Dati bibliografici
Autore: Umberto Eco
Tratto da: Sugli specchi e altri saggi
Editore: Bompiani, Milano
Anno: 1985
Pagine: 215-241
Nell’Epistola XIII, nel fornire a Cangrande della Scala le chiavi di lettura del suo poema, Dante dice che
Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dici litteralis, secundus vero allegoricus, sive moralis, sive anagogicus.
segue il celebre esempio dal Salmo 113: “In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius”. Dante commenta ricordando che secondo la lettera il significato è che i figli di Israele uscirono dall’Egitto al tempo di Mosè, secondo l’allegoria il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo, secondo il senso morale significa che l’anima passa dalle tenebre e dall’infelicità del peccato allo stato di grazia, e secondo il senso anagogico il salmista dice che l’anima santificata esce dalla schiavitù della corruzione terrena verso la libertà dell’eterna gloria.
Et quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab “alleon” grece, quod in latinum dicitur “alienum” sive “diversum”.
È nota la controversia che concerne questa Epistola, se cioè essa sia opera dantesca o meno, e certo non mi sento di sostenere l’una tesi o l’altra sulla base di buoni argomenti filologici. Potremmo dire che, per quanto riguarda sia la storia delle poetiche medievali, sia la storia della fortuna di Dante, l’argomento è irrilevante: nel senso che, anche se l’Epistola non fosse stata scritta da Dante, essa rifletterebbe indubbiamente un atteggiamento interpretativo assai comune a tutta la cultura medievale e la teoria dell’interpretazione esposta nell’Epistola spiegherebbe il modo in cui nei secoli Dante è stato letto. L’Epistola altro non fa che applicare al poema dantesco quella teoria dei quattro sensi che ha circolato per tutti i secoli del medioevo e che può essere riassunta dal distico attribuito a Nicholas de Lyra o ad Agostino di Dacia:
littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia.
Il tipo di lettura proposto dall’Epistola XIII è radicalmente medievale. Per contestarlo non c’è che da contestare l’intera visione medievale della poesia e tentare letture di tipo romantico o post-romantico (pensiamo al dantismo di Croce) in cui si disconosca ogni diritto alla rappresentazione “polisema” e al gioco intellettuale della interpretazione. Una lettura che, lo sappiamo, se ci può fornire virtuosi fremiti passionali di fronte alle colombe dal desìo chiamate, ci inibisce la comprensione dei tre quarti, o forse più, del poema dantesco, che richiede al contrario una retta e simpatetica comprensione del gusto medievale per il sovrasenso e per la significazione indiretta, nutrita di cultura biblica e teologica. Un altro argomento che potrebbe militare in favore di una attribuzione dell’Epistola a Dante, è che una teoria interpretativa simile (e insisto su simile, per evitare l’aggettivo “identica”) si trova nel Convivio: un poeta che presenta le proprie poesie corredate da un commento filosofico che spiega come interpretarle correttamente, è un poeta che certamente crede che il discorso poetico abbia almeno un senso in più di quello letterale, che questo senso sia codificabile e che il gioco della decodifica faccia parte integrante del piacere della lettura e rappresenti una delle finalità principali della attività poetica. Tuttavia molti si sono accorti che l’Epistola XIII non dice esattamente le stesse cose dette nel Convivio.1 In questo testo per esempio è netta la distinzione tra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi (Conv. II, 1), mentre l’Epistola, e proprio in virtù dell’esempio biblico così diffusamente commentato, sembra ignorare la divisione. Certo, si dice, Dante avrebbe benissimo potuto scrivere l’Epistola XIII e correggere parzialmente quanto dice nel Convivio, ma sta di fatto che egli era imbevuto di pensiero tomista, e pare che l’Epistola esponga una teoria che è in disaccordo con la teoria tomistica del significato poetico. Ora, di fronte a questo problema, come vedremo, restano solo tre soluzioni possibili:
1. L’Epistola non è di Dante, ma questo significherebbe che ha avuto credito nell’ambiente dantesco, e in epoca molto prossima alla pubblicazione del poema, una teoria poetica che avrebbe dovuto palesemente discordare dalle idee attribuibili a Dante e al suo entourage culturale, a cominciare dalla schiera di tutti i suoi commentatori.
2. L’Epistola è di Dante e Dante ha voluto esplicitamente contrastare l’opinione dell’Angelico dottore.
3. L’Epistola è di Dante, Dante rimane sostanzialmente fedele a San Tommaso, ma l’Epistola non dice esattamente quello che sembra voler dire, bensì qualcosa di più sottile.
Per dare una risposta alla nostra domanda e per decidere quale delle tre soluzioni sia la più attendibile, occorre rifare sia pure in breve la storia dell’allegorismo e/o del simbolismo medievale.
Di interpretazione allegorica si parlava anche prima della nascita della tradizione scritturale patristica: i greci interrogavano allegoricamente Omero, nasce in ambiente stoico una tradizione allegoristica che mira a vedere nell’epica classica il travestimento mitico di verità naturali, c’è una esegesi allegorica della Torah ebraica e Filone di Alessandria nel primo secolo tenta una lettura allegorica dell’antico testamento. In altri termini, che un testo poetico o religioso si regga sul principio (che il medioevo farà proprio) per cui “aliud dicitur, aliud demonstratur” è idea assai antica e questa idea viene comunemente eticheata sia come “allegorismo” che come “simbolismo”. La tradizione occidentale moderna è abituata ormai a distinguere allegorismo da simbolismo, ma la distinzione è assai tarda: sino al Settecento i due termini rimangono per gran parte sinonimi,2 come (lo vedremo) lo erano stati per la tradizione medievale. La distinzione incomincia a porsi col Romanticismo e in ogni caso coi celebri aforismi di Goethe (1809-32):
L’allegoria trasforma il fenomeno in un concetto e il concetto in una immagine, ma in modo che il concetto nell’immagine sia da considerare sempre circoscritto e completo nell’immagine e debba essere dato ed esprimersi attraverso di essa (1.112).
Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l’idea in una immagine, in tal modo che l’idea nell’immagine rimanga sempre infinitamente efficace e inaccessibile e, anche se pronunciata in tutte le lingue, resti tuttavia inesprimibile (1.113).
È molto diverso che il poeta cerchi il particolare in funzione dell’universale oppure veda nel particolare l’universale. Nel primo caso si ha l’allegoria, in cui il particolare vale solo come esempio, come emblema dell’universale; nel secondo caso si svela la vera natura della poesia: si esprime il caso particolare senza pensare all’universale e senza alludervi. Ora chi coglie questo particolare vivente coglie allo stesso tempo l’universale senza prenderne coscienza, o prendendone coscienza solo più tardi (279).
Vero simbolismo è quello in cui l’elemento particolare rappresenta quello più generale, non come sogno od ombra ma come rivelazione viva e istantanea dell’imperscrutabile (314).
È facile comprendere come dopo tali affermazioni si tenda a identificare il poetico col simbolico (aperto, intuitivo, non traducibile in concetti), condannando l’allegorico al rango di pura esercitazione didattica. Tra i grandi responsabili di questa nozione del simbolo come evento rapido, immediato, folgorante, in cui si coglie per intuizione il numinoso, ricorderemo Creuzer (1810-12). Ma se Creuzer, a torto o a ragione, vedeva questa nozione di simbolo porre le proprie radici nel profondo dell’anima mitologica greca e la distinzione tra simbolo e allegoria a noi pare assai chiara, ai medievali non lo era affatto ed essi usavano con molta disinvoltura termini come simboleggiare e allegorizzare quasi fossero sinonimi.
Non solo, ma Jean Pépin (1970) o Erich Auerbach (1944) ci mostrano con dovizia di esempi che anche il mondo classico intendeva “simbolo” e “allegoria” come sinonimi, tanto quanto facevano gli esegeti patristici e medievali. Gli esempi vanno da Filone a grammatici come Demetrio, da Clemente d’Alessandria a Ippolito di Roma, da Porfirio allo Pseudo Dionigi Areopagita, da Plotino a Giamblico, dove si usa il termine simbolo anche per quelle raffigurazioni didascaliche e concettualizzanti che altrove saranno chiamate allegorie. E il medioevo si adegua a quest’uso. Caso mai, suggerisce Pépin, sia l’antichità che il medioevo avevano più o meno esplicitamente chiara la differenza tra una allegoria produttiva, o poetica, e una allegoria interpretativa (che poteva essere attuata sia su testi sacri che su testi profani).
Alcuni autori (come ad esempio Auerbach) tentano di vedere qualcosa di diverso dall’allegoria quando il poeta, anziché allegorizzare scopertamente come fa per esempio all’inizio del poema o nella processione del Purgatorio, mette in scena personaggi come Beatrice o San Bernardo che, pur rimanendo figure vive e individuali (oltre che personaggi storici reali) diventano “tipi” di verità superiori a causa di alcune loro caratteristiche concrete. Alcuni si arrischiano a parlare, per questi esempi, di “simbolo”. Ma anche in questo caso abbiamo una figura retorica abbastanza ben decodificabile, e concettualizzabile, che sta a metà strada tra la metonimia e l’antonomasia (i personaggi rappresentano per antonomasia alcune delle loro caratteristiche eccellenti) e abbiamo se mai qualcosa che si avvicina alla idea moderna del personaggio “tipico”. Ma non si ha nulla della rapidità intuitiva, della folgorazione inesprimibile che l’estetica romantica attribuirà al simbolo. E d’altra parte questa “tipologia” era vastamente attuata dall’esegesi medievale quando assumeva personaggi dell’antico testamento come “figure” dei personaggi o degli eventi del nuovo. I medievali avvertivano questo procedimento come allegorico – e precisamente come quella forma di allegoria che è l’allegoria in factis. D’altra parte lo stesso Auerbach, che tanto insiste sulla differenza tra metodo figurale e metodo allegorico, intende con questo secondo termine l’allegorismo filoniano, che sedusse anche la prima patristica, ma riconosce esplicitamente (alla nota 51 del suo saggio “Figura”) che quello che egli intende come procedimento figurale era chiamato dai medievali, e al tempo di Dante, appunto “allegoria”. Se mai Dante estende ai personaggi della storia profana un procedimento che si adoperava per i personaggi della storia sacra (vedi per esempio la rileura in chiave provvidenzialistica della storia romana in Conv. IV, 5).
Un’idea di simbolo come apparizione o espressione che ci rinvia a una realtà oscura, inesprimibile a parole (e tantomeno per concetti), intimamente contraddittoria, inafferrabile, e quindi a una sorta di rivelazione numinosa, di messaggio mai consumato e mai completamente consumabile, si impone con la diffusione in occidente, in ambiente rinascimentale, degli scritti ermetici, e richiede un neoplatonismo “molto forte”, come vedremo in seguito.
Una idea dell’Uno come insondabile e contraddittorio la troviamo certamente nel primo neoplatonismo cristiano, e cioè in Dionigi Areopagita, dove la divinità è nominata come “caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente… tenebra luminosissima” che “non è un corpo né una figura né una forma e non ha quantità o qualità o peso, non è in un luogo, non vede, non ha un tatto sensibile, non sente né cade sotto la sensibilità… non è né anima né intelligenza, non possiede immaginazione od opinione, non è numero né ordine né grandezza… non è sostanza, né eternità né tempo… non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità” e così via per pagine e pagine di folgorante afasia mistica (theologia mistica, passim). Ma Dionigi, e ancor più i suoi commentatori ortodossi (come Tommaso) tenderanno a tradurre l’idea panteistica di emanazione in quella, non panteistica, di partecipazione e con conseguenze di non poco momento per una metafisica del simbolismo e una teoria dell’interpretazione simbolica, sia dei testi come universo simbolico che dell’universo intero come testo simbolico… Infatti in una prospettiva della partecipazione l’Uno – in quanto assolutamente trascendente – è totalmente lontano da noi (noi siamo fatti di “pasta” totalmente diversa dalla sua, perché della sua energia emanativa non siamo le deiezioni). Esso non sarà affatto il luogo originario delle contraddizioni che affliggono i nostri oscuri discorsi su di esso, perché anzi le contraddizioni nascono dall’inadeguatezza di questo stesso discorso. Nell’Uno al contrario le contraddizioni si compongono in un logos privo di ambiguità. Contraddittori saranno i modi in cui noi, per analogia con le esperienze mondane, cercheremo di nominarlo: non potremo sottrarci al dovere e al diritto di elaborare nomi divini e di attribuirli alla divinità, ma lo faremo appunto in modo inadeguato. E non perché Dio non sia concettualizzabile, perché di Dio si dicono i concetti di Uno, di Vero, di Bene, di Bello, come si dice la Luce, e la Folgore e la Gelosia, ma perché questi concetti e di lui saranno detti solo in modo “ipersostanziale”: egli sarà queste cose, ma in una misura incommensurabilmente e incomprensibilmente più alta. Anzi, ci ricorda Dionigi (e sottolineano i suoi commentatori), proprio affinché sia chiaro che i nomi che gli attribuiamo sono inadeguati, sarà opportuno che per quanto possibile essi siano difformi, incredibilmente disadatti, quasi provocatoriamente offensivi, straordinariamente enigmatici, come se la qualità in comune che andiamo cercando tra simbolizzante e simbolizzato sia, sì, reperibile, ma a costo di acrobatiche inferenze e sproporzionatissime proporzioni; e affinché, se si nomina Dio come luce, i fedeli non si facciano l’idea errata che esistano sostanze celesti luminose e auriformi, converrà maggiormente nominare Dio sotto specie di esseri mostruosi, orso, pantera, ovvero per oscure dissimiglianze (De Coelesti Hier. 2).
Così si comprende come e perché questo modo di parlare, che lo stesso Dionigi chiama “simbolico” (per esempio, De Coelesti Hier. 2 e 15), non abbia nulla a che vedere con quella illuminazione, quell’estasi, quella visione rapida e folgorante che ogni teoria moderna del simbolismo vede come propria del simbolo. Il simbolo medievale è modo di accesso al divino ma non è epifania del numinoso né ci rivela una verità che possa essere detta solo in termini di mito e non in termini di discorso razionale. È anzi vestibolo al discorso razionale e suo compito (dico del discorso simbolico) è proprio render palese, nel momento in cui appare didascalicamente e vestibolarmente utile, la propria inadeguatezza, il proprio destino (direi quasi hegeliano) ad essere inverato da un discorso razionale successivo. Tanto che non sarà un caso se l’approccio simbolico agli attributi divini si trasformerà, con la scolastica matura dell’Aquinate, nel ragionamento per analogia, che simbolico non è più, ma procede per una semiosi di rinvio dagli effetti alle cause, in un gioco di giudizi di proporzione, non di folgorante similitudine morfologica o comportamentale. Questa meccanica ormai matura del discorso analogico come euristicamente adeguato sarà poi teorizzata splendidamente da Kant nel breve e lucido capitolo che dedica alle intuizioni simboliche nella terza critica. 3
Il problema è piuttosto ora di stabilire perché il medioevo arriva a teorizzare così compiutamente un modo espressivo e conoscitivo che d’ora in poi, per attenuare la contrapposizione, chiameremo non più simbolico o allegorico ma più semplicemente “figurativo”.
La storia è nota, e basterà qui riassumerla per sommi capi. Il punto di partenza è l’Epistola II ai Corinzi di Paolo: “videmus nunc per speculum et in aenigmate, tunc autem facie ad faciem”. Nel tentativo di contrapporsi alla sopravvalutazione gnostica del nuovo testamento, a totale detrimento dell’antico, Clemente di Alessandria pone una distinzione e una complementarità tra i due testamenti, e Origene perfezionerà la posizione affermandone la necessità di una lettura parallela. L’antico testamento è la figura del nuovo, ne è la lettera di cui l’altro è lo spirito, ovvero in termini semiotici ne è l’espressione retorica di cui il nuovo è il contenuto. A propria volta il nuovo testamento ha senso figurale in quanto è la promessa di cose future. Nasce con Origene il “discorso teologale”,4 che non è più – o solo – discorso su Dio, ma sulla sua Scrittura.
Già con Origene si parla di senso letterale, senso morale (psichico) e senso mistico (pneumatico). Di lì la triade letterale, tropologico e allegorico che lentamente si trasformerà nella quaterna di cui abbiamo letto in Dante.
Sarebbe affascinante, ma non è questa la sede, seguire la dialettica di questa interpretazione e il lento lavoro di legittimazione che essa richiede: perché da un lato è la lettura “giusta” dei due testamenti che legittima la Chiesa come custode della tradizione interpretativa, e dall’altro è la tradizione interpretativa che legittima la giusta lettura: circolo ermeneutico quanti altri mai, e sin dall’inizio, ma circolo che ruota in modo da espungere tendenzialmente tutte le letture che, non legittimando la Chiesa, non la legittimino come autorità capace di legittimare le letture.
Sin dalle origini l’ermeneutica origeniana, e dei padri in genere, tende a privilegiare, sia pure sotto nomi diversi, un tipo di lettura che in altra sede è stata definita “tipologica”: i personaggi e gli eventi dell’antico testamento sono visti, a causa delle loro azioni e delle loro caratteristiche, come tipi, anticipazioni, prefigurazioni dei personaggi del nuovo. Di qualunque pasta sia questa tipologia essa prevede già che ciò che è figurato (tipo, simbolo o allegoria che sia) sia allegoria non in verbis ma in factis. Non è la parola di Mosé o del salmista, in quanto parola, che va letta come dotata di sovrasenso, anche se così si dovrà fare quando si riconosca che essa è parola metaforica: sono gli eventi stessi dell’antico testamento che sono stati predisposti da Dio, come se la storia fosse un libro scritto dalla sua mano, per agire come figure della nuova legge.5
Chi affronta decisamente questo problema è Agostino e lo può fare perché, come si è mostrato in altre sedi,6 egli è il primo autore che, sulla base di una cultura stoica bene assorbita, fonda una teoria del segno (molto affine per molti aspetti a quella di Saussure, sia pure con un considerevole anticipo). In altri termini Agostino è il primo che si può muovere con disinvoltura tra segni che sono parole e cose che possono agire come segni perché egli sa ed afferma con energia che “signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire”, il segno è ogni cosa che ci fa venire in mente qualcosa d’altro al di là dell’impressione che la cosa stessa fa sui nostri sensi (De Doctr. II, I, I). Non tutet le cose sono segni, ma certo tutti i segni sono cose, ed accanto ai segni prodotti dall’uomo per significare intenzionalmente ci sono anche cose ed eventi (perché non fatti e personaggi?) che possono essere assunti come segni o (ed è il caso della storia sacra) possono essere soprannaturalmente disposti come segni affinché come segni siano letti.
Agostino sviluppa la sua semiotica in vari testi e massime nel De Magistro. Ma è nel De Doctrina Christiana, dedicato all’interpretazione delle Scritture, che egli elabora quella che oggi chiameremmo una semiotica testuale e certamente una metodologia ermeneutica. Non sto usando questi termini per analogia – come si farebbe se si dicesse che Democrito elabora una teoria atomica. La nostra teoria atomica deve ormai pochissimo a quella democritea, se non una idea seminale centrale, mentre tutte le semiotiche testuali e tutte le ermeneutiche contemporanee viaggiano ancora lungo le linee di forza prescritte da Agostino, anche quando sono semiotiche o ermeneutiche secolarizzate, anche quando non riconoscono la loro origine, anche quando trattano come testo sacro e ricettacolo di sapienza infinita il testo poetico mondano. E vedremo quanto la concezione dantesca della poesia debba a questa mistica dell’interpretazione. Agostino affronta la lettura del testo biblico fornito di tutti i parafernali linguistico-retorici che la cultura di una tarda latinità non ancora distrutta poteva fornirgli, come ci ha magistralmente dimostrato H.I. Marrou (1937). Egli applicherà alla lettura i principi della lectio per discriminare attraverso congetture sulla giusta puntuazione il significato originario del testo, della recitatio, del judicium, ma soprattutto della enarratio (commento e analisi) e della emendatio (che noi potremmo oggi chiamare critica testuale o filologia). Ci insegnerà così a distinguere i segni oscuri e ambigui da quelli chiari, a dirimere la questione se un segno debba essere inteso in senso proprio e in senso traslato. Si porrà il problema della traduzione, perché sa benissimo che l’antico testamento non è stato scritto nel latino in cui egli lo può avvicinare, ma egli non conosce l’ebraico – e quindi proporrà come ultima ratio di comparare tra loro le traduzioni, o di commisurare il senso congetturato al contesto precedente o seguente (e infine, per quanto riguarda la sua lacuna linguistica, egli diffida degli ebrei che potrebbero aver corrotto il testo originale in odio alla verità che esso così chiaramente rivelava…).
Nel far questo egli elabora una regola per il riconoscimento dell’espressione figurata che rimane valida ancora oggi, non tanto per riconoscere i tropi e le altre figure retoriche, ma quei modi di strategia testuale a cui oggi assegneremmo (e in senso moderno) valenza simbolica (sia nel senso del simbolismo decadente che in quello dell’epifania joyciana o del correlativo oggettivo eliotiano). Egli sa benissimo che (o almeno così tradurremmo alla luce della pragmatica contemporanea) un tropo come la metafora o la metonimia si possono chiaramente riconoscere perché se fossero prese alla lettera il testo apparirebbe o insensato o infantilmente mendace. Ma cosa fare per quelle espressioni (di solito a dimensioni di frase, di narrazione e non di semplice immagine) che potrebbero “far senso” anche letteralmente e a cui l’interprete è invece indotto ad assegnare senso figurato (come per esempio le allegorie)? Dante potrebbe benissimo aver incontrato in una foresta una lince, una lupa e un leone, non emerge in questa vicenda la caratteristica insensatezza della metafora (per cui un essere umano è nominato come lupo, leone o lince), si tratta solo di decidere perché si possa compiere l’arbitrio interpretativo di leggere allegoricamente.
Agostino ci dice che dobbiamo subodorare il senso figurato ogni qual volta la Scrittura, anche se dice cose che letteralmente fanno senso, pare contraddire le verità di fede, o i buoni costumi. La Maddalena lava i piedi al Cristo con unguenti odorosi e li asciuga coi propri capelli. È possibile pensare che il Redentore si sottometta a un rituale così pagano e lascivo? Certo no. Dunque la narrazione raffigura qualche cosa d’altro.
Ma dobbiamo subodorare il secondo senso anche quando la Scrittura si perde in superfluità o mette in gioco espressioni letteralmente povere. Queste due condizioni sono mirabili per sottigliezza e, insisto, modernità, anche se Agostino le trova già suggerite in altri autori.7 Si ha superfluità quando il testo si sofferma troppo a descrivere qualcosa che letteralmente fa senso, senza che però si vedano le ragioni testualmente “economiche” di questa insistenza descrittiva. E pensiamo pure in termini moderni, perché mai Montale spende tanti dei suoi “vecchi versi” a descriverci una falena che entra in casa durante una notte tempestosa e sbatte sul tavolo “pazza aliando le carte”? È perché essa sta al posto di qualcosa d’altro (e il poeta, in chiusura, lo riconferma). Del pari, secondo Agostino, si procede per le espressioni semanticamente povere come i nomi propri, i numeri e i termini tecnici, che stanno evidentemente per altro (e di qui l’ermeneutica numerologica e la ricerca etimologica, in cui naturalmente Agostino e il medioevo tutto daranno, ai nostri occhi moderni, il peggio di sé).
Se queste sono le regole ermeneutiche (come identificare i brani da interpretare secondo un altro senso), a questo punto occorrono ad Agostino le regole più strettamente semiotico-linguistiche: dove cercare le chiavi per la decodifica, perché si tratta pur sempre di interpretare in modo “giusto” e cioè secondo un codice approvabile. Quando parla delle parole Agostino sa dove trovar le regole, e cioè nella retorica e nella grammatica classica: non c’è difficoltà particolare in questo. Ma Agostino sa che la Scrittura non parla solo in verbis ma anche in factis (De Doctr. XV, 9, 15 – ovvero c’è allegoria historiae oltre ad allegoria sermonis, De vera rel. 50, 99) e quindi richiama il suo lettore alla conoscenza enciclopedica (o almeno a quella che il mondo tardo antico poteva provvedergli).
Se la Bibbia parla per personaggi, oggetti, eventi, se nomina fiori, prodigi di natura, pietre, se mette in gioco sottigliezze matematiche, occorrerà cercare nel sapere tradizionale quale sia il significato di quella pietra, di quel fiore, di quel mostro, di quel numero.
Ed ecco perché a questo punto il medioevo inizia a elaborare, sul modello del Physiologus, le proprie enciclopedie, da Isidoro di Siviglia a Vincenzo Bellovacense et ultra. Si tratta di provvedere, sempre sulla base della tradizione, le regole di correlazione per poter assegnare a qualsiasi elemento dell’ammobiliamento del mondo fisico un significato figurale. E siccome l’autorità ha un naso di cera e ciascun enciclopedista è nano sulle spalle degli enciclopedisti precedenti, non ci sarà difficoltà non solo a moltiplicare i significati ma gli stessi elementi dell’ammobiliamento mondano, inventando creature e proprietà che servano (a causa delle loro caratteristiche curiose, e tanto meglio se, come ricordava Dionigi, queste creature saranno difformi rispetto al significato divino che veicolano) a rendere il mondo un immenso atto di parola: come vorrà poi Ugo di San Vittore, niente altro che un immenso “liber scriptus digito dei” (Didascalicon, PL CLXXVI, 814).
È l’atteggiamento che De Bruyne (1946) ed altri autori chiameranno “allegorismo universale”, in cui, secondo Riccardo di San Vittore (PL, 196, 90), “habent corpora omnia visibilia ad invisibilia bona similitudinem”. In tal senso il medioevo porterà alle estreme conseguenze il suggerimento agostiniano: se l’enciclopedia ci dice quali sono i significati delle cose che la Scrittura mette in scena, e se queste cose sono gli elementi dell’ammobiliamento del mondo, di cui la Scrittura parla (in factis), allora la lettura figurale si potrà esercitare non solo sul mondo quale la Bibbia lo racconta, ma direttamente sul mondo quale è. Leggere il mondo come accolta di simboli è il modo migliore di attuare il dettato dionisiano e poter elaborare ed attribuire nomi divini (e con essi moralità, rivelazioni, regole di vita, modelli di conoscenza). A questo punto ciò che si chiama indifferentemente simbolismo o allegorismo medievale prende vie diverse. Diverse almeno ai nostri occhi che cercano una tipologia maneggevole; ma questi modi di fatto si compenetrano di continuo, specie se si considera che, per soprannumero, anche i poeti tenderanno a parlare come le Scritture.
Ancora una volta la distinzione tra simbolismo e allegorismo è di comodo. La pansemiosi metafisica è quella che nasce coi Nomi divini di Dionigi, suggerisce la possibilità di rappresentazioni di tipo figurale, ma di fatto sfocia nella teoria dell’analogia entis, e quindi si risolve in una visione semiotica dell’universo in cui ogni effetto è segno della propria causa. Se si comprende cosa sia l’universo per il neoplatonico medievale (e si veda per esempio Scoto Eriugena, De divisione naturae, 5, 3, PL 122: “nihil enim visibilium rerum, corporaliumque est, ut arbitror, quod non incorporale quid et intellegibile significet”), ci rendiamo conto che in questo contesto non si parla tanto della similitudine allegorica o metaforica tra corpi terreni e cose celesti, ma di una loro significazione più “filosofica” che ha a che fare con l’ininterrotta sequenza di cause ed effetti della “grande catena dell’essere”.8
Per quanto riguarda l’allegorismo scritturale in factis – considerando che la lettura delle Scritture si complica anche dell’attenzione a quanto in esse vi appare di allegorismo in verbis – l’intera tradizione patristica e scolastica è lì a testimoniare di questa interrogazione infinita del Libro Sacro come “latissima scripturae sylva” (Origene, In Ez. 4), sì che l’intera scrittura può essere definita “…oceanum et mysteriosum dei, ut sic loquar, labyrinthum” (Gerolamo, In Ez. 14). E a testimonianza di questa voracità ermeneutica valga la seguente citazione:
…scriptura sacra, morem rapidissimi fluminis tenens, sic humanarum mentium profunda replet, ut semper exundet: sic haurientes satiat, ut inexhausta permaneat. Profluunt ex ea spiritualium sensuum gurgites abundantes, et transeuntibus aliis, alia surgunt: immo, non transeuntibus, quia sapientia immortalis est: sed emergentibus et decorem suum ostendentibus aliis, alii non deficientibus succedunt sed manentes subsequuntur, ut unusquisque pro modo capacitatis suae in ea reperiat unde se copiose reficiat et aliis unde se fortiter exercent derelinquat (Gilberto di Stanford, In Cant. Prol., Leclercq, St. Ans. XX, 225).
Del pari vorace sarà l’interrogazione del labirinto mondano, di cui si è già detto.
Quanto all’allegorismo poetico (di cui una variante può essere l’allegorismo liturgico o in generale qualsiasi discorso per figure, siano esse visive o verbali, che appaia come prodotto umano), esso è invece il luogo della decodifica retorica.
È chiaro che da questo punto di vista il discorso su Dio e sulla natura prende due vie abbastanza discordanti tra loro. Perché la corrente della pansemiosi metafisica tende ad escludere le rappresentazioni per figure. Essa, diremmo oggi, è di tipo più “scientifico” e come tale è il discorso della teologia, sia che essa si fondi sulle metafisiche neoplatoniche della luce o sull’ileomorfismo tomista. Di converso l’allegorismo universale rappresenta una maniera fiabesca e allucinata di guardare all’universo non per ciò che appare ma per ciò che potrebbe suggerire. Un mondo della ragione inquirente contro un mondo dell’immaginazione affabulante: in mezzo, ciascuno ormai ben definito nel proprio ambito, la lettura allegorica della Scrittura e la produzione scoperta di allegorie poetiche, anche mondane (come il Roman de la rose).
È ovvio che i rappresentanti del pensiero teologico “scientifico” debbano in un certo qual senso vedere di malocchio l’allegorismo universale dell’affabulazione enciclopedica. Di qui l’operazione di pulizia, e diciamo pure di “polizia” culturale che compie Tommaso d’Aquino, liquidando l’allegorismo universale, e ridimensionando l’allegorismo poetico per lasciare uno spazio a sé all’allegorismo scritturale.
Tommaso si chiede anzitutto se sia lecito l’uso di metafore poetiche nella Bibbia e conclude negativamente perché la poesia sarebbe “infima doctrina” (S.Th. I, 1, 9). “Poetica non capiuntur a ratione humana propter defectus veritatis qui est in eis” (S.Th. II-II, 2 ad 2), ma l’affermazione non va presa come una umiliazione della poesia o come la definizione del poetico in termini settecenteschi di “perceptio confusa”. Si tratta piuttosto di riconoscere alla poesia il rango di arte (e quindi di recta ratio factibilium), là dove il fare è naturalmente inferiore al puro conoscere della filosofia e della teologia. Tommaso apprendeva dalla Metafisica aristotelica che gli sforzi affabulanti dei primi poeti teologi avevano rappresentato un modo ancora infantile di conoscenza razionale del mondo. Di fatto, come tutti i pensatori della scolastica, egli è disinteressato a una dottrina della poesia (argomento per i trattatisti di retorica, che professavano alla facoltà delle Arti e non alla facoltà di Teologia). Tommaso è stato poeta in proprio (ed eccellente) ma nei brani in cui compara la conoscenza poetica a quella teologica egli si adegua a una contrapposizione canonica e si riferisce al modo poetico come a un semplice (e inanalizzato) termine di paragone.
D’altra parte egli ammette che i misteri divini, che eccedono le nostre possibilità di comprensione, debbono essere rivelati in forma allegorica: “conveniens est sacrae scripturae divina et spiritualia sub similitudine corporalium tradere” (S.Th. I, 1, 9). Per quanto riguarda la lettura del testo sacro, egli precisa che esso si fonda anzitutto sul senso letterale o senso storico. Parlando della storia sacra è chiaro perché ciò che è letterale sia storico: il libro sacro dice che gli ebrei uscirono dall’Egitto, narra un fatto, questo fatto è comprensibile e costituisce la denotazione immediata del discorso narrativo: “illa vero significatio qua res significatae per voces, iterum res alias significant, dicitur sensus spiritualis, qui super litteralem fundatur, et eum supponit” (S.Th. I, 1, 10, resp.).
Tommaso chiarisce in vari punti che sotto la dizione generica di “sensus spiritualis” egli intende i vari sovrasensi che si possono attribuire al testo. Ma il problema è un altro: è che in questi accenni al senso letterale egli introduce una nozione piuttosto importante e cioè che per senso letterale egli intende “quem auctor intendit”.
La precisazione è importante per capire gli aspetti successivi della sua teoria dell’interpretazione strutturale. Tommaso non parla di senso letterale come di senso dell’enunciato (ciò che denotativamente l’enunciato dice secondo il codice linguistico a cui fa riferimento) bensì come del senso che viene attribuito nell’atto dell’enunciazione. In termini contemporanei, se io in una sala affollata dico “qui c’è molto fumo” posso voler affermare (senso dell’enunciato) che nella stanza c’è troppo fumo, ma posso anche voler intendere (a seconda della circostanza di enunciazione) che sarebbe opportuno aprire la finestra o smettere di fumare. È chiaro che per Tommaso entrambi i sensi fanno parte del senso letterale perché entrambi i sensi fanno parte del contenuto che l’enunciatore intendeva enunciare. Tanto è vero che poiché l’autore delle Scritture è Dio, e Dio può comprendere e intendere molte cose a un tempo, è possibile che nelle Scritture ci siano “plures sensus” anche secondo il semplice senso letterale.
Quando è allora che Tommaso è disposto a parlare di sovrasenso o di senso spirituale? Evidentemente quando in un testo si possono identificare dei sensi che l’autore non intendeva comunicare, e non sapeva di comunicare. E il caso tipico di una situazione del genere è quello di un autore che narri dei fatti senza sapere che questi fatti sono stati predisposti da Dio, come segni di altro.
Ora quando Tommaso parla di storia sacra dice esplicitamente che il senso letterale (o storico) consiste, come contenuto proposizionale veicolato dall’enunciato, in alcuni fatti ed eventi (per esempio, che Israele si è sottratto alla cattività o che la moglie di Lot è stata trasformata in una statua di sale). Ma siccome questi fatti, ormai lo sappiamo, e Tommaso lo ripete, sono stati predisposti da Dio come segni, sulla base della proposizione intesa (sono avvenuti dei fatti così e così), l’interprete deve ulteriormente cercare la loro triplice significazione spirituale. Infatti “Deus adhibet ad significationem aliquorum ipsum cursus rerum suae providentiae subjectarum” (Quodl. VII, 6, 16).
Non siamo di fronte ad alcun procedimento retorico come accadrebbe per i tropi o per le allegorie in verbis. Siamo di fronte a pure allegoria in factis: “sensus spiritualis… accipitur vel consistit in hoc quod quaedam res per figuram aliarum rerum exprimuntur” (Quodl. VII, 6, 15).
Ma le cose cambiano quando si passa alla poesia mondana e a qualsiasi altro discorso umano che non verta sulla storia sacra. Infatti a questo punto Tommaso fa una importante affermazione che possiamo così riassumere: l’allegoria in factis vale solo per la storia sacra ma non per la storia profana. Per così dire Dio ha limitato il suo ufficio di manipolatore di eventi alla sola storia sacra, ma non vi è da ricercare alcun significato mistico dopo la redenzione, la storia profana è storia di fatti e non di segni: “unde in nulla scientia, humana industria inventa, proprie loquendo, potest inveniri nisi litteralis sensus” (Quodl. VII, 6, 16 co).
L’affermazione è degna di nota perché di fatto liquida l’allegorismo universale, il mondo allucinato dell’ermeneutica naturale tipico del medioevo precedente. Abbiamo in un certo senso una laicizzazione della natura e della storia mondana, e cioè dell’intero universo post-scritturale, ormai estraneo alla invadente regia divina.
E per la poesia? La soluzione di Tommaso è la seguente: nella poesia mondana, quando c’è figura retorica, c’è semplice “sensus parabolicus”. Ma il sensus parabolicus fa parte del senso letterale. L’affermazione appare stupefacente a prima vista, come se Tommaso appiattisse tutte le connotazioni retoriche sul senso letterale: ma egli ha già precisato e precisa in vari punti che per senso letterale egli pensa al senso “inteso” dall’autore. E dunque dire che il senso parabolico fa parte del senso letterale non vuol dire che non ci sia sovrasenso ma che questo sovrasenso fa parte di ciò che l’autore intende dire. Quando leggiamo una metafora o una allegoria in verbis noi di fatto, in base a regole retoriche assai codificate, la traduciamo facilmente e comprendiamo quello che l’enunciatore intendeva dire come se il significato metaforico fosse il senso letterale diretto dell’espressione. Non c’è quindi sforzo ermeneutico particolare, la metafora o l’allegoria in verbis sono comprese direttamente così come noi intendiamo direttamente una catacresi. “Fictiones poeticae non sunt ad aliud ordinatae nisi ad significandum”, e il loro significato “non supergreditur modum litteralem” (Quodl. VII, 6, 16, ob. 1 e ad 1). Talora nelle Scritture si designa Cristo attraverso la figura di un capro: non è allegoria in factis, è allegoria in verbis. Non simboleggia o allegorizza cose divine o future, semplicemente significa (parabolicamente, ma quindi letteralmente) Cristo (Quodl. VII, 6, 15). “Per voces significatur aliquid proprie et aliquid figurative, nec est lieralis sensus ipsa figura, sed id quod est figuratum” (S.Th. I, 1, 10 ad 3).
Per riassumere: c’è senso spirituale nelle Scritture perché i fatti ivi narrati sono segni del cui sovrasignificato l’autore (sia pure ispirato da Dio) non sapeva nulla (e, aggiungeremo noi, il lettore comune, il destinatario ebraico della Scrittura, non era preparato a scoprirlo). Non c’è senso spirituale nel discorso poetico e neppure nella Scrittura quando usa figure retoriche perché quello è senso inteso dall’autore, il lettore lo individua benissimo come letterale in base a regole retoriche. Ma questo non significa che il senso letterale (come senso parabolico ovvero retorico) non possa essere molteplice. Il che in altri termini vuol dire, anche se Tommaso non lo dice apertis verbis (perché non è interessato al problema), che è possibile che nella poesia mondana vi siano sensi molteplici. Salvo che essi, realizzati secondo il modo parabolico, appartengono al senso letterale dell’enunciato, come è stato inteso dall’enunciatore.
Parimenti parleremo di semplice senso letterale anche per l’allegorismo liturgico, che può anche essere allegorismo non di parole ma di gesti e colori o immagini, perché anche in tal caso il legislatore del rito intende dire qualcosa di preciso attraverso una parabola, e non v’è da ricercare nelle espressioni, che esso formula o prescrive, un senso segreto che sfugga alla sua intenzione.
Se il precetto cerimoniale quale appare nell’antica legge aveva senso spirituale, nel momento in cui viene introdotto nella liturgia cristiana esso assume puro e semplice valore parabolico.
Nel compiere questa singolare operazione teorica, Tommaso, lo si è detto, di fatto sanciva – alla luce del nuovo naturalismo ileomorfico – la fine dell’universo dei bestiari e delle enciclopedie, la visione favolosa dell’allegorismo universale. E questo era lo scopo principale del suo discorso, rispetto al quale le osservazioni sulla poesia appaiono abbastanza parentetiche. Ma se queste affermazioni debbono venir prese alla lettera, ecco che la polisemia del discorso poetico ne verrebbe dimensionata, non tanto quanto al suo meccanismo retorico (dato che la pluralità di sensi rimane possibile), quanto piuttosto rispetto alla pratica, comune a tutto il medioevo, di interpretare anche i poeti pagani come portatori di una tipologia di cui essi non sapevano nulla, e quindi come rivelatori di verità, veicolabili per sovrasenso, di cui essi non erano consci. Ne rimane implicitamente svalutata quella lettura oracolare di Virgilio, ma non solo di Virgilio, della stessa mitologia pagana che i medievali praticavano ampiamente e che, non dimentichiamolo, sarà praticata assiduamente dallo stesso Dante – e che continuerà ad essere praticata per esempio da Boccaccio nella Genealogia deorum gentilium.
Ecco che a questo punto si palesano gli aspetti imbarazzanti dell’Epistola XIII. È chiaro cosa volesse fare Dante quando nel Convivio presenta delle canzoni e poi offre le regole per la loro interpretazione. Da un lato segue la tradizione allegoristica medievale e non riesce a concepire una poesia che non abbia un significato figurale, ma dall’altro non si pone affatto in contrasto con la teoria tomista, perché egli intende suggerire che quanto deriverà dalla interpretazione allegorica della canzone è esattamente quello che egli, il poeta, voleva dire. Sotto il velame delli versi strani, attraverso il modo parabolico, si svela il senso letterale della canzone, e questo è vero a tal punto che Dante scrive il suo commento proprio perché questo senso letterale venga inteso. E per non ingenerare equivoci egli distingue, in spirito abbastanza tomista, tra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi.
Accade la stessa cosa nell’Epistola XIII, chiunque l’abbia scritta.
Prima facie, è già abbastanza sospetto che come esempio di lettura allegorica poetica l’autore presenti un brano biblico. Si potrebbe obiettare (e Pépin tra gli altri l’ha fatto – 1958: 81) che qui Dante non cita il fatto dell’Esodo, bensì il detto del Salmista che parla dell’Esodo (differenza di cui era conscio già Agostino, Enarr. in psalm. CXIII). Ma poche linee prima di citare il salmo, Dante parla del proprio poema, e usa una espressione che alcune traduzioni, più o meno inconsciamente, attenuano. Per esempio la traduzione di A. Frugoni e G. Brugnoli, nell’edizione Ricciardi delle opere minori9, fa dire a Dante: “il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo”. Se così fosse, Dante sarebbe assai ortodossamente tomista, perché parlerebbe di un significato parabolico, inteso dall’autore, che quindi potrebbe essere ridotto, in termini tomisti, al significato letterale (e pertanto l’Epistola starebbe ancora parlando dell’allegoria dei poeti e non di quella dei teologi). Ma il testo latino recita: “alius est qui habetur per significata per litteram” e qui sembra proprio che Dante voglia parlare “delle cose che sono significate dalla lettera” e quindi di una allegoria in factis. Se avesse voluto parlare del senso inteso non avrebbe usato il neutro “significata” ma una espressione come “sententiam”, che nel lessico medievale vuole dire appunto il senso dell’enunciato (inteso o no che esso sia).
Come è possibile parlare di allegoria in factis a proposito di eventi raccontati nell’ambito di un poema mondano il cui modo, Dante lo dice nel corso della lettera, è “poeticus, fictivus”?
Le risposte sono due. Se si assume che Dante era un tomista ortodosso, allora non resta che decidere che l’Epistola, che va così palesemente contro il dettato tomista, non è autentica. Ma in tal caso sarebbe curioso che tutti i commentatori danteschi abbiano seguito la via segnata dall’Epistola (Boccaccio, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti e così via).
Ma l’ipotesi più economica è che Dante, almeno sulla definizione della poesia, non sia affatto un tomista ortodosso. L’opinione è confermata proprio da Gilson e in particolare da Curtius (1948: XII, 3) quando afferma che “gli specialisti della scolastica… troppo sovente… soccombono alla tentazione di trovare un’armonia provvidenziale tra Dante e San Tommaso”.10 E Bruno Nardi ricordava che “la maggior parte degli studiosi di Dante s’è preclusa la via a intenderne il pensiero, accettando la leggenda, coniata dai neotomisti, che faceva di lui un fedele interprete delle dottrine dell’Aquinate”.11 Curtius mostra molto bene che quando Dante definisce, nell’Epistola, il suo poema come ispirato a una forma o “modus tractandi” che è “poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus”, aggiunge che esso è parimenti “cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus”. Egli mette in gioco dieci caratteristiche di cui cinque sono quelle che la tradizione assegnava al discorso poetico ma cinque sono tipiche del discorso filosofico e teologico.
Dante ritiene che la poesia abbia dignità filosofica, e non solo la sua ma quella di tutti i grandi poeti, e non accetta la liquidazione dei poeti-teologi attuata da Aristotele (e commentata da San Tommaso) nella Metafisica. Sesto tra cotanto senno (con Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano – Inferno 4, 78), egli non ha mai cessato di leggere e i fatti della mitologia e le altre opere dei poeti classici come se fossero allegorie in factis, usanza che, in spregio al caveat tomista, era coltivata a Bologna nel periodo che Dante vi visse (come suggerisce Pépin sulla scorta di Renucci, 1958). In questi termini parla dei poeti nel De Vulgari (1, 2, 7), nel Convivio, in molti punti, e nella Commedia afferma apertamente che Stazio fa le persone dotte “come quei che va di notte – che porta il lume dietro e a sé non giova” (Purg. XXII, 67-69): la poesia del pagano veicola dei sovrasensi di cui l’autore non era a conoscenza. E nell’Epistola VII fornisce una interpretazione allegorica di un brano delle Metamorfosi, visto come prefigurazione del destino di Firenze. Puro gusto retorico dell’exemplum, si dirà: ma perché l’exemplum sia persuasivo occorre pur intendere che i fatti narrati dai poeti abbiano valore tipologico.
Ed è così, il poeta continua a proprio modo la Sacra Scrittura, così come nel passato l’aveva corroborata o addirittura anticipata. Dante vive nel periodo in cui Albertino Mussato celebra il “poeta teologo”, e ha una nozione assai alta della propria commedia. Se a Cangrande la presenta come commedia, gli lascia intendere, proprio attraverso gli esempi che abbiamo addotto, che egli la considera una buona e valida prosecuzione del libro divino. Egli crede alla realtà del mito che ha prodotto come crede abbastanza alla verità allegorica dei miti classici che cita, altrimenti non si spiegherebbe perché possa introdurre nel suo poema, accanto a personaggi storici assunti come figure del futuro, anche personaggi mitologici quali Orfeo. E a maggior ragione Catone sarà degno di significare, congiuntamente a Mosè, il sacrificio di Cristo (Purg. I, 70-75) o Dio stesso (Conv. IV, 28, 15).
Se tale è la funzione del poeta, di figurare, sia pure attraverso la menzogna poetica, fatti che funzionino come segni, a imitazione di quelli biblici, allora si capisce perché Dante proponga a Cangrande quella che è stata definita da Curtius “autoesegesi” e da Pépin “auto-allegoresi”. Ed è pensabile che Dante intenda il sovrasenso del poema molto vicino al sovrasenso biblico, nel senso che talora il poeta stesso, ispirato, non è cosciente di tutto quello che dice. Per questo egli invoca l’ispirazione divina (rivolgendosi ad Apollo) nel primo canto del Paradiso. E se il poeta è colui che quando amor l’ispira nota, ed a quel modo che detta dentro va significando (Purg. XXIV, 52-54), si potrà dunque adoperare – per interpretare quello che egli non sempre sa di aver detto – gli stessi procedimenti che Tommaso (ma non Dante) riserva alla storia sacra. Se il dettato poetico fosse tutto letterale, come nel senso parabolico tomista, non si vede perché ingombrare vari passi della propria opera con istanze dell’enunciazione in cui il poeta invita il lettore a decifrare quanto si nasconde sotto il velame delli versi strani (Inf. IX, 61-63).12
Bisognerà allora concludere che la passione allegorica medievale era così forte che quando Tommaso ne riduce la portata, riconoscendo che ormai, per la cultura del XIII secolo, il mondo naturale si sottrae alla lettura interpretativa e figurale, saranno proprio i poeti, non tenendo in gran cale la riduzione tomista del modo poetico, ad assegnare alla poesia mondana quella funzione che lo sviluppo del nuovo spirito naturalistico aveva sottratto alla lettura del mondo.
Così, proprio nel momento in cui Tommaso pare svalutare il modo poetico, i poeti lo portano al massimo della sua dignità e aprono, in definitiva, quella corrente di una mistica del testo che continuerà sino ai nostri giorni, sia pure laicizzata e sotto le forme della jouissance, della decostruzione, o della interpretazione enigmistico-metafisica.
Dante, nel suo implicito contraddittorio con San Tommaso, anticipa di quasi due secoli quella che possiamo definire una vera e propria “rottura epistemologica”.
Ciò che rende Dante ancora medievale è il fatto che egli continua a credere che la poesia non abbia significati infiniti e indefiniti: egli sembra conservare la persuasione che i sensi, ancorché multipli, siano quattro, e che quindi possano essere codificati e decodificati sulla base di una enciclopedia. Anche le varie affabulazioni moderne che vogliono Dante associato ai mitici Fedeli d’Amore, lo pensano pur sempre come il portatore di una Sapienza occulta che parla tuttavia in cifra. Il che ci permette di dire che, al postutto, neppure Dante traccia una linea di demarcazione definitiva tra simbolo (nel senso moderno del termine) e allegoria.
Ma, se ancora al tempo di Dante gli interpreti delle Scritture erano garantiti, nella loro ricerca di una “giusta” lettura, da una lunga tradizione che forniva i criteri per la corretta interpretazione del testo sacro, cosa succede, tra Dante e il Rinascimento, ora che (San Tommaso teste e autore) il mondo è stato privato di qualsiasi senso mistico e rimane incerto sotto l’ispirazione di chi (Dio, Amore o altro?) il poeta inconsciamente parli?
Per la cultura che si avvia all’Umanesimo e al Rinascimento, il mondo araldico dei bestiari e dei lapidari – liquidato da San Tommaso – non ha del tutto perso il suo fascino. Salvo che viene ripensato e rivissuto alla luce di una diversa sensibilità.
Proprio nel momento in cui le scienze naturali si avviano a diventare sempre più quantitative, e Aristotele sembrava non avere più nulla da dire, appare sulla scena europea il Corpus Hermeticum e sotto questa influenza, congiunta con quella della Kabbala e di una alchimia ormai praticata en plein air, i nuovi filosofi del neoplatonismo fiorentino iniziano ad esplorare una nuova foresta simbolica dove, per dirla con Baudelaire, “de vivant piliers – laissent parfois sortir des confuses paroles; – l’homme y passe à travers des foréts de symboles – qui l’observent avec des regards familiers”.
In questo nuovo ambiente filosofico l’idea di simbolo subisce una profonda trasformazione. Dicevo all’inizio che per concepire questa nuova idea occorreva un neoplatonismo molto “forte”, e intendo per neoplatonismo forte il neoplatonismo delle origini, almeno sino a Proclo, e le sue versioni gnostiche, in cui al sommo di una scala degli esseri, prodotta per emanazione, stia un Uno inafferrabile ed oscuro, che non essendo suscettibile di nessuna determinazione le contenga tue e sia dunque il luogo della contraddizione stessa. Fondiamo queste tre idee:
1. la dottrina neoplatonica dell’emanazione per cui si dà parentela fisica, ovvero continuità emanatistica, tra ogni elemento dell’arredo mondano e l’Uno originario;
2. l’idea che questo Uno sia luogo della contraddizione e realizzi la coincidentia oppositorum (idea ermetica, ma che si rafforza alla luce delle teorie cusaniane e bruniane);
3. l’idea, neoplatonica ed ermetica, che questa Unità sorgiva e contraddittoria sia insondabile e inesprimibile se non per via di negazione o di approssimazione provocatoriamente inadeguata (così che di ogni possibile rappresentazione dell’Uno non si possa dare interpretazione, definizione o traduzione possibile se non rinviando ad altre rappresentazioni altrettanto oscure e inadeguate).
Ed ecco che abbiamo le condizioni perché possa svilupparsi, nei modi più vari, una filosofia e una estetica del simbolo come rivelazione intuitiva e non verbalizzabile (e cioè non interpretabile concettualmente – né dimentichiamoci i debiti dell’estetica idealistica romantica, massime Schelling, verso questo pensiero ermetico).
I caratteri principali della cosiddetta tradizione ermetica – seguo alcune osservazioni di Gilbert Durand (1979: cap. 4) – sono i seguenti:
1. Il rifiuto della metricità, l’opposizione del qualitativo al quantitativo, la credenza che niente è stabile e che ogni elemento dell’universo agisce su ogni altro attraverso un’azione reciproca.
2. Il rifiuto del causalismo, per cui l’azione reciproca dei vari elementi dell’universo non segue la sequenza lineare di causa ed effetto ma piuttosto una sorta di logica spiraliforme della mutua simpatia degli elementi. Se l’universo è una rete di similitudini e simpatie cosmiche, non sono più privilegiate le catene causali. La tradizione ermetica estende il rifiuto della causalità anche alla storia ed alla filologia, di modo che la sua logica riesce ad includere il principio dell’ante hoc ergo propter hoc. Un esempio tipico di questo atteggiamento è il modo in cui ogni pensatore ermetico dimostra che il Corpus Hermeticum non è un prodotto della cultura ellenistica ma viene prima di Platone, di Pitagora, della cultura egiziana. L’argomento addotto suona così: “poiché il Corpus Hermeticum contiene idee che palesemente circolavano al tempo di Platone, ciò vuol dire che esso apparve prima”. Ad un orecchio occidentale, educato su un’epistemologia causalistica, tale argomento suona offensivo, ma basta leggere alcuni dei cosiddetti testi Tradizionali per realizzare che, nel suo proprio ambiente, viene preso molto sul serio.
3. Il rifiuto del dualismo, di modo che lo stesso principio di identità entra in crisi, così come quello del terzo escluso. Tertium datur: l’idea della coincidentia oppositorum dipende da quest’assunzione di base.
4. Il rifiuto dell’agnosticismo. Si dovrebbe pensare che l’agnosticismo sia un atteggiamento molto moderno e che da questo punto di vista la tradizione ermetica non possa essere opposta a quella scolastica. Ma i medievali, benché praticassero la credulità, avevano comunque un senso molto preciso della discriminazione tra opposti. Essi certamente non usavano metodi sperimentali per accertare come stessero le cose ma erano profondamente interessati a determinare che stessero. O un’idea rifletteva l’opinione aristotelica o non la rifletteva affatto: non c’era via di mezzo e se si profilava la possibilità di una conciliazione, come accadeva con i tipici argomenti dell’Aquinate, tale conciliazione finale era la verità finale. Al contrario il pensiero ermetico, essendo non agnostico ma gnostico, rispetta l’insieme della saggezza tradizionale, poiché persino dove c’è contraddizione tra due o più assunzioni, ognuna di queste può produrre una parte di verità, la verità essendo l’insieme di un campo contrastante di idee.
La tradizione ermetica è fondata sul principio di similitudine: sicut superius sic inferius. Ed una volta deciso di individuare similitudini, è possibile trovare similitudini ovunque, poiché, sotto una certa descrizione, tutto può essere visto come simile a tutto.
Un esempio interessante di questo modo di pensare – non accidentalmente in debito con la tradizione ermetica – è la teoria jungiana dei simboli come archetipi: i simboli sono inesauribili, densi di significati appena intravisti, autocontraddittori. Le immagini archetipiche sono così cariche di significati da renderne impossibile un’interpretazione definitiva. Tale vaghezza è così costitutiva della loro natura che quando rischiamo di trasformare simboli della nostra cultura in emblemi sclerotizzati, allora dobbiamo passare ai simboli di una cultura più esotica, poiché questi ultimi, apparendo inconsueti, mantengono ancora un’aura, un mana. C’è simbolo quando qualcosa può essere contemporaneamente “iuvenis et senex”. Se un cosiddetto simbolo diventa univocamente interpretabile, perde il suo potere simbolico.
Così un nuovo simbolismo crebbe in atmosfera ermetica, da Pico della Mirandola a Ficino a Giordano Bruno, da Reuchlin e Robert Fludd al simbolismo francese, Yeats e molte teorie contemporanee. Parlando dell’informe, i simboli non possono avere significato definito.
È comunque interessante notare che, pur essendo radicalmente differente da quello medievale, questo simbolismo moderno obbedisce alle stesse leggi semiotiche. Nel primo caso si assume che i simboli hanno un significato, ma poiché il loro significato finale è lo stesso incessante messaggio, allora esiste un’inesauribile varietà di significanti per un unico significato. Nel secondo caso, i simboli hanno ogni possibile significato in virtù della contraddittorietà interna della realtà, ma poiché ogni simbolo parla di questa fondamentale contraddittorietà, allora un’inesauribile quantità di significanti sta sempre per il loro unico significato, l’inesauribilità dei sensi di ogni testo.
Il libro, ogni libro, o parla variamente ma unicamente di Dio, o parla variamente ma equivocamente di Hermes.
Tuttavia qualcosa è avvenuto, e non di poco momento. Non diremo che la distinzione tra simbolo e allegoria si profili subito e in modo definitivo: basta rivisitare i manuali di emblematica, da Ripa a Maier, per avvedersi che l’interpretazione simbolica (aperta) tende sempre a chiudersi, a legalizzarsi, nel rebus allegorico, ossessivamente commentato. Ma è la natura del commento che è diversa: il lettore ha continuamente l’impressione di vedersi offrire delle chiavi (come un tempo), ma ora il significato finale, la soluzione ultima, tende sempre ad allontanarsi, e la nuova enigmistica – a differenza di quella medievale, che premiava il solutore corretto – diventa una tecnica dell’elusione.
Chi farà propria questa tecnica, e in pieno, allontanandosi sempre più dalla allegoria codificata, è il poeta. Privato di un mondo fatto di segni scritti dal dito di un Dio aristotelico, mentre la nuova scienza tende a riscrivere questo mondo in termini matematici, il poeta rende sempre più numinoso il proprio testo e vi fonda, come religione laica, il proprio misticismo estetico, sino alle depravazioni del gusto ermeneutico che porteranno, dalle correnti esoteriche e dai preraffaelliti in poi, a vedere non solo nei testi moderni, ma negli stessi testi medievali, tanti più sovrasensi ed enigmi, e parole in codice, di quanto l’antico simbolismo non vi avesse voluto inserire.
Né, ormai lo sappiamo, a questo clima si sottraggono gli stessi scienziati che stanno risolvendo l’universo delle qualità in quello delle quantità: anch’essi sempre, e ambiguamente, almeno sino a Newton, con gli occhi fissi sulle loro formule esatte, e il cuore, o l’immaginazione, ancora presi dalla fascinazione ermetica. Si tratta, al postutto, della sostituzione di una teologia con un’altra. Ficino e Pico lo sapevano, il mondo moderno e contemporaneo tende a dimenticarlo, e occulta le nuove facoltà di teologia sotto l’aspetto di nuove facoltà delle arti.
Cosicché si sarebbe tentati, alla luce della dialettica tra simbolo e allegoria, di riscrivere i manuali che salutano, mentre Colombo sbarca nel nuovo mondo e i kabbalisti vengono cacciati di Spagna, l’uscita dell’umanità dagli Evi Bui, e l’ingresso nella Età della Ragione. Al postutto l’operazione di polizia compiuta da Tommaso era alquanto “illuministica”, rispetto alla rinata religiosità dei suoi posteri. Ma quanto la ragione corrode da un lato, l’ansia per qualche rivelazione fa rifiorire dall’altro.