Dati bibliografici
Autore: Lucia Battaglia Ricci
Tratto da: Lectura Dantis 2002-2009. Omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni
Editore: Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"
Anno: 2011
Pagine: 795-815
A oltre settecento anni dalla "mirabile visione" l'enigma affascinante (per altri versi: lo scandalo ideologico) di un poema che pretende di dirsi sacro e, pur raccontando un viaggio costruito su evidenti filigrane letterarie, pretende di essere recepito come resoconto di una vera esperienza visionaria del trascendente e testo profetico resiste ai tentativi dei lettori, i quali continuano a porsi le stesse domande che appassionarono i primi esegeti. Come è noto, infatti, non esiste accordo sull'interpretazione e sulla classificazione dell'opera, tanto dal punto di vista del genere letterario che da quello del tipo di allegoria implicato, problema strettamente e univocamente connesso al precedente già nella coscienza letteraria dell'autore, come attesta il celebre passaggio di Convivio II I 2-7 in cui Dante sinteticamente evoca il quadro teorico di riferimento per l'esegesi allegorica delle sue canzoni. Il principale parametro di classificazione sembra qui essere, per lui, insieme alla diversa prospettiva esegetica implicata dalle categorie "letterale", "allegorico", "tropologico", "anagogico", il rapporto che ogni scrittura stringe con la 'realtà' (o la storia): ed è questo rapporto che gli permette di individuare due diversi modelli di lettura, e di associarli a due precisi "modelli" di scrittura. Il principio generale con cui si apre il capitolo, secondo cui «le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi», prevede distinzioni importanti, che finiscono per opporre le procedure proprie dell'inventio poetica (l'esempio è quello offerto dalla favola ovidiana di Orfeo, «favole ] ... ] belle menzogne», cui si applica un senso allegorico che l'autore si preoccupa di ricordare essere diverso da quello in uso presso ai teologi) a quelle della scrittura sacra, cui esplicitamente si applica il quarto senso, quello anagogico. L'esempio, sintomatico, è offerto dal salmo In Exitu Israel de Aegypto: una «scrittura [ ... ] vera [ ... ] nel senso litterale» e capace, attraverso le medesime «cose significate» dalla lettera, di trasmettere altri significati . Se il Dante del Convivio oppone la favola poetica di Ovidio, «bella menzogna» fattasi veicolo di una «veritade» morale, alla verità assoluta delle «cose significate» dal salmo, e affida a quest'opposizione tra tipi di scrittura poetica la ratio implicita nella distinzione tra i tipi di allegoria da lui elencati, e in particolare tra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi, per gli antichi commentatori la distinzione non è così precisa, e i confini tra i generi implicati risultano estremamente permeabili. Illuminante in tal senso quanto annota l'Ottimo commento che nella cosiddetta seconda redazione (ma «prima e unica», per Rudy Abardo), subito dopo aver definito «ficticia et exemplipositiva» la forma poetica della Commedia , ripetendo quasi alla lettera un passaggio del commento di Iacomo della Lana, afferma che «essa puote avere IIII entendernenti». Considerevole, nella prospettiva che qui interessa, che il primo di questi «entendementi», ovvero 'significati', sia da lui definito, con evidente appiattimento rispetto alla teorizzazione dantesca registrata nel Convivio, che egli mostra peraltro di conoscere , «letterale overo storiale» , e che egli preveda la possibilità di applicare alla Commedia una lettura in chiave anagogica al tempo stesso che assume la prospettiva, già del Lana, di considerare pura invenzione poetica ("bella menzogna", direbbe Dante) la lettera del testo. Certo al fine di contestare una lettura ingenua del libro come resoconto di un viaggio reale dell'Alighieri nell'Aldilà - lettura di cui darà implicitamente conto ancora Boccaccio, quando nelle sue Esposizioni si preoccuperà di annotare, a proposito di Inf. III, 71-111, che
non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui e altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa maniera parlare, acciò che essi con minore difficultà passino dalle cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali per opera d'imaginazione o di meditazione s'intendono,
l'Ottimo ritiene infatti di dover precisare che quanto il testo dice circa la presenza di determinati personaggi in determinati luoghi dell’Aldilà si deve assumere non come verità assoluta (ovvero che davvero quelle certe individualità siano effettivamente in quel determinato luogo dell'Aldilà in cui le colloca l'Alighieri), ma come invenzione poetica, veicolo per un significato "spirituale" , a significare che i vizi o le virtù rappresentati in modo esemplare da quegli individui sono puniti o premiati dalla Giustizia divina esattamente «per quel modo». L'osservazione ricorre con una certa frequenza nei commentatori primo-trecenteschi , a conferma del fatto che, come è tipico del genere implicato, tra singole voci commentanti è attiva una complessa interazione , ma anche a conferma del fatto che nella storia del secolare commento a Dante si possono individuare vere e proprie 'fasi', determinate dall'occasionale emergere e prevalere dell'interesse per un determinato problema, poi magari accantonato, o dall'occasionale successo di determinate formule euristiche o critiche.
La riflessione circa la reale "natura" del viaggio/visione raccontato/a nella Commedia è ovviamente tema onnipresente nel secolare commento, ma solo per le prime generazioni di lettori vige la necessità di misurarsi, sia pure solo per contestarla , con l'ipotesi di un viaggio ultramondano effettivamente compiuto dall'uomo in carne e ossa che risponde al nome di Dante Alighieri. Oltre che nelle glosse, il problema sembra infatti presente anche a chi progettò le illustrazioni dei manoscritti più antichi, se vari tipi di Danti dormienti o di Danti meditati ricorrono in apertura di libro, a suggerire che quanto il libro che sta per iniziare racconta è prodotto del sogno del 'dormiente' o della fantasia, visionaria o meno, del 'meditante'. Queste figurine incipitarie, che funzionano come vere e proprie immagini-soglia, cui è delegato il compito di orientare il lettore, fornendogli - grazie alle convenzioni iconografiche a lui note - precise, ma anche ben differenziate, indicazioni paratestuali , si affollano in particolare nei manoscritti illustrati databili nel secondo quarto del Trecento, se non più precisamente attorno agli anni Trenta-Quaranta di quel secolo. In un arco cronologico non troppo dissimile si osserva anche il ricorrere, da parte dei lettori del poema, a formule, o strategie, esegetiche simili, seppur con differenze non propriamente irrilevanti sul piano critico-valutativo, come su quel medesimo piano non sono peraltro irrilevanti le variazioni registrabili tra le varie figurine del Dante dormiente o simili. Come già il Lana negli anni Venti, anche l'Ottimo e Guido da Pisa, a metà degli anni Trenta, utilizzano, per esemplificare i livelli di significazione del poema, la figura di Minosse. Così, per esempio, scrive l'Ottimo, ripetendo, salvo minime correzioni e integrazioni, Lana:
lo primo si è letterale overo istoriale, il quale no si stende più inanzi che la lettera né oltre i termini in che ella è posta, sì come quando elli pone Minos nell'Inferno per uno demono giudicator di l'anime; lo sicondo si è allegorico, per lo qual termine di la lettera uno suona et altro intende, sì come è da interpretare lo decto Minos per la iusticia, la qual iudica l'anime secondo lor condiccione; lo terzo è decto tropologico, cioè morale, per lo [quale] s'enterpreta lo decto Minos per uno re iusto che fue in Grecia donando a' viciosi pena e a' virtuosi merito, cusì moralmente si pone per iudece in Inferno, che dicerna per la condizione di l' amme a ciascuna il luogo e la pena eh' a lei s'apartieni: il quarto è decto anagogico, per lo quale se interpetra spiritualmente li exempli et similitudine di la decta Comedia, sì come quando fa mencione d'alcuna singular persona come quive: Ell'è Semeramis et cetara, e quive: Elena vide et cetera, chè non se dee intendere che quella persona sia però in Inferno o altrove i-lluogo de[terminatament]te quivi posto, però che questo è occulto et secreto a li mondani, ma spiritualmente se 'ntende di quello vicio che è actribuito a colui, overo virtù, per tal modo fìa punito o purgato o remunerato per la iusticia de Dio, salvo di quelli d'i quali la sancta Chiesa descrive, d'i quali no è in quanto l'autore d'essi descrive, ma in quanto la Chiesa li canonizza et per santi tieni, siamo certi che quivi sono.
Interessante quanto annota, in merito a questa riflessione teorica e critica sui sensi della Commedia che vede concordi Lana e Ottimo, Saverio Bellomo:
la dottrina dei quattro sensi viene dall’Ep XIII 20-22 , ma l'esempio biblico che lì veniva addotto è sostituito, già in Lana, da uno mitologico, appartenente cioè alle "favole" dei poeti: la sostituzione è dovuta a scrupoli religiosi, come si intende anche dalla precisazione finale, la quale era però fondata nel timore che il nuovo pubblico della Commedia ignaro del latino, non abituato al linguaggio metaforico della poesia, potesse leggere il testo come il resoconto di una reale visione dell'oltretomba.
L'osservazione ci ricorda che le procedure sottese alla composizione di un corredo esegetico sono molto simili a operazioni di bricolage: riprese di singoli segmenti di commenti precedenti, espunzione di determinati particolari, integrazioni personali, contaminazioni tra glosse indipendenti. Riflettere sul complesso gioco di elaborazione dei materiali disponibili messo in opera da questi primi commentatori può contribuire a meglio illuminare le varie prospettive critiche sul tema 'allegoria dantesca'. Si è osservato che nell’assunzione di Minosse come esempio testuale idoneo a illustrare come la teoria dei quattro sensi si traduca, nella Commedia, in realtà testuale, concordino il Lana, l'Ottimo e Guido da Pisa, tre lettori che peraltro conoscono perfettamente e utilizzano, per la loro esegesi del poema, vari passaggi del commento al poema trasmesso dall'Epistola a Cangrande. L'opzione fatta da questi tre commentatori a favore della "favola poetica" di Minosse contro il salmo biblico proposto come esemplificazione dall'estensore di quel commento è certo dato di grande importanza. Poiché però questa 'opzione' non dà luogo a sistemi testuali (e proposte esegetiche omogenee) occorre valutare attentamente le singole glosse per ricostruire le logiche che presiedono alla ricostruzione di ogni puzzle e interpretare il senso delle glosse stesse. Se la pressoché totale sovrapponibilità della glossa dell'Ottimo a quella, cronologicamente anteriore, del Lana obbliga a ricondurre a quest'ultimo, e alla logica interna al suo commento - in realtà del tutto indifferente alla quadruplice prospettiva esegetica così evocata e sostanzialmente teso a esaltare le potenzialità didattiche del poema - la peraltro molto poco chiarificatrice proposta esegetica da lui avanzata, quanto scrive Guido nelle sue Expositiones impone di sospettare che le ragioni di quella scelta possano essere più complesse, e, soprattutto, non univoche. Dopo aver stabilito un preciso raffronto tra Commedia e sacra teologia proprio in virtù del fatto che poesia e teologia "contengono", entrambe, "quattro sensi", il frate carmelitano, ben più abile del maestro bolognese nella gestione teorica e pratica dello schema esegetico secondo la prospettiva della "sacra teologia", così scrive, innovando, anche lui, rispetto allo schema trasmesso dall'Epistola:
Primus [ ... ] intellectus sive sensus quem continet Comedia dicitur hystoricus, secundus allegoricus, tertius tropologicus, quartus vero et ultimus dicitur anagogicus. Primus dico intellectus est hystoricus. Iste intellectus non se extendit nisi ad licteram, sicut quando accipimus Minoem iudicem et assessorem Inferni, qui diiudicat animas descendentes. Secundus intellectus est allegoricus, per quem ìntelligo quod lictera sive hystoria unum significat in cortice et aliud in medulla; et secundum istum intellectum allegoricum, Minoes tenet figuram divine iustitie. Tertius intellectus est tropologicus sive moralis, per quem intelligo quomodo me ipsum debeo iudicare. Et secundum istum intellectum, Minos tenet figuram rationis humane, que debet regere totum hominem, sive remorsus conscientie, qui debet malefacta corrigere. Quartus vero et ultimus intellectus est anagogicus, per quem sperare debeo digna recipere pro commissis; et secundum istum intellectum Minos tenet figuram spei, qua mediante penam pro peccatis et gloriam pro virtutibus sperare debemus. De illis autem personis quas ibi ponit hoc accipe, quod non debemus credere eos ibi esse, sed exemplariter intelligere quod, cum ipse tractat de aliquo vitio, ut melius illud vitium intelligamus, aliquem hominem qui multum illo vitio plenus fuit, in exemplum adducit.
Importante qui, a mio avviso, l'adozione, contro l'etichetta di litteralis (sensus) di Ep. XIII, e quella di «Iitterale overo istoriale» di Lana-Ottimo, dell’etichetta di hisioricus intellectus sive sensus che egli dichiara essere il "senso" proprio della lictera. La lictera sive hystoria è, per lui, quanto si legge nel testo dantesco, ovvero, nello specifico, che "Minosse è il giudice che valuta le anime che scendono" (nell'Inferno). Si potrebbe sospettare che, come il Lana e l'Ottimo, anche Guido – a differenza del Dante del Convivio, che accuratamente distingue tra la «bella menzogna» delle favole poetiche e la verità storica del salmo biblico - non sappia o non voglia (per la rilevanza ideologica delle conseguenze di siffatta distinzione) mantenersi sul piano di quella che Dante definirebbe "allegoria dei teologi", e scivoli, per così dire, dall'uno all'altro registro esegetico. Ma la glossa che Guido riserva più avanti a Minosse rivela che in realtà per lui (e forse per la cultura che fu sua, oltre che di Dante, per il quale l'Eneide, alta tragedia sotto il profilo stilistico, è, dal punto di vista della lictera, testo storico, hystoria) Minosse è figura storica: personaggio caro ai poeti, certo, ma non parto della loro creatività. A proposito di Inf. V, 4, «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia», Guido infatti, dopo aver citato, a giustificazione del livello letterale del testo dantesco, le auctoritates che provano come già per i poeti latini Minosse fosse iudex inferorum , e dopo aver ripetuto la sua interpretazione del senso allegorico («Iste Minos nil aliud est nisi divina examinatio et sententie iudicialis executio»), si pone una domanda interessante:
[ ... ] quare iste autor et etiam alii poete divinam exarninationem et iudicialis iustitie sententiarn potius Minoi quarn alicui alii attribuunt poetando? Respondeo: Minos, rex Cretensis, fuit filius Iovis ex Europa. Iupiter autem a paganis pro summo deo adorabatur et colebatur. A Deo autem procedit summa iustitia, et ideo pagani summam iustitiam aput inferos attribuunt ipsi filio Iovis. Preterea, Minos fuit rex iustissimus aput paganos et qui primus in rnundo apud ipsos paganos leges et iudicia ordinavit.
Quanto segue prova che per Guido Minosse è individuo realmente vissuto, che entra a pieno titolo in un elenco di legislatori dove, - in totale rispetto di una procedura culturale che ha permesso anche a Dante di collocare uno accanto all'altro, sopra il verde smalto del Limbo, Elettra, Ettore, Enea, Cesare, Cammilla, la Pantasilea, il re Latino, Lavina, Bruto, ecc., - Minosse, figlio di Giove ed Europa, convive con Mosè, un altrimenti ignoto Foroneo, Mercurio, Solone, Licurgo, Numa Pompilio, a fissare le tappe cronologiche e geografiche della storia di fondazione dello ius che regola il vivere civile:
Septem nanque fuerunt homines excellentissi.mi qui suis gentibus primo iura finxerunt . Primus fuit Moyses, qui primus hebraico populo divinas leges sacris licteris explicuit. Secundus fuit Minos, qui primus Cretensibus tempere paganorum iura finxit. Tertius fuit Foroneus, qui primus Grecis leges iudiciaque constituit. Quartus fuit Mercurius, qui primus leges Egyptiis tradidit. Quintus fuit Solon, qui primus leges Atheniensibus ministravit. Sextus fuit Ligurgus, qui primus Lacedernonis iura ex Apolinis autoritate confinxit. Septimus vero fuit Numma Pompilius, qui Romulo successit in regno, quique primus leges Romanis dedit. Cum itaque Minos et fuerit filius Iovis et fuerit iustissimus homo, et Iegem et iustitiam ordinaverit, merito iudex aput inferos ordinatur. Quante autem iustitie fuerit, patet per Ovidium, VII et VIII librov Methamorphoseos. [...] Itaque cum iste iustissimus paganus fuerit, merito ab omnibus poetis iudex ponitur inferorum.
Questa divagazione culturale consente di acclarare che la scelta di Minosse per illustrare i vari livelli di lettura del testo non risponde, per il frate pisano, al bisogno di ricondurre a un più ovvio e tradizionale allegorismo di marca metaforica la proposta esegetica avanzata nell'epistola, come si può forse sospettare, con Bellomo, per Lana e l'Ottimo. Ma risponde, più propriamente, al bisogno di illustrare proprio sulla lettera del testo dantesco - e non più, come capita nell'epistola, su un testo 'altro' convenzionalmente adibito, come, ben prima di Auerbach, prova il testo del Convivio, per illustrare le procedure dell'esegesi sui testi sacri - lo spessore polisemo del poema, precisamente articolando in funzione di 'quel' testo l'interpretazione sui quattro livelli postulati dall'epistola stessa. E dipende strettamente dalla sua personale valutazione del poema dantesco, da lui considerato sia opera in stretto dialogo con la grande poesia classica, quella di Virgilio in particolare, sia testo "dettato dallo Spirito Santo" e, come tale, affine a determinati libri della Bibbia, in particolare quelli composti da, o tradizionalmente attribuiti a Salomone . E pertanto disponibile, come la scrittura sacra in generale, a un approccio critico aperto a tutti e quattro i livelli codificati dalla tradizione esegetica del libro sacro.
Mettere a confronto la proposta interpretativa avanzata da Guido da Pisa con la lettura che del Minosse dantesco dà, pochi anni più avanti, Pietro Alighieri consente di meglio cogliere la specificità della lettura stilata dal frate pisano e di verificare, sul piano metodologico, come scavo dei palinsesti implicati nella composizione dell'opera fatta oggetto d'analisi e decodificazione del genere letterario di riferimento siano già per queste generazioni di lettori realtà intimamente connesse, e dati fortemente orientanti nell'interpretazione complessiva della Commedia in generale e del suo impianto allegorico in particolare. Nella glossa a Inferno V, 1-5 registrata nella cosiddetta terza redazione del suo Comentum, databile verisimilmente tra il 1358 e il 1364, Pietro Alighieri insiste sulla rilevanza del modello virgiliano per la struttura delle prime sezioni del carcere infernale. In particolare per l'invenzione di Minosse egli osserva che "Dante segue qui alla lettera Virgilio" e così propone la medesima interpretazione per l'allegoricum integumentum del Minosse virgiliano e di quello dantesco, implicitamente assumendoli entrambi nella prospettiva che il Dante del Convivio avrebbe etichettato come "allegoria dei poeti", che è poi la chiave di lettura del poema assunta da Pietro, attento al senso morale del racconto dantesco. Le citazioni che seguono - che spaziano da Isaia e relative glosse alla lettera ai Romani di san Paolo, dal Seneca delle Epistole a Lucilio ai Moralia di san Gregorio, da Origene a san Giovanni Damasceno - servono al glossatore per provare la correttezza teologica e i fondamenti teorici del significato morale veicolato dal Minosse caro ai poeti:
veniens ad tractandum ( ... ] hic de animabus (sic) dampnatorum illorum qui actualiter et conscientialiter peccaverunt, ut in continentes [ ... ] fingit se in ingressu huius secundi circuli Inferni invenire Minoem ut iudicem infemalem ita ringhiantem et examinantem et iudicantem et mandantem animas dampnatatas ad sua debita supplitia, ut dicit hic textus, sequendo hic ad licteram Virgilium ( ... ]. Quem Minoem Virgilius ibi et auctor hic, quantum ad allegoricum integumentum, sub typo et figura humane conscientie ponit, et merito: nam nullum actuale peccatum committi potest conscientia non remordente, unde Apostolus, Ad Romanos xv° capitulo inquit: Omne quod non est ex fide, idest omne quod contra conscientiam fit, peccaium est, nam deest fides ubi non est conscientia peccati, et ex hoc fingit auctor primo dictum Minoem ringhiantem, idest dentibus frendentem et frementem, ad quod ait Ysaia ultimo capitulo dicens: Vennis eorum non morieiur, ubi Glosa hoc exponens ait: Vermis, idest remotsio conscientie, nam, ut ait Gregorius in primo Moralium: Nunquam simul esse possuni culpa operis et irreprehensibilitas cordis, inde in eo quod dicit quod dictus Minos examinat in tali introitu ut iudex notat auctor quomodo conscientiam in hoc munda circa bonas et malas operas nos quasi inquirendo facit confiteri intellectualiter quod fuerit sequendum vel non, unde Origenes: Conscientia est spiritus correptor et pedagogus anime que separaiur a malis et adheret bonis, et Seneca, Ad Luciliurn, de ipsa etiam conscientia ait: Sacer inier nos spiriius sedet bonorum molorumoue observator et cusios, et Damascenus: Conscieniia est iudex et lex nostri.
Oltre che testimoniare l'ampiezza dello spettro di interpretazioni esperite fin dall'uscita del poema, le proposte esegetiche avanzate dalle prime generazioni dei lettori provano, nella diversità degli schemi di riferimento da loro adottati per la decodificazione del tipo di allegoria e, di conseguenza (ma la relazione vale anche in senso contrario), del genere letterario sotto cui inventariare la Commedia, che non dall'inevitabile alterità dei codici posseduti dai lettori di epoche diverse dipende la frustrante percezione dell'impossibilità di catalogare in modo certo il poema sacro cui, dice l'autore, «ha pesto mano e cielo e terra», bensì da una precisa scelta dell'Alighieri che ha scardinato il sistema letterario in uso contaminando generi e modelli di riferimento istituzionalmente eterogenei. La lezione più interessante che si desume, a mio avviso, da una pur cursoria analisi delle proposte di lettura degli antichi commentatori, è che una precisa relazione lega l'interpretazione dell'opera, allegoria compresa, e il punto di vista di volta in volta assunto rispetto al sistema di relazioni intertestuali messo in opera dall'Alighieri. Del resto sappiamo bene che sono le "soglie" del testo - titolo, proemio, ecc. - e/o le convenzioni stabilite dall'autore in apertura dell'opera stessa a orientare la fruizione dell'opera, offrendo al lettore chiavi per una sua corretta decodificazione.
Di proemi, introduzioni o postfazioni d'autore non c'è traccia nella tradizione della Commedia, e l'unica 'entità' dotata di funzione paratestuale a noi nota, il titolo sotto cui l'opera circola, è forse tra le realtà più problematiche dell'opera stessa, come prova l'infinito dibattito sul significato e l'estendibilità testuale dell'etichetta comedìa per un'opera che può anche dirsi, propriamente, «poema sacro» - dibattito che comprende anche l'ipotesi che Comedia non sia in realtà titolo d’autore.
E se l'incipit è il luogo in cui l'autore stabilisce il suo patto col lettore, nella prima terzina del poema il lettore si misura con un coacervo di segnali assolutamente contraddittori, visto che gli ipotesti implicati dall'allusività intertestuale di questi primi versi (il sesto dell'Eneide e relativa esegesi, il cantico di Ezechia registrato nel libro di Isaia e relativa esegesi, il Tesoretto di Brunetto Latini, la tradizione dei romanzi cavallereschi) spalancano di fatto l'intero spettro dei generi e dei modelli presenti nella biblioteca letteraria tardo-medievale.
In buona parte l'inesausto dibattito tra le proposte interpretative e critiche che caratterizza, nei secoli, il commento alla Commedia testimoniando l'incapacità dei lettori di esperire una proposta interpretativa unanimemente condivisa, dipende in buona parte dal fatto che la stupefacente potenza creatrice dell'Alighieri si realizza anche nella violenza esercitata nei confronti della tradizione letteraria di cui egli assume l'intera tipologia di generi, forme, temi, ecc., riutilizzandoli in modo innovativo, in particolare grazie alla, mai esausta e capillare, plurifunzionale contaminazione di quei modelli e di quei materiali con gli infiniti ed eterogenei materiali e modelli desunti da altri scaffali della sua biblioteca mentale: dallo scaffale dei libri scientifico-filosofico-dottrinari, e da quello dei libri genericamente catalogabili come "religiosi" - la Bibbia, l'esegesi patristica, la mistica -, nonché dalla sua personale biblioteca visiva. La contaminazione tra tradizioni tanto diverse comporta un'ibridazione tra convenzioni e codici culturali che è la ragione prima delle difficoltà che si incontrano per catalogare l'opera cui l'autore attribuì etichette tanto antitetiche dal punto di vista della tradizione retorica e letteraria come «comedìa» e «poema sacro». Basta infatti esaltare la rilevanza di una di queste componenti a sfavore delle altre che l'orizzonte cambia completamente. I codici culturali degli esegeti, le loro biblioteche mentali, la loro impostazione ideologica, perfino la loro 'professione' condizionano profondamente l'approccio ad un testo che non rispetta codici univoci e condivisi, dando luogo a letture spesso del tutto difformi, e, soprattutto, inadatte a dar davvero conto di un sistema capace di combinare modelli che al fruitore appaiono - da sempre - non omogenei, anzi tra loro irriducibili se assunti nella prospettiva ideologica che l'opera impone: la parola di Dio, e, più in particolare la Bibbia, che per un credente come Dante, è parola di Dio, e la scrittura degli uomini, e in particolare l'Eneide, che un lettore medievale come Dante legge come documento storico, modello di poesia e veicolo di verità morali.
Entrambe sono infatti da lui assunte, in solidale osmosi e fin dall’esordio del libro, come filigrane per narrare un viaggio per mortuos che è concepito come un itinerarium ad Deum e che l'autore del libro che quel viaggio narra pretende venga letto come un viaggio reale voluto dalla provvidenza per 'salvare' il pellegrino e per offrire al contempo ai lettori un paradigma su cui costruire il loro personale percorso di salvezza. Un Dante/Enea che, arrivato nel 'suo' Eliso, davanti a un Cacciaguida/Anchise, si sente imporre il compito di raccontare quel che ha visto e udito nel suo viaggio, perché quel suo viaggio, e l'assieme di esperienze accumulate grazie ad esso, sono state progettate (puntualmente progettate e concretamente messe in opera, se le anime che si offrono a lui sono state a tal fine "selezionate", come afferma Cacciaguida, se gli spiriti dei beati si dispongono eccezionalmente nel vari cieli, per costruire le varie tappe di un processo di conoscenza per quel preciso destinatario, e se è esattamente ed esclusivamente per quel pellegrino che nel cielo di Giove un Deus Artifex compone con le luci splendenti dei beati la scritta Diligite iustititiam con quel che segue), affinché chi ha sperimentato quel viaggio e visto ciò che ha visto, possa riferire agli uomini: assommando così nella sua persona l'esperienza visionaria dell'apostolo Paolo e la funzione dell’autore dell'Apocalisse, l'apostolo Giovanni che, rapito in estasi, riceve il mandato di scrivere in un libro ciò che vede e di inviare quel medesimo libro alle sette chiese dell'Asia, ovvero di comunicare all'esterno il contenuto della visione a lui offerta dal Dio, come invece non era stato concesso a Paolo. Ma al tempo stesso, di questo pellegrino cristiano, rappresentato in procinto di volare verso il suo Dio per certi versi mimando un intertesto biblico quale il Cantico dei cantici, già assunto dalla tradizione esegetica come modello e voce dell'esperienza mistica, chi scrive può esplicitare anche l'analogia con un eroe della mitologia classica, Giasone alla conquista del vello d'oro, nel momento stesso che è alle muse e alle divinità pagane che egli chiede aiuto per pienamente dire del trasumanar di colui che, all'inizio del libro, era stato rappresentato immerso in un'esperienza esistenziale (lo smarrimento nella selva, il tentativo di salita al colle, ecc.) che mima piuttosto le tappe fondamentali dell'esperienza storica vissuta dal popolo ebraico narrata nell'Exodus e diffusamente rievocata in tanti testi sacri, come in quel celebre salmo In exitu lsrael de Aegiypto che Dante mette in bocca alle anime che approdano alla spiaggia del Purgatorio, e che verrà ricordato, in Par. XXV, 55-57, da Beatrice per sintetizzare e a suo modo narrare l'intera esperienza del pellegrino , cui
[...] è conceduto che d'Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere
anzi che 'I militar li sia prescritto.
Dunque, ancora, una sovrapposizione di modelli: un modello biblico-cristiano che fonde il modello dell’”esule” (un peccatore, un uomo smarrito) arrivato nella sua vera patria (il paradiso, la salvezza), con quelli del profeta visionario Giovanni e dell’apostolo Paolo asceso al cielo, senza peraltro escludere i modelli eroici desunti dalla grande cultura classica: Enea, anzitutto, ma anche Giasone, la cui rilevanza testuale esaltata, oltre che da quanto è espressamente detto nell'apostrofe ai lettori di Par. Il, 16-18, dalla sintetica evocazione, in chiusura di cantica, di Nettuno che dal fondo del mare vede scorrere l'ombra della nave Argo assunta come termine di paragone per lo sprofondare mistico del pellegrino nella contemplazione del Dio uno e trino (Par. XXXIII, 93-99), e fors'anche dall'allusività implicita nella solenne dichiarazione registrata in Par. XXV, 1 sgg. Neanche negli ultimi canti del Purgatorio, dedicati a una puntuale e al tempo stesso profondamente innovativa riscrittura di uno dei libri di Dio, ovvero l'Apocalisse di Giovanni, gli intertesti implicati sono riconducibili in toto al patrimonio dell'esegesi sacra. Come è stato osservato , è infatti alla suggestione del modello ovidiano delle Metamorfosi che si deve la rielaborazione attiva, strettamente motivata da una personale visione della storia e della realtà a lui coeva, che consente di fare del venerabile mostro dalle sette teste e dieci corna della visione di Giovanni il mostro mai veduto in cui si trasforma, per terrificante metamorfosi, il carro divino, in un contesto in cui il poeta che scrive, per esplicitare la difficoltà a dire le sue reazioni di fronte all'esperienza visionaria a lui offerta e in particolare il cedere dei suoi sensi al canto di coloro che assistono al rinnovarsi delle fronde dell'albero dispogliato, non evita di evocare come termine di raffronto per il suo canto il mito ovidiano di Argo, e evocare la possibilità di farsi, lui, riscrittore, di quel medesimo testo, assimilando il se stesso pellegrino a quel personaggio ovidiano:
Io non lo 'ntesi, né qui non si canta
l'inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi ritrar come assonaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com'io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
(Purg. XXXII, vv. 61-69)
La vertiginosa sintesi di modelli culturali e schemi letterari che dà vita a procedure siffatte - qui troppo sinteticamente evocate - si è prestata e si presta a letture estremamente diversificate, che qui non è certo possibile ricordare. L'arco è comunque amplissimo se, per limitarci a due prospettive ancora presenti nel dibattito critico, si va dal Dante profeta di Nardi al Dante metaletterario caro ai lettori post-moderni, offrendosi oltretutto esegesi non omogenee dei singoli loci testuali. Come si è detto, non è solo un problema di codici e/o di distanza dei lettori moderni dalla cultura dello scrivente. In una lettura tra le più complesse del secolare commento già il frate carmelitano Guido da Pisa non esitava ad assimilare la scrittura di Dante a quella degli autori dell'Antico Testamento, mentre il Lana, licentiatus in artibus et theologia, attento alla dimensione enciclopedico-dottrinaria del poema, verso i cui contenuti storici e sensi anagogici, come ha osservato il più recente editore, egli in realtà prova un profondo e diffuso disinteresse, assume il poema come una «calcolata invenzione del suo autore che intende erudire i suoi lettori o trarne prestigio e vantaggi personali», riducendo il viaggio ultramondano a pura «metafora della scrittura e dell’apprendimento” . Lana e Guido rappresentano, probabilmente, i due estremi della davvero impressionante varietà di approcci e di letture testimoniata dalla tradizione conservata . Ad arricchire la quale contribuisce anche una ricchissima tradizione di manoscritti miniati (più tardi di libri illustrati) che, come è ormai acquisito agli studi , entra a pieno titolo nella storia del secolare commento, confermando, o integrando, le proposte critiche avanzate dai singoli lettori.
I sondaggi condotti sui testimoni, conservati e prodotti in quegli anni Trenta-Quaranta in cui i lettori elaborano le prime proposte interpretative organiche sul corpo del poema, dimostrano che lungi dall'essere concepiti come gratuito decoro di libri di lusso - seppur la valenza estetica ed artistica dei prodotti usciti dalle officine scrittorie e dalle botteghe degli artisti tra Tre e Quattrocento sia spesso molto alta - questi corredi figurativi sono, per lo più, il raffinato prodotto di una complessa operazione di traduzione intersemiotica curata, almeno in certi casi, dagli stessi commentatori del libro, o dai lettori dei commenti presenti nelle stesse pagine in cui compare il corredo figurativo, per orientare il lettore offrendogli sia chiavi di lettura complessive che minute glosse atte a sciogliere la densa ellitticità del dettato dantesco. Nella precisa relazione che l'apparato figurativo stringe, per scelte tematiche, tipologie grafiche, modelli figurativi implicati o temi iconografici adottati, con la forma del libro e della mise en page, si coglie infatti, almeno nei casi di maggior impegno editoriale, che alle «figurine» cui è demandato il compito di far ridere queste carte gli anonimi programmatori dei libri manoscritti affidarono il compito di orientare la lettura dell’opera, quelle incipitarie fungendo da soglia (iconica) del libro stesso, 'integrando' il dettato d'autore con un paratesto editoriale atto a orientare il lettore, ovviamente nella prospettiva critica assunta da chi ha redatto il progetto editoriale del libro, che può essere anche, nei casi più felici, l'autore stesso del commento. L'esempio più rilevante a me noto è offerto dal manoscritto che tramanda gli interventi critici di Guido da Pisa, il ms. Condé 597 conservato a Chantilly (Dante Cha): una preziosa copia di dedica il cui corredo figurativo è stato steso da Francesco Traini certo sulla base di precise indicazioni dello stesso Guido . In totale accordo con la proposta critica del frate, che apre le sue Expositiones stabilendo un preciso e dettagliato confronto con il libro di Daniele per poi sviluppare, nel prologo, una complessa riflessione che rivela come egli ritenga Dante scrittore ispirato dallo Spirito Santo e al tempo stesso autore capace di riportare in vita la morta poesia, assumendo come modello Virgilio, il Dante Cha presenta due immagini incipitarie: una a c. 1r, dell'Inferno, l'altra a c. 3 lr, dove inizia la trascrizione delle Expositiones. Nella miniatura di c. 1r il Dante raffigurato seduto al suo scrittoio dentro la lettera capitale N è rappresentato nel gesto tipico dei profeti che si accingono a scrivere ispirati dal Dio, ma davanti a lui, nel margine destro, in alto, è il mezzobusto di Virgilio che risponde alla richiesta muta condensata nel braccio alzato dello scrivente. Nella carta in cui inizia il commento del frate, anche lui rappresentato nella lettera incipitaria del Prologo, ma nel ben più banale gesto di chi prepara gli strumenti per scrivere, una grande miniatura tabellare, che occupa il margine superiore della carta, mette in scena il momento 'forte' della storia narrata nel libro di Daniele: il profeta, in piedi, spiega, al re seduto a tavola tra i dignitari della corte, il senso delle oscure parole che una mano misteriosa traccia sul muro davanti a lui. L'immagine si lega perfettamente con il commento verbale registrato subito sotto, che così inizia:
Scribitur Danielis, quinto capitulo, quod curo Baltassar rex Babillonie sederet ad mensam, apparuit contra eurn maNus scribens in pariete: Mane, Thechel, Phares. Ista manus est noster novus poeta Dantes, qui scripsit, idest composuit, istarn altissimam et subtilissimam Comediam, que dividitur in tres partes: prima dicitur Infernus, secunda Purgatorium, tertia Paradisus. His tribus partibus correspondent illa tria que scripta sunt in pariete. Nam Mane correspondet Inferno; interpretatur enim Mane «numerus»; et iste poeta in prima parte sue Comedie numerat loca, penas et scelera damnatorum. Thechel correspondet Purgatorio; interpretatur enim Thechel «appensio» sive «ponderatio»; et in secunda parte sue Comedie appendit et ponderat penitentias purgandorum. Phares autem correspondet Paradiso; interpretatur enim Phares «divisio»: et iste poeta in tertia parte sue Comedie dividit, idest distinguit, ordines beatorum et angelica ierarchias. Igitur manus, idest Dantes; nam per manum accipimus Dantem. Manus enim dicitura mano, manas, et Dantes dicitur a do, das; quia sicut a manu manat donum, ita a Dante datur nobis istud altissimum opus.
Se nel prosieguo del libro l'illustrazione, che corre nel margine inferiore delle carte, è sostanzialmente un'illustrazione di tipo narrativo, che visualizza le varie tappe del viaggio di Dante e Virgilio attraverso l'inferno, in queste prime carte l'interesse per il racconto registrato nel libro è del tutto assente, e l'attenzione è puntata sui modelli implicati nella scrittura dell'opera e il rapporto che essa stringe con la biblioteca dell'autore, esaltando in particolare, a pari titolo, la presenza del modello virgiliano e la dimensione sacrale, profetica, del poema dantesco. È del tutto coerente con quest'impianto la raffigurazione, nella lettera incipitaria del commento vero e proprio, di un Dante dormiente visualizzato ripetendo l'iconografia vulgata per rappresentare, nei testi sacri, i profeti assorti in visione. Della rilevanza critica di scelte siffatte dà testimonianza significativa il catalogo delle varie tipologie di Danti dormienti che nei manoscritti più antichi, come già si è ricordato, intervengono in apertura di testo a suggerire precise chiavi di lettura dell'opera, evocando varie tradizioni letterarie mediante le varie iconografie adottate, come capita nel Dante Cha appunto, ma come capita anche nel celebre manoscritto della Commedia conservato alla British Library, il Dante Egerton 943. Qui in apertura di libro un Dante dormiente sdraiato nel suo letto sogna di uscire dalla camera per dirigersi verso la selva, esattamente come nella tradizione manoscritta illustrata del Roman de la Rose il protagonista, Amante, sdraiato nel suo letto sogna di uscire dalla sua camera per dirigersi verso il giardino dove troverà la rosa, icona metaforica del suo desiderio. Nel caso del Dante Egerton è verso il genere poema allegorico che il programmatore del manoscritto orienta il suo lettore, suggerendo, di necessità, chiavi di lettura del tutto diverse da quelle evocate dal Dante Cha. L'esemplificazione potrebbe continuare, attestando che l'estrema varietà delle letture sperimentate dal secolare commento produce una non meno estesa varietà di corredi figurativi e, si può aggiungere, di forme di libro, anch'esse in buona parte da assumere come prodotto e testimonianza di precisi approcci critici al poema.
Uno degli esempi più complessi e coerenti di sistemazione organica, e semanticamente rilevante, delle varie componenti - materiale, grafica, figurativa, verbale - che costituiscono il 'sistema libro' è offerto, per la Commedia, dall'assieme dei codici ora divisi tra Biblioteca Riccardiana e Braidense, che si suole indicare con la sigla Rb . Prodotto da un copista bolognese esperto nella produzione di libri giuridici, il Dante Rb tramanda la Commedia col commento di Iacomo della Lana. L'impaginazione è quella tipica del libro giuridico e più in generale universitario: il testo dantesco su una colonna, al centro della pagina; il commento attorno, a tenaglia; l'illustrazione, funzionale alla consultazione, ristretta alle sole lettere incipitarie dei canti e dei relativi commenti. Se il commento del Lana non presta particolare attenzione alla 'storia', ovvero al racconto portante del viaggio ultraterreno, privilegiando piuttosto il contenuto enciclopedico-dottrinario del testo, la sua dimensione metatestuale e l'insegnamento morale, il paratesto editoriale del Dante Rb propone di leggere la Commedia come se fosse un trattato di teologia morale e di riflessione dottrinaria. Solo occasionalmente le lettere incipitarie abitate mettono in scena Dante, le sue guide, o le tappe del suo viaggio. In compenso non manca l'attenzione ai passaggi meta testuali o metaletterari del poema, né a quelli di interesse dottrinario, ma soprattutto è rigorosissimo il sistema di visualizzazione dello schema morale dantesco. Nell'Inferno le lettere incipitarie abitate dei canti visualizzano le colpe di cui nel canto si parla, mentre in quelle dei commenti si visualizzano le pene corrispondenti; nel Purgatorio sono visualizzati con estrema attenzione i vari vizi che gli spiriti scontano nelle varie cornici, e in Paradiso pare privilegiato l'assieme dei problemi dottrinali che affollano i canti danteschi. Così, ad esempio, la visualizzazione della storia di Piccarda - uno dei pochi casi in cui nel Dante Rb viene visualizzato il vissuto di un personaggio - non compare nel canto terzo, ma nel quarto, per visualizzare, come capita nella tradizione dei libri giuridici, dove un exemplum fictum è spesso visualizzato prima della trattazione teorica delle soluzioni giuridiche possibili, il problema dottrinario dei voti non adempiuti. Ma l'esempio più significativo della totale indifferenza per il senso «litterale overo ystoriale» della Commedia sotteso a quest'edizione del poema viene dalle lettere incipitarie del quinto dell'Inferno. Qui, al posto di Paolo e Francesca, o di Minosse, compare la doppia scenetta, convenzionale nella tradizione dei libri giuridici illustrati, di un giudice che chiede a un debitore, e riceve da lui, il pagamento delle tasse, per visualizzare il concetto 'pagare il fio'. Una scelta che, se misurata sulle plurime possibilità offerte dal canto di Francesca, e realmente praticate nel corso dei secoli dagli artisti , getta viva luce sull'estensione degli approcci praticabili e praticati sul testo dantesco, mentre conferma la conformità dell'illustrazione con il commento registrato in quelle carte. Per Lana, che ha assunto Minosse per illustrare i quattro sensi della Commedia, è questa l'illustrazione atta a raffigurare il senso morale celato nell'invenzione dantesca, l'unico che davvero a lui interessi, se è al livello del senso morale che egli può scrivere: «sì moralmente se pone uno zudixe in inferno lo qual decerne per la condicione de l'anema lo logo e la pena che se gli avene».