Dati bibliografici
Autore: Alreamo P. Lanapoppi
Tratto da: Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society
Numero: 86
Anno: 1968
Pagine: 17-39
I progressi compiuti negli ultimi anni in fatto di studi medievali per quanto riguarda la nozione generale di allegoria da una parte e il modo particolare di Dante d'intenderla dall'altra, permettono oggi di riaprire la discussione sui modi dell'allegoria dantesca su una base assai più larga e precisa di quella di cui si disponeva anche solo vent' anni or sono. Non riteniamo si possa, per ora, arrivare a conclusioni certissime; tuttavia molte nebbie si possono ormai diradare, e l'orizzonte, sgombrato di tanta letteratura ormai inutile, si fa sempre più chiaro. Se non proprio i risultati, almeno le linee direttive della ricerca futura si possono tracciare chiaramente e si riducono, ci sembra, a pochi concetti fondamentali.
Come punto di partenza per l'indagine, ci pare che nulla possa prestarsi meglio degli studi di Charles S. Singleton, che ebbe appunto il merito di riprendere il problema dell'allegoria dantesca impostandolo sulla base dei più recenti risultati del lavoro dei medievalisti e indirizzandolo così sulla giusta strada. Va subito detto che senza il lavoro di chiarificazione del Singleton la presente ricerca non sarebbe probabilmente stata possibile; esiste però nelle conclusioni dell'insigne dantista, altrove così persuasivo, la traccia di una sostanziale ambiguità che lascia perplesso e irresoluto il lettore e che permette all'autore, come vedremo, di porsi ora dall'uno ora dall'altro di due opposti punti di vista senza riuscire a conciliare del tutto una certa interna contraddizione. Trovare la ragione di questa contraddizione permetterà da un lato di meglio comprendere la natura dei procedimenti allegorici danteschi, dall' altro di acquietare, chi prendesse queste cose a cuore, un fastidioso senso di irrequietezza e insoddisfazione.
Veniamo dunque al problema e impostiamolo, con il Singleton, nel modo tradizionale, facendo riferimento a un famoso passo del Convivio, passo che chiediamo licenza di citare di nuovo per intero:
Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. £ a ciò dare a intendere, si vuoi sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera delle parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuoi dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.
La distinzione qui è semplice e chiara. Nei lavori dei poeti il significato letterale è bella menzogna, sotto la quale giace ascosa la veritade, cioè appunto il significato allegorico. Nel dir questo Dante non fa che ripetere brevemente dei concetti ormai stabilissimamente entrati nella cultura del suo tempo, e già familiari non solo ai Romani ma addirittura ai Greci; tanto per citarne le formulazioni più note, si pensi a quella antica di Teodulfo d'Orleans:
Et modo Pompeium modo te, Donate, legebam,
Et modo Vergilium te modo, Naso loquax.
In quorum dictis quamquam sint frivola multa,
Plurima sub falso tegmine vera latent;
o alle parole di Alano da Lillà:
In superficiali litterae cortice falsum resonat lyra poetica, sed interius, auditoribus secretum intelligentiae altioris eloquitur, ut exteriore falsitatis abjecto putamine, dulciorem nucleum veritatis secrete intus lector inveniat;
o infine alla nota espressione di Giovanni di Salisbury, a proposito di Virgilio: "sub imagine fabularum totius philosophiae exprimit veritatem."
Altrettanto unitaria e solida si presenta la tradizione medievale per quanto riguarda il procedimento delle Scritture. La grande differenza che lo separa da quello dei poeti è la stessa abissale distanza che corre fra l'onnipotenza di Dio e la limitatezza dell'uomo: se l'uomo infatti può scrivere e significare con le parole, Dio, e solo Dio, può scrivere e significare coi fatti. L'allegoria divina ha questa inimitabile caratteristica: che in essa "non solum dieta, sed etiam res gestae prophetiae sunt," "non tantum verba, sed etiam res significare habent." La stessa formula è anche in S. Tommaso: "Respondeo dicendum quod auetor Sacrae Scripturae est Deus, in cuius potestate est ut non solum voces ad significandum accomodet (quod etiam homo facere potest) sed etiam res ipsas." Applicando ora questa schematica distinzione alla Commedia, sembra che la conclusione discenda da sola: poiché Dante non è certo disceso di persona all'Inferno, né egli pretendeva, per quanto ne sappiamo finora, che il lettore credesse alla realtà storica del viaggio, l'allegoria della Commedia si presenta come allegoria "dei poeti" : un significato di verità nascosto sotto il velo della favola o dell'invenzione poetica. Ma purtroppo le cose non sono così semplici. Già il Barbi, cui premeva di sottolineare il valore di "profezia" della Commedia, negava che si potesse semplicemente considerare il significato letterale come "bella menzogna"; il Singleton poi magistralmente rovescia le posizioni, e intende mostrare come solo il termine "allegoria dei teologi" convenga al poema. Egli vi giunge attraverso due ordini di considerazioni, che dovremo ora discutere. Il primo è tratto dall'altra importante testimonianza dantesca in materia di allegoria, l’Epistola a Cangrande. In essa il poeta, com'è noto, presenta la terza cantica (o una prima parte di essa) a Cangrande della Scala; e si sofferma sul valore allegorico dell'opera in questi termini:
Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerali in hiis versibus: "In exitu Israel de Egypto, domus Jacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius." Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egypto, tempore Moysis ; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum ; si ad moralem sensum significatur nobis conversio anime de luetu et miseria peccati ad statum gratie: si ad anagogicum, significatur nobis exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. Et quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab "alleon" grece, quod in latinum dicitur "alienum," sive "diversum." His visis, manifestum est quod duplex oportet esse subiectum, circa quod currant alterni sensus. Et ideo videndum est de subiecto huius operis, prout ad litteram accipitur; deinde de subiecto, prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de ilio et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.
Riferendosi alle ultime righe, il Singleton scrive che qui si tratta, "beyond the shadow of a doubt," dell'allegoria dei teologi. L'affermazione, a dire il vero, sembra già a priori stranissima per un orecchio cristiano. Essa implica infatti due postulati: (1) Dante è realmente andato nell'aldilà, ha realmente visto Minosse, conversato con Farinata, intuito il mistero della Trinità; (2) Dante si atteggia a biblico profeta, pretendendo essere il poema non il frutto della sua per quanto alta fantasia di uomo, ma della dettatura o ispirazione divina; egli cioè aggiunge un nuovo capitolo alla Bibbia. Inutile dire quanto assurde queste idee suonino a chiunque abbia un minimo di familiarità con i testi sacri, e quanto assurde sarebbero prima di tutto suonate a Dante stesso; non può esser dunque questo che il Singleton voglia dire. Eppure egli scrive:
The allegory of thè Divine Comedy is so clearly thè "allegory of theologians" (as thè Letter to Can Grande by its example says it is) that one may only wonder at thè continuing efforts made to see it as the "allegory of poets."
Corriamo dunque a verificare la portata degli argomenti che sostengono una tesi così inquietante. Si tratta, come si è accennato, di due differenti argomenti, conducenti alla medesima conclusione. Cominciamo dunque dal primo. Esso consiste sostanzialmente in ciò, che nel brano dell'Epistola Dante cita come esempio dei vari significati allegorici un versetto della Bibbia, mentre nel Convivio l'esempio addotto è quello della favola di Orfeo. E qui respiriamo un poco: forse l'argomento non è così forte da giustificare un tale capovolgimento nel nostro concetto della poesia dantesca. Scrive il Singleton:
It is their (i.e. dei teologi) kind of allegory not only because Holy Scripture is cited to illustrate it, but because since Scripture is cited, thè first or literal sense cannot be fictive but must be trae and, in this instance, historical. The effeets of Orpheus' music on beast and stones may be a poet's invention, setting forth under a veil of fiction some hidden truth, but the Exodus is no poet's invention.
E, come l'esodo, così anche il viaggio di Dante sarebbe "no poet's invention." Ci sembra però che, prima di giungere a una conclusione di tanta portata, sia bene riflettere un poco. Nel Convivio, parlando delle sue canzoni, Dante cita una favola; nell'Epistola, parlando della Commedia, egli cita la Bibbia. Ora, non potrebbero esservi altre ragioni per questa scelta? Non potrebbe essa, anziché esser volta a sottolineare il valore storico del viaggio nell'aldilà, sottolineare, per esempio, il valore fittizio delle canzoni del Convivio? E ci torna in mente, naturalmente, la spiegazione offerta, nel primo trattato del Convivio, del perché l'autore si accinga ad esporre pubblicamente il significato nascosto nelle sue canzoni:
Movemi timore d'infamia, e movemi desiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere signoreggiata. La quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione.
Dante aveva dunque una ragione per mettere in rilievo il carattere fittizio delle sue canzoni. Cioè: benché si sapesse ben da tutti che nei componi- menti allegorici la lettera, eccezion fatta per la Sacra Scrittura, non è mai reale, tuttavia, in quella particolare sede, era più opportuno scegliere un esempio che ne sottolineasse il carattere d'invenzione, che era quello che all'autore più premeva. Ed ora capiamo due cose molto importanti: anzitutto perché nel Convivio Dante abbia tanto insistito sul valore di bella menzogna dei procedimenti poetici, ed introdotta quella distinzione tra poeti e teologi che nell'Epistola non riprenderà; e poi anche che, forse, la distinzione teologi-poeti, qui esplicitamente dichiarata per una precisa ragione, non è il punto di partenza più indicato per un esame della Commedia: e vedremo in seguito come quest'idea si mostri sempre più esatta.
Inoltre: nel Convivio Dante non discute soltanto del senso allegorico, ma anche del morale e dell'anagogico, proponendosi di venire a rivelarli "incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà." Si tratta dunque, poiché egli intende trovarli nelle sue canzoni, del senso morale e dell'anagogico "dei poeti." Eppure, quali esempi ne dà? Proprio due esempi tratti dalle Scritture: per il senso morale egli cita la trasfigurazione di Cristo, e per l'anagogico addirittura lo stesso versetto di "In exitu Israel de Egypto" che ritroviamo nell'Epistola! Che dire ora? Non certo che per questi due sensi non vi fossero esempi nelle favole dei poeti, ove anzi, se l'anagogico può far difetto, il morale è onnipresente. Bisogna dunque concludere che non è dagli esempi citati che potremo capire di che genere di allegoria Dante stia trattando; e riconoscere anzi che proprio quando sta distinguendo tra i due generi di allegoria il poeta complica le cose introducendo, a illustrare l'allegoria dei poeti, due esempi tratti dalle Scritture. Ed ecco rinascere il sospetto che forse questa differenza non era poi tanto urgente nelle sue idee né nella mente dei contemporanei: da una parte perché troppo nota era la sostanziale differenza, consistente nel valore storico della lettera; e dall'altra perché, molto più abituati di tanti moderni a trattare delle cose sacre, gli uomini del Medioevo vi portavano quella disinvoltura che a volte ci stupisce come quasi sacrilega: per cui non è improbabile che, cercando un esempio di senso morale e di senso anagogico, Dante abbia citato due passi delle Scritture, quelli più facilmente associati con i sensi da esporre. Va aggiunto che, poiché nei trattati del Convivio che seguivano Dante parlava quasi esclusivamente del senso allegorico (una sola volta accenna al morale, mai all'anagogico), e poiché questo criterio egli intendeva con tutta probabilità seguire nei trattati non scritti, vi era ragione per dilungarsi alquanto a discutere del senso allegorico, ma sugli altri due si poteva sorvolare, citando appunto i più ovvii ed evidenti esempi. Nell’Epistola, non essendoci il bisogno di insistere sulla falsità del significato letterale, Dante può esporre la teoria dei quattro sensi con maggiore eleganza e sistematicità, servendosi cioè di un solo esempio; e certo non deve neppure avergli sfiorata la mente l'idea che qualcuno lo avrebbe accusato di porsi per questo sullo stesso piano dei profeti. E che non vi sia una precisa corrispondenza tra l'esempio trascelto e il resto del discorso è provato infallibilmente da un fatto: che dopo aver così illustrato i quattro sensi Dante espone, della Commedia, solo il senso letterale e l'allegorico. Non una parola di morale o di anagogia, così qui come nel Convivio: perché il genere di allegoria di cui si tratta è, dobbiamo concludere, il medesimo.
Questo argomento del Singleton non può dunque esser considerato probativo, specialmente in materia di tanta importanza. L'esame dell'altro argomento richiederà forse un po' più di attenzione, e un più diretto richiamo ai procedimenti in uso ai tempi di Dante presso i mitografi da un lato, gli esegeti biblici dall'altro. Il Singleton presenta il seguente ragionamento: la Sacra Scrittura è la narrazione di fatti reali. Essa ha dunque un duplice scopo: da un lato ricordare avvenimenti accaduti, la storia di un popolo, dall'altro alludere, attraverso il racconto, a un'altra storia, a un altro significato. Si tratta dunque di un'allegoria di "this and that": il primo significato è sullo stesso piano del secondo. Nei poeti invece si tratta di "this for that": la lettera non si sostiene e giustifica che in quanto racchiude il significato allegorico. Se ne conclude che, mentre nella Sacra Scrittura gli eventi narrati possono, di quando in quando, avere una ragione di esistere in quanto narrazione di fatti reali, anche ove non nascondano altri significati, nel caso dei poeti il racconto ha la sua giustificazione solo nella verità che nasconde: per cui dovremmo, a prender la Commedia come allegoria "dei poeti," cercare in ogni parola e in ogni verso il significato nascosto. Ecco come il Singleton riassume il suo argomento:
If we take the allegory of the Divine Comedy to be the allegory of poets (as Dante understood that allegory in thè Convivio) then we shall be taking it as a construction in which the literal sense ought always to be expected to yield another sense because the literal is only a fiction devised to express a second meaning. In this view thè second meaning, if it does not give another, trae meaning, has no excuse for being. Whereas, if we take thè allegory of thè Divine Comedy to be the allegory of theologians, we shall expect to find in the poem a first literal meaning presented as a meaning which is not fictive but true, because the words which give that meaning point to events which are seen as historically true. And we shall see these events themselves reflecting a second meaning because their author, who is God, can use events as men use words. But, we shall not demand at every moment that the event signified by the words be in its turn as a word, because this is not the case in Holy Scripture.
Questo punto di vista ha bisogno, come si vede, di esser verificato direttamente sui testi; e all'esame rivela di rispecchiare piuttosto un ragionamento condotto intelligentemente dal critico che un procedi- mento realmente in uso nel Medioevo. Sembra anzi, come vedremo subito, che una ricerca in questa direzione conduca proprio alla conclusione contraria; finché ci si accorge che non è questa la strada da seguire, o l'impostazione da dare al problema. Consideriamo prima gli esegeti della Bibbia; vedremo poi gli espositori delle favole poetiche.
Riguardo alle Scritture, non si hanno difficoltà a notare che i soli passi che, in esse, possono essere privi di significato allegorico sono quelli in cui si espongono pure leggi morali o insegnamenti di fede: tutto il resto, tutti gli eventi, sono invece carichi di questo significato. E anzi, molti di questi eventi si spiegano proprio in grazia dell’allegoria di cui sono portatori: altrimenti dovremmo dire che le Scritture raccontano spesso particolari inutili e infantili. Si rovescia così la tesi del Singleton: proprio perché i fatti narrati e i particolari trascelti sono stati voluti da Dio, e perché Dio ha voluto che l'autore, materiale strumento della Sua voce, li narrasse, essi debbono avere un significato allegorico. Giacobbe trova un gruppo di pastori riuniti attorno ad una grossa pietra, che essi aspettano di risollevare per abbeverare le bestie: particolare inutile e vano in un libro sacro. Ma sentiamo quel che ne dice Pier Damiani:
Hoc piane quantum ad litteram videtur frivolum. Quid enim ad sacram Scripturam pertinet, ut referat quia custos asinorum aquas reperit in desertum? Sed ubi in sacris litteris nulla videtur utilitas, ad spiritualem intelligentiam necesse est ut mens recurrat.
Il Vangelo si sofferma a narrare i particolari dell’incontro di Cristo con Marta e Maria? Ecco allora Bonaventura chiosare: "Certe, vita istarum mulierum non prò nihilo recitatur in Evangelio; immo, ut ostendatur quod perfectior est vita contemplativa quam activa."
È difficile esser più chiari di così. Una lezione tipica e chiara di meto- dologia in fatto di esegesi biblica può esser considerato un noto passo del Breviloquium di Bonaventura. Egli inizia bensì dicendo: "attendat autem expositor quod non ubique requirenda est allegoria, nec omnia sunt mystice exponenda"; ma continua spiegando che la Scrittura ha quattro parti: due di esse hanno sempre un significato allegorico (quella in cui la lettera parla "de mundanis naturis" cioè il Genesi, e quella in cui parla "de actibus et processus illius populi Israelitici"); ve n'è poi una terza, priva di allegoria, "in qua nudis verbis significat et exprimit (sc. S. Scriptura) quae pertinent ad nostram salutem vel moribus;" e infine una quarta, "in qua praenuntiat nostrae salutis mysterium" servendosi in parte di "nudis verbis" cioè senza allegoria, in parte di parole "aenigmaticis et obscuris." Risulta così evidente che quando vi è la narrazione di un fatto essa è sempre allegorica, posto che non allegoriche sono solo le parti in cui si parla direttamente e chiaramente (nudis verbis) di dottrine morali o della salvazione futura. Queste parti non sono allegoriche solo perché in esse il significato letterale coincide con quello che nella narrazione è il significato allegorico. Ciò costringerebbe appunto a cercare nella Commedia l'allegoria di tutti i fatti e di tutti i personaggi, dal levarsi di Cavalcante accanto a Farinata al pugno di Sinone sul ventre di Mastro Adamo: che è appunto quanto il Singleton voleva, giustamente, evitare.
Alle stesse conclusioni giungiamo esaminando l'altro genere di allegoria, quella dei poeti. Al limite, è vero che in essa, come vuole il Singleton, il significato letterale non esiste che in funzione dell'altro che in sé racchiude; ma è anche vero, ed è quello che più importa, che nessun mitografo medievale ha mai analizzato un poeta con l'accuratezza e precisione che in questo caso sarebbero state necessarie. Basta scorrere rapidamente, ad esempio, la famosa Continentia Virgiliana di Fulgenzio, e compararne il metodo con quello di un qualsiasi esegeta della Bibbia per rendersi conto dell'enorme differenza. In Fulgenzio solo la trama generale dell'opera è esaminata: i dettagli della narrazione (salvo poche eccezioni, e salvo la tendenza a cercare il valore allegorico di molti personaggi, anche secondari, attraverso una sommaria etimologia dei loro nomi) sono del tutto trascurati. Ora, Fulgenzio è assai lontano da Dante nel tempo; ma nei mitografi posteriori troviamo bensì maggiore organicità e chiarezza metodologica, mai però un procedimento che per chiarezza e minuziosità si possa accostare a quello degli esegeti biblici. Consideriamo, per esempio, l'opera di Arnolfo d'Orleans. Egli dice bensì nell'introduzione (accessus) che l'intenzione di Ovidio è "nos ab amore temporalium immoderato revocare et adhortari ad unicum cultum nostri creatoris, ostendendo stabilitatem celestium et varietatem temporalium"; ma questa vaga intenzione morale, appunto perché generica, non presuppone di per sé una precisa allegorizzazione di ogni fatto nascosto ; che anzi essa è ancora meno precisa della raffigurazione delle età dell'uomo vista da Fulgenzio nell'Eneide, e può ben essere avvicinata a quanto Dante dice dell'allegoria della Commedia: come l'uomo, a causa della sua libertà, sia soggetto alla giustizia divina. Né va taciuto che questa non è la sola intenzione da Arnolfo attribuita ad Ovidio; egli continua infatti: "vel intendo sua est multorum enarrare mutaciones, ut per tot mutacionum genera que videntur impossibilia mutacionem Iulii Cesaris in stellam i. deificacionem veram esse confirmet." Il quale è anche, a suo modo, uno scopo morale o pedagogico: ma quanto lato e vasto, e quanta autonomia lascia alla lettera! Considerando poi più da vicino le singole allegorizzazioni o moralizzazioni di Arnolfo, quest'impressione di genericità non ne esce che confermata. Alcune favole sono allegorizzate in due o tre righe; altre, ovviamente, esigono una spiegazione più complessa (che però mai, o quasi mai, entra nei dettagli). Consideriamone una di lunghezza media (la favola di Apollo e Dafiie, in Metamorfosi, i, 452-567):
Sed Cupido eum arai sagittat id est stimulis carnis sue eum calencat. Sed tamen ille non amat nisi virginem Danem, quam tamen consequi non potest donec sit mutata in laurum. Virgines enim de virginitate sua in hoc seculo non merentur coronam nisi post suam mutationem id est post mortem eam accipiunt. Sed tunc habent auream coronam quam in hac vita meruerunt. Dane ideo filia Penei dei fluvii fingitur quia aqua est frigida, et pudicitia est filia frigiditatis sicut impudicitia caloris.
La storia, dunque, è portatrice di allegoria, ed ha in ciò la sua giustificazione; ma una volta fissato lo schema generale del racconto, quanta libertà per il poeta nell'invenzione e descrizione dei dettagli! E proprio in questi dettagli, che rendono vivi e attraenti i personaggi e il racconto, è la differenza tra l'allegoria dei poeti e quella dei teologi (si ricordi il passo citato di Pier Damiani). Giacché lo scopo principale della poesia è quello di attirare adornando; e se i poeti hanno espresso il loro "vero" allegoricamente, ciò fu per averne l'ammirazione dei lettori e tenerli avvinti al loro testo ; ma se Dio si espresse nella Bibbia attraverso allegorie, ciò non fu per "abbellire," ma perché il messaggio, apparentemente diretto agli Ebrei, si rivolgeva in verità ai Cristiani futuri.
Un ultimo esempio, ancor più vicino a Dante, può esser trovato nell'allegorizzazione di Ovidio ad opera di Giovanni del Virgilio. Qui ritroviamo lo stesso procedimento di Arnolfo, che d'altra parte rientra tra le fonti del pre-umanista bolognese. Già nelle "expositiones" o spiegazioni letterali del testo si nota in Giovanni del Virgilio una tendenza a gustare la favola in quanto tale ed anzi a rinarrarla ed ampliarla nella parafrasi, tendenza così bene messa in luce dal Ghisalberti. Quanto poi alle "Allegorie," ci troviamo di fronte alla medesima schematicità e generalità già riscontrata in Arnolfo. Ecco qualche esempio: la storia di Deucalione e Pirra è allegorizzata dicendo che, dopo il diluvio, "isti venerunt ubi erant montanari qui erant sicut lapides, et eos traxerunt ad civitatem et instruxerunt eos," al che il nostro autore aggiunge: "alii sunt qui dicunt quod per Deucalion transmutantem lapides in viros debemus intelligere hominem qui generat si plus emittat de semine et a simili de Pirra," teoria da memorizzare attraverso i due distici (divertenti, bisogna dire):
Vir generare viros mulieres femina fertur
Si plus in coitu seminis alter habet.
Diluvio vasto purgans deus atra nocentum
Sustulit insontes prò reparando genus.
Così in pochissime righe è condensata la spiegazione di più di centocinquanta versi di Ovidio (Metamorfosi, i, 253-415); e similmente avviene per tutte, o quasi tutte, le favole.
Altri autori, altri esempi, sarebbero a questo punto superflui; ci sembra abbastanza chiaro che non è nel differente grado di autonomia della lettera che va cercata la differenza tra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi.
Se infatti, dagli esempi citati, può sembrare che proprio nel caso dei poeti sia garantita alla lettera una maggiore autonomia, bisogna ora ricondurre il problema alle sue giuste proporzioni e riconoscere che in verità la distinzione tra i due generi non era, sotto questo rispetto, così chiaramente presente alla mente dei contemporanei di Dante. Non è nella maggiore o minore carica di significato allegorico che era posta la differenza. Per questo è possibile opporre agli argomenti del Singleton altrettanti argomenti in senso contrario. Sembra anzi che nessun autore medievale si sia preoccupato di studiare il problema da questo punto di vista. E qui ci sembra utile, a concludere questa parte della discussione, ricordare un argomento a proposito della non-allegoricità di alcuni passi scritturali, argomento che offriva una tranquilla "scappatoia" sia agli esegeti biblici che ai mitografi e ai poeti. Esso si trova già in Agostino, che lo espone in un passo del De Civitate Dei ben noto, come vedremo subito, a Dante e ai primi commentatori della Commedia. Scrive dunque Agostino:
Non sane omnia quae gesta narrantur aliquid edam significare putanda sunt; sed propter illa quae aliquid significare, etiam ea quae nihil significant adtexuntur. Solo enim vomere terra proscinditur; sed ut hoc fieri possit etiam cetera aratri membra sunt necessaria; et soli nervi in citharis atque huius modi vasis musicis aptantur ad cantum; sed ut aptari possint, insunt et cetera in compagibus organorum quae non percutiuntur a canentibus, sed ea quae percussa resonant his connectuntur. Ita in prophetica historia dicuntur et aliqua quae nihil significant, sed quibus adhaereant quae significant et quodam modo religentur.
Ora, queste parole sono citate testualmente da Dante nella Monarchia. Qui Dante si riferisce ancora all'esegesi scritturale (la creazione del sole e della luna); ma si vede bene che il discorso doveva valere, e a maggior ragione, per l'opera dei poeti. Il che tra l'altro è confermato da un passo del Boccaccio, che ancora riprende, citandole, le parole di Agostino, ma per applicarle questa volta alla Commedia, "acciocché più pienamente si creda non ogni parola avere allegorico senso" nel poema di Dante.
Una battaglia a base di citazioni di autori medievali sarebbe a questo proposito vana fatica. Abbiamo mostrato come, in generale, l'esegesi biblica tenda all'allegorizzazione di ogni particolare; ora vediamo come, quando ciò non sia possibile, si possa sempre ricorrere al pretesto delle parti connettive, prive in sé di allegoria, ma sostegno delle altre; ora ciò vale senza dubbio anche per i poeti; sarà dunque meglio abbandonare questo terreno, e concludere che dalla maggiore o minore autonomia della lettera non trarremo alcuna indicazione in favore dell'uno o dell'altro genere di allegoria, e che d'altra parte il classificare la Commedia nell'uno o nell'altro genere non ci aiuterà molto a stabilire in che misura si debbano cercare significati riposti.
Prima però di passare ad esaminare l'altro aspetto dei lavori del Singleton, quello che abbiamo detto essere in contraddizione con la posizione ora esaminata, ci sia permesso indugiare ancora per qualche minuto sul passo del Convivio citato all'inizio. Esso rimane la maggiore autorità in materia, e dalla piena comprensione di esso potremo forse trarre utili indicazioni. Si è visto come esso tenda a sottolineare il carattere di favola o bella menzogna del senso letterale presso i poeti. Ma quello che colpisce, rileggendo con attenzione le parole di Dante, è il fatto che in verità la distinzione tra poeti e teologi non è qui fatta a proposito del senso letterale, bensì, particolare che è stato ci sembra sempre trascurato o male interpretato, a proposito del senso allegorico: "Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato." Dunque vi è una differenza anche nel senso allegorico, ed anzi è per questo che Dante introduce la distinzione. Il che ancora conferma che porre l'accento sulla storicità della lettera è un modo sbagliato d'impostare il problema, aprendo la discussione su un particolare che né Dante né alcuno dei suoi contemporanei avrebbe messo in dubbio e che rischia, chi lo prenda come punto di partenza, di male indirizzare tutta la ricerca. Cerchiamo dunque, seguendo la via che Dante qui sembra indicare, di stabilire in che consista la differenza tra i due modi d'intendere il senso allegorico. Il problema qui è di precisare il significato di quell' "altrimenti": giacché il modo dei poeti è abbastanza chiaro, sia dall'esempio della favola di Orfeo sia poi dai concreti procedimenti usati da Dante nel seguito del Convivio. Vi deve dunque essere un significato più ristretto e preciso, al quale si riferiscono i teologi quando parlano di senso allegorico. E qui ci sono di grande aiuto le conclusioni cui è giunto, a questo proposito, Henry de Lubac, nel suo recente e prezioso Exégèse medievale* (43a nel testo). Riporteremo dunque brevemente tali conclusioni, assumendo, naturalmente, ogni responsabilità per eventuali fraintendimenti.
Già San Paolo, in quel passo della lettera ai Galati che è l'unico nella Bibbia a contenere il termine "allegoria," lo aveva usato in riferimento ai rapporti tra il Vecchio e il Nuovo Testamento: si tratta del passo di Genesi in cui è raccontato dei due figli, Ismael e Isacco, avuti da Abramo attraverso le due mogli, Agar la schiava e Sara la libera. Ora, dice Paolo, "tali cose han valore allegorico: quelle donne rappresentano le due alleanze…”, e continua spiegando come Agar rappresenti la Gerusalemme storica, restia alla fede e dunque schiava, Sara invece l'altra Gerusalemme, quella Ubera e ideale, cui partecipano le anime dei fedeli ("ora voi, o fratelli, siete figli della promessa…"). Vi è qui appunto il germe del senso cristiano di "allegoria," quale sarà sviluppato attraverso tutto il Medioeveo. Non è questa la sede per seguire le tappe del- l'evoluzione: basta notare che tale significato si concentra sempre più nelle figure di Cristo e della Chiesa, ossia del solo Cristo inteso come corpo mistico, caput et membra; per cui le spiegazioni allegoriche oscillano appunto tra le corrispondenze Antico Testamento - avvento di Cristo e quelle Antico Testamento - istituzione e primi passi della Chiesa. Valgano alcuni esempi, che desumiamo in gran parte dal ricchissimo testo del de Lubac:
Agostino:
Neque enim ob aliud ante adventum Domini scripta sunt omnia quae in sanctis Scripturis legimus, nisi ut illius commendaretur adventus, et futura praesignaretur Ecclesia…
Totum omnium Scripturarum mysterium, Christum et Ecdesiam;
Haec Scripturae secreta divinae indagamus ut possumus… verum tamen fideliterque certum tenentes non ea sine aliqua praefiguratione futurorum gesta atque conscripta neque nisi ad Christum et eius Ecclesiam, qua civitas Dei est, esse referenda; cuius ab initio generis humani non defuit praedicatio, quam per omnia videmus impleri.
Isidoro:Figura vero est in repraesentatione veritatis, cum ea quae de patriarchis et prophetis in divinis libris… patrata legimus, allegorice in Christo et Ecclesia impleta recognoscimus.
Riccardo di San Vittore:
… per allegoriam sacramenta Ecclesiae quomodo praecedentium rerum figuris praenuntiata sint intelligimus…
Pietro di Poitiers (riprendendo Beda):
Allegoria est cum verbis sive rebus mysticis occulta Christi et Ecclesiae sacramenta significantur.
Ma le citazioni non finirebbero mai; e preferiamo rimandare all'ampio testo del de Lubac per una più esauriente trattazione dell'argomento. Ricordiamo ancora soltanto la bella formula di San Tommaso: "…secundum ergo quod ea, quae sunt veteris legis, significant ea, quae sunt novae legis, est sensus allegoricus."
La conclusione è dunque la seguente: il senso allegorico, che per i poeti significa genericamente senso nascosto, per i teologi è il senso che si riferisce alla venuta storica di Cristo e alla istituzione e ai dogmi della Chiesa. Una tardiva, ma forse non trascurabile, conferma, ci viene da un passo del Boccaccio, incluso proprio nella Vita di Dante:
Intende la divina Scrittura, la qual noi "teologia" appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando con lo intendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai, mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e resurgendo ci aperse… .
Questa dunque l'allegoria "dei teologi"; e il Boccaccio continua:
Così li poeti, nelle loro opere, le quali noi chiamiamo "poesia," quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle virtù e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, accio che pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute credevano.
Questi poeti dunque "il vero Iddio debitamente non conosceano." E noi possiamo chiederci: che accade dunque quando essi il vero Iddio conoscano ed amino? Potrebbe dunque un poeta presentare il senso letterale dei poeti e il senso allegorico dei teologi? Ci tornano in mente le parole del Convivio: "e però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare…" Potrebbe dunque l'intenzione essere stata diversa? E in questo caso, dovrebbe l'allegoria alludere alla vita e alle opere di Cristo, o non dovrebbe piuttosto contentarsi di significare altre verità, più specificamente cristiane? Potrebbe così nascere un modo diverso di allegoria, non classificabile a rigore né con i poeti né con i teologi? La risposta a queste domande ci sarà più facile dopo aver esaminato l'altro aspetto dei lavori del Singleton, quello secondo cui l'allegoria "dei teologi" sembra ridivenire allegoria "dei poeti."
In un articolo comparso su Comparative Literature R. H. Green si oppose alla esposta teoria del Singleton, rifiutando di ammettere, dal suo punto di vista di studioso non particolarmente di Dante ma delle teorie poetiche medievali, che si potesse trattare di allegoria "dei teologi." Scrive il Green:
The impulse to praise Dante's great work as Scriptural rather than poetic allegory not only does violence to thè medieval theory of poetic fiction, but explicitly and by implication underrates thè intent and thè achievement of much other mediaeval poetry.
Naturalmente, continua il Green, il genere di allegoria di Dante è un genere particolare, tutto "rooted in thè truth of theology": ma non per questo si deve credere alla verità della lettera. La conclusione dell'articolo è la seguente:
...the capitai difference between thè allegory of thè Christian poet and the allegory of Scripture was not, then, in the truth expressed, nor in the fact of figurai expression; the difference lay in the mode of allegory.
Non dunque perché il significato allegorico indica verità cristiane si deve pensare all'allegoria dei teologi; ma la differenza va cercata, ancora una volta, nella storicità della lettera. E naturalmente il Green rifiuta di pensare che Dante pretendesse di esser veramente e materialmente andato attraverso i tre mondi.
All'articolo del Green segue, nello stesso numero della rivista, la risposta del Singleton. E qui appunto ci imbattiamo nell'accennata contraddizione. Il Singleton infatti recisamente nega di pretendere che Dante sia realmente andato nei tre regni, o che egli intendesse presentare il suo viaggio in questa luce. Vi è una finzione nella Divina Commedia; ma, appunto, la finzione è che il viaggio sia vero, che non vi sia finzione. Cioè: Dante vuole che il lettore, nel momento in cui legge, consideri il viaggio come reale; salvo però sapere, prima e dopo la lettura, che in realtà si tratta di finzione (il Singleton cita ad esempio l'atteggiamento del moderno lettore di Guerra e Pace). Il lettore insomma è preso da un'illusione di realtà, e legge i fatti come reali. Ma questo non sembra elemento sufficiente a fare della Commedia un analogo della Sacra Scrittura; il discorso vale in effetti se compariamo il poema con le favole di Esopo o anche con il Roman de la Rose: ma che dire, ad esempio, dell'Eneide? La domanda cruciale, secondo il Singleton, è la seguente:
(a) Vede il lettore, nell'atto di leggere, il senso letterale come "favola" o "finzione," come immaginario e giustificato solo se esprime una "verità"? Se sì, questo è l'angolo visuale dell'allegoria dei poeti.
(b) Prende il lettore, nell'atto di leggere, il senso letterale come reale, ed accade che questa serie letterale di eventi venga ad indicare altri eventi, anch'essi reali? Se sì, questo è l'angolo visuale dell'allegoria dei teologi. Ma la distinzione, oltre ad introdurre una mentalità forse estranea alla coscienza medievale, non appare sufficiente allo scopo. Qual è infatti l'atteggiamento del lettore dell’Eneide? E delle Metamorfosi? Qui il lettore in certo modo cede alla finzione poetica, proprio come il lettore della Commedia o il moderno lettore di Guerra e Pace; ma mantenendo la coscienza della finzione, il che non deve accadere al lettore della Bibbia. Fingere che il racconto sia vero è il presupposto di qualsiasi narratore di storie, quando esse non siano dichiaratamente semplice cornice o pretesto come nel Roman de la Rose. Ma in verità non abbiamo che relativamente pochi esempi di opere di quest'ultimo tipo; non foss'altro perché, per tutti i classici, l'idea dell'allegoria non era presente al momento della composizione. Ciò che Dante ha fatto, sotto questo rispetto, è stato semplicemente ritornare allo stile di Virgilio e di Ovidio: concedere cioè al significato letterale ampia autonomia, pur entro il generale schema allegorico. Il fatto è dunque che nella Commedia una finzione c'è, qualunque essa sia; e questo basta a distinguerla dall'allegoria scritturale. Del resto, speriamo di aver mostrato abbastanza chiaramente che questa distinzione non è il punto di partenza più indicato per una comprensione della Commedia; la discussione minaccia di ridursi a un puro problema di parole o di terminologia; cerchiamo pertanto, con l'aiuto delle precedenti osservazioni, di giungere a una conclusione che, almeno, chiarisca e semplifichi il problema. Ciò sarà possibile, appunto, se si abbandona l'impostazione seguita finora.
L'ambiguità della posizione del Singleton deriva dal fatto che egli si rende ben conto del valore fittizio (su un piano storico) della lettera. In un capitolo, che ha pagine fra le più acute e illuminanti dei suoi Dante Studies, egli scrive: "No one today really believes, I suppose, that Dante actually went to the other world. But neither would Thomas Aquinas have believed that, had he been able to read the poem."
Non dunque Dante ha realmente compiuto il viaggio. Eppure, se accostiamo la Commedia alle Metamorfosi da una parte, al Genesi dall'altra, vediamo che essa sta indiscutibilmente dalla parte del Genesi. Di qui l'intuizione del critico, che vede la Commedia come mito, nel genuino senso platonico, anziché come opera poetica. Già quest'idea ci conduce su una strada più feconda che la distinzione poeti-teologi, sottolineando appunto che il poema di Dante esige di essere classificato a parte. Cerchiamo dunque di esaminarne meglio le caratteristiche.
Anzitutto, il linguaggio e i modi della narrazione si ricollegano assai più e più direttamente ai procedimenti biblici che a quelli "poetici." Per usare la formula di Auerbach, il "realismo" di Dante è lo stesso delle Sacre Scritture, in grande contrasto con lo stile di Ovidio e Virgilio. Anche quando interi versi di poeti latini siano ripresi, o spunti in essi presenti siano trattati di nuovo, sempre il dato precedente è vigorosamente sussunto nel serratissimo ritmo dantesco, e rimane, salvo apparenze di contenuto, irriconoscibile.
Già queste ovvie considerazioni ci introducono in un terreno di imitazione della Bibbia. Ma vi è qualcosa di molto più importante: la foltissima carica "tipologica" o "figurale" del linguaggio dantesco. Qui è il punto cruciale, e da questo deriva la forte tendenza ad assimilare il poema con le Scritture. Ora, il linguaggio figurale era divenuto, al tempo di Dante e anche fuori degli ambienti teologici, una vera e propria forma mentis, tale da influenzare profondamente la stessa psicologia del fedele, il suo atteggiamento di fronte al mondo, lo stesso modo di organizzare i dati della percezione. La realtà materiale delle cose diviene mera apparenza, puro "involucrum" o "integumentum"; al di là di essa si rivela, per trasparenza, il valore, il significato della cosa; i corpi perdono l'impenetrabilità e il tempo si relativizza: ciò che è accaduto ieri riaccade oggi e riaccadrà un giorno; la storia del mondo è la nostra storia, di noi come individui; la natura e la storia sono visti, si direbbe in psicologia, attraverso il concetto di "partecipazione." Rispetto alla moderna mentalità oggettivistica si tratta di una differenza radicale: per quanto non tale da non poter essere perfettamente colmata con uno sforzo della volontà, specialmente ove sussista il fondamento di una forte educazione religiosa; la difficoltà per lo studioso moderno di cogliere alcune allusioni è dovuta molto più alla mancanza di familiarità con determinati simboli che all'incapacità di assumere la forma mentis tipologica o simbologica. Ora, Dante fa larghissimo uso di questi procedimenti (è questo uno dei risultati più stabili della recente critica dantesca); e, naturalmente, non ne trovava esempi che nelle Scritture e presso gli esegeti biblici. L' "allegoria" dei pagani sui loro poeti era ben poca cosa e ben meno profonda rispetto alla tipologia dei Cristiani. Di quel genere ingenuo di allegoria si può parlare, per esempio, nel Roman de la Rose o nel Tesoretto; ma l'allegoria dantesca si situa a ben altro livello. Anzitutto, i personaggi di Dante sono storici, ed hanno nel poema la stessa funzione (meglio : lo stesso significato) che ebbero nella vita reale : Beatrice veramente distolse il poeta dall'amore per i beni terreni, Virgilio veramente raggiunse i limiti dell'umana ragione e preparò l'umanità ad una Rivelazione dalla quale egli poi doveva rimanere escluso; poi, essi sono autonomi, vivono di vita reale ed hanno un ben definito carattere; infine, l'ordine di realtà cui le figurazioni della Commedia alludono è sempre un universo profondamente cristiano. Dante insomma disponeva, a differenza dei poeti latini, di un vastissimo patrimonio di simboli e "figure", ora universalmente note e riconoscibili, ora più sottili e meno diffuse; e soprattutto disponeva di un metodo, quello messo perfettamente a punto dagli esegeti biblici. Nella sua volontà di servirsi degli uni e dell'altro è la sostanziale differenza tra il suo poema e gli altri componimenti allegorici del tempo; e l'errore di tanti commentatori, specialmente dei tempi dell'Umanesimo e del Rinascimento (si pensi per esempio all'Anonimo Fiorentino) fu quello di voler spiegare i significati allegorici con i metodi in uso presso i poeti anziché cogliere i pur evidenti riferimenti alle realtà specificamente cristiane.
Se si volesse insistere sulla distinzione poeti-teologi, si potrebbe dire che la Commedia va assimilata, per il valore della lettera, all'allegoria dei poeti, e per il significato cui la lettera rimanda, all'allegoria dei teologi: ove però si tenesse presente che non si tratta più, ovviamente, di riferimenti al Cristo venturo o all'istituzione della Chiesa, cioè non si tratta tanto dei fatti cui l'allegoria si riferisce, quanto del metodo da essa seguito. Per questo la distinzione sembra ancora povera di risultati e capace invece di introdurre confusione: ed è preferibile abbandonarla, riconoscendo che si tratta qui di un genere nuovo di allegoria, quale appunto soltanto un poeta cristiano trattante di cose cristiane poteva inaugurare. In tal modo ci liberiamo, da un lato, dall'impossibile idea di un Dante profeta biblico; ma ci confermiamo, dall'altro, nella necessità di continuare le indagini sul testo della Commedia attraverso il metodo figurale, seguendo in questo l'esempio, già così fecondo di nuove scoperte e di importanti risultati, che ci viene dai lavori di Charles S. Singleton.