Dati bibliografici
Autore: Antonio D'Andrea
Tratto da: Dante e le forme dell'allegoresi
Editore: Longo, Ravenna
Anno: 1987
Pagine: 71-78
L'interpretazione della canzone «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete» è preceduta, nel Convivio, all'inizio del secondo trattato, da un’attenta esposizione dei quattro sensi delle scritture:
Ma però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee. (II.i. I)
Tuttavia, come è detto poco dopo, Dante intende occuparsi soprattutto, se non esclusivamente, del senso letterale e di quello allegorico delle sue canzoni. Per quanto riguarda gli altri due sensi, il morale e l'anagogico, egli avverte, senza troppo impegnarsi, che ne toccherà «talvolta», «incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà» (II.i.15). Per di più, nell'esposizione del senso allegorico, egli lascia da parte deliberatamente il modo come è inteso dai teologi, e cioè il significato che esso ha di solito nello schema esegetico dei quattro sensi:
Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. (II.i.4)
All’’allegoria dei teologi', che presuppone la verità storica degli eventi e dei personaggi dell'Antico Testamento, quale risulta dall'interpretazione letterale, e mostra in essi l'anticipazione fjgurale, in facto e non in verbis (De trinitate XV.ix.1), di Cristo, della sua venuta e della sua opera, viene così sostituita l’’allegoria dei poeti', che è tutt'altra cosa: «una veritade ascosa sotto bella menzogna» (II.i.3). Il richiamo alla quadruplice esegesi scritturale sembra, quindi, svuotarsi da se stesso della sua pertinenza e finisce con l’apparire del tutto gratuito .
È facile trovare precedenti antichi e medievali per la definizione che Dante dà dell’’allegoria dei poeti’ . «Mendacia poetarum inserviunt veritati», secondo Giovanni di Salisbury . E in un commento a Marziano Cappella, attribuito a Bernardo Silvestre, l’integumentum, equivalente dell’’allegoria dei poeti’, era definito «oratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum» ed era distinto dall’allegoria «divine pagine» ed esemplificato con la favola di Orfeo, proprio come nel Convivio . La novità del Convivio sta nel tentativo di sostituire, o piuttosto di sovrapporre, questo tipo di allegoria all’altro nel quadruplice schema esegetico scritturale, combinando così, un modello retorico con un modello scritturale. L’apparente gratuità del richiamo al modello scritturale non fa che rendere più problematica questa singolare operazione. Le sue difficoltà sono state più volte rilevate e si possono ricondurre alla sua ripercussione sul senso letterale, che da verità storica, quale è per i teologi, si trasforma in «bella menzogna», quale sarebbe per i poeti, senza che Dante sembri preoccuparsi troppo di questa trasformazione, e nemmeno rilevarla. Egli, infatti, si limita ad avvertire che è sua intenzione «lo modo de li poeti seguitare», soltanto a proposito del senso allegorico. Lo statuto del senso letterale rimane così in sospeso e riflette la sua ambiguità sulla stessa ‘allegoria dei poeti’.
La definizione del senso letterale manca nella tradizione manoscritta e la lacuna è stata variamente colmata , ricavando l’integrazione da ciò che è detto subito dopo del senso allegorico e dall’uso di espressioni come «parola fittizia», «esposizione fittizia e letterale» in altri luoghi del secondo trattato del Convivio (II.xii.10; e xv.2) . Altrove, all’inizio del primo trattato, il senso letterale è designato, invece, come «la litterale istoria» - espressione che per altro finisce per risultare ambigua dal contesto:
E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'alta darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. (I.i.18)
Comunque, nel caso della sua esposizione della dottrina esegetica biblica, nell’illustrare il senso morale e il senso anagogico, Dante si riferisce senza ambiguità al senso letterale come storicamente vero:
...sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre... (II.i.5)
Ché avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende... (II.i.7)
L’ambiguità non sembra estendersi, dunque, al modello scritturale. Essa concerne soltanto l’ambito dell’esperienza letteraria – il senso letterale nel suo rapporto con l’’allegoria dei poeti’, il significato di quest’ultima e l’applicazione che Dante intende farne – e riflette un’oscillazione tipica della poetica dantesca.
È noto, infatti, come nella Vita Nuova semplici pretesti di poesia, ovvie esercitazioni letterarie su temi convenzionali – belle menzogne, per adoperare l’espressione del Convivio -, acquistino, nell’interpretazione che Dante ne dà più tardi, valore di verità autobiografica . Ciò è evidente soprattutto nei capitoli iii, vii, e viii. Altrove accade, invece, il contrario. È questo il caso dei. Capitoli xxiv (al quale si potrebbe aggiungere per analogia il capitolo ix) e xxv. L'apparizione di Amore nel sonetto «Io mi senti’ svegliar dentro alo core» è presentata, nel racconto in prosa che precede il sonetto, come un’«imaginazione», come un'esperienza effettivamente vissuta al livello dell'immaginazione e non come un espediente retorico. Essa è situata («con un collegamento anche formale alla precedente visione», osserva il De Robertis ) dopo la «vana imaginazione», che costituisce l'argomento della canzone «Donna pietosa e di novella etate» e del capitolo xxiii, e cioè dopo il suo farneticare a causa di «una dolorosa infermitade» (xxiii. I); ed è addirittura accompagnata da «un tremuoto nel cuore», quale quello già altre volte avvertito da Dante in presenza di Beatrice:
Appresso questa vana imaginazione, avvenne uno die che, sedendo io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentio cominciare un tremuoto nel cuore, così come se io fosse stato presente a questa donna. Allora dico che mi giunse una imaginazione d'Amore; che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava, e parcami che lietamente mi dicesse nel cor mio: «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dei fare». (xxiv. 1-2)
Eppure è proprio in termini di figura o colore retorico, di sostituzione del concreto all'astratto, che tale apparizione è interpretata nel capitolo successivo (xxv. 7, 10) - con un evidente slittamento dal piano dell’immaginazione, e della forte emozione che l'accompagna, al piano dell'artificio retorico, della «bella menzogna»:
Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò, che io dico d'Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente, ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la veritate, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. (xxv. 1)
E ricorre per giustificarsi all'esempio dei poeti antichi - intesi per altro secondo la tradizione interpretativa medievale, che, per quanto riguarda Virgilio, risale a Fulgenzio -, sostenendo che la stessa licenza di servirsi di figure o colori retorici ad essi concessa deve essere estesa ai rimatori in volgare.
Lo scarto fra il capitolo xxiv e il capitolo xxv, per quanto riguarda appunto l'apparizione di Amore - immaginazione emotivamente connotata nel primo, puro e semplice artificio retorico nel secondo – ha indotto qualcuno a ritenere che il capitolo xxv sia un'interpolazione, una digressione, estranea alla vera ispirazione del libello, introdotta dallo stesso Dante, ma in un secondo tempo . Qualcosa di simile, e per un motivo simile - la divergenza fra Vita Nuova e Convivio a proposito dell'episodio famoso della 'donna gentile' -, è accaduto per la conclusione della Vita Nuova e per il suo supposto rifacimento. Ma non vorrei riaprire qui questa vexata quaestio della critica dantesca, anche se è mia convinzione che una maggiore attenzione alla poetica e all'autoesegesi dantesca, e all'oscillazione di cui si è detto sopra, potrebbe contribuire a render conto dell'apparente inesplicabilità della divergenza . Per illustrare il significato dell’’allegoria dei poeti' - teorizzata nel Convivio in vista della sua applicazione alle canzoni e, come conseguenza dell'interpretazione della prima di queste, all'episodio della 'donna gentile' - mi limiterò a qualche osservazione circa quel che è detto, nello stesso Convivio, del senso letterale e del senso allegorico di questo episodio.
Interpretata, contrariamente a quanto si poteva desumere dal resoconto della Vita Nuova, come figurazione allegorica della filosofia, la 'donna gentile' è tuttavia presentata nel Convivio come un 'immagine, che coinvolge drammaticamente in primo luogo gli occhi e poi, per loro tramite, l'animo:
quando quella gentile donna parve... a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente... passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro [me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fu contento a disposarsi a quella immagine . (II.ii.1,2)
L'insistenza sugli occhi (canonica nella tradizione cortese ) e su li 'emozione provocata in lui dalla pietà, dalla «vista pietosa», di lei, condensa fedelmente la fase iniziale del racconto della Vita Nuova, nella sua drammatica semplicità. Ma essa può sembrare fuori luogo nel Convivio, dove Dante vorrebbe mostrare come l'immagine di quella donna non era altro che «bella menzogna», figura retorica, personificazione della filosofia. Tanto più che tale insistenza, evidente nell'esposizione letterale, alla quale mi son finora riferito, non si limita ad essa, ma si ritrova nella «esposizione allegorica e vera» (II. xii. 1):
E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno, se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. (Il.xii.6)
L'apparente inopportunità di questa insistenza sul senso della vista ha indotto in errore gli editori inglesi delle Rime, K. Poster e P. Boyde, che, in una lunga appendice alla loro edizione, spiegano «senso di vero» come «senso della verità» ( «sense of truth»), per cui tutto il passo verrebbe a significare che, nel passare dall'esposizione letterale a quella allegorica, agli occhi di Dante si sostituirebbe la sua intelligenza della verità: «Dante's 'occhi' (ii.2) become his 'senso di vero' (cf. xii.6)» . E anche il Pézard, che intende correttamente «di vero» come avverbio, nel senso di veramente («tout de bon»), traduce, per evitare un diretto riferimento al senso della vista, «senso» con «sentiment» e «mirava» con «contemplait»:
...ce pour quoi mon sentiment tout de bon la contemplait si volontiers qu'à peine le pouvais-je détoumer d'icelle .
Ma che si tratti proprio del senso della vista risulta, oltre che dai verbi mirare e volgere, dal passo del De consolatione philosophiae, che Dante ha con ogni probabilità avuto presente, dove Boezio descrive l'apparizione della filosofia:
Itaque ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi, respicio nutricem meam, in cuius ab adolescentia laribus obversatus fueram Philosophiam. (I pr. iii).
La difficoltà c'è, ma essa è inerente al tentativo stesso di Dante, nel Convivio come anche nei capitoli xxiv e xxv della Vita Nuova, di annettere un significato astratto, compatibile con le calcolate figurazioni retorico-allegoriche di tipo boeziano, all'evidenza drammatica delle sue immaginazioni - elemento comune, nel caso della 'donna gentile', alla prima e alla seconda versione dell'episodio, e trait-d'union fra le due. Tale difficoltà affiora nell'opposizione di immaginazione e verità che segue immediatamente, nel corso dell'esposizione allegorica, ali' insistenza sull 'autenticità della sua esperienza visiva:
E da questo imaginare cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti... (II.xii.7)
La distinzione fra «imaginare» e «dimostrarsi veracemente» mette implicitamente in questione la validità dell'immaginazione. Essa rappresenta un ovvio spostamento in direzione opposta a quella della frase precedente e rivela l'instabilità intrinseca alla prospettiva poetico-esegetica adottata da Dante.
Si tratta di una prospettiva che ha senza dubbio i suoi precedenti nella tradizione retorica medievale: nella nozione retorica di allegoria, nell’interpretazione allegorica dei poeti classici e in «quello non conosciuto da molti iibro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea» (II.xii.2).
Ma Dante vi aggiunge di suo l'intensità della sua partecipazione alla vita dell'immaginazione, la sua tendenza a identificarsi, a far tutt'uno con essa, che mette in crisi le figure retoriche. Si ricordi, nella Vita Nuova, il caso estremo, quasi paradigmatico, dell'apparizione di Amore «come peregrino leggeramente vestito di vili drappi» (ix.3), e del suo dileguarsi, non per allontanarsi, ma per immedesimarsi con l'assorto viaggiatore poeta:
E dette queste parole, disparve questa mia imaginazione tutta subitamente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato ne la vista mia, cavalcai quel giorno pensoso molto, e accompagnato da molti sospiri. (ix.7)
È questa intensità che determina la sua irrequieta adesione a quella tradizione retorica e costituisce, quindi, se non sbaglio, il motivo profondo della 'contaminazione' di due modelli esegetici eterogenei e della digressione apparentemente superflua sull'esegesi scritturale. È per questo che l'allegoria dei poeti nella sua applicazione e nello stesso contesto retorico-teologico della sua formulazione, riesce più complessa della formula convenzionale della «veritade ascosa sotto bella menzogna», e finisce per costituire uno dei temi fondamentali della poetica e dell'autoesegesi dantesca. Essa non è puramente in verbis, ma oscilla, come si è visto, tra finzione retorica e realtà; e senza rinunciare del tutto né all’uno né all’altra, né fermarsi a coincidere con l’una o con l’altra, tende a fare spazio alla poesia, terzo non escluso fra i due termini opposti .