espressamente citata dal Poeta; ritenendo inoltre «tipica di Dante» la collocazione degli usurai battezzati del Limbo, sugli eretici, sui giganti. In sostanza, quindi, si allinea all'opinione prevalente, sorretto sempre dall'equilibrato buon senso di cui si è detto, giustamente allontanandosi dalle elucubrazioni sottili sia di quanti pretesero di far coincidere in tutto e per tutto la classificazione dantesca con lo schema aristotelico, sia dei sostenitori di una classificazione unitaria dei peccati nelle prime due antiche.
Ma le osservazioni più personali e interessanti, per il più largo margine che lasciano alla libertà d'invenzione e alla peculiare sensibilità etica del Poeta, sono quelle delle mirano a individuare le leggi interne del mondo di Dante, a caratterizzare non solo la profonda visione morale e religiosa che informa il giudizio dantesco, ma anche e più la vitale energia di una poetica fantasia che sa suscitare negli schermi classificatori del peccato l’acceso realismo delle passioni umane, popolanti «il quadro della tragedia universale del male» (p. 73). «Il poeta - scrive - è entrato nel vivo della coscienza umana, vi ha letto le piaghe e le seduzioni e non può fermarsi, spettatore indifferente, una volta che si è presentato nella sua creazione, vindice dell'alta causa di Dio» (p. 72).
È in questo genere di sparse annotazioni che affiora sempre la moderna sensibilità dell'esegeta, un gusto educato attraverso l'abitudine di larghe e varie letture contemporanee, e una certa familiarità con le poetiche recenziori, anche nell'esercizio qualificato della critica d'arte. I riferimenti numerosi, storici e analogici, alle testimonianze artistiche, e i ricorrenti rilievi figurativi, riflettono una pronunciata sensibilità «visiva» che ci sembra caratterizzi la lettura del Fallani. E quanto alle poetiche novecentesche, può bastare il significativo, se pur fugace, rinvio diretto e indiretto, che compare nell'uno o nell'altro volume, alla lezione proustiana (I, p. 37; II, p. 14). In virtù di felici intuizioni, quell'itinerarium sapientiae del Poeta, che occupa lo spazio maggiore in questi capitoli, viene così integrato se non colmato, di tratti e rilievi più sottili, di linee più mosse e vibranti, specialmente quando la materia solleva echi spirituali più intensi nell'animo del critico. Parlo soprattutto dei momenti miliari dell'esperienza morale e dello svolgimento dell'anima religiosa di Dante; e per esempio il capitale incontro virgiliano, che suggerisce al Fallani pagine assai dense: «Di rado nella storia della grande poesia un poeta si è rivolto ad altro poeta per raccontarci in una nuova opera letteraria, distesamente, quale riflessione emotiva abbia destato in lui l'immaginaria presenza. Dante parla di Virgilio con la naturalezza dello scrittore che lo ha sempre conosciuto e col quale è spiritualmente vissuto, nutrendosi della sua dottrina: il distacco degli anni e dei secoli, la diversità della situazione non impediscono di considerarlo vivente.
Dante ha parlato di «lungo studio», di «grande amore», che suppone una lettura dell'opera virgiliana condotta in esatta configurazione al suo pensiero, in un progressivo affinamento della sensibilità e del gusto e nello acquisto di concetti connaturali alle ragioni complesse dello spirito.
Vi è stato in Dante un largo margine di tempo per il graduale svolgimento della sua anima religiosa, in cui la ricchezza delle concezioni virgiliane intervenne a fecondare i valori di giustizia, sui quali andava meditando. Virgilio gli si presentò come realtà viva del mondo antico, capace di creare i segni anche della realtà nuova, al di fuori delle egemonie e dei popoli: annunciatore di un regno, a cui l'Impero di Roma aveva, nella sicurezza del diritto, appianato la via» (I, p. 51).
Anche dalla lunga citazione mi piace rilevare una qualità singolare di queste pagine, che pur soddisfacendo le primarie esigenze didattiche che le hanno ispirate, o quanto meno condizionate all'origine, le risolve in una personale intonazione espositiva, assai lontana dall'arida petulanza di certi rendiconti scolastici, sia pure ad alto livello. Così che la spessa materia erudita, dalle cospicue fonti esegetiche e critiche a cui attinge largamente, appare se non sempre ripensata e rielaborata, spesso sensibilizzata e fusa in modi d'interpretazione direi più assorti e rarefatti, in elegante e lucido eloquio, di accurata fattura anche stilistica. Colpisce subito nel Fallani, e non solo in questi volumi, un raro senso, moderno e «classico» a un tempo, della parola, della frase, del ritmo che soverchia l'ardore logico. Un linguaggio che perde di strumentalità e si spoglia di retorica, anche di quella retorica inevitabile che è la ripetizione obbligata di un formulario tecnico, di un lessico e di una sintassi critica imposti dall'uso e abuso del mestiere; una parola come alleggerita e alleggiadrita persino, che anche in un tono di pacata asserzione, e talvolta quasi di nonchalances, di rapida e sommaria annotazione, ottiene sempre un'invidiabile misura e intensità di scrittura.
Vi è quindi una diretta corrispondenza con un modo o «stile» esegetico, nel quale questioni e problemi, non che essere aggrediti e ricostruiti storicamente con strumenti critici, sono sinteticamente semplificati e direi evocati all'intelligenza comune, in una sorta di testimonianza letteraria e sensibile intelligenza del mondo dantesco, che oserei di re piuttosto di un dotto «scrittore» che di un affannato e agguerrito esegeta, impegnato nelle controversie (si pensi, per un vago accostamento, al Dante dell'Eliot o a quello del Quasimodo). Proprio in questa luce, si possono raccogliere nelle pagine del Fallani suggerimenti di notevole finezza. Si veda fra gli altri il capitolo dedicato, nel primo volume, al difficile argomento delle allegorie della Commedia, uno dei problemi più sofferti nella critica del nostro secolo, e zona centrale di verifiche delle dispute difficili sull'unità della Commedia, anche negli avanzamenti critici più recenti. Il dissenso dalle repulsioni crociane è un punto di partenza divenuto quasi d'obbligo, nell'eco di varie polemiche, dal Pietrobono al Nardi, dal Barbi al Rizzo (e già prima, dal De Sanctis al Flamini, e così via). Non è e non vuole essere, s'intende, un ritorno a frontiere superate, e però la definizione dell'allegoria dantesca come l'«espressione del vero» perché «verità ascosa sotto bella menzogna», può apparire un po’ sbrigativa, come lo era già in termini quasi analoghi nel Flamini e nel Pietrobono. Non fosse altro perché suppone un'identità, o agevola una confusione, tra vero estetico e verità concettuale.
Ma talune osservazioni seguenti sulla ricchezza poetica dell'allegoria in Dante fugano dl timore di un equivoco radicale. «Nell'allegoria si parla per immagini, ciò che si adombra nell'oggetto o nella scena simbolica diventa immediatamente capace d'indicazioni nuove e universali: si tratta di una stessa via con due tracciati a quote diverse, una pratica ed una fantastica, ma il sogno del poeta che le ha disegnate le tiene gelosamente unite. La finzione, o cosa immaginata ha la sua attrazione seducentissima, e rappresenta un bisogno psicologico d'ideare un universo infinito, un mondo umano disciplinato e raccolto negli affetti essenziali, una vita libera dalle sconfitte apparenti, e riportata, con paragoni intelligibili, alla finalità spirituale» (I, p. 25). E più avanti, sul linguaggio delle cose nell'arte di Dante: «La visione dantesca, che si volge ai fatti reali, proviene da una esperienza di elementi controllati: per virtù dell'immaginazione porta con sé il carattere allusivo a una storia più vasta, ma il linguaggio sfugge al calcolo di un sistema di figure letterarie; la parabola scenografica della selva e delle tre fiere diviene leggibile, per il richiamo a cose schiettamente vere: la storia dell'anima e lo stato di coscienza» (p. 27).
Intuizione acuta che ridona ai simboli danteschi la sensibile evidenza delle forme, e un'intima coerenza di pensieri e di emozioni, il calore di una invenzione promossa più e oltre che da una cultura, da «una concreta lettura della vita, partecipe dei modi intellettuali e del fermento generoso della nostra esistenza» (ibid.). Il Fallani è risospinto così al tema poesia-struttura, un dualismo ricusato e vinto nell'atto unico dell'artefice, nella identità complessa e indivisa dell'immagine, carica di concrete e storiche determinazioni e sottesa di essenze universali, nel sentimento composto del mondo e di Dio. «Realisticamente l'Alighieri rappresenta questo dramma dell'arte, dicendo che il di dentro non può stare senza il di fuori, e cioè la forma dell'allegoria senza la verità reale e compiuta delle immagini; egli distingue ma non separa i due momenti, e di quanto si faccia vigorosa e pregnante la sua poesia in tale concezione, si deduca dalla continuità della architettura «gotica» del poema, in cui l'allegorismo, come sorgente sotterranea d'acqua viva, è sottinteso e attuale ovunque, in modo che al suo apparire allo scoperto lo notiamo come cosa originale che proviene da una vena ricca e profonda». Il dono dell'allegoria dantesca - bene osserva il Fallani - consiste nel «ritrovare una realtà che c'è nel discorso della vita giornaliera, ma da cui siamo distanti per apatia alla ricerca e per ignoranza, nel contrasto con ciò che sperimentiamo di limitato in noi e che sentiamo invece illimitato e immenso, qualora la mente si chieda di progredire nella conoscenza, varcando le apparenze. A ciò occorre la «spiritualis intelligentia» (p. 37).
Altro argomento fruttuoso, sempre in tema di rapporti tra cultura e poesia nella Commedia, e per quanto consegnato più a sparse osservazioni che sistematicamente trattato, è un tema caro a chi scrive, l'etica e metafisica della storia in Dante: ma è di-scorso che ci porterebbe fuori dei limiti sommari di questa nota. Preferiamo concludere ritornando ai motivi iniziali, ripresi negli ultimi capitoli dei due volumi, «Dottrina e Poesia» e «Sapienza e Poesia», nei quali idealmente s'accentua e culmina quella lettura unitaria che si è detto ispirare coerentemente l'interpretazione dantesca del Fallani. Legandosi all'insegnamento di maestri come il Pietrobono e il Nardi, e specialmente allineandosi alle proposte metodiche della critica contemporanea più avveduta, tende a risolvere i binomi di eredità romantica dottrina-poesia, sapienza-poesia, in più intimi e attivi rapporti spirituali, in un’intelligenza più comprensiva e insieme più duttile e sottile della poesia, odi una cultura redenta dalla parola poetica. Non per mania di distinzioni, arra per necessaria chiarezza di linguaggio, vorremmo più precisamente formulata un'equazione come questa: «Il contenuto religioso della Commedia è tutt'uno con la totalità del valore poetico» (I, p. 105); che riecheggia un'affermazione quasi identica del Pietrobono: «La struttura morale della Commedia fa una cosa sola col suo motivo poetico» (Dal Centro al Cerchio, 2a ed., Torino, 1956, p. 13). Queste generiche e ricorrenti identificazioni meriterebbero di essere illuminate da uno studio più penetrante e arduo di rapporti e raccordi, fra impulsi, suggestioni e ambizioni molteplici, nel tormentato paesaggio dell'anima dantesca.
Ma è anche facile capire la preoccupazione di allontanare i rischi di una delibazione frammentistica della poesia dantesca «comme un film a sketches», per dirla col Renucci, e di restaurare o preservare la originaria, essenziale integrità spirituale e poetica dell'opera. Quando scrive che poesia e sapienza coincidono in Dante (II, p. 111), mira forse impropriamente a saldare in un vigoroso nesso dialettico interessi e moti diramantesi da un unico vivo centro d'ispirazione. «La filosofia e la teologia - scrive anche il Fallani - analizzate nelle figure e nelle espressioni dell'Alighieri, non sono scisse e indipendenti tra loro: il prodigio, se così vogliamo chiamarlo, è consistito nella creazione di un mondo fantastico adeguato, senza tradire la sostanza del Cristianesimo, ai significati della realtà del mondo e dello spirito, e ciò secondo i canoni della sapienza rivelata.
Nella storia intellettuale del secolo XIV, la Commedia rappresenta l’autentico compimento di una costruzione sistematica dell'univer.so fisico e spirituale, che è venuta su, con logica coerenza, entro rigidi confini; e dove Aristotele e San Tommaso presentavano gli ideali irraggiungibili di una armonia - il primo sul piano razionale, l'altro in base al concetto di natura umana «redenta» - Dante cerca di tradurlo in immagini. e forme d'arte» (I, p. 105).
Su questo punto basilare insiste il Fallani con accento più deciso e osservazioni tanto più interessanti perché, come si diceva al principio, nel suo stesso sintetico excursus, alla ricerca di un difficile equilibrio esegetico tra dottrina e ragioni poetiche, prevalgono spesso le notizie e i dati introduttivi a una lettura tematica del Poema: anche se la materia concettuale e problematica si risolve spesso in dato di sensibilità e segno di eleganza stilistica. Ci piace perciò eh e egli ripeta, rigettando il materialismo aridamente erudito di certe ricerche genetiche sulle fonti nella Commedia, promosse dalla critica positivistica, che «alla poesia dantesca si accede con studi obiettivi sulla teologia, ma questa per renderci agevole la graduale ascensione nel territorio lirico deve stare nel rapporto chiarore-luce, come l'antefatto che nella coscienza di Dante diviene realtà vissuta, non a freddo, ma nel caldo di un'immaginazione che si sostanzia della profondità del pensiero sacro» (I, p. 114).
La distinzione astratta dei momenti di una storia spirituale che si identifica con la stessa intima genesi della poesia, ormai appartiene, si diceva, ad altra stagione critica superata anche dal Croce. Nell'odierna maturità di sviluppi del dantismo (e con un apporto di sensibilità del Fallani stesso, tra gli altri) anche la didascalica e l'oratoria politica, sapienza cristiana e storia vissuta, in Dante, vengono ad attestarsi di diritto nel raggio della poesia, legate all'unica copiosa germinazione di una coscienza temprata a un tempo dalla cultura e dalla fede, bruciata nell'esperienza mondana e nel severo fuoco di un'arte ispirata da Amore.