Dati bibliografici
Autore: Michelangelo Picone
Tratto da: Nuova Secondaria
Numero: 4
Anno: 1983
Pagine: 18-21
Dante inizia a comporre la Divina Commedia verso il 1306-7; quando la decisione di Firenze di tenerlo lontano· dalle sue mura si manifesta sempre più con i caratteri dell'irrevocabilità, e quando l'aspirazione a scrivere un'enciclopedia filosofica del sapere umano (il Convivio) non gli sembra più adeguata a contenere il progetto della sua mente.
II poema sacro deve quindi il suo slancio iniziale in primo luogo a una profonda sensazione di sfiducia nei confronti della storia: la soluzione dei problemi attuali, sia pubblici sia privati, non può venire dagli uomini, ma va invece trovata in una prospettiva metastorica e in una dimensione escatologica. Di qui l'idea di realizzare una opera nella quale fosse possibile enunciare delle risposte eterne a delle domande contingenti; risposte ricevute dall'io-personaggio nel corso di un pellegrinaggio nell'Oltretomba; e registrate nella «mente che non erra» (Inf. II, v. 6), nella memoria cioè dell'io-poeta temprata dalla visione divina. Se la storia è incapace di risolvere l'impasse politica del mondo, e quella esistenziale del poeta, tale soluzione allora andrà cercata fuori della temporalità, nel dominio delle verità eterne ed assolute. Se il poeta vive in una condizione di effettiva alienazione nei confronti della sua patria terrena, ciò è indicativo del fatto che la sua attenzione andrà ormai rivolta esclusivamente alla patria celeste; verso la quale appunto, tralasciata ogni altra impresa a sfondo 'politico e a carattere immanente (come la Monarchia), si dirige la «navicella» del suo ingegno. L'idea del «poema sacro» comincia insomma a materializzarsi quando l'esilio storico si rivela al poeta come la caratteristica essenziale della condizione umana; quando egli scopre cioè che la vita sulla terra è naturalmente un esilio, e non riconosce più in una particolare città del mondo la sua vera patria, ma aspira invece a ritornare alla città del cielo, al Paradiso perduto a causa del peccato originale.
Altrettanto importante per capire la genesi del poema appare il dubbio, incuneatosi progressivamente nella mente di Dante, sulla validità assoluta di un approccio esclusivamente filosofico ed etico alla problematica posta dalla civiltà contemporanea. La conclusione infatti alla quale arrivava il Convivio vantava la superiorità del filosofo sul poeta, del commento prosastico sulle «belle finzioni» poetiche, dell'opera chiusa nella sua prospettiva razionale e morale tutta: mondana sull'opera aperta verso una significazione polisemica e cosmica. In questo senso il Convivio rappresentava un rovesciamento della Vita Nuova: protagonista dell'opera era infatti non Beatrice (cioè l'amore che aveva condotto l'io «oltre la spera che più larga gira»), ma la «donna gentile», identificata, sulle orme di Boezio, con la Filosofia; quella stessa «donna gentile» che aveva cercato, verso la fine del libello giovanile, di sostituirsi nella mente dell'io al culto della Beatrice morta, senza, però poter riuscire in tale intento. Il trattato filosofico veniva così a ribaltare la conclusione del trattato amoroso; l'interesse per la «scienza» naturale, limitata alla realtà sublunare, e la ricerca di «vertù» immanenti, come la Nobiltà e la Leggiadria, prendevano il sopravvento sull'interesse per la poesia ispirata da Beatrice, specchio perfetto della Verità trascendente e vettore dell'integrazione eterna dell'io, e sulla ricerca della sola «vertù» capace di proiettare l'uomo nell'ambito della Realtà divina: l'amore (cfr. Inf. II, vv. 76-8). Se quindi la Beatrice della Vita Nuova indicava in Dio l'approdo terminale dell'itinerario amoroso e della quète esistenziale dell'io, la «donna gentile» del Convivio arrestava invece la spinta conoscitiva dell'io a delle «false...imagini di ben» (Purg. XXX, v. 131), a un ideale di perfezione mondana. La Commedia nasce nel momento in cui tale contrasto fra le due fasi della carriera letteraria dantesca da latente diventa evidente: quando la crisi gnoseologica e spirituale affiora al livello della coscienza dell'autore, e la dicotomia fra razionalismo e rivelazione poetica sollecita una risoluzione definitiva. La Commedia può essere così considerata come la restaurazione e il completamento dello spirito fondamentale sottostante alla composizione della Vita Nuova; in quanto essa registra il trionfo finale della tensione amorosa, che viene riconosciuta come l'unico dinamismo in grado di introdurre l'io nella sfera delle esperienze eterne. Il viaggio filosofico della ragione, che aveva rischiato di portare Dante fino al naufragio (destino toccato appunto all'exemplum di simile quète umana: Ulisse), viene dunque interrotto per poter intraprendere la peregrinazio affabulata nella Commedia: la quale, essendo posta sotto la guida di Virgilio, l'auctor per eccellenza della tradizione classica, ed essendo orientata da Beatrice, la Domina per eccellenza della tradizione romanza, conduce invece il poeta-pellegrino fino alla contemplazione facie ad faciem di Dio. Ma proprio la descrizione di un così esemplare itinerario salvifico, e la rappresentazione di una così sublime visione, costituiscono la sfida più alta che sia mai stata lanciata all'arte poetica; e Dante, nel corso del suo poema, si dimostra sempre pronto ad accogliere tale sfida. Come quando, ad esempio, l'auctor, ritornato dal Paradiso e impegnatosi a raccontare la sua «avventura» celeste, mette in evidenza le défaillances non solo della sua memoria, ma anche dello strumento linguistico: «...e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende» (Par. I, vv. 5-6); affermazione che ha modo di essere ribattuta subito dopo: «trasumanar significar per verba / non si poria...» (vv. 70-1). La lingua è insomma incapacitata a riprodurre «propriamente» la Realtà divina; di qui il necessario ricorso alla strumentazione retorica, in particolare a una figura già impiegata dalla poesia classica, e sviluppata e perfezionata dall'esegesi biblica cristiana: mi riferisco ovviamente alla tecnica allegorica, nelle sue applicazioni sia espressive sia interpretative. Solo seguendo un simile procedimento letterario l'auctor può uscire vittorioso dalla sfida e «coronarsi delle foglie...del diletto legno» (vv. 25-6), cingersi cioè dell'alloro sacro ad Apollo. Solo in questo modo egli potrà ottenere universale riconoscimento come «poeta», e prendere il «cappello», la corona poetica, «sul fonte» del suo battesimo, dove aveva già ricevuto il suo primo nome: quello di cristiano (Par. XXV, vv. 7-9).
La finzione del poema colloca il viaggio ultraterreno del poeta-pellegrino nella settimana santa del 1300. La scelta di tale data è doppiamente significativa, sia perché collegata con l'anno del Giubileo bandito da Bonifacio VIII, sia perché coincidente con il periodo pasquale, durante il quale i « omei» si recano nella città eterna «per vedere quella imagine benedetta la quale lesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura» (Vita Nuova XL, I). Questi sono i grandi eventi religiosi e rituali in concomitanza o in concorrenza con i quali si realizza il viaggio dantesco. Da una parte c'è il pellegrinaggio di un grandissimo numero di fedeli che da ogni parte della Cristianità accorrono a Roma con lo scopo di ottenere delle grazie particolari e la remissione dei loro peccati; dall'altra c'è la quète dei «romei» che cercano di «vedere oltre» l'immagine di Cristo impressa nel velo della Veronica, nel tentativo di scoprire nell'hic et nunc della loro esistenza storica la «bellissima figura» divina. La peregrinatio dell'actor, già pienamente dispiegata nella sua complessa simbologia nel proemio dell'opera, direi che possegga una evidente carica polemica nei confronti della celebrazione ufficiale del Giubileo indetta dalla Chiesa romana (tale polemica, qui sottintesa, ha modo, del resto, di esplodere in altri luoghi del poema: si veda, ad esempio, la similitudine contenuta in Inf. XVIII, vv. 28-33); e che assuma un valore ben più complesso e totale della quète dei «romei», che pure aveva già propiziato l'epifania del significato nella Vita Nuova. In realtà, il viaggio del poeta-pellegrino aspira anzitutto alla visione diretta, facie ad faciem, della divinità; visione realizzabile solo nella dimensione dell'illuc et tunc, nel regno delle verità eterne. Infatti, la meta prefissata dell'actor non è la Roma terrena, la città segnata dall'alienazione e dalla corruzione («là dove Cristo tutto dì si merca»: Par. XVII, v. 51), bensì la Roma celeste («...quella Roma onde Cristo è romano»: Pur g. XXXII, v. 102), la Città caratterizzata dall'identificazione e dall'armonia (dove il beato sarà «sanza fine cive»: ib., v. 101). Inoltre, la finalità che si vuole raggiungere nel poema, non è soltanto la grazia individuale, ma soprattutto il bene comune: il viaggio è fatto «in pro del mondo che mal vive» (ib., v. 103; ma cfr. anche l'Epistola XIII a Cangrande, § 15).
Un simile coinvolgimento della Cristianità peregrinante nell'itinerario soteriologico dell'actor è chiaramente percepibile nei versi di apertura del poema: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura»; se «nostra vita» allude alla condizione universale, indica cioè il fatto che la vita rappresenta per l'uomo il momento della prova, dal risultato della quale deriverà la sua salvazione o la sua dannazione eterna; «mi ritrovai» invece fa riferimento alla condizione personale, accenna al fatto che l'io, avendo registrato un improvviso ritorno della coscienza dopo un lungo periodo di «sonno», di oscuramento della mente, può finalmente iniziare il suo iter perfettivo. Troviamo qui chiaramente evidenziata la contrapposizione fra la dimensione autobiografica, che descrive il processo formativo dell'io, e la dimensione universale, che descrive invece il cammino della civitas cristiana verso l'integrazione finale. Polo individuale e polo sociale possono incontrarsi nell'unicità della prospettiva offerta dal discorso allegorico, per il quale la salvezza conquistata dall'io viene a significare, a un livello di realtà più profondo, la salvezza dell'umanità intera. L'actor, appesantito da un gravoso bagaglio di errori (dei quali si purgherà nel corso del viaggio), ma al tempo stesso alimentato da una straordinaria forza che gli proviene dall'amore per Beatrice (la Donna cantata nella sua giovinezza), diventa così portavoce del fondamentale anelito dell'uomo verso il ricongiungimento con il principio divino. Nella citata Epistola a Cangrande, Dante così contrappone i due livelli secondo cui si struttura la sua opera:
«Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de ilio et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merenda et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est».
«È dunque il soggetto di tutta l'opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l'opera. Ma se si considera l'opera sul piano allegorico, il soggetto è l'uomo in quanto per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina».
Il livello della littera tratta dunque lo «status animarum post mortem simpliciter sumptus». Ciò che include la vastissima gamma sia degli incontri con le anime sia delle osservazioni di cose di cui si compone il poema. Naturalmente il filo che unisce la fitta serie di incontri è il personaggio che dice io, mentre quello che rilega insieme la multiforme successione di immagini è la metafora centrale della peregrinatio. A questo primo livello la visione delle «segrete cose» (Inf. III, v. 21) viene filtrata attraverso lo sguardo non ancora messo perfettamente a fuoco dell’actor: di qui la giustificazione, credo, dell'avverbio simpliciter. La percezione dello «stato delle anime» è cioè ancora limitata, e il giudizio tuttora provvisorio; nel senso che il significato profondo (la sententia) di personaggi e eventi può essere rivelato nella sua complessità solo dopo che il viaggio è stato espletato: quando l'actor l'avrà assorbito tramite la contemplazione di quella suprema Veritas che è Dio. Solo a questo punto egli potrà pertanto pienamente capire e adeguatamente trascrivere il viaggio appena compiuto; potrà cioè comprendere la connessione segreta esistente fra il suo privato pellegrinaggio e il pellegrinaggio comune di tutta la cristianità, e al tempo stesso il legame sostanziale che unisce un determinato personaggio storico alla pena o premio a lui assegnati nell'Oltretomba. L'actor potrà così assumere le vesti dell'auctor, ed esprimere, ricorrendo al discorso allegorico, il destino eterno dell'uomo.
Tentiamo di riassumere i risultati fin qui ottenuti. La littera, o la fictio (non si dimentichi che fictivus è uno degli aggettivi usati nell'Epistola, § 9, per qualificare il «modus tractandi», la modalità di realizzazione poetica, di questo livello), racconta il viaggio dell’actor, nella sua varia successione di persone e di luoghi, e nella sua alterna attribuzione di premi e punizioni; la realtà dell'Oltretomba è ancora percepita nella sua incompletezza, frammentarietà e molteplicità. La sententia invece, o l'allegoria, enuncia la scoperta da parte dell'auctor del principio unificatore del viaggio; dell'elemento capace cioè di fornire non solo il significato profondo degli eventi che hanno costellato l'itinerario perfettivo dell'actor, ma anche di inserirli in una relazione essenziale e necessaria dalla quale un messaggio soteriologico universalmente valido può essere estratto. E si badi anche qui alla serie di aggettivi che l'Epistola impiega per specificare il «modus tractandi», caratteristico di questo livello: troviamo anzitutto diffinitivus, col quale si vuole esprimere il riconoscimento dell'essenza del personaggio o dell'evento, raggiunto tramite l'approccio allegorico; poi divisivus, che allude invece all'importante pratica esegetica della «divisione» (già impiegata nella Vita Nuova e nel Convivio) per mezzo della quale si introduce l'epifania del significato; quindi probativus e improbativus, con i quali si fa riferimento all'atto di distinguere il bene dal male, e quindi al processo di immedesimazione o di differenziazione rispetto alla materia trattata; e infine exemplorum positivus, che attribuisce al viaggio dell'io valore paradigmatico per l'intera umanità. L'auctor affiora dunque nel momento stesso in cui avviene il discoprimento della verità finale di personaggi e cose: verità direttamente collazionata con quella trascritta nell'originale divino. È nel «volume» scritto da Dio infatti che l'auctor può leggere il significato profondo del mondo, «ciò che per l'universo si squaderna» (Par. XXXIII, v. 87). L'elemento in grado di connettere i «quaderni» iniziali nel «volume» conclusivo è amore («legato con amore» dice Dante nel passo in questione); che, mentre nel caso del modello divino si identifica con la caritas, nel caso invece della copia umana coincide con l'amore per Beatrice, la cui sostanziale affinità con la caritas era già stata rivelata nella Vita Nuova.
In un saggio fondamentale del 1938 intitolato Figura, E. Auerbach ha dimostrato come il principio formale secondo il quale la Commedia è costruita sia da identificare con il figuralismo cristiano. Ecco sintetizzata tale concezione nelle parole stesse dell'illustre critico:
«L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l'altro, mentre l'altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi, come si è già sottolineato più volte, nella corrente che è la vita storica, mentre solo l'intelligenza, l’”intellectus spiritualis”, è un atto spirituale... È vero che nelle concezioni dell'adempimento finale intervengono anche elementi puramente spirituali, perché “il mio regno non è di questo mondo”; ma sarà pur sempre un regno reale, non una costruzione astratta e sovrasensible; questo mondo perirà soltanto come “figura”, non perirà la sua “natura”, e la carne risorgerà. L'interpretazione figurale pone dunque una cosa per l'altra in quanto l'una rappresenta e significa l'altra, e in questo senso essa fa parte delle forme allegoriche nell'accezione più larga. Ma essa è nettamente distinta dalla maggior parte delle altre forme allegoriche a noi note in virtù della pari storicità tanto della cosa significante quanto di quella significata». La modalità di applicazione del figuralismo (che oggi si preferisce chiamare «tipologia») al poema dantesco è la seguente: il personaggio quale lo troviamo descritto nella Commedia rappresenta l'adempimento ultraterreno della sua «figura» storica; nel senso che la sua esistenza terrena manifesta una sostanziale mancanza, la quale può essere colmata solo ricorrendo all'ordinamento provvidenziale della storia, che si trova realizzato nella mente divina. Esattamente nello stesso modo in cui l'esegesi biblica considera il Vecchio Testamento, la Legge, come figura incompleta del Nuovo, della Grazia, così Dante rappresenta la storia umana come fatto contingente che trova nel poema sacro il suo valore definitivo. È proprio il ritrovamento di questo valore, preesistente nel giudizio divino, l'obiettivo ultimo che la Commedia vuole raggiungere per il tramite dell'interpretazione figurale. Auerbach dimostra, ad esempio, che Catone, il personaggio storico abituato a considerare la libertà politica come il più grande bene (tanto da sacrificare per essa la sua stessa vita), rivela il suo valore completo solo quando ci appare alle pendici della montagna del Purgatorio, nelle vesti di custode della libertà spirituale che consente l’accesso al Sommo Bene. La pratica della libertà sulla terra ci viene presentata così come «figura» della sua realizzazione paradigmatica nel Purgatorio. Soltanto nel contesto della Commedia Catone può acquistare la sua pienezza esistenziale e trovare il suo significato definitivo. La Commedia diventa in tal modo il luogo nel quale le «figure» storiche conquistano il loro finale «compimento» provvidenziale.
Con questo suggerimento per una lettura figurale di tutta la Commedia, Auerbach ha cercato di precisare i limiti culturali medievali e cristiani dentro i quali è possibile l'utilizzazione dell'interpretazione allegorica: di quell'allegoria tanto esecrata dai critici romantici. Auerbach, in realtà, non è completamente immunizzato contro tale atteggiamento, se arriva fino al punto di esorcizzare il nome stesso di «allegoria» per sostituirlo con quello, certo meno preciso storicamente, di «figuralismo»; il valore della sua tesi rimane comunque inalterato, e consiste nel fatto che egli ci offre una via d'uscita dall'aporia romantica e idealistica a proposito dell'allegoria dantesca. Aporia sintetizzabile nella posizione estremistica di Croce che qualifica la struttura allegorica, il romanzo teologico, come non-poesia, mentre salva come veramente poetici soltanto i frammenti «di immediata e sensibile vitalità», insomma il livello della historia dell'io e dei personaggi. Ma al tempo stesso Auerbach ha posto (senza interamente risolverlo) il problema capitale che poi dominerà tutti gli studi danteschi successivi: la rivelazione contenuta nella Commedia ha valore teologico, o soltanto letterario? Il viaggio oltremondano del poeta-pellegrino è storico o fittizio? È stato sperimentato da un «profeta», o è stato invece inventato da un «poeta»? Le due maggiori linee interpretative dell'attuale dantologia si separano proprio nella diversa risposta che danno a queste domande. Dal punto di vista della tecnica retorica, esse si dividono nel fatto di intendere la Commedia come scritta secondo l'allegoria in factis o la tipologia (per la quale la littera è storicamente vera: quando diciamo che Adamo è «figura», τύπος, di Cristo, non mettiamo minimamente in dubbio la storicità del primo termine), oppure secondo l'allegoria in verbis (per la quale invece la littera è pura fictio: è composta di «parole fittizie», come si esprime l'autore del Convivio). Per la prima lettura si sono schierati Ch. S. Singleton (e in genere la scuola americana), mentre in Italia hanno difeso la realtà del viaggio B. Nardi e G. Padoan; hanno sostenuto invece la seconda tesi E. Gilson e, per citare solo alcuni nomi più recenti, G. Contini e F. Mazzoni.
Difficile, se non impossibile, pronunciarsi in simile materia. Si può forse però avanzare una proposta di compromesso, tenendo in debito conto, anzi sviluppando in una direzione più letteraria, il capitale procedimento tipologico elaborato da Auerbach. Un fatto incontrovertibile sembrerebbe far oscillare l'ago della bilancia in favore dell'interpretazione della littera come fictio: la considerazione cioè che, come abbiamo già osservato, il titolo che Dante attribuisce a se stesso nella Commedia non è quello di teologo o di profeta, bensì quello di poeta. È dunque sempre una veritas poetica quella che il poema ci vuole rivelare. Ma proprio questa considerazione individua anche la presenza di un evidente spessore storico nel resoconto del viaggio dantesco. Anzitutto il poeta-pellegrino appare inserito in una precisa prospettiva autobiografica, non solo nel senso che il viaggio propizia la sua progressiva evoluzione da actor a auctor, ma anche nel senso che nella stessa personalità dell'actor si avvertono ancora gli echi di una lotta, vinta ma non interamente sopita, in favore di una concezione artistica e retorica, piuttosto che filosofica e scientifica, della poesia. Gli stessi personaggi del poema non vivono ad una sola dimensione; essi sono sì degli exempla di bene e di male, ma degli exempla storicizzati, realizzati con materiali letterari ascrivibili a delle identificabili esperienze poetiche. La memoria letteraria dantesca si pone ovviamente subito all'opera quando si tratta di incontri con colleghi: Dante ricostruisce infatti la figura del poeta a partire dalla sua stessa poesia. Ma la presenza di una filigrana letteraria può essere verificata anche in quegli episodi in cui siano coinvolti personaggi ricavati da opere poetiche (come è il caso già ricordato di Catone, protagonista della Pharsalia di Lucano, ma attore importante anche del VI libro dell'Eneide), oppure immersi nell'esperienza poetica (esempio tipico quello di Francesca, di cui ci occuperemo nel saggio successivo, o quello di Cunizza da Romano, emanazione della grande poesia di Sordello). Una particolare tradizione poetica può essere implicata nella scrittura dantesca anche indirettamente: come quando un personaggio o un episodio si svolgono d'accordo con un ben determinabile pattern letterario (così Ulisse, nel quale rivive non solo l'eco lontana dell'epica omerica, ma soprattutto l'alone avventuroso dei romanzi cavallereschi, come dimostrato da Avalle), o come quando la problematica trattata nel poema ha concrete attinenze con l'arte dell'espressione verbale (sintomatica a questo proposito la figura di Marco Lombardo, costruita con materiali afferenti all'alta produzione letteraria cortese, questa volta di tipo novellistico), oppure tocca campi ideologici confinanti con la poesia (come la politica, la filosofia e la teologia). Naturalmente lo stesso discorso potrebbe essere fatto a proposito della ricchissima imagery del poema, sebbene qui sia poi più difficile schematizzare.
La peculiare «storicità» della Commedia sarà allora identificabile con questo spessore letterario che impregna di sé la littera, e che consente una chiara messa in prospettiva (e quindi una tipologia) dei valori artistici. Si tratta manifestamente di una tipologia poetica; ma di una tipologia che possiede tutte le caratteristiche che connotano l'esegesi figurale biblica. Pur applicandosi all’universo dei verba, e non a quello dei facta (il cui architetto non può che essere Dio), essa analizza il personaggio, o l'evento, in modo da offrircene da un lato la ricostruzione fìctiva (fictio realizzata però a partire da materiali storici, dalla ricreazione cioè dell'alone letterario lasciato dietro di sé dal personaggio o dall'evento) e dall'altro la definitiva sistemazione allegorica: ciò che comporta l'evidenziamento del significato ultimo del personaggio o dell'evento; significato raggiunto alla fine di una quète linguistica (che può a volte assumere la forma di una vera e propria analisi etimologica), e a conseguenza di una profonda intuizione poetica che riesce a leggere in Dio il destino eterno dell'uomo. La fictio, il racconto «istoriale», ha dunque all'interno del poema sacro la funzione di configurare l'ambito della «vecchia» scrittura, mentre l'allegoria, l'interpretazione tipologica, ha il ruolo di rivelare lo spazio sacro pertinente alla «nuova» scrittura, e di manifestare la veritas di tutta una cultura e di tutta una civiltà.
In questa tipologia dei valori letterari (la cui formulazione più appariscente è quella contenuta nel canto XI del Purgatorio) Dante vuole fissare il principio fondamentale dell'ideologia cristiana: che cioè il divenire storico è l'attuazione (e la testimonianza) del progetto (invisibile all'uomo, se esso rimane chiuso nel contesto della realtà sublunare) provvidenziale divino. Il discorso tipologico dantesco non contempla quindi un'evoluzione, né, a propriamente parlare, una dialettica; racchiude bensì il processo di inveramento globale e finale in una sola opera di tutta una tradizione poetica, classica e romanza. Insomma, dopo l'ultimo canto del Paradiso, e la vittoriosa sfida alla tematica dell'ineffabilità divina, non ci dovrebbe essere posto per nient'altro che il silenzio.