Dati bibliografici
Autore: Salvatore Battaglia
Tratto da: Atti del I Congresso nazionale di studi danteschi "Dante nel secolo dell'Unità d'Italia". Caserta-Napoli (21-25 maggio 1961)
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1962
Pagine: 21-44
Generalmente la storiografia italiana trascura l'indagine sul simbolismo. Questo disinteresse verso un aspetto della spiritualità medievale così importante denunzia l'insufficienza con cui la nostra critica suole considerare quella civiltà e quella cultura. Ne discendono gravi lacune e altrettanti motivi di inadeguatezza valutativa nei confronti di un'età che negli altri paesi vanta una tradizione di studi molteplice e ininterrotta. Di solito il Medioevo (salvo pochissime eccezioni, anche se illustri) è studiato con i criteri che valgono per età più recenti e che mal si adattano ad un'epoca che ha sviluppato una individuale e specifica concezione del mondo e della vita. Così accade che gli atteggiamenti più caratterizzanti del Medioevo, appunto perché alieni o difformi dall'esperienza moderna, non ricevono abbastanza luce critica, o, per lo meno, quanto sia necessaria a riconoscere i loro intrinseci valori: senza dire, peraltro, che la manchevole adesione alla loro entità finisce col pregiudicare la valutazione dell'intero periodo e sol rendere impropri e monchi anche i giudizi particolari. Gli studi intorno ai primi secoli della nostra letteratura, Dante compreso, difettano per l'appunto di un'adeguata sensibilità della più pertinente problematica medievale, mancano cioè di criteri e metodi specifici. La prospettiva storica che si delinea dietro tante inadempienze, non solo è lacunosa e discontinua, ma quasi sempre risulta impropria e astratta. E quanto maggiore e vistoso è il fenomeno che s'indaga, tanto più impari si rivela il metodo che vi si applica. La lirica del Duecento, la Divina Commedia, la stessa poesia del Canzoniere petrarchesco restano ancora in gran parte affidate ad una interpretazione di scarsa presa storiografica, perché ancora estranea al clima spirituale del Medioevo, nel quale la natura delle cose e soprattutto la situazione dell'uomo erano contemplati e valutati con occhi diversi dai nostri e dispiegavano una cerchia di interessi che per noi moderni non hanno più la medesima qualità.
Ora, una delle strade maestre da percorrere per arrivare alla s0glia di una intelligenza critica consentanea, è quella della simbologia, intesa, e mette conto ripeterlo, come linguaggio specifico e insostituibile della mentalità medievale. Un simbolismo, cioè, che non si limita ai soli lemmi di un lessico, ma si risolve ed attualizza nella realtà della fede, del sapere, del sentimento: come rivelazione e veicolo di cognizioni, di miti, di situazioni morali. I simboli e i valori che vi si esprimono sono gl'ideali e gl'idoli stessi dell'anima medievale: il senso dell'infinito e del sacro, la disperata passione del mutevole e transitorio, la nozione della trascendenza e dell'umana insufficienza ad attingerla, la nostalgia mistica dell'anima esiliata dalla sua vera patria, la presenza inalienabile di Dio nelle cose e negli eventi, il glossario sempre aperto e insieme precluso, e tuttavia disponibile e decifrabile, della natura e del creato, l'eterno dramma del visibile e del corporeo che nonostante si vesta di parvenze illusorie può ad ogni istante riflettere segni documenti moniti dell'invisibile e dell'immateriale, e così via, per una scala di consapevolezze aspirazioni sgomenti che il Medioevo saliva e scendeva con perpetua e contrastata vicenda.
Per intendere il problema fondamentale della conoscenza medievale e del tramite simbolico a cui essa finiva per affidarsi, bisognerà partire dal sentimento della realtà che la mente medievale è venuta elaborando. La natura delle cose e dei fenomeni, ciò che chiamiamo realtà, non ebbe per il Medioevo una presenza autonoma e obiettiva, idonea cioè a diventare oggetto di scienza e d'indagine positiva e sperimentale come per noi moderni. O meglio, il Medioevo aveva un senso del reale che rispondeva alla sua particolare situazione intellettuale. Nell'interpretare il mondo e la natura, la mente medievale si affidava a criteri esclusivamente spirituali, che non le consentivano di obiettivare una verità esterna, indipendente e autosufficiente. Tutto il cosmo era per il Medioevo un cifrario dello spirito. L'elaborazione e controllo razionale che se ne faceva, dipendeva strettamente da premesse morali, si condizionava su una misura intuitiva: apparteneva, cioè, al metodo della rivelazione. La realtà autentica, quella più vera e duratura, si rinveniva nell'intimità morale, dove i segni esteriori trovavano le loro definizioni. Agli occhi spirituali dell'uomo cristiano la realtà con le sue immagini e i suoi fenomeni risultava una lavagna di segni, di cifre, di simboli. Per darle un senso che non fosse provvisorio né ingannevole, per assegnarle una ragione e un volto verace, occorreva risolvere questi simboli dentro di sé, in una interpretazione interiore, di dominio prettamente spirituale, che affrancasse le cose dalla loro fallace apparenza.
L'universo, in tal modo, tutto lo scibile della natura e delle cose, non era che una visione di simulacri e di parvenze, che potevano essere illusorie per chi non sapesse leggervi nell’interno e al di là del loro schermo, e potevano viceversa divenire illuminazione e presentimento di verità, se si riusciva a penetrarle nei loro significati reconditi e allegorici. Dietro di loro, oltre il loro velo, si poteva intuire una realtà sicura ed eterna, che si celava o si rivelava (secondo l'intuizione spirituale di ciascuno, ma di conserva con una educazione religiosa) in una fenomenologia episodica e mutevole. La verità non è nei loro aspetti, ma si custodisce nei valori simbolici che l’interpretazione spirituale è capace di intravedere, indovinare, anticipare. In queste condizioni la realtà, ciò che noi chiamiamo con questo termine, è per l'animo medievale una immensa arena di assenze che bisogna recuperare nell'esperienza interiore e decifrare attraverso la fugacità delle loro remote e sbiadite postille: o meglio, un mondo di presenze invisibili o nascoste che occorre restituire o risuscitare.
Fra l'intimità spirituale degli uomini e la trascendenza divina si frapponeva la vita terrena naturale sensibile, che bisognava superare e oltrepassare, rielaborandola nell'interiorità dello spirito. Il mondo della realtà e delle cose visibili era un ostacolo, rappresentava una distorsione, quando non era addirittura un inganno. Era appunto la sua mutevolezza e provvisorietà che contribuiva a determinare nell'animo umano il sentimento precario del vivere e l'immensa inestinguibile nostalgia di un'esperienza superiore, immutabile, esemplare. Si può dire che tutto il travaglio intellettuale del Medioevo tenda ad attingere un lembo, un atomo, un istante di questa verità trascendente e celeste. E per poterla intravedere bisogna superare le simulazioni e dissimulazioni del mondo e della realtà, penetrarle, dissolverle, restituirle alla loro genesi con una elaborazione spirituale assidua e profonda, trasmutarle nei valori eterni da cui pur provengono attraverso un'infinita scala di mediazioni che sono altrettanti diaframmi.
E perciò la vita interiore dell'uomo medievale è popolata di solitudini, di assenze, di nostalgie, che chiedono di essere ripopolate, reintegrate, riappagate. La realtà concreta e sensoriale è respinta, negata, perfino anatemizzata. E la ricerca di un'altra realtà più vera e più costante è fatta dall'interno, nei recessi dello spirito, nelle visioni e nei sogni. Essa sarà, al pari della fede, una rivelazione interiore, progressiva, ascensionale, che si riverserà poi sulle cose, sui loro aspetti e significati, interpretandoli e integrandoli. Il pensiero medievale per parecchi secoli ha elaborato questa situazione. E s'intende che le vie ufficiali son quelle della teologia e della conoscenza mistica, che riescono a formulare una tematica speculativa e a disciplinare un sistema di risultati razionali e dialettici. Ma quel che a noi interessa direttamente, in sede letteraria, è la presenza di questa condizione, che è anzitutto dello spirito, nella vita morale, nell'esperienza psicologica e sentimentale, nell'esercizio quotidiano dell'animo, con la possibilità di soluzioni personali quali potevano esplicarsi e conseguirsi per vie artistiche e più propriamente liriche. Su questa prospettiva, appunto, si colloca la sensibilità e l’ispirazione della Divina Commedia. Non tenerla presente, in ogni momento, equivale a rinunziare alla sua chiave.
Il processo, dunque, di revisione critica che va subendo oggi la lettura del poema dantesco, è orientato principalmente sul riconoscimento dei suoi valori spirituali e simbolici, da cui non si può più prescindere per lo stesso accertamento della poesia. Ogni verso della Divina Commedia contiene nel suo più riposto significato questa aspirazione. S'era mal pensato che fin dall'inizio Dante orientava la sua espressione e il suo linguaggio in questa direzione? Ci sono tanti modi, si sa, per intendere le cose, e specie la poesia, e particolarmente quella dantesca; e non tutti questi modi sono concordi e non tutti sono idonei a penetrare l'esatta lezione del poeta. Ora, il primo verso, ad esempio, della Divina Commedia non è certo un verso qualunque, ma è chiaro che in esso Dante affidava il primo accento del suo Poema. E doveva costituire, pertanto, un segnale, una cifra. Doveva subito dare il senso della qualità spirituale che avrebbe sostanziato tutta la sua poesia. Era come un allarme e un emblema.
Io credo che debba riuscire di non piccola utilità la precisazione esegetica di questo inizio dantesco, e rivestire, come spero, valore metodologico. Il modo, cioè, come si deve intendere il primo verso, e il criterio interpretativo che se ne adotta, può favorire il più generale metodo ermeneutico per l'intera Divina Commedia. Si sa, il primo verso «Nel mezzo del cammin di nostra vita» è il più noto di tutto il Poema, forse il più popolare. Anche perciò a noi giunge logoro, come un luogo comune, meccanicamente appreso nella sonnolenza dei banchi di scuola. E a lungo andare non ci suggerisce quasi più nulla, come tutte le espressioni abusate che si fissano nell'orecchio e non abitano più nella mente. Ma cerchiamo di liberarlo dalla opacità in cui si è venuto estenuando per riportarlo a una lettura impregiudicata. Anzitutto (e ciò appare evidentissimo) il primo verso contiene una determinazione biografi.ca e cronologica. È noto che Dante immaginava, com'egli ha cura d'indicare esplicitamente in più luoghi del Poema, di fare il viaggio oltremondano nel 1300, l'anno del grande giubileo. Nel primo verso, dunque, il poeta vuol precisare di essere nel suo trentacinquesimo anno di vita. Isa prima considerazione da fare a questo proposito concerne appunto questa coincidenza. Senza dubbio Dante fu felice di approfittare di tale circostanza, per fissare non una ma due fortunate congiunture: la prima, che la sua grande avventura ultraterrena si verificasse nell'anno giubilare, ch'era il sigillo di un secolo, il 1300; l’altra che, essendo nato nel 1265, egli compiva il suo trentacinquesimo anno d'età. Lo lusingava una segreta e altera emulazione, quella di innalzare nella solenne ricorrenza giubilare un monumento di fede e di giustizia, che, almeno nel mondo degli uomini, dovesse avere il destino di sopravvivere per secoli, mentre la celebrazione che a Roma faceva il papa Bonifacio VIII, il suo grande e inconciliabile avversario, si sarebbe obliterata dopo la generazione che l'aveva vissuta. Ma a Dante capitò di immortalare nella sua poesia, assieme a questa data del 1300, anche la figura del suo potente rivale e insieme il «giubileo» che rimase legato al suo pontificato e perciò al suo nome.
Per intendere meglio i termini di questa coincidenza (la solennità del giubileo e i trentacinque anni del poeta) non basta pensare soltanto a un felice caso. Cioè: se il poeta nel 1300 non avesse avuto trentacinque anni, avrebbe ugualmente collocato il suo pellegrinaggio nell'Oltretomba proprio in questo tempo? Il quesito è ozioso, se si pone in tal modo. Ma risulterà più specifico, appunto, se si valuta esattamente il significato da assegnare all'età dei trentacinque anni, secondo il pensiero di Dante, ch'era poi quello della tradizione classica e medievale. La vita umana era tradizionalmente valutata nel giro di settanta anni. Una misura media, s'intende, secondo l'approssimazione statistica. Ma noi sappiamo che le statistiche, specie se si considerano come «media» non sono reali, e alla prova dei fatti si rivelano illusorie. Cioè, oggi, come ai tempi di Dante o ai tempi dei Romani e dei Greci, che sono stati i primi a escogitare questa misura «settantennale», sono più gli uomini che concludono la loro esistenza al di qua o al di là dei settant'anni, rispetto a quelli che toccano precisamente questo limite. La verità è che settanta anni costituiva un arco della vita, regolato appunto da un ordine matematico che acquistava valore simbolico. Questa è la ragione più importante e decisiva.
Il Medioevo e Dante ebbero fede nei numeri, che furono considerati come simboli. Settanta era per la mente medievale un numero perfetto. Aveva una duplice perfezione: perché era un multiplo di «sette» che, come vedremo subito, aveva allora valore magico, ed era multiplo di «dieci», il numero pieno, completo, divino. Dante, come tutta l'antichità, sia classica e sia medievale, credeva incondizionatamente a questa interpretazione pitagorica del mondo. Per avere un'idea adeguata di questi calcoli numerici ripeto qui una pagina di Cristoforo Landino, che scriveva dopo un secolo e mezzo dalla morte del poeta, e che nella sua considerevole cultura umanistica aveva ripercorso l'intera preparazione intellettuale e libresca di Dante. Egli dice: «Aristotele nel suo De Republica pare che approvi la sentenza di certi poeti, i quali dividono l'età per numero settenario, attribuendo i primi sette all'infanzia, i secondi sette alla puerizia, i terzi sette che pervengono a ventuno all'adolescenza; di poi pongono due settenari per la gioventù, e arrivano a trentacinque: e questa età vuole nel medesimo luogo Aristotele che sia perfetta a celebrare i matrimoni. Dopo la gioventù sèguita la età virile, la quale per due settenari arriva all'anno quadragesimo anno: nel quale tempo (cioè a 49 anni), perché gli uomini sono di perfetto consiglio né ancora hanno diminuite le forze del corpo, giudica tanto filosofo che l'uomo sia molto atto al governo della repubblica. E finalmente pene il resto dell'età in tre settenari. E vuole che il termine sia di anni settanta». Il valore emblematico e pressoché magico del numero sette, risale, come è agevole arguire, alle dottrine pitagoriche; ma esso era stato accettato da Platone, soprattutto nel Timeo, l'opera che si diffuse per tutto il Medioevo e che costruì l'asse del platonismo cristiano. Il Timeo, si sa, entrò nella cultura medievale attraverso la traduzione di Calcidio e attraverso all'ampio e dovizioso commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone: e Calcidio e Macrobio sono probabilmente contemporanei, ed entrambi scrissero tra il III e il IV secolo. Il cap. VI del Commentario di Macrobio è tutto dedicato al numero sette («Multas esse causas, cur septenarius vocetur»): esso è la fonte di questo canone settantennale della vita umana. Esula da questa nostra conversazione trattare di questo numero. Si pensi tuttavia ch'esso significa i sette cieli (cioè i sette pianeti), le sette virtù, i sette doni dello Spirito Santo, le sette arti liberali ecc.: è un numero di essenza trascendentale, rappresenta una categoria dell'infinito, dell'eternità e insieme della perfezione. E perciò regolare il ciclo dell'umana esistenza e le sue varie fasi progressive sul ritmo del settenario, equivaleva a porre la dimensione dell'esistenza terrena sul modulo e sullo schema di esemplari celesti e imperituri. In tal modo l'uomo rientrava, secondo il Medioevo di educazione pitagorico-platonica, nel ritmo del cosmo.
Allora, si capisce che i trentacinque anni di Dante hanno un significato che trascende la sua personale esperienza e si vengono a porre in una prospettiva paradigmatica. Essi simboleggiano il culmine della vita, il momento della «crisi». È l'età che sta sull'arco dell'esistenza, nel suo punto più alto, dopo il quale la parabola prende a discendere. Questa condizione, s'intende facilmente, non può essere soltanto cronologica, ma appartiene alla biografia morale, all'esistenza interiore; è una fase dell'esercizio cristiano. E già con l'indicazione generale e collettiva di «nostra vita» Dante si associa tutta quanta l'umanità. Cioè, i sui trentacinque anni sono sì i suoi, ma sono anche quelli di tutti, di ciascuno. Sono una pietra miliare della sua esistenza, ma in trasparenza alludono a quella di ogni individuo. Un elemento, vale a dire, autobiografico diventa una tipizzazione universale. Questo è il processo spirituale con cui Dante si pone a protagonista del suo Poema: è lui, sì, come persona determinata e individua, ma in lui si assomma l'umanità, tutto il corpus cristiano. «Nel mezzo del cammin di nostra vita», con quel pronome possessivo esteso all'intero consorzio degli uomini, Dante ha già segnato il carattere di universale solidarietà spirituale dell'intero Poema. Insomma, i trentacinque anni ch'egli toccava in quel solenne 1300, l'anno del grande giubileo, sono gli anni della crisi di ogni vita ed esperienza cristiana. Nel trentacinquesimo anno, per chi ha la sorte di giungervi nel pieno possesso della propria vitalità, si opera: nell'animo del credente, dell'uomo che non rinuncia alla propria responsabilità, una radicale e decisiva evoluzione .
Ora, per meglio intenderla, è necessario chiarire nella sua più intima significazione l'immagine centrale di questo primo verso: che trova appunto il suo più lirico e autentico accento nella evocazione del «cammino». Che la vita umana sia considerata come un cammino, è, si può dire, un luogo comune, è una metafora usuale e tradizionale, che è possibile ritrovare anche nella letteratura classica, oltre che in quella medievale. Ma non rutti i cammini hanno lo stesso tracciato, e non tutte le strade portano alla stessa meta. Intendere l'esistenza umana come un viaggio significava per il Medioevo definirla nel suo valore più intrinseco, più spirituale. Per la religiosità medievale la vita era più esattamente una peregrinazione. La condizione morale dell'uomo cristiano era (e dovrebbe essere anche oggi) quella di chi si sente in esilio, come confinato su questa terra, mentre continua a portare nella propria interiorità l'immagine della patria lontana, intuita ma non conosciuta, viva e reale nella coscienza ma ogni giorno più distante e remora È un pellegrinaggio dell'anima che agogna di rivedere la regione da dove si è temporaneamente separata. E questa configurazione interiore della vita non era soltanto un'idea, una similitudine, un'allegoria, come noi moderni siamo soliti ritenere: bensì era uno stato morale, una situazione dello spirito oltre che dell'intelletto. Il nostro fraintendimento, e diciamo equivoco, è di ritenere che il verso di Dante raffiguri un'immagine, un'allegoria: ed è invece una proiezione reale, è una cifra della sua fede, sua e dei suoi contemporanei. Cioè, Dante non intende istituire nel primo verso una similitudine (la vita umana paragonata a un cammino), ma vuole definire la nostra esistenza nella sua fondamentale condizione. Che è appunto un viaggio, un cammino, un pellegrinaggio dell'anima esiliata dalla sua vera patria. Scelgo a caso, tra i tanti commenti alla Divina Commedia dei primi secoli, quello che dice il Vellutello: «Nel mezzo del cammino (dice il poeta), non essendo questa nostra umana vita altro che una peregrinazione, ne la quale tutti aspiriamo di ritornare a la comune patria, donde ci siam partiti». Capire questa differenza e accettarla nei termini che siamo venuti accennando, significa trasferirsi in Dante e nel suo pensiero, e non, diversamente, considerarlo come il poeta che escogita similitudini e va costruendo metafore e allegorie. Invece Dante in questo modo vuol chiarire meglio e più concretamente il destino della nostra vita, che è anche la sua personale .
Se è vero, dunque, che la vita è un viaggio, un pellegrinaggio, che importanza aveva per lui trovarsi a trentacinque anni, a metà cioè del cammino? Equivaleva soltanto a dichiarare una nozione cronologica? Se si legge il primo verso limitandoci a questa spiegazione positiva, si rimane fuori del circolo della spiritualità dantesca, che è poi quella medievale e cristiana. Viceversa, restaurata l'interpretazione genuina di questo primo verso, il discorso di Dante ripalpita di tutta la sua attualità, ch’era l'ansia del pellegrino di Cristo, che al colmo dell'esistenza, cioè a una delle stazioni più importanti del viaggio, rivede se stesso immerso e impegnato nel più fatale e angoscioso problema del vivere. D'altronde, il Medioevo non intendeva l'autobiografia se non come un'esperienza personale in chiave esemplare; per la mentalità cristiano-medievale (a partire dalle stesse Confessioni di S. Agostino) il racconto della propria vicenda umana e psicologica in tanto poteva interessare in quanto rispecchiasse una validità di modello, di esempio. Si veda, sempre a proposito di questo primo verso, quanto dichiara l'Ottimo, uno dei più antichi commenti danteschi: «In questa etade debbono gli uomini essere quanto si puote umanamente perfetti, e lasciare le cose giovanili, partirsi da' vizi e seguire virtù e conoscenza: e con questo motivo l'Autore esemplifica sé agli altri». E si noti il valore del verbo esemplificare, elevare, cioè, se stesso ad esempio per gli altri. A Dante tutto il suo passato gli apparve, dunque, di colpo, sommerso nel sonno, cioè nell'irresponsabilità, «tant'era pien di sonno in su quel punto», e tutta la vita gli si configurò come una «selva» selvaggia, che rappresenta con evidenza pittorica il caos dei sensi: e come tale, dominata dalla confusione, dalla tenebra, dalla cecità. Nel Convivio Dante l'aveva già chiamata «la selva erronea di questa vita» (IV, XXIV, 12). Vale a dire, la vita stessa è una selva oscura, ove è facile smarrire la traccia della «verace via».
Finora s'era sempre pensato che Dante si volesse riferire a una sua personale vicenda, a una crisi che l'avesse colto in quella svolta della propria vita, che soltanto per una rara coincidenza si era venuta a identificare con l'età dei trentacinque anni, che a lui piaceva appunto collocare a metà della comune esistenza. E di che genere questa crisi? Di natura psicologica o intellettuale oppure più rischiosamente religiosa? Nel 1300, o giù di lì, quali accadimenti biografici avranno potuto sconvolgere l'intimità morale di Dante e farlo deviare dal suo abituale cammino? Ma la strada anteriore a quest'anno e a questa presunta crisi, era stata dal poeta percorsa veramente in direzione rettilinea e sicura e consapevole del traguardo finale? Finallora la biografia dantesca s'era svolta in un senso apparentemente normale, nonostante alcuni sbandamenti che fatalmente si alternano nell'esperienza di ciascuno. Perciò è avvenuto che i biografi di Dante si sono esercitati a rinvenire nella sua realtà quotidiana qualche grossa crisi che potesse giustificare lo sviamento del poeta e qualche grave deviazione dal retto cammino. E poiché anni prima aveva avuto uno scambio di sonetti con Forese Donati, che non sono certo edificanti, s'era riconosciuta in quel tempo una sua trista esperienza, un oscuramento o disorientamento della sua coscienza morale. Ma veramente risulta che Dante voglia alludere a un preciso episodio del suo vivere? C'è qualche specifica vicenda che gli abbia dato la sensazione non solo di aver peccato ma di avere smarrito la strada? Non una sola, rispenderebbe Dante; ma invero tutta la sua condotta e i suoi pensieri e i suoi sogni e le sue ambizioni ora gli apparivano fuorviati, e senza idealità, e soprattutto provvisori e irresponsabili, come di chi proceda a tentoni, e non si sia fatta una ragione dell'esperienza sua e degli uomini, e non abbia ancora considerato la propria sorte di mortale, e non abbia mai cercato di prefigurarsi l'avvenire, sia in questo mondo così angusto e fuggevole e sia rispetto all'altro eterno e incommensurabile. A valutare i suoi trentacinque anni, così in blocco e nella loro prospettiva, Dante non rintracciava nulla che fosse una guida sicura, non si sentiva di percorrere un terreno fermo. Non era, cioè, questo o quell'episodio della sua realtà che lo preoccupasse e gli desse il senso del fallimento, ma era tutto il suo vivere, quel suo camminare con gli occhi distratti e accecati, quel trascorrere da un'esperienza lirico-sentimentale all'angoscia del dolore e della morte, e poi all'esaltazione della filosofia e della scienza, e ancora al risentimento politico, e alle delusioni della sua sorte di cittadino, e a quel vagare in bando dalla patria, dal suo dolce ovile, senza una ben definita responsabilità, e soprattutto privo di un miraggio a cui far convergere in una suprema volontà unitaria tutte le energie che premevano nel suo spirito e sollecitavano il suo intelletto e non attendevano che il momento e l'occasione di attuarsi e dirigersi per una causa non caduca né incerta, una causa che sovrastasse la diuturnità empirica e le illusorie apparenze di questa terra, e contenesse nella sua essenza una verità eterna, incontrovertibile, valida per oggi e per sempre, per sé e per tutti gli uomini, e nella quale egli, uno degl'innumerevoli mortali peregrinanti nel labirinto dell'essere, si potesse tutto affidare e confondere e annullare. Insomma, la crisi di Dante non era da misurarsi con i criteri della più personale biografia, ma in vista di una verità universale e ineccepibile, e perciò non limitata a un motivo individuale ed episodico, ma estesa all’orizzonte di tutta l'esistenza umana. Ecco: Dante voleva esprimere la propria crisi ma nella misura ch'essa rappresentava la crisi di tutti gli uomini: il poeta assumeva se stesso a simbolo dell'intera umanità. E perciò il cammino della vita era il suo ed era quello di tutti gli altri, e la metà del viaggio in cui egli si sorprendeva senza direzione e senza luce e senza ideale, tagliava in due la vita di ogni mortale, segnava un confine per ciascuno, e imponeva di volta in volta una scelta, un riscatto, il problema più decisivo della vita, che è quello di conoscere se stesso e le ragioni del proprio vivere e di sapersi atteggiare per il più lontano avvenire, e soprattutto di consegnarsi interamente a una verità spirituale che non soffra ad ogni istante d'incertezze e di angoscie e d'improvvisi oscuramenti. Quel che Dante viveva a trentacinque anni è ciò che vivono tutti i mortali, e il suo smarrimento è lo stesso che coglie ciascuno che non abbia ancora ritrovato la giusta via e non si sia fatto una chiara coscienza della propria spiritualità. Ciascuno, dicevamo, che sentisse di vivere una civiltà cristiana, come Dante.
È così che «nel mezzo del cammin di nostra vita» oltre a non essere una mera indicazione biografica e cronologica, oltre a non contenere una pura immagine o similitudine, è, viceversa, la chiave di un destino assolutamente cristiano e più generalmente umano: è il vestibolo più conforme e idoneo a entrare nel gran tempio della Divina Commedia. Fin dal primo verso, cioè, Dante associa a se stesso l'umanità tutta, del suo tempo e d'ogni età. Il primo verso è la caratterizzazione della sorte spirituale di ciascuno sorpresa nel momento più drammatico, allorché l'anima si ripiega su se stessa e interroga il proprio mistero e cerca di attingere una certezza interiore e pacificatrice. Per vivere questo momento, non è poi assolutamente necessario essere o sentirsi cristiani; ma basterà guardarsi dentro, per l'appunto a metà della propria vita, e chiedersi perché si è finora vissuti e cosa ancora ci si attende e dove indirizziamo il nostro passo, per avvertire una crisi analoga a quella che Dante ha tradotto nel suo poema. Basterà, cioè, che ciascun individuo si ponga a interpretare se stesso e la vita e il mondo sul piano autenticamente spirituale, per sentire lo sgomento di Dante e cercare ansiosamente una via, una direzione, un riscatto.
I primi lettori di Dante, i più antichi, ebbero questa precisa coscienza, appunto perché si sentivano moralmente vicini e affini a Dante. E, certamente, non è agevole intendere e fare propria la lezione dantesca senza quella chiaroveggenza interiore che è la prima dote della religiosità. Leggere e capire il verso di Dante con questa disposizione, equivale a restituirgli quell'atmosfera e quelle risonanze da cui esso si generava e di cui continuava a nutrirsi. Anche la più moderna interpretazione e valutazione estetica non potrà farne a meno, se non vuole precludersi la vera intelligenza della poesia dantesca. Prima di una lettura estetica è indispensabile effettuare questa restaurazione dei valori spirituali da cui proviene e di cui è tutta impregnata la parola di Dante. «Ottimamente detto - commenta Cristoforo Landino -, imperocché la nostra vita non è posta nella eternità deve ogni cosa è stabile e in eterna quiete, ma nel tempo che non è altro che assiduo flusso e corso, poiché, come dice l'Apostolo, non siamo qui in patria né abbiamo città ferma, ma è questa vita una peregrinazione, la quale, se procediamo per certa via ci conduce a Ierusalem, celeste patria dove siamo cives sanctorum et domestici Dei». E per meglio illustrare quanto siamo venuti dicendo, vale la seguente chiosa dello stesso Landino: «Né è da pretermettere per la dichiarazione di questo luogo, che lui (il poeta) disse mi ritrovai e non «entrai», imperocché l'animo entra nel corpo subito che si crea, ma non s'accorge della sua ignoranza, se non «nel mezzo del cammin», come abbiamo detto: perché Platone e molti altri filosofi chiamano la materia corporea hyle e in latino silva, e come l'animo ha ogni eccellenza e felicità per la natura sua indivisibile incorporea e incorruttibile, così per l'opposto ha ogni calamità e ogni vizio per la selva, cioè per corpo, il qual è corruttibile. Il perché rettamente Platone, come chiama Iddio cagione e fonte di tutti i beni, così per l'apposito chiama la selva, cioè il nostro terrestre carcere cagione di tutti i mali... E certamente è beato chi può rompere i legami della grave terra e sciogliere l'animo della contagione del corpo e della sessualità ed elevarsi alle cose celesti» .
E che questo smarrimento o abbuiamento della coscienza non sia solo un fatto personale di Dante, ma intende adombrare il «cammino» di ciascun uomo e l'esperienza di tutti, come abbiamo avuto modo di chiarire poc'anzi, risulta esplicitamente dalle parole dello stesso chiosatore testè citato: «E noi veggiamo l'uomo non solamente nei primi anni infantili e puerili ma in gran parte della adolescenza e gioventù vivere solamente secondo il senso; e perché non conosce altro che quello non crede se essere altro, e niente reputa bene se non quelle cose che dilettano i corporei sensi; né alcuna cosa reputa male se non quelle che gl'attrista. E come ebbro ma profonda sonnolenza oppresso, né sé conosce né a che fine sia prodotto intende, né conosce la ignoranza sua nella sua miseria infino a tanto che arrivato all'età già matura, parte per la esperienza di molte cose, parte per alcuna dottrina acquistata e per precetti da' più savi avuti, comincia a destare la ragione, e allora finalmente conosce sé essere in oscura selva, cioè l'animo suo essere oppresso da ignoranza e da vizii per la contagione del corpo. E adunque la sentenza del testo: Io mi ritrovai in una selva oscura; il che importa - dice sempre il Landino - io m'accorsi l'animo mio essere sommerso nel corpo e nelle sue tenebre, per cui aveva perduto la diritta e vera via. Nel mezzo del cammin di nostra vita, cioè nel mezzo del corso della vita umana, nel qual tempo la discrezione comincia a destarsi ne l'uomo, la quale insino a quel termine era stata quasi spenta, e, desta, s'accorge de l'errore e prende la via salutare, se già - aggiunge con cautela il chiosatore - non si lascia tanto vincere alla sensualità, che non proceda avanti, ma più tosto ritorna indietro nella oscurità della selva».
Ora, se un insegnamento dobbiamo trarre da questa rilettura del primo verso della Divina Commedia, è di considerare il linguaggio dantesco nei suoi valori spirituali e ogni volta risalire alle fonti più intrinseche del suo intelletto. E, soprattutto, a me pare che la cosa più urgente sia il criterio da adottare di fronte a quella duplice realtà che comunemente si suole indicare nell'espressione dantesca: la letterale e l'allegorica. E spesso i due valori si pensano non solo distinti, ma scissi, quando, come accade in sede di critica estetica, non si pongano in antagonismo l'uno con l'altro. A tale proposito mi basterà citare, una per tutte, la grave riserva che proprio per questi versi avanza un critico che noi abbiamo sempre considerato come un modello di gusto, ma che di fronte a Dante non mostra più la consueta sicurezza di giudizio; egli dice: «Ma la qualità del luogo, la selva è suggerita a Dante dall'intenzione allegorica: questo è il germe che corrode il canto. Poiché esso deve costituire l'impostazione generale del poema, non solo nelle sue apparenze ma anche nelle sue intenzioni, Dante vi intreccia con l'impostazione del viaggio l'impostazione del suo significato. ID>i qui nascono la quasi continua alternativa fra lettera e simbolo, e quindi le soluzioni di continuità della poesia: il I canto è il più incertamente concepito dell'Inferno». E se qui cito Attilio Momigliano (son sue infatti le parole riferite) non è certo per additarlo alla nostra riprovazione, ché non oserei farlo, poiché ancora porto viva nel cuore la sua «cara immagine» di maestro, ma tanto per notare il disagio e l'improduttività della critica estetica, quando non sia accompagnata e collaudata da un preciso controllo storiografico. E, viceversa, per noi, i due aspetti, il letterale e l'allegorico, sono fusi tra loro e simultanei, poiché l'uno non sta a servizio dell'altro, né questo è chiamato a far violenza o a sovrapporsi al primo, ma è che l'uno è dentro l'altro, contemporaneo l'uno all'altro per un'attitudine spirituale che è propria a Dante e a tutta la sensibilità medievale. E se questo modo di veder le cose e di considerare la realtà e di avvertire in essa la presenza di una sovrarealtà, di una metafisica, di un supervalore, non si adatta più alla nostra mentalità, il difetto è nostro, e siamo noi che dobbiamo di volta in volta colmare la distanza che ci divide dall'età di Dante e adoperarci di guardare il mondo e i fenomeni con la dimensione che ebbe la spiritualità medievale. Per essa il cosmo, il creato, l'oggettività non ha un'unica cifra, ma, oltre alla propria apparenza, custodisce un altro valore più intrinseco, meno visibile ma più verace. È il pregio e il significato che alle cose danno non già i sensi o gli occhi del corpo o le percezioni immediate o le reazioni pronte della mente, ma è il pregio e il significato che è conferito alle cose dell'anima dall'interpretazione spirituale, da una intuizione mistica, che va oltre il segno materiale e sorprende le immagini dell'invisibile e dell'immateriale. Ora, appunto, l'anima, i sensi, la vita, i peccati, la dannazione e la salvezza, sono cose sì reali, ma non rappresentabili se non come concetti; ed ecco che il pensiero medievale, e in suo nome Dante, le traduce, queste idee, in segni concreti, le considera come forme visibili, che i nostri sensi possono percepire direttamente e direi plasticamente: e allora la vita è una selva, e l'esperienza è un viaggio sperduto, e la ragione umana è un lungo sonno, e l'avvenire è una strada senza traccia, e l'intera coscienza è una forma d'ignota paura. E la selva il cammino il sonno la paura sono tutte cose che conosciamo, che cadono sotto i nostri occhi e fanno parte del nostro più familiare panorama; e per Dante non sono più immagini o metafore, ma rappresentano direttamente i concetti, come tutto quanto il sensibile porta dentro di sé i riflessi e le cifre del mondo spirituale. Non più «voces» ma «res».
Per Dante, cioè, nominare la selva, il cammino, la strada perduta, la angoscia del viandante che non vede più davanti a sé la meta del viaggio, equivale ad evocare realmente il paesaggio morale e lirico del suo spirito, vale a dire la peregrinazione dell'anima, il destino dell'uomo che si sente smarrito, ed è pure in cerca di un orientamento, di una luce, di una verità a cui consegnarsi come ad un estremo rifugio. Che è poi la poesia più pura della Divina Commedia.
Sembrerebbe che Dante si valga di un duplice piano espressivo, nel quale le parole sono positive e insieme spirituali. I termini, cioè, di «cammino», di «selva», di «vita» appartengono a una nomenclatura reale, mentre si assumono in senso figurato. E, tuttavia, non è che nell'atto di usarli Dante trascorra dall'un senso all'altro e trapassi dalla sfera positiva a quella traslata; ma li accetta e li impiega come voci concrete, né figurate né allegoriche, bensì assolutamente reali. Accostandoci alla Divina Commedia noi dobbiamo usufruire del suo vocabolario, che nei limiti medievali e danteschi si correda di accezioni precise. Senza la previa nozione di questo lessico, e soprattutto del processo mentale che riqualifica le parole, non è possibile comunicare all'interno del pensiero dantesco. Tutta la Divina Commedia si esprime nei modi intercambiabili di questo linguaggio reale e figurato, nel quale l'una qualità è dentro l'altra, ne è la sua immagine diretta, anzi la sua stessa essenza .
Altrove, a proposito dell'esegesi dantesca del Pascoli, assegnavo particolare importanza alle pagine che chiarivano la funzione e il valore dell’Acheronte. È il fiume infernale che Dante desumeva dalla tradizione classica, dal suo Virgilio. Se si considerano i commenti moderni, l'Acheronte vi è illustrato nella sua funzione quasi esclusivamente topografica; viceversa nelle pagine del Pascoli il fiume della morte e della pena assume una sua personalità altamente tragica, che lo riscatta dalla mera indicazione sm1uuuralle. S'intende come ogni progresso nella nozione morale degli elementi che costituiscono l'architettura del Poema si debba risolvere in una più congrua valutazione interiore e perciò artistica . In questo senso, l'accertamento anche più capillare del pensiero dantesco diventa la più naturale e indispensabile via per l'intelligenza estetica (cosa, questa, che la critica crociana ha mostrato di disdegnare). L'Acheronte è un confine, ma è anzitutto un simbolo. Puntando su questa interpretazione il Pascoli affranca di colpo un riferimento che potrebbe risultare (come di fatto risulta nei commenti odierni) quale puro espediente strutturale, per elevarlo a valore spirituale, che è la misura più propria a Dante e che costituisce appunto la più feconda scoperta della critica pascoliana. È vero che l'Acheronte segnai il limite tra la vita e la morte, tra il peccato e la pena. Ma è anche vero che i valori semantici di «vita» e «morte» nel vocabolario dantesco non coincidono se non in parte con i sensi che noi comunemente vi attribuiamo. C'è un vivere e un morire empirico, terreno, cronologico; e c'è un vivere e un morire spirituale, teologico, mistico. L'impiego che Dante fa del binomio vita-morte si estende e si eleva da quella sfera a questa. Pascoli è stato il primo a capire il costante processo del pensiero dantesco, che dal senso proprio e materiale risale continuamente alla significazione etica e spirituale: che è, appunto, la più distintiva caratteristica della mentalità medievale. Il problema si prospetta al critico in questi termini: «Come passa Dante l'Acheronte?» Non con la barca di Caronte, che traghetta soltanto coloro che son morti, mentre Dante è «anima viva»; ma in seguito a un terremoto, quando Dante cade senza più sentimento, e poi destandosi dall'alto sonno si trova sulla proda della valle d'abisso. In questa vicenda i concetti di «vivo» e «morto» sono espliciti e rientrano nell'usuale lessico. Ma si badi: al di qua d'Acheronte restano nel vestibolo molte anime che l'Acheronte non possono passare. Sono gl'ignavi, sono gli angeli «che non furon ribelli né pur fedeli a Dio, ma per sé foro», sono gli sciagurati «che mai non fur vivi» e «non hanno speranza di morte». Cioè: non erano vivi da vivi, non sono morti da morti. S'intende, dunque, che per passare l'Acheronte è necessario morire. E poiché Dante passa, egli sperimenta la morte. È chiaro che in questa fase la posizione semantica di «vita» e «morte» è già diversa. Qui l'accezione si fa assolutamente spirituale e mistica. Gl'ignavi, cioè, sono morti materialmente, della prima morte, che è quella dei mortali, quando il corpo è abbandonato dall’anima; ma attendono la «seconda morte», che è quella dell'anima stessa abbandonata da Dio, quando è giudicata dall'alta giustizia. «E si chiama seconda, aggiunge Pascoli, perché è dopo la prima... E sì Dante di questa seconda morte non poteva morire, perché non era morto della prima; chè la seconda segue la prima. Dunque, se per passare Acheronte, egli doveva morire, morire della prima doveva e non della seconda. E della prima, egli ci significa che morì». Pascoli ha perfettamente ragione; ma s'intende che il valore di «morte» e di «vita» è qui assunto sul piano religioso ed etico. Questo trapasso da una chiave propria e concreta a una chiave figurata e simbolica è il ritmo più specifico della Divina Commedia. Nel farne il centro della sua interpretazione Pascoli si poneva nel giusto livello. La «morte» di cui ora Dante sembra colpito è quella meramente mistica. Anche Cristo muore, e la sua morte è anzitutto quella del corpo: perciò reale e terrena; ma la sua morte è anche quella del peccato originale, rappresenta la redenzione dell’umanità, è, cioè, la vera vita. Il Pascoli, giustamente, riporta il celebre passo di san Paolo: «Ignorate, o fratelli, che quanti fummo battezzati in Gesù Cristo, fummo battezzati nella morte di lui? Siamo stati seppelliti, mediante il battesimo, con lui alla morte, affinché come esso risorse dai morti, per la gloria del padre, così noi camminiamo nella novità della vita». E questo concetto accolto dall'esegesi cristiana, soprattutto da sant'Ambrogio e in forma più dispiegata da sant'Agostino, è ora tesoreggiato da Dante con una delicatissima tessitura, nella quale il vivere e il morire alternano e bilanciano i loro valori propri e mistici con una dosatura e una trasposizione che, a non individuarle, si può compromettere l'intendimento di tutto il Poema. C'è una pagina di questo capitolo pascoliano che è veramente rivelatrice, e fa stupore che i commentatori non se ne siano valsi: «l'Acheronte, per uno corporalmente vivo, è la morte mistica, ossia la rinascita; per uno corporalmente morto, è la morte spirituale. Chi lo passa muore; se è corporalmente vivo, alla morte; se e corporalmente morto, della morte; alla morte e della morte seconda. Gl'ignavi, se volevano morire di quella morte mistica che è morte alla morte e nascita alla vita, dovevano, quando erano vivi, uscir della selva, dove chi si aggira è come morto, e vive non vivo. Ma essi, no, non furono mai vivi, e si aggirano sempre per la selva, in cui era bensì luce, e luce di luna piena, ma quale essi non usarono per uscire dai panni della servitù. Non vollero essi quella morte che è la vita, e perciò vivi non furono. Per essere vivi, dovevano mettersi per quel passo: morire. Errarono invece irresoluti nel fioco lume della selva selvaggia come ora corrono senza effetto nel fioco lume del vestibolo. La selva aveva il passo, per il quale potevano trovar la morte che è vita; il vestibolo anch'esso ha un Passo per il quale essi non saprebbero trovare se non quella morte che è la morte totale, dell'anima. Ma né per quello vollero mettersi, quando erano corporalmente vivi, è così non vissero mai, perché non morirono della morte che è vita; né per questo possono, per quanto vogliano. Anche essi hanno un desiderio che eternamente è dato loro per lutto; quello di morire della seconda morte. Ma è un desio senza speme, anche il loro. Non furono mai vivi, non sono nemmen proprio morti; e corrono e gridano e si disperano in eterno in quel vestibolo che assomiglia alla selva in tutto, fuor che in questo, che nella selva il passo è morte che è vita vera e nel vestibolo il passo è morte che è vera morte».
La restaurazione di questo criterio esegetico è tanto più urgente, in quanto su di esso continua a gravare la condanna crociana. In un altro saggio noi stessi abbiamo cercato di rifare la storia della posizione critica del Croce relativamente al problema dell'allegoria dantesca e del simbolismo mistico, ricollegandola però a tutta la visione ch'egli si venne formando della civiltà medievale, la quale costituì un'epoca e un'esperienza aliene dalla sua costituzione mentale. In questa sede, tuttavia, a chiarimento di quanto siamo venuti fin qui esponendo, ci pare utile precisare alcune considerazioni sul tema più specifico. Nel 1922, in seguito alle riserve avanzate al volume dantesco, il Croce ritornava a discutere Sulla natura dell'allegoria (rist. nei Nuovi saggi di estetica, 3 ed., Bari 1948, pp. 329-38), meravigliato di vedere ancora asserire che «la allegoria è una forma di espressione, pari alle altre tutte, e che può essere, come le altre tutte, adoperata ora bene e ora male, secondo la capacità e la disposizione felice o infelice del poeta», e si doleva d'esser costretto a ribattere un giudizio così palesemente erroneo e contrastante con i suoi principi, e che egli non si sentiva di poter «chiamare neppure obiezione». E, invero, gli riusciva ancora una volta agevole confutare le argomentazioni con cui i suoi oppositori si sforzavano d'invalidare la distinzione e anzi opposizione di allegoria e poesia già da lui posta in termini nettissimi e la conseguente repulsa a considerare l'allegorismo come una particolare forma di espressione lirica. Ma la gradita novità di queste altre pagine crociane · è data dal tentativo eh' esse fanno di accennare a una brevissima storia dell'allegoria come risorsa retorica (una «figura» al pari delle altre che perciò si esaurisce nel colore episodico: la cosiddetta «inversio» di Quintiliano), e del suo ingresso nella interpretazione surrettizia dell'antica critica erudita dei mitografi e moralisti. E questa sarebbe stata la via più naturale per affrontare la funzione dell'allegoria nell’esercizio letterario del Medioevo, che è poi il terreno nel quale è necessario proiettarla e indagarla per intenderne la reale esigenza; ma a questo proposito il Croce è troppo sommario, limitandosi a ricordare come l'esegesi allegorizzante, che i Greci chiamarono iponoia e che fu largamente applicata a Omero, «si ripetette, com'è noto, in modo cospicuo all'inizio e nel corso del Medioevo, nell'intento di conciliare la nuova religione con gli scrittori pagani; donde la dottrina dei quattro sensi» (p. 334).
Ora, quel che qui metteva conto di lumeggiare era proprio il fatto che l'allegoria medievale, seppur nata da questo bisogno pratico di moralizzare gli scrittori pagani e catechizzare la storia, divenne nella civiltà d'allora un metodo intellettuale e una situazione dello spirito; non rimase, vale a dire, una mera escogitazione di eruditi, ma discese nelle vene dell’intelligenza e ne colorò e condizionò ogni esperienza, anche quella di tipe psicologico e sentimentale. Sicché l'accettare come fa il Croce il giudizio del Borgognoni, equivale a rinunciare all'unica possibilità d'intendere la spiritualità medievale nelle sue più intrinseche ragioni . È per l'appunto questa pertinace renitenza a considerare positivamente la realtà intellettuale del Medioevo che preclude al Croce il solo adito idoneo a collocare l'allegoria medievale nel suo vero clima. E quando egli mostra di appagarsi della solidarietà che gli offriva il pensiero del Sette e Ottocento, che fu decisamente ostile al procedimento allegorico, non fa che confermare la sua appartenenza o adesione a una critica che non era la meglio disposta a rappresentarsi nella sua vera realtà la condizione medievale. Ma è che al Croce importava non già di risolvere o per lo meno di attenuare l'antinomia da lui sempre dichiarata tra allegoria e poesia, cercando d'inserirla, almeno nel caso di Dante, entro la specifica spiritualità medievale, bensì di accusarne senza alcun residuo la eterogeneità e incompatibilità : «come atto pratico, una forma di scrittura (perché la scrittura è cosa pratica), una criptografia, non diversa nell'intrinseco da ogni criptografia, se anche si faccia, invece che con lettere o con numeri, con immagini parlate o figurate; e da tale definizione ricavai le leggi dell'allegoria e spiegai perché, ove manchi l'interpretazione autentica o la dichiarazione espressa da parte dei loro autori, ove manchi un ben fissato sistema criptografico con relativa chiave, decifrare le opere allegoriche sia impresa affatto disperata, perpetuamente congetturale e, tutt'al più, capace solo di aspirare a qualche maggiore o minore grado di probabilità» (p. 335).
I termini del problema, quindi, quale viene prospettato nel breve saggio crociano, rispondono, come sempre, a un'illuminante precisazione metodologica e semmai vogliono indicare la via più diretta per concedere sì all'allegorismo la sua parte nella storia della cultura o dell'erudizione, ma col fine ultimo e più urgente di continuarlo a tener separato dalla sfera della fantasia. E, tuttavia, a guardar bene, ci si avvede che l'indagine crociana rappresenta piuttosto una digressione, anche se opportuna e in un certo senso chiarificatrice, che non una vera inquisizione del più sostanziale valore del problema in quanto particolare condizione della mentalità medievale. Resta assodato in linea generale che l'allegoria non potrà mai assumersi come determinazione di poesia né par lecito confondere il processo proprio dell'artista col processo proprio dell'allegorista. Ed è anche vero che il più delle volte l’allegoria non è presente nell’opera d’arte ma è soltanto escogitata dalla curiosità o sottigliezza di lontani lettori e chiosatori; né, peraltro, si esclude che gli stessi poeti, «composte le loro opere poetiche, volentieri le allegorizzavano (e anche oggi le allegorizzano), con l'attribuire sensi ulteriori a ciò che avevano liberamente composto col senso univoco della poesia. E tale, cioè superaddita ed estrinseca, e perciò innocua, è per solito l'opera allegorizzante esercitata dai poeti» (p. 336). E fin qui l'allegoria risulta un fatto di cultura, indipendente dalla stessa volontà del poeta e del tutto estranea alla sua sensibilità. S'intende, perciò, che questa considerazione non è destinata a far luce sulla questione fondamentale, che è quella di valutare l'intenzione allegorizzante dello stesso artefice nell'atto del suo comporre. O, semmai, tocca in certo modo la critica letteraria e la validità del suo giudizio o meglio la sua relatività nell'intelligenza dell’opera d'arte: chè, a dire il vero, il sistema ermeneutico che la mentalità medievale applicava nell'intendere la Bibbia e in genere tutte le opere letterarie, non è il solo ad esercitare violenza e adulterazione sui testi del passato. Anche la più recente critica qualche volta suole operare, e magari suo malgrado, un gratuito allegorizzamento d'indole estetico-sentimentale sul documento artistico. Tuttalpiù, avendo l'occhio all'esperienza dantesca, la considerazione crociana potrebbe trovare qualche riferimento ad alcuni episodi o aspetti della Vita Nuova e del Convivio, per i quali lo stesso Dante si fa interprete dei suoi momenti poetici, che a distanza di tempo assumono nella sua coscienza dei sensi che assai probabilmente non avevano né volevano avere in quel loro primo formarsi. È chiaro però che il lavorio ermeneutico dei commentatori andrà diversamente valutato e giustificato - vale a dire non più come «superaddito» ed «estrinseco» - se risulterà che l'autore stesso abbia deliberatamente aspirato a segnare la sua opera di finalità e significati allegorici. «Con che non si esclude - aggiunge infatti il Croce - che talvolta il poeta si accinga alla sua opera poetica con un'intenzione allegorica in capo, cioè col proposito di creare un complesso fantastico da vedere insieme come opera di poesia e come scrittura secreta per certi concetti religiosi, morali, politici, storici, o altri qualsiano» (p. 336-7). Ma anche in questo caso il Croce non ha esitazioni a respingere l'intenzione allegorica come assolutamente antipoetica e negativa: «O il poeta dimentica per il mondo fantastico il mondo intenzionale e si abbandona tutto all'aspirazione poetica (salvo a commentarla allegoricamente dipoi, a cose compiute); ovvero interferisce di continuo col suo mondo intenzionale nel suo mondo fantastico, e rompe la coerenza estetica dell'opera, producendo un complesso che non è poesia, e vale unicamente come criptografia. Sono codesti, naturalmente, due casi estremi e tipici tra i quali s'inseriscono svariati casi medi o di miscuglio, perché vi ha geniali poeti che in alcune sparse maculae recano le tracce dell'allegorismo col quale si erano accinti all'opera, e vi ha allegoristi, che qua e là lasciano venir fuori qualche tratto di fresca rappresentazione, quale scintilla di fulgida poesia» (p. 337).
L'indicazione e rimozione che il Croce va facendo di tutto ciò che si distingue dalla poesia, e che anzi questa nega, e con la sua presenza e contaminazione la compromette a ogni istante, incontra, come sempre, facile consenso. E, infatti, in questi limiti, non è possibile pensare l'allegoria nei confronti della poesia altrimenti che una sovrapposizione intellettualistica e disforme. Ma, si deve aggiungere, quell'allegoria qual è prospettata dal Croce, che già la pone diversa dalla poesia ed eteroclita ad essa, e in anticipo la confina nel mondo intenzionale e la relega nell'incondita o recondito d'una gratuita criptografia, che per essere intesa avrebbe bisogno d'una chiave e d'un cifrario. E quel che risulta, invece, soltanto asserita o convenuto è proprio che ci sia un processo allegorico o un'intenzione allegorizzante che possa ridursi allo stesso tipo e valga per tutti gli scrittori e per tutte le epoche e che sempre debba sorgere in forma parassitaria ed estrinseca e sempre tradursi in opposizione alla poesia e da essa separata e remota. Ed è chiaro che una volta che l'allegoria si manifesti con questo volto e questa indole, essa si dovrà sempre riconoscere come aliena dal momento lirico e semmai come documento d'una condizione fantastica equivoca e discorde. Ma è che, al contrario, l'allegoria nel Medioevo, e in particolar modo nella struttura mentale di Dante, non ha siffatta natura meramente intenzionale e criptografica e sovrapposta, e non si pone come un diverso e distinto piano intellettuale, ma è compenetrata nella stessa spiritualità, fa parte essenziale e necessaria della cognizione del reale e del cosmo, è un abito della mente e insieme uno stato d'animo: è espressione diretta, realtà linguistica. E il senso allegorico, per gli scrittori correligionari di Dante, non è puro e solitario intellettualismo, sibbene ha valore conoscitivo e sensibile; esso instaura nel mondo medievale il principio della trascendenza come diretta sensazione e intuizione, accompagna la visione mistica delle cose e degli avvenimenti, cela e rivela la presenza dell'eterno, la coscienza del divino, i valori spirituali della natura e dei suoi fenomeni e delle sue creature. Vale a dire che l'allegoria nei riguardi del mondo poetico potrà tramutarsi in poesia o restarne alla soglia come un qualsiasi altro contenuto, e non che debba esser condannata in anticipo alla exrrapoeticità. L’interpretazione allegorica con cui la spiritualità medievale intende i fatti della cultura e gli aspetti del mondo e le vicende della vita, è un modo di pensare e di sentire: non si frappone tra l'intelletto e le cose, tra l’anima e i suoi movimenti, ma, anzi ne agevola il contatto e la comprensione, ne suggerisce le vie per il possesso e l'unità. Negli spiriti più responsabili della civiltà medievale, l'allegoria è un metodo per intuire e rappresentare la realtà nei suoi sensi più riposti e perciò più veri e perpetui; è il tramite più sicuro e a un tempo più delicato per superare le illusorie parvenze del visibile e del sensibile e giungere all'invisibile, all'immutabile, all'eterno consiglio. Per la mente medievale, insomma, l'allegoria era insita negli oggetti, negli esseri, nei fenomeni, nei sentimenti, nei pensieri: dovunque, perché in ogni dove palpitava il segno segreto e trasparente della Provvidenza e splendeva una scintilla di luce celeste, al di là della materiale e provvisoria e opaca «species». Per il Medioevo l'universo in tutte le sue manifestazioni, anche le minime, era ambivalente: e l'aspetto estrinseco e sensoriale delle cose nascondeva l'autentico significato con un dissidio che soltanto il metodo allegorico era capace di ridurre ad armonia e di tradurre in una superiore unità. Il mondo scientifico (la natura), il microcosmo psicologico (l'uomo), l'esegesi scritturale, l'interpretazione storica, tutto quanto lo scibile, insomma, si offriva all'anima medievale nelle immagini dell'allegoria, dove soltanto riusciva esso a incontrarsi con le autentiche verità. Ora, finché Dante non sarà inteso nella civiltà spirituale che gli è propria e indispensabile, sempre sfuggirà la sua più intrinseca esperienza e l'unità della sua ispirazione, e continueranno a risultarci malcerte e incompiute o remotamente spente le stesse voci della sua poesia.
La questione preliminare, dunque, è sempre la preventiva intelligenza del Medioevo e delle sue più sostanziali forme spirituali. Non si nega che l'allegoria anche presso gli scrittori del Medioevo possa rivestire un carattere arbitrario e surrettizio ed essere insincera e illegittima, e spetterà sempre al critico sceverarla da quell'altra necessaria e schietta; ma la sua presenza nella cultura di quell'epoca ha una funzione che nessun'altra età conosce: e perciò si pone in una sua particolare prospettiva e con modi individuali, che difficilmente potrà esser lecito ignorare o ridurre a mero espediente retorico. L'accezione allegorica ha penetrato il linguaggio medievale, s'è insediata nel cuore delle parole, ha trasfigurato i sensi del discorso moltiplicandone e intensificandone i valori e le immagini. Essa, dunque, è segno d'una civiltà che ha maturato i propri mezzi d'interpretazione e ne ha dilatato e assottigliato la capacità espressiva. La tenacia con cui il Croce ha insistito ad esautorarne la presenza nell'opera d'arte medievale, è sempre indizio dell'intolleranza con cui egli continuava a valutare quel periodo letterario, che si rivelava al suo intelletto sempre più distante e difforme dai suoi principi speculativi. Nel ribadire la stessa conclusione, e con le identiche parole, è come sorprendere quasi un'ombra di disagio: «Tutto ciò conferma la mia conclusione che dell'allegoria, che vuol prendere il pesto della poesia, il critico d'arte si deve dar pensiero unicamente al fine di respingerla come respinge qualsiasi altra vacuità poetica o bruttezza, e dell'interpretazione allegorica in genere non ha ragione d'impicciarsi, perché dove si considera l'allegoria non si considera la poesia, e dove si considera la poesia non si considera l'allegoria. Nel caso particolare di Dante, appunto perché Dante è uno dei maggiori geni poetici dell'umanità, l'allegoria è quasi sempre estrinseca, e solo rarissime volte interferisce nella poesia; e, se pare che v'interferisca così di frequente, e anzi di continuo, fa colpa è dei commentatori, che hanno appesantito ad allegoria quella che è alata poesia» (pp. 337-8). Ma, invero, non è che si pretenda di sostituire l'allegoria alla poesia, ma quella si pensa di poter considerare come contenuto di questa; ch'essa non respinge o nega o contamina, sibbene è in grado di alimentare come qualsiasi sentimento e di sostenere come qualunque aura, come una delle tante visioni del mondo e dell'essere, anch'essa, nella sua ansia di sapere e d'intuire, capace di tramutarsi in palpito lirico, col suo entusiasmo e la sua pena.
Cosicché sorprende sentir formulare dal Croce, proprio a questo proposito, un giudizio, che è poi il tradizionale pregiudizio, come il seguente: «L'allegoria incontrò assai favore nel Medioevo, in quel miscuglio di germanesimo e di romanità, di barbarie e di cultura, di fantasia gagliarda e di sottile riflessione» (nel Breviario di estetica, già cit., p. 24). E non si vede come si possa applicare, ad esempio, a Dante e alla sua formazione mentale questa stridente e astratta mescolanza di contrari, che una volta gli eruditi del Cinquecento e del Settecento solevano ripetere solo per i primi secoli dell'era cristiana e soprattutto nei riguardi dell'evoluzione linguistica, ma che mai si sognarono di attribuire alla Divina Commedia, e se qualcuno osò farlo incontrò subito una pronta reazione. L'avversione crociana per l'allegoria, oltre a corrispondere con piena coerenza alla sua concezione estetica, rientra perfettamente nell'atteggiamento eh' egli conservò di fronte alla civiltà medievale, che per lui continuò a rimanere sempre l'età di mezzo: una parentesi nella storia dell'umanità, che il Rinascimento doveva superare, o riteneva di dover superare, e in gran parte respingere.