Dati bibliografici
Autore: Daniele Simoncini
Tratto da: Quaderni d'Italianistica
Numero: XI
Anno: 1990
Pagine: 265-268
E perché li antichi s'accorsero che quello ciclo era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere figlio di Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de lo Encida [Aen. 1.664), ove dice Venere ad Amore: “Figlio, vertù mia, figlio del sommo padre, che li dardi di Tifeo non curi”; e Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos [Metam. 5.365], quando dice che Venere disse ad Amore: “Figlio, armi mie, potenzia mia.” (Convivio 2.5.14)
In questo passo del Convivio Dante interpreta in senso cristiano il passo virgiliano da lui citato, prescindendo dalla sua corretta interpunzione, basandosi probabilmente (Brugnoli, da cui prende le mosse questo intervento) sul Cento di Proba, che al verso 32 utilizzava con la stessa interpunzione lo stesso luogo. Questa osservazione può costituire argomento di una nota al testo, ma il problema è più vasto: bisogna chiedersi perché Dante può credere che un passo di un poema pagano contenga sovrasensi cristiani e perché, quindi, riutilizza in questo senso la citazione.
Per poter comprendere la singolarità di questa situazione, bisogna precedentemente indagare sulla posizione di Dante rispetto al pensiero di San Tommaso, che è, come si sa, l’auctoritas principale a cui un lettore dell’epoca di Dante si sarebbe potuto riferire. Umberto Eco ha esaurientemente esaminato questo problema e traggo spunto da lui per molte delle osservazioni che seguono.
In sostanza, il gran merito di San Tommaso rispetto ai precedenti teologi che si erano occupati di dottrine estetiche è quello di aver liquidato “l’allegorismo universale” nell’interpretazione degli scritti e dei dati della realtà, allegorismo tipico della tradizione platonico-agostiniana, e di aver ridimensionato “l’allegorismo poetico per lasciare uno spazio a sé all’allegorismo scritturale” (Eco 228). Tommaso ammette l’esistenza della polisemanticità del testo poetico, ma questa polisemanticità è riducibile al senso letterale, in quanto si tratta, in ogni caso, del senso “quem auctor intendit.” Per Tommaso, quindi, “non c’è senso spirituale nel discorso poetico e neppure nella Scrittura quando usa figure retoriche, perché quello è senso inteso dall’autore ... ma questo non significa che il senso letterale non possa essere molteplice” (Eco 231).
In questo modo, Tommaso ridimensionava “la pratica, comune a tutto il medioevo, di interpretare anche i poeti pagani come portatori di una tipologia di cui essi non sapevano nulla, e quindi come rivelatori di verità, veicolabili per sovrasenso, di cui essi non erano consci” (Eco 232). Quindi Tommaso svalutava la lettura oracolare dei testi di Virgilio e, in genere, degli autori pagani. Nel disegno generale del Convivio, Dante sembra agire da buon tomista. O meglio, riesce a conciliare la tradizione allegorica medievale con la dottrina di Tommaso, in quanto dà dei sovrasensi alle canzoni, ma, siccome i sovrasensi sono spiegati dallo stesso autore, egli prende le distanze dall’esasperato allegorismo della tradizione platonico-agostiniana. Ma, poi, l’Epistola tredicesima dimostra che Dante non ha mai cessato di leggere e i fatti della mitologia e le altre opere dei poeti classici come se fossero allegorie in factis. (Sul problema dell’autenticità dell’Epistola tredicesima mi attengo alle osservazioni di Eco 215-217.)
Inoltre, proprio nel succitato brano del Convivio, Dante dimostra, col modo arbitrario con cui traduce Virgilio, di essere già giunto a qualcosa di simile alla “concezione figurale.”
Cioè, se è vero che nell’Aldilà Dante incontra “morti” il cui “esistere non è diminuito” e i cui “caratteri non sono affatto mutati o privati di individualità dalla morte” e, anzi, “pare che per Dante il giudizio di Dio consista proprio nella piena realizzazione della loro essenza terrena, in modo che, in seguito a questo giudizio, sono divenuti pienamente se stessi” (Auerbach 158); se è vero questo, dicevo, ad esempio per Catone, pagano e per giunta suicida, che viene scelto come portiere del Purgatorio, è altrettanto vero che in un testo pagano, una volta che si è compiuta la rivelazione di Cristo, si può comprendere appieno ciò che il poeta aveva scritto per ispirazione divina, senza comprenderne il valore tipologico (ne è la più lampante dimostrazione la coesistenza per Dante dell’interpretazione allegorica in factis della quarta ecloga e della dannazione di Virgilio per non essere stato cristiano).
Ecco, quindi, che un testo poetico pagano diventa per Dante un’auctoritas per un’argomentazione teologica.
Del resto, se Dante accettasse la liquidazione dei poeti-teologi attuata da Aristotele (e commentata da San Tommaso) nella Metafisica, non potrebbe scrivere la Divina Commedia usando l’allegoria dei teologi (cfr. Singleton 115-129 e Iannucci 15-50): accettare, quindi, l’allegorismo universale platonico-agostiniano (sia pur mediato da un piuttosto esteriore avvicinamento alle posizioni tomistiche) significa per Dante aprirsi la strada a poter scrivere un poema sacro (un poema, cioè, che narri vicende realmente accadute alle quali si possa applicare l’allegoria in factis).
Ma torniamo al brano in questione: Dante afferma che la gerarchia angelica dei Troni, “naturati de l’amore del Santo Spirito,” muove il cielo di Venere; e sono i Troni, appunto, che accendono l’amore nelle “anime di qua giuso.” Dice poi che “li antichi s’accorsero che quello cielo era qua giù cagione d’amore” e, quindi, “dissero Amore essere figlio di Venere.”
Nella memoria poetica di Dante ci sono questi due versi di Virgilio (mediati, forse proprio perché Dante cita a memoria, dall’uso che ne fa Proba):
Nate meac vires mea magna potentia solus
Nate patris summi qui tela Tiphoia temnis.
Il Commento del Servio danielino a questi versi pone in rilievo che - “a differenza dell'allocuzione di Giunone ad Eolo, dove un superiore parlava ad un inferiore” (Paratore 228)— qui si tratta di un discorso fra pari, nonostante Venere sia la madre di Amore, e, quindi, Venere deve usare una captatio benevolentiae (con tutto Il turgore retorico che la situazione richiede).
Dante, non conoscendo questo Commento, trova certamente pleonastici questi due versi di lode e quindi si rifà — ma senza accorgersene, come prova il fatto che non sente il bisogno di giustificare l’arbitrio — alla interpretazione che ne dà Proba nel suo Cento (la stessa Proba aveva basato il suo Cento sulla convinzione medievale, sancita da Sant'Agostino, secondo la quale “dobbiamo subodorare il senso figurato . . . quando la scrittura si perde in superfluità” (Eco 224). Dante aderisce completamente quindi—in conseguenza della, sia pur parziale, adesione ai moduli interpretativi platonico-agostiniani — all’interpretazione di Proba: sa, cioè, che Virgilio ha voluto dire “Figlio, tu solamente mia forza e grande potenza, — Figlio che spregi i dardi tifei del sommo padre” (Paratore 53), ma sa anche che Dio ha voluto fargli dire quello che poi gli ha fatto dire Proba, che, essendo nata dopo la rivelazione cristiana, ha potuto comprendere appieno le rivelazioni divine comprese nel testo.
È necessario ora fare alcune considerazioni su come Dante traduce il testo latino.
Poiché “vires” e “magna potentia” sono un’endiadi; e qui, tomisticamente, Dante ritiene che in un testo filosofico (quale vuole essere il Convivio) è sconveniente rendere i sovrasensi poetici (quelli consci, s'intende) e rende, quindi, i due termini poetici col termine filosofico “vertù.”
Bisogna, a questo punto, vedere cosa voleva dire “vertù” per Dante.
Dalla lettura della Commedia risulta che la parola aveva quantomeno due connotazioni: una, per così dire, classica ed un’altra scolastica: era quindi ottima per poter tradurre fedelmente e, al tempo stesso, cristianizzare un autore pagano.
Infatti, in Inferno 26.120; Purgatorio 20.26 e Paradiso 32.81 (a voler citare solo alcuni esempi) il termine si ricollega all’accezione classica della parola virtus.
In Purgatorio 17.73 il termine è usato nel senso scolastico per una designazione inerente alla fisica (il Buti — citato nel commento di Bosco e Reggio [297]- spiega virtù, in questo verso, con la definizione di “potenza andativa”). E in Paradiso 2.113 il valore del termine è quello datogli dalla filosofia scolastica ed è usato in senso teologico. Cosî anche nel brano del Convivio che riporto (2.14.15):
[Il primo mobile] ordina col suo movimento la cotidiana revoluzione di tutti li altri [cieli], per la quale ogni dic tutti quelli ricevono [e mandano] qua giù la vertude [corsivo mio] di tutte le loro parti.
L’altro problema che bisogna risolvere a proposito del brano del Convivio citato all’inizio è perché Dante, dopo aver trovato la citazione ad hoc in Virgilio, sia pur mediato da Proba, sente il bisogno di aggiungere una citazione di Ovidio, che apparentemente non porta nessun nuovo senso all’argomentazione rispetto a quella virgiliana.
Bisogna tenere presente che Dante legge i testi classici in codici che ripetano a margine e nelle interlinee il commento (e, quindi, anche le citazioni che tale commento contiene).
Si può legittimamente supporre che nel testo che Dante aveva dell’Eneide fosse ripertato ad lecum anche il verso di Ovidio, oltre che l’interpretazione che del luogo virgiliano aveva dato Proba nel suo Cento. Piuttosto che pensare, però, ad una citazione esornativa per quanto concerne il verso di Ovidio, preferisce intenderlo come un passaggio logico necessario dalla citazione di Virgilio alla frase successiva. Infatti il verso ovidiano mette l'accento sull’attività del dio Amore e non solo sulla sua dipendenza da Venere; e, inoltre, questo luogo, avendo un plurale al suo interno (armi mie), permette a Dante, subito dopo, di far immediatamente notare l’errore dei pagani di individuare come azione di un solo dio l’azione di un’intera gerarchia angelica.