Dati bibliografici
Autore: Alberto Casadei
Tratto da: Dante oltre l'allegoria
Editore: Longo, Ravenna
Anno: 2021
Pagine: 163-199
Le coordinate dell’allegorismo di Dante sono ormai state sondate da molte angolature e sistematicamente. Grazie, in generale, ai lavori di Henri-Marie De Lubac e Étienne Gilson, e in particolare a quelli di Erich Auerbach, Charles S. Singleton, Jean Pépin, possiamo affermare che sono chiare le caratteristiche degli usi prettamente allegorici (in verbis o in factis), di quello tipologico o figurale, nonché dell’allegoresi praticata già dai primi commentatori. Tuttavia restano è alcuni problemi non secondari, legati: all’applicazione delle tendenze generali, invocate da questi e da molti altri interpreti (anche recenti), ai casi specifici dei testi danteschi. Ed è evidente che il considerare o meno autentica l’Epistola a Cangrande modifica l’autorevolezza di un’interpretazione a essa vincolata, soprattutto nel caso della lettura singletoniana, fondata sulla rilettura dell’intero poema all’insegna dell’allegoria “dei teologi”.
Qui si considera quell’epistola soltanto un esempio dell’esegesi trecentesca sul capolavoro di Dante, e non si estende l’ambito del suo allegorismo effettivo al di là dei luoghi individuabili a livello testuale: per esempio, alcune informazioni e applicazioni contenute nel Convivio, spesso citate come valide per tutta l’opera dantesca, non corrispondono in toto né a quelle dichiarate in un altro tipo di testo argomentativo, la Monarchia, né alla prassi ricavabile dal poema. D’altra parte, come hanno mostrato numerosi interpreti recenti (si vedano in bibliografia soprattutto i lavori di Whitman, Zambon, Dahan e Goulet, Copeland e Struck, ecc.), non solo è necessario storicizzare le varie fasi dell’interpretazione allegorica (o più esattamente secondo i “quattro sensi’) delle scritture sacre e poi ‘letterarie’, a cominciare da Virgilio, ma bisogna sempre considerare che ‘non esisteva ‘alcun obbligo di applicare l’allegoresi alla ricerca di sensi reconditi o ulteriori: se la leggibilità di un testo era garantita, secondo do i parametri della i ragione e della e fede, nella prassi esegetica cristiana da Agostino a Tommaso non si richiedeva l’enunciazione di valenze di secondo grado. Ciò lasciava una notevole responsabilità ai vari lettori, come ha mostrato ampiamente De Lubac, ma in effetti, almeno a partire dalla fase apicale della Scolastica nel XIII secolo, o, l'impulso a inventare valenze esplicative ‘astratte’ rispetto alla lettera non era auspicato né compatibile con un processo prima di tutto razionale e aristotelico.
È quanto hanno ricordato, per Dante, altri grandi interpreti come Michele Barbi, Bruno Nardi, Theodore Silverstein, mentre di recente sono stati diversi i modi per leggere Dante al di fuori dell’ambito prettamente allegorico, per esempio quelli di Teodolinda Barolini. È sempre più forte, invece, la necessità di comprendere come Dante metteva in atto le sue competenze narrative, per molto tempo subordinate o a una lettura frazionata per canti (mentre il canto è l’unità di misura di una strutturazione ben più ampia) o, seguendo Contini, a un prevalere dell’aspetto dello sperimentalismo linguistico, collegato alla specifica retorica che viene esibita nelle opere dantesche. Ma così come la Vita nova non può essere considerata semplicemente una raccolta di testi poetici connessi da un commento in prosa, allo stesso modo la Divina commedia non è affatto una trafila di cento sezioni, riunite all’insegna di un senso allegorico complessivo e necessario (la salvezza del singolo che prospetterebbe quella di ‘ogniuomo’, Everyman).
In una prospettiva che tenga conto della lunga durata e dell’attualità della lettura, il Dante del poema è, prima di tutto, un narratore in senso moderno, in grado di intercettare costanti antropologiche che ora vengono manifestate soprattutto grazie alle varie forme di racconto (sulle quali mi permetto di rinviare al mio Biologia della letteratura, specie capp. 2 e 3). AI di là delle ineliminabili considerazioni storiche, non si può giustificare la straordinaria ri-usabilità del poema comprimendolo negli angusti parametri interpretativi coevi alla sua genesi. Occorre invece indagare ulteriormente i rapporti fra questo grande narratore e l’acceso poeta lirico. vitanovesco, l’autore filosofico e sistematico. dei trattati, il politico-profeta di alcune epistole, nonché il proto-umanista delle egloghe.
Cerchiamo dunque di riesaminare Dante consapevoli che è rapido a cambiare | codici retorici e stilistici, e addirittura adotta un habitus mentale specifico quando scegli e di privilegiare il racconto del mondo ultraterreno rispetto alle altre sue capacità letterarie e intellettuali (liriche, speculative, ecc.), ma nel contempo non le ottunde, e anzi le assorbe di volta in volta nello sviluppo narrativo che viene proposto al lettore. Non si tratta di un appiattimento volto a smussare le differenze di registro: la canonica e in effetti non erronea distinzione crociana fra poesia e struttura nella Divina commedia coglie un possibile problema nel risultato estetico, ma solo secondo la consueta logica di una necessaria reductio ad unum dei codici espressivi, in questo caso perché si ritiene che tutto quanto il Poema sacro dovrebbe manifestarsi come elaborazione superiore di intuizione ed espressione. Non è però da assolutizzare nemmeno l’operazione opposta, quella di rivalutazione delle componenti anti-unitarie e dissonanti, tipiche dei vari Modernismi e di molte Avanguardie: non è enfatizzando la componente ‘espressionista’ che rendiamo un giusto servizio alla complessità della narrazione di Dante (e va ricordato che Contini comunque sottolineava il suo “sperimentalismo incessante” persino al di là dell'ambito linguistico-stilistico).
In generale, bisogna ormai analizzare in senso squisitamente narrativo lo sviluppo del poema, le cui molteplici sfaccettature si generano nell’ambito delle situazioni inventate apposta: nessuno può pensare che Dante sapesse qualcosa di sicuro (diciamo da accertamento autoptico) per esempio delle morti di Francesca, Ugolino o addirittura di Ulisse, e occorre riflettere sullo statuto di queste ‘finzioni’ nel racconto, cercando di capire meglio come esse dipendano dalle modalità di inventio dell’autore. Se si accetta la necessità di riconoscere, al di sopra della partizione in canti, un percorso narrativo che non esclude ma nemmeno è determinato dalle componenti allegoriche (viceversa decisive secondo molte interpretazioni già trecentesche, a cominciare dalla spuria Epistola a Cangrande), diventeranno meglio accettabili pure le tante oscillazioni e variazioni che si devono riconoscere rispetto a una definizione rigida delle caratteristiche di questo racconto in ogni senso eccezionale.
Persino le ipotesi meglio giustificabili su un piano storico-culturale, come quella di una costante ricostruzione ‘figurale’ del possibile Aldilà in base alle biografie note dei vari i personaggi, devono essere ricalibrate tenendo conto dei presupposti accertabili della narrazione. A titolo di esempio: in che misura l’Ugolino che rode il teschio di Ruggieri costituirebbe una figura impleta di quello ter terreno o in che senso il suo terribile destino manifesterebbe un’allegoria, visto o che Dante s’immagina fittiziamente la sua morte e lascia volutamente al lettore un ampio margine di dubbio sull’autentico finale? Di sicuro, è opportuno cercare nuovi indicatori di come Dante lavorava per consolidare la strutturazione narrativa del suo poema, tenendo conto del suo carattere di work in progress che conduce dal sistema fortemente, ma anche banalmente, allegorico nel I canto dell’Inferno, alla mancanza di un allegorismo complessivo già a partire dal canto V, e così via, come avremo modo di vedere almeno per campioni.
Possiamo allora sintetizzare alcune linee guida di questa ricerca. Innanzitutto, l’allegoria e l’allegoresi, in tutte le loro forme, vanno intese come strumenti ermeneutici eventualmente impiegabili, e non come vincoli necessari per l’autore o per il fruitore. In ogni caso è evidente l'impossibilità di fornire un’allegoresi rigida per quasi tutti i personaggi e gli eventi principali del poema: Virgilio non è solo l’allegoria della ragione, Beatrice della teologia ecc. Le esigenze della narrazione, intesa come modalità perenne per presentare una vicenda umana, sulla base di nuclei di senso elaborati stilisticamente, vanno esaminate con attenzione anche in un testo come quello dantesco, che è in primo luogo un racconto.
Riprendiamo a adesso alcuni celebri passi di particolare rilievo metaletterario, per porre in evidenza le modalità concretamente adottate o almeno segnalate da Dante allo scopo di ottenere un senso di secondo livello (genericamente allegorico) nei suoi testi. Innanzitutto, nel capitolo 16 (=25 ed. Barbi) della Vita nova viene affrontato il problema specifico della personificazione di cose inanimate o di “accidenti in sustanzia” come lo stesso Amore. È interessante il fatto che l’autore si ponga un problema teorico rispetto a poesie che aveva composto probabilmente in gran parte prima di acquisire i rudimenti di conoscenza filosofica che qui esibisce con puntiglio (si vedano i §§ 1-2): e in effetti la necessità assoluta per i poeti o rimatori in volgare è quella di poter giustificare la propria scelta retorica, ovvero di avere “alcuno ragionamento in loro di quello che dicono” (§ 10). La spinta a poetare, addirittura legata a un unico e primario movente antropologico (l’amore), deve comunque essere motivata sul piano delle scelte testuali, se si indirizza verso una costruzione retorica che non troverebbe un fondamento filosofico adeguato. Nell’ambito della Vita nova interviene però a questo punto un principio d’autorità, per cui è accettabile la personificazione di cose inanimate o accidenti dato che gli auctores greci e latini per eccellenza, da Omero (filtrato attraverso l’Orazio dell’Ars poetica) a Virgilio, Lucano e Ovidio, hanno trovato giusto e opportuno farlo (cfr. §§ 8- 9).
La giustificazione di un usus allegorico si concentra per ora sul caso specifico della personificazione o prosopopea (evidentemente solo in parte e non sempre esemplificative di un senso di secondo livello), che peraltro non creerà particolari problemi all’altezza del Convivio (cfr. III ix 2: “E però mi volgo alla canzone...: ed è una figura questa, quando alle cose inanimate si parla, che si chiama dalli rettorici prosopopeia; ed usanla molto spesso li poeti”), mentre ampie e complesse personificazioni allegoriche entrano in gioco in una canzone successiva all’esilio quale Tre donne... Ed è vero, come ha osservato Claudio Giunta (comm. cit., pp. 41 -43), che Dante applica alla lirica un processo che di norma era riservato alle varie forme di poesia narrativa: come vedremo, altrettanto originale risulterà proprio l’aver ridotto al minimo, nel Poema sacro, da presenza effettiva o la necessità di ipotizzare letture di secondo grado.
Nei fatti, Dante può adottare specifici procedimenti usati anche in testi allegorici, con finalità squisitamente retoriche già nella Vita nova e poi reimpiegati di tanto in tanto, ma praticamente esclusi dal poema (salvo che nelle apostrofi: si veda la voce prosopopea dell’ED). Non accenna invece alla possibilità di accreditare una lettura di secondo grado c da applicarsi alla vicenda del suo legame con Beatrice: nel racconto, prevalgono le marche di un’evidenza progressivamente acquisita, sebbene, come di consueto, solo gli “intendenti” possano intuire il significato profondo, però morale o tropologico, di alcuni specifici snodi. L'incontro con la Gentilissima ha sancito in effetti una “vita nova”, all’insegna della manifestazione progressiva della sua natura divina, narrata secondo una linearità ferrea e con un accumulo di prove, a mano a mano ottenute attraverso l’esperienza del poeta. La narrazione è quella di un percorso faticoso ma inoppugnabile, che non n necessita di un’interpretazione di secondo grado: semmai, il racconto stesso dovrà condurre il lettore accorto all’accettazione completa dei caratteri angelici della donna, per la quale del resto si preannuncia un’altra opera di ancor maggiore evidenza, in quanto fondata su un’ulteriore “mirabile visione”.
Riguardo all’uso dell’allegoria, a un altro livello di esplicitazione, per certi aspetti addirittura scolastico, si arriva nel capitolo iniziale del secondo trattato del Convivio (1304-1307, ma probabilmente 1304-1305 per questa parte). Rileggiamo innanzitutto almeno la sezione fondamentale del testo:
1. Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane [nel]lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l’artimone de la ragione all’òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile nella fine della mia cena. Ma però che più proficabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee. 2. Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale ed ‘allegorica, e a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere ‘massimamente per quattro sensi. 3. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che [...] 4. L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento de la sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. 5. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramenti li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. 6. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare apostando pe per le Scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come apostare si può nello Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che delli dodici Apostoli menò seco li tre: in che moralmente si può intendere che alle secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. 7. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; € questo è quando spiritualmente si spone una Scrittura, la quale ancora [che sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa delle superne cose dell’etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che nell’uscita del popolo d’Israel d’Egitto Giudea è fatta santa e libera: che avegna essere vera secondo la lettera sia manifesto non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che nell’uscita dell’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in dimostrare questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere alli altri, e massimamente allo allegorico.
Il passo, che viene poi ulteriormente integrato con osservazioni di tipo sillogistico sulla necessità di partire dal senso letterale per ogni spiegazione testuale, è stato oggetto di molte interpretazioni, ben sintetizzate da ultimo nel precisissimo commento di Gianfranco Fioravanti (cit., specie pp. 211-222). Qui poniamo in evidenza solo alcuni aspetti in genere meno considerati. Dante introduce una divisione scontata a proposito delle ‘scritture’ in genere: non si specifica che siano bibliche (e infatti poi si faranno esempi ricavati da testi laici), ma di fatto l'o obiettivo unico è quello di ratificare che sarebbe possibile le leggere con queste categorie persino le canzoni commentate nel Convivio, benché ciò in pratica non i avvenga mai. Invece ci si accontenta di giustificare un rapporto allegorico tipico rispetto all’integumentum: ogni testo squisitamente poetico può contenere un nucleo di verità nascosta sotto la “bella menzogna”. Per gli obiettivi del libro, è chiaro che Dante vuole garantirsi la possibilità di ricondurre a un livello di senso non contestabile persino quei testi che avevano già circolato ed erano stati. accolti secondo una lettera ora non più gradita (è il trattamento imposto alla “donna gentile” o anti-Beatrice, che diviene inopinatamente la Filosofia stessa). Si tratta insomma della strategia interpretativa e auto-esegetica più opportuna, che consente di impiegare l’allegoria ovunque necessario (per garantire un corretto rapporto poesia-filosofia), però tentando di salvaguardare sempre il senso letterale (che era ben importante sul versante poetico in sé), persino in implicito contrasto rispetto alla scolastica presentazione sopra riportata. In Sostanza, mentre si afferma che i testi verranno letti secondo l’allegoria dei poeti, di fatto si farà riferimento soprattutto al loro livello letterale, ossia quello in teoria ‘falso’, la bella menzogna da interpretare su un piano aletico di secondo grado.
Un’ opera autentica, quale il Convivio, mostra quindi una conoscenza di mas- sima riguardo alle possibili applicazioni della teoria dei quattro sensi, sposando tatticamente la dottrina dell’integumentum, ma sottolinea con forza la necessità di un adeguata. interpretazione del senso letterale: ancora una volta, il poeta deve: essere in grado di spiegare la valenza esatta del senso primario d del suo testo, a prescindere dal fatto che possa averne uno superiore di tipo allegorico, specie là dove il senso letterale risulta non accettabile in sé e per sé. Si può aggiungere che per il ‘filosofo’ Dante l’uso della poesia è funzionale a un discorso più complesso di interpretazione del mondo e in specie dei vari ambiti toccati da Aristotele e dai suoi esegeti, sino ad Alberto e Tommaso. La correttezza dell’interpretazione di primo livello è essenziale in questa prospettiva, mentre l’impiego dell’allegoria dei poeti è soprattutto tattico, perché devono essere salvaguardate le implicazioni ora non più accettabili dell'amore terreno o anche sublimato: è proprio questo rischio che il poeta-filosofo deve evitare. Ma là dove il testo, come nel caso del IV trattato ossia di Le dolci rime..., non è esposto a rischi di interpretazioni lontane dall’ ambito filosofico e didattico (per esempio in senso erotico), allora si può rinunciare a ogni ricerca di sovrasensi allegorici, semmai concentrati in alcuni specifici passaggi del testo in prosa.
Al fondo, l’elemento di continuità tra Vita nova e Convivio, pur nella ben diversa consapevolezza nell’uso degli strumenti filosofici, si può sintetizzare come segue: a Dante interessa in primo luogo la piena coerenza del senso letterale, ovvero la sua consistenza semantica e concettuale, che di fatto è sempre ricercata. Nel trattato, al di là delle dichiarazioni iniziali (ben poco originali e a tratti persino confuse), l’i impiego di allegorie (in primis secondo il modello dell’integumentum) è funzionale a un riuso di testi concepiti in periodi e fasi intellettuali diverse, ma non è indispensabile né continuativo, anche perché almeno in parte contraddittorio rispetto all’usus scolastico preso a base dell’esposizione.
In effetti, la dichiarazione più interessante riguardo all’interpretazione del senso allegorico di un testo si legge quasi en passant nel corso del terzo libro della Monarchia, in alcune righe che sottolineano il ruolo fondamentale del lettore re per l’attribuzione o meno di un sovrasenso, e comunque in una prospettiva ermeneutica che tiene conto del magistero agostiniano su questi problemi:
6. Hoc viso, ad meliorem huius et aliarum inferius factarum solutionum evidentiam advertendum quod circa sensum misticum dupliciter errare contingit: aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat. 7. Propter primum dicit Augustinus in Civitate Dei: “Non sane omnia que gesta narrantur etiam significare aliquid putanda sunt, sed propter illa que aliquid significant etiam ca que nichil significant actexuntur. Solo vomere terra proscinditur; sed ut hoc fieri possit, etiam cetera aratri membra sunt necessaria”. 8. Propter secundum idem ait in Doctrina Cristiana, loquens de illo qui vult aliud in Scripturis sentire quam ille qui scripsit cas dicit, quod “ita fallitur ac si quisquam deserens viam eo tamen per girum pergeret quo via illa perducit”; et subdit: “Demonstrandum est, ne consuetudine deviandi etiam in transversum aut perversum ire cogatur”. 9. Deinde innuit causam quare cavendum sit hoc in Scripturis, dicens: “Titubabit fides, si Divinarum Scripturarum vacillat auctoritas”. 10. Ego autem dico quod si talia fiunt de ignorantia, correctione diligenter adhibita ignoscendum est sicut ignoscendum esset illi qui leonem in nubibus formidaret; si vero industria, non aliter cum sic errantibus est agendum, quam cum tyrampnis, qui publica iura non ad comunem utilitatem secuntur, sed ad propriam retorquere conantur (Mn III iv 6-10).
Il passo ci ricorda, citando Agostino, che le allegorie non sono sempre necessarie e che spesso per interpretare i testi sacri basta il senso letterale. Si tratta poi di comprendere quali sensi allegorici possono essere accettati, per esempio sulla scorta di De genesi ad litteram (sensi impliciti e però identificabili con il , ragionamento non sarebbero allegorici), ma qui ci colpisce un dato indiscutibile: Dante non ritiene che ogni elemento testuale, in genere e anche per la Bibbia, debba avere un senso allegorico e di certo, nell’ambito di una argomentazione filosofi ca come quella condotta nella Monarchia, la spiegazione basata su sensi ‘mistici’ ‘di vario ve tipo, non è opportuna, come conferma nel suo commento Diego Quaglioni (cit., p. 1261). I riferimenti alla pratica ermeneutica di Agostino risultano decisivi: il lettore è tenuto a cercare il senso migliore di ogni passo (biblico o meno, non fa in questo caso differenza), ma non è autorizzato a ipotizzare sensi eccezionali in mancanza di un chiaro problema che emerga dal senso letterale: il rischio altrimenti è quello di figurarsi un leone tra le nuvole.
Per riassumere. Dante conosce bene le varie possibilità di scrittura allegorica disponibili a un autore, ma non ritiene che essa sia un obbligo, e anzi il lettore è autorizzato a non ritrovare sensi ulteriori se il testo nella sua lettera (senso primario e sue implicazioni esegetiche) è sufficiente a soddisfare l’interpretazione. L’allegoria si adotta e si esplicita nel caso in cui il senso primario non possa essere accettato, o per ragioni oggettive (contrasti con le verità di ragione o di fede, palesi inverosimiglianze ecc.), o per segnali aggiunti dall’autore eventualmente in paratesti, come avviene nel commento alle prime due canzoni del Convivio, riadattate a un senso allegorico comunque non percepibile con facilità e forse in origine non previsto. In molti casi il lettore è libero di esercitare un suo atto interpretativo, e questo aspetto emerge con chiarezza dal passo della Monarchia. Inutile dire che la corrispondenza con il tipo di fruitore previsto per il poema non è automatica; tuttavia la richiesta di accettare in prima istanza quanto viene espresso letteralmente è costante negli appelli che l’auctor rivolge a chi potrebbe essere considerato il suo ‘lettore modello”.
Queste analisi preliminari hanno permesso di ribadire l’ambito specifico delle impostazioni esegetiche a fondamento allegorico, in base a quanto affermato dallo stesso Dante nei suoi vari scritti. Ma a una sostanziale coerenza riscontrabile in quelli autentici (priorità del senso letterale e della sua consistenza; necessità di un ricorso al senso allegorico solo in precise circostanze e comunque dopo un'attenta verifica del processo ermeneutico da parte del lettore), si è subito sovrapposta l'ampia gamma di applicazioni da parte dei primi commentatori, disposti a un uso meccanico di un’allegoresi pervasiva e di fatto banalizzante. Emblematico l’automatismo che già il Lana introduce nel suo commento a Inf. I 111-112, nel quale estende pedissequamente la valenza allegorica di Virgilio a “tutta l’opera”, cancellando ogni aspetto relativo alla dimensione specifica del personaggio:
Ancora è da sapere che in tutta questa opera per allegoria s’intende Virgilio per la ragione e discrezione umana. Or dice Virgilio: io sarò tua guida, e però mi tieni drieto ch'io ti mosterrò tutto quello che per ragione umana si può sapere. Circa la quale proferta è da notare ch’ell’è alcune cose che si possono sapere e cognoscere per ragione e scienza umana; alcune sono che sono sì elte e rimote dall’umano intelletto, che ello no Ili può giugnere, e queste così fatte non si possono sapere senza revelazione: e perciò è la teologia scienzia revelata (ed. Volpi, I, p. 131).
Questa modalità è poi stata ulteriormente complicata da usi molto oscillanti del termine ‘allegoria’, che dovrebbe indicare una valenza di secondo grado di portata concettuale superiore al senso letterale, e invece viene spesso impiegato per indicare una qualunque metafora o un uso speciale di vocaboli: esempio evidente di queste oscillazioni è l’uso abnorme del senso allegorico nell’Epistola a Cangrande, che dovrebbe riguardare il mondo terreno a partire da quello ultraterreno, con un forte abbassamento della portata semantica (dal più al meno anziché il contrario, come dovrebbe sempre avvenire). Si arriva infine a testi sintesi, come quello di Francesco da Buti (Inferno, commento al prologo, I 1- 9, ed. Giannini), che da un lato sancisce l’obbligo di cercare costantemente una valenza allegorica, dall’altro si rende conto che non sempre è possibile, e anzi accetta che il testo sia intriso di “fizioni poetiche”, ossia che comprenda una sua dimensione che ora definiremmo propriamente narrativa:
Veduto ora questo testo litteralmente, è da vedere ora l’allegoria, et inanzi che vegnamo ad essa, doviamo sapere che il nostro autore in questo suo poema parla sotto due sensi; l’uno litterale e l’altro allegorico; e tutte le parole che sono nel testo non ànno però allegoria: chè alcuna volta si pongono pur a continuar lo senso letterale; e il senso litterale è dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso, ne’ quali finge sè essere stato menato per diverse persone, come appare nel poema, e di questo tratta litteralmente, quanto può, secondo la catolica fede, benchè c’inframetta le fizioni poetiche.
Muovendoci allora sulla base di criteri non astorici, ma nemmeno dipendenti da sistemi interpretativi trecenteschi che non coincidono con quelli evincibili dal poema dantesco e dalle altre opere confrontabili, possiamo adottare un procedimento di analisi che tenga conto di fattori come quelli che andiamo a sintetizzare per punti.
a. Dante manifesta una sua idea di allegoria in alcuni testi autentici, non sovrapponibili al poema ma concordi nel ritenere che, in prima istanza, il senso letterale vada considerato sufficiente ogni volta che se ne riscontra la compiutezza;
b. l’uso dell’allegoria nel poema può essere segnalato nel testo attraverso esplicite dichiarazioni (sul tipo di Inf. IX 61-63), oppure marche ben riconoscibili (l’esegesi applicata a Lia e Rachele quali emblemi della vita attiva e di quella contemplativa in Purg. XXVII 97-108), oppure una riduzione degli elementi individualizzanti (come nel caso delle tre fiere del I canto dell’Inferno);
c. e tuttavia, proprio questo uso assai circoscritto dimostra che il racconto del viaggio ultraterreno è pensato perché il lettore lo possa considerare, sospendendo l’incredulità, in sé veritiero, senza che debba ipotizzare un sovrasenso generalizzante;
d. Dante procede a rendere, con i suoi strumenti retorici e stilistici, plausibile ‘ e verosimile il suo racconto, benché possa persino presentarsi come un “ver c’ha faccia di menzogna” (Inf. XVI 124). La sua credibilità è delegata al lettore, coerentemente con quanto osservato nelle dichiarazioni sopra esaminate, ma il poema è “sacro” anche perché ha avuto un sostegno sia per ispirazione divina sia per abilità umane dello scriba, che a lui si è dedicato sino a diventare “macro” (cfr. Par. XXV 1-3). Questa azione divina e umana sancisce la stabilità del patto: il lettore può accettare di seguire il piano letterale dell’opera perché l’autore ha seguito con fedeltà un’ispirazione autentica.
Si tratta allora di esaminare la prassi espositiva del poema, senza alcun obbligo di adeguamento alla terminologia medievale e accettando di trattarla quale opera narrativa nei suoi fondamenti, di fatto confrontabile con le nostre idee di configurazione dei racconti.
Prendendo come termini di paragone testi tipici dell’allegorismo del XII e XIII secolo, come l’Anticlaudianus o, su un versante laico, il Roman de la rose, attraverso quali tratti possiamo individuare la scrittura che richiede una decodifica di secondo grado? Potremmo indicare i seguenti procedimenti che segnalano un'intentio operis allegorica:
a. Eliminazione di elementi specifici/univoci del reale, in particolare dei dettagli individualizzanti
b. Riduzione o eliminazione di coordinate spazio-temporali e storiche
c. Mancanza di uno o più nessi che consentirebbero una giustificazione logica o plausibile rispetto a norme naturali condivise
d. Presenza di una o più e entità riconducibili a un concetto astratto (virtù, facoltà umane di vario tipo ecc.)
e. Attuazione di gesti non necessari o non giustificati da parte delle entità narrative in scena.
f. Inserimento di allusioni non decrittabili con facilità (esoteriche o presunte tali).
Com'è ovvio, non tutti questi elementi debbono essere attivi in contemporanea, ma la loro comparsa induce a leggere il racconto secondo vincoli precisi, a meno di non voler rischiare una totale incomprensione. (Inutile aggiungere che si può allegorizzare in molti modi, persino partendo da un personaggio o un episodio storico, ma anche in questo caso le procedure devono poi rientrare fra quelle sopra elencate). In molti casi, gli interpreti possono individuarli o meno, specie per quanto riguarda la Scrittura biblica, a cominciare dal Genesi, leggibile secondo Agostino con una procedura ermeneutica di alta complessità e però non banalmente allegorica, ma da altri esegeti cristiani considerato del tutto realistico oppure del tutto allegorico. Con Frye e Ricoeur dobbiamo riconoscere; una necessità precisa per il lettore biblico, quella di ricondurre la singola scrittura biblica a un ‘grande Codice’ ovvero a una verità riconoscibile solo attraverso un ’illuminazione concessa per Grazia; tuttavia, la tentazione di risolvere ogni tipo di difficoltà esegetica i ipotizzando un senso nascosto era stigmatizzata da molti teologi, specie nella fase della scolastica, il che induceva a ridurre appunto i processi allegorici non indispensabili.
Ora, in testi che aspiravano ad aggiungersi alle Scritture ormai canoniche erano reperibili o racconti di visioni, che dovevano essere accolte come veritiere e non chiedevano in genere una lettura allegorica; o viceversa narrazioni che miravano ad avvalorare pratiche ortodosse, specie in ambito morale, e in genere si prestavano a letture allegoriche. Su un versante già ‘laico’, una sintesi di vari di questi aspetti era stata tentata da Brunetto Latini nel suo Tesoretto, che in effetti adotta il modello della visione per introdurre essenzialmente concetti o precetti attinenti all’ambito del sapere e dei comportamenti etici. Come è ben noto, al nucleo autobiografico iniziale (l’autore dichiara di non essere riuscito a rientrare in patria dopo la sconfitta dei guelfi a Montaperti), segue una situazione narrativa allegorica, con lo smarrimento del protagonista in una selva e una successiva visione, del tutto complanari a quanto poi si troverà nell’avvio dell’Inferno:
Certo lo cor mi parte
Di cotanto dolore,
Pensando ’l grand’onore,
E la ricca potenza,
Che suole aver Fiorenza
Quasi nel mondo tutto.
Ond’io in tal corrutto
Pensando a capo chino,
Perdei il gran cammino,
E tenni a la traversa
D’una selva diversa.
[III] Ma tornando a la mente,
Mi volsi, e posi mente
Intorno a la montagna;
E vidi turba magna
Di diversi animali,
Ch’i’ non so ben dir quali...
(Tesoretto, I-II, vv. 180-196, ed. Carrai).
L’allegorismo di Brunetto Latini è funzionale alla presentazione dell’azione di Natura, e in sostanza a una rassegna enciclopedica versificata. In altri casi, la versione laicizzata del procedimento introduce invece sensi reconditi di tipo squisitamente erotico, come nella Rose. Ma comunque, sia nelle opere di tipo religioso, sia in quelle di ambito didattico-morale (o eventualmente amoroso), la narrazione non è in alcun modo dotata di una valenza conoscitiva in sé: viene seguito un percorso obbligato, di progressiva riaffermazione di valori già dati, cristiani o laici, tradotti prevalentemente in personaggi monocromi, incarnazioni di vizi, virtù, pulsioni naturali ecc. Solo il senso di secondo grado giustifica la forma del racconto.
Ora, nei suoi primi canti, in particolare Inferno I-IV, la Divina commedia non è radicalmente diversa da questo tipo di allegorizzazione. L'elemento che la tiene distinta, al di là della più alta caratura tecnica (peraltro ben inferiore, come riconosciuto da tutti gli esegeti, a quella pienamente dispiegata già dal quinto, canto) rispetto almeno ai testi in volgare italiani di tipo didattico o visionario (Brunetto, Bonvesin, Giacomino ecc.), è il suo immediato appoggiarsi a un modello illustre quale l’Eneide. L'idea forte, esplicitata nel canto IV, di potersi collocare sulla stessa linea dei più grandi poeti antichi (“sesto tra cotanto senno”), sosteneva una narrazione che aveva due scopi: da un lato, quello di percorrere l’intero Aldilà, rinnovando in senso cristiano il viaggio di Enea nel VI libro virgiliano (comparato con quello attribuito a San Paolo); dall’altro quello di portare a compimento la promessa del finale della Vita nova, a lungo disattesa, garantendo il ritorno sulla scena di Beatrice dopo un effettivo periodo di traviamento (testimoniato dalle “petrose” e da altri testi affini). Il tutto veniva rappresentato nell’annus mirabilis 1300, quello forse culminante della vita dell’autore ma anche per la prima volta “giubilare”, quindi adatto a una conversione profonda: e per giunta, decennale della scomparsa della Gentilissima.
È molto probabile che questa ideazione risalga appunto a quel periodo (1300- 1301) e comporti una lettura duplice. Il racconto si propone come quello di uno I smarrimento e di una necessaria purificazione, attraverso un percorso analogo a quello compiuto da Enea (e facilmente interpretabile in senso allegorico); in più, esibisce sistematicamente un aspetto ‘autobiografico’, cosicché l’agens rimanda all’auctor perché, nel passare in rassegna i mondi ultraterreni, ha modo di segnalare suoi tratti specifici (quindi anti-allegorici), a cominciare dal rinnovato collegamento con l’agens della Vita nova e con la sua attuale condizione storica, alla quale per lo meno si allude: si pensi all’auspicato intervento del Veltro o al disprezzo verso “colui / che fece per viltade il gran rifiuto”.
D’altra parte, un distacco già forte rispetto ai testi allegorici sopra indicati si nota nell’ eliminazione delle prosopopee, viceversa ben presenti nei ‘predecessori’: come sintetizzava Alessandro D’Ancona, compaiono subito persone e non personificazioni. In effetti Virgilio sin dall’inizio dell’opera mantiene tratti anti-allegorici (basti pensare all’autopresentazione in Inf. I 67-75). Inoltre, il filo conduttore che si intravvede nei canti III e IV è quello dell’incontro con anime di uomini illustri, ma rispetto al poema virgiliano sono escluse tutte le prosopopee presenti nel “vestibulum” dell’Averno (Aen. VI 273 ss.). Il viaggio ultraterreno, con frequenti allusioni a personaggi e fatti ‘storici’ (e quindi inseribile nel filone delle visioni a sfondo politico), esibisce però procedimenti allegorici (l’incontro con le fiere ecc.) che impediscono di attribuire una valenza gnoseologica alla narrazione in sé: e insomma, stando a queste premesse, il racconto si potrebbe sviluppare come una lunga sequenza di incontri, mentre ridottissima risulterebbe l’interazione con i personaggi evocati (esclusi Virgilio e, suppone, Beatrice), magari velocemente passati in rassegna, come avviene nel canto IV.
In generale, in questi primi canti si nota un continuo slittamento da un piano della narrazione che evoca l’effettivo smarrimento ‘storico’ dell’agens e dell’auctor a un piano di necessità allegorico, dove è impossibile identificare realisticamente la selva, il colle, la valle, la diserta piaggia, la fiumana ecc. Al massimo è lecito inferire che le tre fiere rappresentino tre tipi di peccati cui il protagonista in via di pentimento poteva essere più sensibile, la lonza-lussuria (più contenibile), il leone-superbia e soprattutto la lupa-cupidigia, colpa propria ma di sicuro anche generalizzata. Lo specifico intento, dopo i primi due canti introduttivi, è quello di costruire un testo fondato sull’emulazione-riscrittura dell’Eneide, cosicché la coppia di canti successiva ripropone (canto III) le prime zone dell’Averno virgiliano in versione aggiornata, e poi (canto IV), nell’allegorico castello degli spiriti magni, i Campi elisi. La principale novità di questi canti concerne soprattutto una serie di dubbie se non incerte soluzioni riguardo a problemi dottrinari cristiani piuttosto specifici (l’esistenza di angeli ‘ignavi’, peraltro contemplata soprattutto in scritture popolareggianti; il destino degli antichi sapienti e magnanimi, purtroppo non arrivati alla vera fede, ecc.).
La grandiosa novità introdotta nel quinto canto dell’Inferno è quella di proporre un incontro imprevedibile per il lettore di Virgilio, segnato da precise marche come se si trattasse di un resoconto cronachistico, nel contempo evocativo di un tema essenziale per il Dante poeta lirico (l’azione dell'amore in rapporto al libero arbitrio), esente da qualunque necessità di allegorizzazione. Si attiva, come da tempo ormai notato, un processo di tipo romanzesco, la proiezione di una componente essenziale per comprendere la psicologia del protagonista (qui anche alter ego dell’autore) in un deuteroagonista. Di fatto non si tratta più di passare in rassegna figure stereotipate, bensì di entrare in un rapporto empatico con il personaggio che svela un aspetto decisivo della sua esistenza, ignoto ai più, magari perché fittizio, ed esibito solo attraverso il racconto proposto dall’autore che si chiama Dante Alighieri. Di lui, ingiustamente coinvolto in lotte di fazioni, come verremo a sapere poco dopo (canto VI e canto X), capiamo che in questa narrazione è entrato in gioco con la sua personale biografia, non come un generico agens capitato in una selva oscura.
È comunque significativo che quasi nessun commentatore antico ritenga di dover trovare sensi allegorici nelle vicende di Francesca, per esempio sostenendo che si tratta di un’incarnazione della lussuria, mentre in molti si sforzano di rendere ancora più evidente il dramma umano del desiderio travolgente, il ‘nucleo di senso’ sottolineato in maniera esclusivamente narrativa (ossia grazie al racconto inventato della lettura rivelatrice e fomentatrice della passione). In ciò si coglie uno dei limiti delle interpretazioni figurali, che comunque non riescono a giustificare questo aspetto fittizio: per rispettare un processo di implementazione dei caratteri del personaggio storico, Dante dovrebbe semmai esaltarli nel suo racconto, come accade nelle ‘biografie’ di San Francesco e San Domenico, ma non dovrebbe permettersi di fingere un loro atto decisivo, addirittura modificando quello che potrebbe essere un esito ben diverso sulla base delle informazioni note, come nel caso del convertito Guido da Montefeltro, altrove ‘salvato’ dallo stesso Dante (cfr. Cv IV xxviii 8). Le esigenze del racconto prevalgono su qualunque tipo di premessa vincolante, e possono spingere a immaginare destini, nel male (Guido che si danna per l’inganno di un papa, addirittura più astuto di lui), o nel bene (suo figlio Buonconte che si salva, addirittura dopo una lotta fra un angelo e un demonio).
Esistono peraltro spazi testuali specifici in cui Dante chiama in causa il lettore perché sia attento alle valenze allegoriche del testo. Il primo caso di sollecitazione da parte dell’auctor è quello di Inf. IX 61-63:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
Ora, non importa esattamente quale sia la particolare “dottrina” nascosta: si tratta di avalla are un chiaro procedimento allegorico nell’ambito della ricezione del testo, e di fatto questo è, nel poema, uno dei tanti appelli ai lettori su cui è ormai abbondante e autorevole la bibliografia critica. Ma vale forse la pena di ribadire che è appunto la necessità di ‘orientare’ il lettore uno dei tratti fondamentali degli interventi letterari di Dante: va garantita la sua disposizione a intendere il testo nel ‘modo più corretto in base all’intenzione dell’autore. In altri termini, proprio perché esistono punti del testo che devono essere considerati portatori di un senso nascosto, occorre interpretarli attentamente, sapendo distinguerli dagli altri, che invece non necessitano di sensi allegorici. Il racconto non è quindi allegorico i in sé, non va letto come un sogno o una visione ma come un resoconto veritiero, salvo che è necessario cogliere, in singoli passi, una valenza ulteriore, per esempio legata a particolari riti o ad apparizioni di natura divina ecc.
Se il senso letterale va accettato nella sua specifica forma di racconto, la valenza seconda è da ricercare in punti che, esplicitamente o implicitamente, non si i giustificano nella loro configurazione stilistica e narrativa. Allo stesso modo, non ci si può fermare alla lettera quando essa è deputata a far intuire realtà complesse, come nel caso dell’antropomorfismo inevitabile, almeno in alcune sacre scritture, per alludere all’essenza divina:
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende...
(Par. IV 40-45).
Ma Dante vuole narrare in maniera ‘vera’, sulla scorta della sua conoscenza razionale de e della sua forza immaginativa (comunque esse siano indicate, in base alle categorie coeve), l’Aldilà come potrebbe e dovrebbe essere. Certo, il fondamento ultimo di questa aspirazione è la propria personale fede nella Verità cristiana. Per esempio, il Dante storico poteva essere effettivamente convinto, come leggiamo nelle sue epistole, che l'Imperatore fosse stato mandato da Dio a sanare l’Italia, e il Dante autore traduce questa certezza nella profezia del “cinquecento diece e cinque” (su cui torneremo). Il fatto che la storia dia poi torto alle convinzioni risulta solo un episodio contingente, tanto è vero che in Par. XXX (specie vv. 130-141) la stessa Beatrice si incaricherà di informare del destino ultraterreno dello sfortunato Arrigo, ma sempre preannunciando un’imminente giustizia finale di Dio: una giustizia che colpirà pure i nemici personali di Dante a Firenze, come indicato invece nel discorso di Cacciaguida in Par. XVII 53-54 (“... ma la vendetta / fia testimonio al ver che la dispensa”).
Tra il Dante storico e quello che si rappresenta nel testo esistono certo numerose contraddizioni, come la critica ha ribadito di recente; ma quel che conta è in effetti il processo fondamentale che si evince dalla costruzione narrativa, ossia il fatto che un uomo, acuto razionalista e insieme visionario, dichiari di proporre il veridico resoconto dell’ Aldilà, chiedendo al lettore di accettarne tutte e le implicazioni, sino ai livelli apparentemente più incredibili, come nel celebre proclama di ‘veridicità paradossale’ in Inf. XVI 124 ss.:
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,
ch'i’ vidi...
In questo passo, che intanto intercetta il livello più basso dello stile praticato per il momento (il comico, non certo adatto alla teodìa del Paradiso, e contrapposto al tragico dell’Eneide: cfr. Inf XX 113), si garantisce che qualunque modalità narrativa, nell’ambito di questa comedìa, mira a essere accolta come autentica. Il racconto, cioè, rivendica la sua piena veridicità persino là dove sembrerebbe impossibile accettarla; e questo dovrà essere ribadito sia verso il ‘basso’ (cfr. Inf. XXV 46-48: “Se tu se’ or, lettore, a creder lento / ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia, / ché io che ‘l vidi, a pena il mi consento...”), sia verso l'’alto’ (coni i tanti proclami di ineffabilità, soprattutto in punti molto rilevanti del Paradiso). Il lettore ‘allegorico integrale’ è il primo traditore di questo patto, perché comunque non accetterebbe il presupposto della validità del senso letterale del racconto, andando a trovare una sua giustificazione a un secondo o livello, non previsto o non necessario.
Un caso speciale di conferma della ‘veridicità della narrazione’ riguarda il rapporto con le scritture dei grandi poeti antichi, quelli sotto la cui egida Dante si poneva nel canto IV dell’Inferno, ancora sulla base di una concezione analoga a quella manifestata nel già citato capitolo di VN 16 (= 25 Barbi): i maggiori fra i latini, e ovviamente l’inattingibile Omero, potevano garantire la validità delle scritture dei moderni, persino là dove, razionalmente (ovvero in base a semplici procedure ermeneutiche di tipo filosofico), si potevano presentare critiche, come nella scelta di personificare Amore. Viceversa, nel corso del poema il rapporto con quei modelli assume sempre più una valenza di sfida, in modo esplicito nei confronti di Ovidio e Lucano (cfr. Inf. XXV 94-99), implicito ma, pur nel profondo rispetto, corrosivo nei confronti di Virgilio, il quale, in quanto personaggio, è chiamato più volte ad affermare la sua incapacità di risolvere questioni dottrinali e teologiche insolubili nell’ambito del suo paganesimo.
Dante, nel suo poema, può assumere qualunque tipo di notizia o di episodio dalla cultura antica, semmai con le mediazioni (non sempre facilmente accertabili) dei commentatori e scoliasti alto e basso medievali, e in ogni caso senza alcun bisogno di allegorizzarle i in maniera sistematica (si veda quanto sintetizzato nel § 1). In teoria, ogni personaggio antico può trovare un posto nell’Aldilà dantesco e il racconto s’incarica di ‘inverare’ le varie storie attraverso una profonda rielaborazione, sempre riconoscibile persino nei punti di più evidente contatto intertestuale. Non si tratta infatti di uno schematico processo tipologico-figurale: Dante assume alcune caratteristiche dei personaggi che vuole rappresentare nel suo Aldilà, ma le usa e le distorce a suo piacimento (come abbiamo visto, per esempio, nel caso di Guido da Montefeltro), e si arroga la libertà di enunciare la loro sorte, specie là dove era oscura o incerta, come avviene nel caso forse più clamoroso di diffrazione nei finali di un racconto pre-cristiano: la misteriosa morte di Ulisse. Per quali vie Dante è arrivato alla decisione di trattarla, dando compimento a una narrazione iniziata secoli prima di lui?
Innanzitutto, se prendiamo in esame il celeberrimo episodio di Inf. XXVI 49 ss. mettendo a fuoco la configurazione narrativa, possiamo forse trovare un sentiero per superare la dicotomia interpretativa che è ormai invalsa nella critica: da un lato sta chi considera Ulisse colpevole per alcune sue azioni pregresse (l’inganno del cavallo di Troia e il furto del Palladio) ma non per il suo ultimo viaggio oltre le colonne d'Ercole; dall’altro si pone invece chi sostiene che anche quest’ultima azione sia stata all’insegna della tracotanza (la greca hybris) e addirittura dell’inganno, attraverso l’“orazion picciola” rivolta ai compagni (peraltro in parte esemplata su Aen. I 198-207), menzognera e falsa come si addice a un “consigliere fraudolento” — definizione comunque non dantesca e tutto sommato più adatta a Guido da Montefeltro che non a Ulisse. Ma queste componenti risultano, di fatto, potenzialmente attive in compresenza nel corso di una narrazione che, va sottolineato, propone le parole del protagonista senza nessun esplicito commento, quindi volutamente lasciandole all’acume interpretativo del lettore.
Certo, sulla base di parametri allegorico-figurali rigidi si dovrebbe propendere per la seconda posizione sopra indicata, perché sarebbe ovvio che Dante non possa che rimarcare, nell’ultima grande impresa dell’eroe greco qui rivelata, la sua natura intima di ingannatore, per la quale appunto viene condannato in eterno. È tuttavia proprio questo caso è forse il più macroscopico tra quelli che, almeno sin da De Sanctis, vengono indicati come esempi di scissione tra la condanna comminata (in ultima istanza) dal Dio cristiano e la dignità che permane in alcuni dei personaggi più elevati dell’Inferno, da Francesca e Farinata sino a Ugolino: segno appunto di una loro forte compiutezza come personaggi, al di là del rapporto che si è voluto individuare con alcune componenti della personalità stessa dell’autore e del suo alter ego.
Narrativamente l’Ulisse-personaggio dantesco deve mantenere una sua dignità, perché si tratta sì di un peccatore e forse di un tracotante, ma non per questo privo di una tensione umana fondamentale appunto perché di sicuro voluta da Dio, quella verso la conoscenza e insieme, aspetto talvolta sottovalutato, la virtù, con tutte le risonanze attribuibili all’equivalente in volgare della latina virtus. Il problema di fondo, intrinseco al racconto di un episodio inusitato (inventato apposta, eppure da leggersi come veridico), è quello di far comprendere al lettore perché questa tensione può risultare negativa nell’ottica finale dei destini ultraterreni.
Che la vicenda relativa a Ulisse abbia una risonanza per l’intera struttura dell’opera è confermato almeno da due rinvii inequivocabili (ai quali se ne potrebbero forse aggiungere altri individuati con sottigliezza da vari critici): il primo è quello di Purg. I 130-132, in cui si dà solo la conferma implicita che proprio sino a lì era arrivato Ulisse:
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Il secondo, in genere poco citato ma forse ancor più sintomatico, è quello di Par. XXVII 82-83, dove
sì ch’io vedea di là da Gade il varco
folle d’Ulisse...
Il contrappunto rispetto al viaggio terminato con un naufragio non potrebbe essere più chiaro narrativamente: e si noti che questa seconda allusione non era in alcun modo indispensabile, dunque è tanto più significativa. A livello interpretativo, il lettore non può che prendere atto del distacco con il quale deve guardare il “folle” agire di Ulisse, riportato in punti diversi, e senza alcun obbligo, per sottolineare appunto una connotazione netta, se non un giudizio esplicito, riguardo all’impresa fallita, segnata dal “fol hardement” della temerarietà (cfr. Brunetto, Tresor, II 82.8). Ma non di allegoria si può parlare, bensì di esempio paradigmatico.
Che Dante tenga al valore di ammonimento di quanto viene raccontato nel canto XXVI è evidente dalla sottolineatura eccezionale dei vv. 19-24:
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Il fatto che questi versi si riferiscano in primis alla visione globale delle fiamme, che avvolgono i puniti dell’ottava bolgia, non pregiudica in nessun modo il rilievo del commento, ed è perciò inevitabile pensare che Dante voglia riferirsi a quanto verrà poi trattato nell’insieme del canto: del resto, il suo desiderio irrefrenabile di sapere (cfr. vv. 64-69), soddisfatto attraverso la benevola mediazione di Virgilio, riguarda specificamente la conclusione della vita di Ulisse, e questo costituisce un punctum, un elemento attrattore nell’economia del racconto. Assieme a Dante, il lettore vuole senz’altro conoscere la fine del tutto ignota di un grande eroe antico, ossia “dove, per lui, perduto a morir gissi” (v.84), e da questa narrazione così eccezionale s’immagina già di poter ricavare notizie importanti nell’ambito del viaggio ultraterreno che sta compiendo con l’agens.
Fra l’altro, è stato notato che la situazione in cui si colloca l’avvio del discorso di Ulisse dipende soprattutto da un passo delle Metamorfosi ovidiane. Dopo che nel libro XIII si erano già indicati alcuni aspetti specifici della personalità di Ulisse (per esempio il suo rapporto strettissimo con Diomede sempre vicino: “Priamidenque Helenum rapta cum Pallade captum: / luce nihil gestum, nihil est Diomede remoto”, vv. 99-100, ed. Hardie), nel XIV si dà conto della sua decisione di ripartire dalla dimora di Circe per viaggiare verso un mare crudele: il personaggio di Macareo dice che
Talia multa mihi longum narrata per annum
visaque sunt. Resides et desuetudine tardi
rursus inire fretum, rursus dare vela iubemur [per ordine di Ulisse],
ancipitesque vias et iter Titania vastum
dixerat et saevi restare pericula ponti:
pertimui, fateor, nactusque hoc litus adhaesi
(Met. XIV 435-440, ed. Hardie).
Se a ciò si aggiunge che, sulla base di commenti e scolia già identificati nella vasta bibliografia (si veda la nota finale), circolava la notizia che Ulisse pervenne in una zona remotissima dell’Oceano, gli spunti disponibili per lo sviluppo della narrazione odissiaca sono tutti identificati.
Dante dunque fa in modo che il lettore esperto colga segnali narrativi inequivocabili: nel XXVI canto dell’Inferno si completerà ogni racconto relativo all’eroe epico greco, e sarà lui stesso in quanto personaggio del super-racconto dantesco a rivelare il suo destino, almeno per quello che sarà in grado di esporre: perché appunto il livello ulteriore di comprensione del racconto è riservato al buon lettore cristiano del poema sacro.
Il lungo discorso di Ulisse si lascia scomporre in quattro sequenze piuttosto evidenti:
a. il viaggio mediterraneo (vv. 90-11 1), che implicava un allontanamento dagli affetti naturali e coniugali (“né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’1 debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta / vincer potero dentro a me l’ardore...”, vv. 94-97);
b. l’“orazion picciola” (vv. 1 12-120), improntata a valori degni dei magnanimi e tuttavia foriera di una decisione rischiosa, perché comunque implicava il superamento dei “riguardi” posti appositamente da Ercole “acciò che l’uom più oltre non si metta” (vv. 108 s.);
c. il nuovo viaggio nell’Oceano verso l’ignoto con un “folle volo” che (ed è una ricercata sorpresa narrativa) conduce a una scoperta, del tutto imprevedibile per il lettore del Trecento che leggeva per la prima volta questi versi (vv. 121-135): inutile specificare che la montagna sarebbe stata comunque quella del “paradiso terrestre’ ovvero dell’accesso alla perfezione umana, perché non avrebbe avuto senso, all’epoca di Ulisse, parlare di montagna del Purgatorio;
d. il momentaneo sollievo e l’immediato sconvolgimento, con un turbine che si alza dalla montagna avvistata e fa naufragare la nave con uno sprofonda- mento addirittura ritualizzato (vv. 136-142).
Prima di analizzare queste sezioni, occorre fare un passo indietro per ricapitolare ulteriori presupposti culturali (oltre a quanto già segnalato riguardo all’innesco narrativo) sintetizzati nel denso episodio. Possiamo essere sicuri che, stando all’enciclopedia dantesca acclarata (l’Eneide, le Eroidi, le Metamorfosi, più dubitativamente l’Achilleide), Ulisse è un eroe astuto e ragionatore, ma anche orditore di inganni, il cui destino ultimo è incerto e discusso: addirittura, si è detto, c’è chi immagina che si sia perso nell’Oceano. Ma, secondo parecchi proclami di autori cristiani (per esempio l’Agostino del De Civitate Dei, XVI 9), è impossibile che ci sia alcun tipo di terra nell’emisfero australe, e ciononostante la curiositas umana vorrebbe poterlo verificare.
Ora, questa stessa spinta, ma molto più legata al desiderio di un possesso materiale, era ben presente in un personaggio storico che manifesta molte caratteristiche individuabili nell’Ulisse dantesco, ossia Alessandro Magno. Le sue vicende erano oggetto di innumerevoli versioni, al punto da generare quasi fastidio (Chaucer dirà che di esse chiunque ‘abbia ragione’ sa tutto o quasi), e forse Dante si è servito di passi dell’Alexandreis di Gualtiero di Chatillon nella filigrana del suo racconto, com'è stato notato in particolare da Avalle. Ma perché allora non ha inserito nel suo Inferno direttamente Alessandro, spesso considerato dagli esegeti. cristiani una sorta di Anticristo, che addirittura aveva forse osato salire al cielo (buffamente trinato da due grifoni), ma di sicuro viaggiò sino al Paradiso Terrestre nell’estremo Oriente, dopo aver varcato le colonne d'Ercole appunto orientali?
La motivazione è da cercare nelle implicazioni narrative. In qualunque modo fosse sti stato trattato (e Dante, comunque, ne aveva dato un giudizio lusinghiero in Cv IV xi 14), il personaggio di Alessandro risultava troppo ricco di connotazioni, troppo prevedibile nel suo destino terreno, del quale si conosceva l’esito. Occorreva invece creare un personaggio. analogo a lui per molti tratti, però più puro, cioè non spinto dalla bramosia e non coinvolto in episodi al limite del favoloso. Un peccatore non privo di hybris e tuttavia pienamente umano, mosso da un “ardore” che ognuno, a cominciare dall’agens, può considerare simile al proprio, persino se non è consapevole della sua potenziale peccaminosità.
Ma per gli equilibri del racconto il fattore fondamentale resta quello già evidenziato: di Ulisse non si conosceva il destino ultimo. Questa componente essenziale per molte narrazioni antiche, per esempio quelle di tipo romanzesco (forse evocate, come segnalerebbe l’aggettivo “perduto” del v. 84, spesso riferito ai cavalieri partiti all’avventura e non tornati), è il vero nucleo generatore della costruzione essenzialissima di questo episodio: quello che conta, in altri termini, è sapere come Ulisse è morto, le parti precedenti sono quasi ‘premesse’. E infatti va sottolineato, ancor più di quanto non si faccia nei commenti, che l’azione finale, voluta certamente da Dio ma misteriosa per il pagano Ulisse, è fra le più grandiose mai immaginate rispetto a tutta la letteratura precedente: dalla terra ignota (e tale anche per il lettore coevo) sorge un “turbo” che travolge l’intera nave e la fa sprofondare, con una sorta di punizione rituale (“tre volte...”) seguita da una catabasi che non lascia margine per aggiunte o prosecuzioni: “infin che ’l mar fu sovra noi richiuso” (v. 142).
Dante conosceva bene un finale quasi altrettanto grandioso, quello che riguarda lo sprofondamento di Anfiarao al termine del VII libro della Tebaide, episodio al quale aveva peraltro alluso, ma in maniera un po’ ironica, in Inf. XX 31-36:
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,
Anfiarao? perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Tuttavia, lasciata da parte l’ironia nei confronti di un indovino non cristiano e debitamente punito, resta il fatto che un simile sprofondamento nell’Averno risulta, su un piano narrativo, del tutto memorabile. Per di più apre qualche squarcio per scene basso-infernali, soprattutto all’inizio dell'VIII libro, nel quale Anfiarao viene accolto nella sua sede ultima, dopo che la terra si è richiusa sopra di lui. Di fatto, proprio questo dettaglio costituisce un legame potente fra il passo staziano e quello dantesco a livello di inventio. Ecco alcuni versi tra i più significativi:
ecce alte praeceps humus ore profundo
dissilit, inque uicem timuerunt sidera et umbrae,
illum ingens haurit specus et transire parentes
mergit equos; non arma manu, non frena remisit:
sicut erat, rectos defert in Tartara currus,
respexitque cadens caelum, campumque coire
ingemuit, donec leuior distantia rursus
miscuit arua tremor lucemque exclusit Auerno.
Vt subitus uates pallentibus incidit umbris
letiferasque domos orbisque arcana sepulti
rupit et armato turbauit funere manes,
horror habet cunctos, Stygiis mirantur in oris
tela et equos corpusque nouum...
(Theb. VII 816-823 e VIII 1-5, ed. Hill).
Emulare quel finale, ma sottolineando qui gli aspetti tragici del destino ultimo di un grande eroe, che però il Dio cristiano ha dovuto e voluto punire nella sua imperscrutabile Giustizia, è una sfida narrativa degna di Dante, e infatti su questo finale poggia l’intera struttura del racconto. Il lettore può domandarsi se Ulisse ha ulteriormente ingannato nelle sue ultime parole, di sicuro comincia a comprendere (e, se attento, troverà poi conferma) che il viaggio oceanico era davvero “folle”: ma anche un lettore ingenuo qui trova uno dei finali più drammatici ed alti che sia dato riscontrare in un racconto cristiano.
Va poi notato che in ambito cristiano una fine ‘tragica’ dei singoli non dovrebbe darsi, perché o si è puri e quindi salvati, o si è peccatori e quindi dannati: mentre invece Ulisse riceve da Dio stesso (ma il lettore lo capirà solo alla fine del primo canto del Purgatorio) un trattamento eccezionale, a suo modo adatto al destino di un grande eroe epico, proprio per la sua assolutezza e perentorietà. All’interno del racconto dantesco, lo sprofondamento finale è ben di più che una chiusa sorprendente: non è in effetti spiegato perché Ulisse debba sprofondare, essendo stato spinto da un “desiderio naturale di conoscere” che poteva essere considerato, in prima istanza, segno di magnanimità; significativamente, molti commentatori trecenteschi giustificavano la scelta di Ulisse considerandola degna di un uomo dotato di virtù e ragione. Pure questo è un elemento rilevante della costruzione narrativa e soprattutto della chiusa di Inf. XXVI: il lettore deve capire che l’eroe greco era punibile anche per quello che aveva osato fare alla fine della sua vita, ma la spiegazione non è offerta banalmente, né potrà essere acquisita se non seguendo con la massima attenzione lo sviluppo del viaggio del Dante agens.
Riassumendo. I singoli aspetti dell’azione di Ulisse messi in rilievo sino alla decisione di varcare i confini posti da Ercole si prestavano a una duplice valenza: come in generale nelle varie rappresentazioni antiche, questo bifido eroe poteva essere colui che abbandonava i suoi congiunti, e nel contempo colui che seguiva un desiderio assoluto; non però un desiderio dettato dall’avidità, come accadeva nel suo equivalente storico Alessandro Magno, bensì, secondo quanto viene esposto nell’Inferno, per una spinta a conoscere incoercibile, perseguita senza tener conto dei rischi impliciti in ogni conoscenza all’insegna della curiositas smodata anziché della studiositas temperata.
Il finale della narrazione certo assegna una valenza all’impresa, già marcata come “folle” (v. 125) e terminata con quella che sembra una grandiosa punizione: ma resta la componente ‘misteriosa’ che Dante incorpora abilmente nel suo racconto, effetto che sarebbe stato impossibile se avesse deciso di riproporre in maniera passiva le vicende di Alessandro. Il ‘mistero’ del racconto resta in primo luogo perché il lettore ancora non sa esattamente dove Ulisse è andato a perire, e poi quale colpa specifica ha generato la punizione che è stata presentata: il “com’altrui piacque” (v. 141) non spiega molto, benché garantisca un intervento divino nella sequenza finale del viaggio. Solo i tasselli successivi, quelli fondamentali di Purg. I e Par XXVII, faranno comprendere che quel viaggio era destinato a un esito fallimentare perché Dio stesso vuole una comprensione profonda delle sue leggi naturali e soprannaturali, non una ricerca all’insegna della pura spinta naturale a conoscere.
Da questo punto di vista, è giusto confrontare questo esito con quello che forse Dante stesso ha sentito come rischio per sé, magari a causa di una ricerca di verità all’insegna dei mezzi esclusivamente umani già stigmatizzata nel Convivio (su ciò è intervenuto in particolare Massimo Cacciari). Se poi si pensasse che Dante aveva anche saputo dell’esito infausto della reale impresa oceanica dei fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi (1291), la risonanza storica dell’episodio odissiaco, benché inventato, risulterebbe rafforzata. Non c’è però modo di verificare questo dato integralmente esterno al racconto.
Resta in ogni caso indiscutibile che, nella logica narrativa del suo poema, Dante ha ricondotto a pochi elementi essenziali, ovvero a nuclei attrattori di eccezionale evidenza, la congerie di dettagli secondari che poteva ricavare dalla tradizione letteraria su Ulisse e dalla documentazione relativa, in particolare, ad Alessandro Magno. Non ha qui creato un personaggio dalle connotazioni allegoriche o di completamento figurale rispetto a quanto gli era noto, bensì una sorta di archetipo: il suo Ulisse propone un paradigma comportamentale, non solo un’azione fra le altre, e per questo potrà diventare, nel seguito del viaggio ultraterreno, un antimodello da evocare in punti specifici.
Anche tra i canti XXXII e XXXIII Dante crea un percorso che comincia con una chiara sfida a un preciso episodio della Tebaide, per connotare nel modo più bestialmente crudele il rapporto fra Ugolino e l'Arcivescovo Ruggieri: “non altrimenti Tidéo si rose / le tempie a Menalippo per disdegno, / che quei faceva il teschio e l’altre cose” (XXXII 130-132; il riferimento è a Theb. VIII 732-766). Ma questa volta spiazza il lettore derogando dai suoi stessi paradigmi: non si tratta di rielaborare in senso comico-grottesco un episodio tragico, continuando l’andamento verso il basso che aveva già raggiunto un vertice nella tenzone fra Sinone a Mastro Adamo del canto XXX, bensì di rendere ancora più orrendo quanto veniva manifestato nel modello.
Ecco quindi che, dopo un finale che coinvolge l’agens, portato a esprimersi in modo plebeo (“tu ti mangi”, “se quella con ch'io parlo non si secca”, XXXII 134 e 139), lo stacco del canto introduce un personaggio quasi allucinato, che si pulisce nobilmente la bocca ma ai capelli del nemico, e poi parla come Enea a Didone: “Tu vuo” ch’io rinovelli / disperato dolor che ‘l cor mi preme...” (XXXIII 4-5: cfr. Aen. II 3). Solo in questo raffinato gioco di allusioni e di nuove sottolineature si può catturare il senso di un episodio che, letto al di là della sua voluta (ma non insuperabile) ambiguità, deve condurre il lettore, solo e soltanto attraverso gli indizi del racconto (“Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi...”’, vv. 61-62), a ipotizzare un atto di tecnofagia ancora più macabro di quello avvenuto durante l’assedio di Gerusalemme nel 70 d.C., quando l’ebrea Maria per fame “nel figlio diè di becco” (cfr. Purg. XXIII 30): Ugolino è, alla fine, ridotto alla condizione del bruto, quella paventata in Doglia mi reca, 23: “omo no, mala bestia ch’om simiglia”. Ancora una volta i commentatori antichi si esimono dal trovare sensi allegorici, mentre la narrazione stessa sottolinea i modelli che intende emulare, quello dell’odio implacabile di Tideo e, a posteriori, quello della pazzia di una madre che si ciba del figlio per fame. Ma ora il lettore può conoscere direttamente da un personaggio contemporaneo cosa significa, secondo quanto Dante inventa, abbrutirsi per il “digiuno”, imposto dall’ingiustizia umana e in grado di far obliterare l’umanissimo “dolore”. Dante. crea personaggi che raccontano il loro destino, non sono figure implete di un destino già assodato.
Certo, appena un canto dopo, la rappresentazione di Lucifero in XXXIV 37 ss. rimanda, allegoricamente e un po’ meccanicamente, a quanto di più negativo possa essere condensato nel principe dei demoni, nell’angelo ribelle e ormai ‘parodiato’. Tuttavia, a parte i vincoli di tradizione in questo caso insuperabili, l’intero viaggio di uscita dall’inferno riconduce in primo piano i tratti specifici dell’itinerario, e insieme comincia a introdurre novità di ampia portata addirittura sulla configurazione dell’orbe terracqueo, grazie a una disquisizione (vv. 106 ss.) che ambisce a spiegare narrativamente (ma non per questo secondo criteri laschi perché ‘poetici’, per quanto talvolta sia stato sostenuto) come è avvenuta la creazione della montagna del Purgatorio e dell'Eden.
L’arrivo a un isolato luogo australe, alla cui sommità si troverà l’autentico paradiso terrestre (anche stavolta grazie a una reinterpretazione di tanti singoli spunti dell’esegesi patristica), segna un cambio di strategia nell’uso della significazione di secondo grado. Infatti, questo ‘mondo altro’ esiste narrativamente, ed è un’invenzione del tutto svincolata da modelli: Dante può per esempio far provare al suo agens sensazioni inusitate, attraverso combinazioni sinestetiche o miraggi o sogni, le quali tuttavia debbono essere considerate reali in questo mondo possibile. Ecco quindi che la narrazione spesso assume in sé una seconda valenza, quando per esempio si legge:
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!
(Purg. I 22-27).
In questo caso l’indugio sull’eccezionalità delle “quattro stelle”, con il commento sulla loro bellezza inattingibile per chi vive nell’emisfero boreale, costituisce un implicito invito a riconoscere il loro carattere allegorico: e in questo caso davvero si dovrebbe usare la categoria di ‘allegoria dei teologi’, perché queste stelle sono in effetti le quattro virtù cardinali, nella loro forma di enti superiori che possono donare i loro benefici agli esseri umani. Questa nuova realtà rappresentata riguarda non il demoniaco bensì il pienamente naturale, sino alla completa manifestazione edenica, ed è dotata di valori ulteriori rispetto alle potenzialità consuete: assume quindi in sé, e non esteriormente, un valore aggiunto.
Da un punto di vista narrativo, infatti, lo scenario o frame delineato è il seguente: c’è un luogo sulla terra, ma separato da ogni altra terra conosciuta, in cui la condizione umana può tornare alla sua perfezione, dopo un’adeguata purificazione, e quindi può giungere a sperimentare cosa avrebbe implicato la vita che si attua nella sua pienezza, là dove esistono stelle che di continuo infondono agli uomini le virtù loro proprie (o cardinali); addirittura, queste stesse stelle potranno poi (nell’Eden) presentarsi in altra forma assieme a quelle che s’identificano con le virtù teologali, perché, esplorando questo mondo, si può assistere a trasformazioni autorizzate dal volere divino, e quindi dotate di una loro implicita veridicità.
Ma prima di arrivare al finale di questo percorso, seguiamone almeno alcune tappe. Nel primo canto, che la figura di Catone si prestasse a un adattamento narrativo nel ruolo di custode-rettore del Purgatorio è stato da più parti dimostrato. Dante privilegia i suoi tratti nobili e il suo senso ferreo della giustizia, garantito da molti autori classici e medievali fra quelli a lui noti (da Cicerone a Lucano al Policraticus), così come aveva esaltato il suo “sacratissimo petto” già nel Convivio (IV v 16 e anche vi 9-10), giungendo ad allegorizzare la sua figura in rapporto a Marzia come se si trattasse di Dio e dell’anima (ivi, xxviii 15): e proprio questa iperbolica allegoria, persino incoerente nel suo sviluppo, dimostra che Dante è disposto a riadattare alcuni tratti fondamentali delle figure che coinvolge, a seconda della finalità prevista. Nella compagine narrativa del poema occorreva un personaggio ancora legato alla dimensione umana, quindi non un angelo ovvero una sostanza separata, in grado di incarnare ogni tipo di virtù e soprattutto quella della giustizia, per poter governare e addirittura redarguire le anime in attesa di iniziare il cammino espiativo. Ma sarebbe stato poco coerente che questo ruolo, ‘intermedio’ fra quello di un'entità superiore (gli angeli deputati all’effettivo Purgatorio, a partire soprattutto dal canto IX) e quello dei guardiani o giudici infernali (per lo più virgiliani e mitologici), venisse ricoperto da un cristiano virtuosissimo: a quale titolo infatti sceglierne uno fra i beati, oppure proporne uno in realtà non ancora assurto in cielo? Ecco quindi la decisione, dovuta in primo luogo a esigenze narrative, di collocare Catone in un punto singolare, stando anche alla sua scelta di suicidarsi (peraltro quasi mai evocata dai commentatori antichi), e comunque di dotarlo di prerogative ben lontane da quelle emerse attraverso il trattamento allegorico messo in atto nel Convivio.
Lo sviluppo della narrazione nel Purgatorio rende pertinenti due nuovi aspetti o potenzialità: quella del valore esemplare d di molti racconti, sino ai veri e propri exempla riproposti ai penitenti in forme eccezionali; e quella dell’azione che assume in sé una valenza allegorica o, nel caso di sogni, premonitrice, Sull’importanza dell’esemplarità, addirittura sancita autorevolmente nel discorso finale di Cacciaguida (Par. XVII 127-142), ha insistito di recente Carlo Ginzburg, indicandola come base di una forma di racconto in cui si possono conciliare le istanze figurali- cristiane di Auerbach e quelle topiche-mediolatine di Curtius. Di certo, il fatto che specialmente le testimonianze dei personaggi destinati alla salvezza possano essere assunte con un valore di exemplum è una conseguenza della loro modalità espositiva, che nella seconda cantica acquisisce la dimensione della temporalità transeunte: la pena potrà essere più o meno lunga, il rapporto con il mondo più o meno stretto a seconda di come lo status del penitente verrà raccontato. Si tocca quindi non l’ambito allegorico bensì quello dell’efficacia conativa di una narrazione.
Invece, una scena come quella della tentazione del serpente, rintuzzato dagli angeli nella valletta dei principi del canto VIII, va letta come possibile allegoria, secondo quanto richiesto direttamente al lettore (cfr. vv. 19-21). Ma, al di là della proclamata semplicità della decifrazione, è importante notare che si tratta di azioni svoltesi di fronte al pellegrino, che impongono una decodifica di secondo grado ma senza avallare un rapporto schematico A > B, bensì in virtù del senso complessivo ricavabile dal racconto, nella sua studiata sequenza. La temporalità risulta adesso essenziale pure per il percorso dell’agens, al quale viene fatta acquisire una consapevolezza sempre più forte dell’eccezionalità delle sue esperienze grazie anche all’elaborazione notturna, che comporta un ripensamento o un preannuncio attraverso i sogni (qui fondamentali nell’acquisizione di verità ultra-terrene).
Non a caso, quasi al centro esatto dell’opera (Purg. XVII 13 ss.), il Dante auctor interviene per sottolineare quello che, in apparenza, è un problema di natura fisiologica-psicologica, ovvero come la facoltà “imaginativa” può acquisire dati autentici di realtà in mancanza di un supporto sensoriale:
O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se ’l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa,
per sé o per voler che giù lo scorge
(vv. 13-18).
Ma cosa viene poi rappresentato nel racconto, data questa condizione eccezionale per cui si garantisce che è un “lume che nel ciel s’informa” a favorire le specifiche visioni di ira punita, come le altre analoghe proposte lungo il percorso purgatoriale? Il problema che si può porre il lettore-interprete è quello consueto di fronte al testo del poema sacro: va inteso letteralmente, e quindi in questo caso si deve immaginare che le visioni corrispondano ad alcune sperimentate da Dante e poi riadattate, oppure il testo allude a un processo di visione-divinazione, simile benché superiore a quella dei sogni, ma in realtà è sviluppato secondo precisi canoni letterari? Se ci si pone su un piano aletico, la seconda ipotesi è decisamente superiore, e tuttavia il testo chiede di accettare la prima. Esaminiamo meglio le visioni di cui si tratta:
De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
ne l’imagine mia apparve l’orma;
e qui fu la mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a l’alta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era il grande Assuero,
Ester sua sposa e ’l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
cui manca l’acqua sotto qual si feo,
surse in mia visione una fanciulla
piangendo forte, e dicea: “O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t’hai per non perder Lavina;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina”
(Purg. XVII 19-39).
Gli exempla qui presentati in forma di apparizioni, che fisicamente si espandono e poi vaniscono come una bolla nell’acqua (cfr. vv. 31-33), designano un percorso che riguarda episodi mitologici (la storia di Progne, vv. 19-21), eventi biblici (quello che vede protagonista il persiano Aman), storia latina (garantita dall’Eneide): e quest’ultimo caso è il più straordinario, perché l’ira è punita solo in maniera indiretta, attraverso il suicidio di Amata, mentre in primo piano resta la desolata figlia Lavinia, che interviene per esprimere il suo enorme dolore e il suo rimanere nel lutto, a causa del voler “esser nulla” della madre (cfr. v. 36: verso, per inciso, di una semplicità icastica e straziante). Ma la domanda è: possiamo immaginare che queste siano visioni riportate in parole, o invece dobbiamo accettare che esse costituiscano una triade ben studiata e intensissima, specie nell’ultimo caso, nata per esclusivi intenti narrativi? D’altra parte, il racconto non chiede qui una verifica ulteriore, si sviluppa attraverso la serie di apparizioni e solo in essa ottiene la sua veridicità. Di fatto, il lettore-interprete constata l’autosufficienza della narrazione dantesca, e tanto basta.
Se ci spostiamo a rileggere la lunga sequenza conclusiva della seconda cantica, notiamo che il codice profetico-allegorico, in particolare di Ezechiele e dell’Apocalisse, è finalizzato a un racconto che vuole intersecare la condizione edenica, atemporale e pacificata, con la storia umana, continuamente contrastata sino al presente dell’agens e dell’auctor. E il racconto del ritorno di Beatrice, in un contesto che davvero non si può che definire una prima “mirabile visione” (cfr. soprattutto XXX 10-33), consente di surdeterminare la sequenza finale del percorso purgatoriale di Dante (il cui stesso nome non a caso qui al v. 55 emerge come prima parola della Gentilissima ritrovata): la sua riconquistata purezza gli consente di cogliere ancora meglio il comportamento reprobo degli attori della scena allegorica, trascrizione ultraterrena della storia reale. Ma prima di arrivare a questo esito, esaminiamo meglio i caratteri del racconto, a cominciare dall’enigmatica figura di Matelda.
Matelda è un personaggio narrativo. Come tutti i personaggi, in parte dipende dalla struttura compositiva in cui si va a inserire, in parte sembra dotato di una vita propria. Dante crea in prevalenza personaggi a partire da dati di tradizione letteraria ritenuti credibili (che si tratti di Capaneo o di Ulisse o di Sinone ecc.), oppure da effettivi dati di cronaca, attingibili almeno per tutte le figure vissute verso la fine del Duecento, e tuttavia fortemente manipolati o integrati con palesi invenzioni dell’autore, come nei casi celeberrimi di Francesca o Ugolino o Buonconte ecc.
Nel caso di Matelda, le componenti storiche esplicite sono assenti ed è quindi innanzitutto implausibile la sua identificazione con Matilde di Canossa, come quasi sempre proposto dai primi lettori e ancora di recente in contributi spesso molto eruditi ma purtroppo insensibili alle dinamiche strettamente letterarie. Del resto, con questa identificazione si sottovaluta l'evidente sconvenienza che deriverebbe, per Dante, dalla scelta di esaltare l’acerrima fustigatrice di un Imperatore in un periodo ricollegabile alla fase arrighiana (al limite, ma personalmente non lo credo, di poco successivo). Inoltre, come è già stato notato, l’attività di Matelda, che “è usa” (Purg. XXXII 128) condurre verso il Letè e/o l’Eunoè le anime degne di salire al cielo (qui, Dante ma anche Stazio: cfr. ivi, v. 135), non potrebbe cominciare solo dopo la morte della Contessa. Eventualmente, a favore della scelta onomastica potrà aver giocato il fatto che la Margravia di Toscana era figlia di Beatrice di Lotaringia: però, persino la forma Matelda, molto raramente attestata, contribuisce di per sé a segnalare il distanziamento dalla Matilde o Mathilde storica (e si veda infra per alcune precisazioni).
Nello specifico, il fatto che di norma Dante consenta il riconoscimento almeno dei personaggi storici che hanno più spazio nel suo testo, grazie a brevi notizie fornite da loro stessi o dall’agens, impone qui, e contrario, di considerare Matelda come un’entità soprannaturale, dotata di numerose valenze e tuttavia non di una sua realtà terrena accertabile. Proprio queste sono le caratteristiche che Dante le ha voluto riservare all’interno della sequenza narrativa ideata per il finale della seconda cantica, ovvero per l’arrivo nell’ Eden, il mondo perfetto destinato agli esseri umani e invece perduto per il peccato di Adamo ed Eva. Se avesse pensato a un’unica e precisa funzione di Matelda, per esempio a quella della vita attiva o della Natura o di una forma di Grazia ecc., avrebbe ottenuto un’allegoria del tutto tradizionale, analoga a quella di un modello elevato come l’Anticlaudianus (che fra l’altro, se si ipotizza una sua conoscenza da parte di Dante, offriva almeno una figura in qualche modo paragonabile a questa, cioè la “Puella Poli”, aiutante della Saggezza nel libro V, vv. 83 ss.). Ma non è stata questa la sua scelta.
In effetti, nella strategia compositiva di tutta la sequenza finale del Purgatorio s’intrecciano componenti simbolico-allegoriche e valenze storiche, però connesse a una condizione eccezionale, paragonabile solo a quella di scritture visionario-profetiche, in primis il libro di Ezechiele e, com’è stato abbondantemente notato, l’Apocalisse. L'abilità di Dante, nell’usare questi codici (a lungo qui e solo in punti specifici altrove), sta nel fatto che è del tutto verosimile, nella sequenza del suo viaggio, che l’agens possa assistere a una complessa scena che allude alle vicende dell’Antico e del Nuovo Testamento, e in particolare al destino della Chiesa in rapporto a quello dell’Impero: e ciò è ben ambientato all’interno di uno spazio ideale, l’Eden, nel quale si può pensare che si condensi simbolicamente il nucleo essenziale della storia, pur essendo in sé meta-storico. Di conseguenza, l’allegoria è del tutto disciolta nello sviluppo narrativo.
Matelda quindi è in funzione di una costruzione narrativa dalle valenze allegoriche evidenti, ormai in gran parte decodificate, e dalle implicazioni storiche sicure, ancorché tuttora contestate, specie per quanto riguarda la profezia del “cinquecento diece e cinque”. Quali siano le sue prerogative, bisogna ricavarlo dal testo e non da un processo schematico che, a partire dall’esegesi del XIV secolo, ancora adesso si tende a seguire, almeno implicitamente, e spinge alla ricerca di valenze univoche persino là dove la polisemia narrativa è evidente.
Notiamo infine, per terminare le premesse, che il racconto del ritorno di Beatrice, nel canto XXX (specie vv. 22 ss.), costituisce non solo il compimento della disattesa promessa leggibile nel finale della Vita nova (perché quella scena può essere davvero definita una “mirabile visione”), ma anche e soprattutto l’inizio del percorso che porterà nei canti successivi al definitivo superamento della colpa storico-biografica, che era rimasta vaga nella costruzione meramente allegorica del primo canto dell’Inferno, e addirittura non è contemplata nei motivi dell'intervento della stessa Beatrice nel canto II (uno dei tanti segnali delle singolarità dei primi canti del poema, in particolare dei primi quattro). All’agens, che sarà tenuto a riferire, soltanto la Gentilissima può profetizzare i destini storici (Purg. XXXIII 23 ss.), mentre Matelda viene definitivamente collocata nel ruolo di mediatrice rispetto alla condizione edenica (ivi, vv. 118-135), senza alcun rapporto diretto con la contingenza.
L’arrivo di Matelda è prefigurato, nel canto XXVII, dal sogno della donna “giovane e bella” che coglie fiori in una “landa” e rivela di essere “Lia” che vuole realizzare con le sue mani una “ghirlanda” (cfr. vv. 97-102). L’atto fisico viene poi confrontato con quello del puro guardarsi allo specchio della sorella Rachele (vv. 103-108), con una conclusiva, esplicita allusione al rapporto fra vita attiva e vita contemplativa (“lei lo vedere, e me l’ovrare appaga”, v. 108). Il sottile sviluppo del sogno narrato non implica, banalmente, che Lia stia a Matelda come Rachele a Beatrice, bensì che deve esistere una necessaria integrazione fra la parte più elevata della vita attiva e la funzione tipica di quella contemplativa. Questo è il senso che Dante andrà verificando nel seguito del suo viaggio, e quindi non potrà essere sorpreso nell’incontrare, prima di Beatrice (già più volte preannunciata da Virgilio), un’altra figura femminile a lei intimamente legata. Infatti, sarebbe contrario a quanto auspicato da tutti gli spiriti magni, e anche dal Dante del Convivio (superato ormai, ma non cancellato riguardo agli aspetti della filosofia morale), se non vi fosse modo di sperimentare ancora la perfetta felicità un tempo donata da Dio ai primi esseri umani, che precede la contemplazione facie ad faciem e che ancora è cercata “per tanti rami” dalla “cura de’ mortali”, come ricorda Virgilio-personaggio, comunicando che “oggi” Dante appunto la proverà (cfr. vv. 115-117). E il Dante-personaggio può sperimentare, senza necessità di una guida, questa condizione edenica, come premessa al nuovo incontro con la Beatrice (cfr. soprattutto vv. 136 ss.).
Matelda appare quindi in un contesto che mira a ricostruire la condizione umana nella sua pienezza primigenia, in una “divina foresta spessa e viva” (XXVIII 2) che costituisce di per sé l’anti-tipo rispetto alla “selva oscura” dell’inizio della narrazione. Ma questa realtà edenica era rimasta priva di abitatori dopo la cacciata di Adamo ed Eva, quindi poteva risultare creata senza una finalità perenne, come gli esegeti biblici avevano spesso sottolineato: la presenza di un essere dalle caratteristiche umane e insieme soprannaturali è intanto una soluzione ottimale per rispondere a questa imbarazzante difficoltà.
Dante opera, su un piano narrativo, allo stesso modo in cui Agostino, su un piano ermeneutico, riconduceva i problemi evidenti nel racconto del Genesi a una coerenza, oltre il senso della lettera ma non contro la lettera. In altri termini, Matelda è il personaggio che Dante ha creato per rispondere, nel suo racconto, a questa e ad altre incoerenze o lacune dei testi biblici (e come tali accettate dagli esegeti più raffinati), in questo caso riguardo a come poteva essere concepita la “beatitudine terrena” raffigurata appunto nell’Eden e questa accezione è concettualmente ben chiara al Dante che, forse poco prima di comporre questi canti purgatoriali, ha scritto nella Monarchia (III xvi 7) che
Duos igitur fines providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vite ecterne, que consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, que per paradisum celestem intelligi datur.
AI di là di sottili distinzioni sul problema della “beatitudo huius vite” secondo le categorie teologiche coeve (su cui si vedano i contributi di R. Migliorini Fissi e F. Santi), si può considerare certo che, narrativamente, l’obiettivo del canto XXVIII era quello di riproporre gli atteggiamenti del primo uomo che si è trovato a sperimentare la realtà edenica, ora inattingibile se non, appunto, attraverso l’azione dei poeti. E l’agens s’immerge nella “selva antica”, che è reale e insieme mai esplorata, sino al punto di non riconoscere più “ond’io mi ntrassi” (v. 24: una situazione simmetrica e, per certi aspetti, opposta a quella di Inf. I 10) e di doversi fermare a causa di un “rio” purissimo e però invalicabile. Preparato così il contesto, direbbero i narratologi attuali il frame adeguato per un’apparizione inaspettata, viene introdotta Matelda, che però, quasi sino al termine della sua storia, resta innominata. In altri termini, Dante introduce un personaggio volutamente anonimo, che è “una donna soletta” (v. 40) la quale compie la stessa azione di Lia nel canto precedente, “cantando e scegliendo fior da fiore” (v. 41).
A questa donna nella sua pura essenza si rivolge il desiderio dell’agens, ma gli aspetti di sottile erotismo, ormai abbondantemente messi in rilievo dalla critica, sono subordinati a un primo paragone che invece costituisce un chiaro segnale di costruzione tipologica: questa nuova donna fa “rimembrar dove e qual era / Proserpina nel tempo che perdette / la madre lei, ed ella primavera” (vv. 49- 51). Ossia, oltre che incarnare in eterno le caratteristiche di Lia, congiunte indissolubilmente a quelle di Rachele, questa figura senza nome equivale a un altro antecedente nobile, secondo il mito pagano (riletto in chiave cristiana) della Proserpina-pienezza naturale.
Basta questo ulteriore processo narrativo, dalle forti implicazioni allegorico-figurali, a segnalare il tipo di inventio seguito qui da Dante: nella figura che poi verrà chiamata Matelda si concentrano una serie di componenti necessarie a costituire un’entità dotata delle prerogative perfette che ogni essere umano avrebbe potuto o dovuto avere, secondo le interpretazioni delle scritture bibliche e le speculazioni persino dei poeti non cristiani. I suoi gesti successivi potranno avere singole valenze simboliche ma s’inquadrano in questo insieme compositivo e lo inverano: esiste, ci dice Dante-auctor, un’entità che risponde alle domande che da sempre ci si pone riguardo alla pienezza della beatitudine umana, e la trovate rappresentata in un frame narrativo che riproduce l’Eden come potrebbe essere. Fondamentale è la modalità di ricreare l’idea della condizione umana primigenia: il verso in cui si parla di “onesto riso e dolce gioco” (XXVII 96) allude a uno status che doveva essere valido per tutti.
Risultano perciò fortemente limitative, benché possano contenere singoli aspetti accertabili, quelle letture che tentano di inserire Matelda nella vicenda del personaggio Dante, per esempio confrontandola con la Giovanna cavalcantiana (“Primavera” perché “prima verrà” secondo VN 15.4 = 24.4 Barbi), oppure con altre figure che possano effettivamente essere state vicine a Beatrice. Non è di sicuro solo questa la funzione narrativa di Matelda, e l’uso di versi che rimandano per esempio alla “pasturella” della ballata amorosa di Cavalcanti (come il celebre “cantava come fosse ’namorata”’: In un boschetto..., v. 7: cfr. Purg. XXIX 1) non configura un rapporto puntualmente intertestuale, bensì la riproposta su un livello più alto dell’azione femminile sulla terra, generatrice di una tensione amorosa ma qui, nell’Eden primigenio, mai impuramente sensuale e semmai votata alla bellezza muliebre in sé e per sé.
Lo dimostra il fatto che, dopo un paragone fra l’agens e Leandro (XXVIII 73-75), che avrebbe già potuto sviare il lettore, Matelda si rivolge in effetti a lui ma pure a Virgilio e Stazio, in modo paritario (“Voi siete nuovi...”, v. 76) e rinvia alla corretta interpretazione della pienezza vitale, che ormai è dispiegata, citando il salmo Delectasti (cfr. v. 80) ossia il XCI, quello indicato dagli esegeti medievali quale rappresentativo della condizione dell’uomo subito dopo la Creazione. Gli atti di Matelda, che assume adesso ulteriori connotazioni vicine a quelle della Sapienza biblica (cfr. p.e. Sap. 7.22 ss. e Prv 8.22-31, da confrontare con Cv III xv 16), sono quindi esplicativi di quella condizione, a favore di tutti i personaggi sulla scena e non del solo Dante-agens, tanto è vero che, immediatamente dopo, questa donna dotata di numerose connotazioni (figura della vita attiva ma anche della pienezza ‘primaverile’, ecc.) assume il ruolo, piuttosto distante da quello subliminarmente erotico, di dotta espositrice di questioni extra-naturali, ovvero relative alla Natura ‘autentica’ del Paradiso terrestre (vv. 88 ss.). Ma questa sua funzione era ben prevedibile nel frame narrativo, dal momento che né Virgilio né Stazio erano in grado di assolverla, e d’altra parte sarebbe stata troppo specifica e insieme incongrua se fosse stata affidata a Beatrice, la cui voce doveva essere preservata per le questioni del Paradiso celeste.
A un personaggio inedito era possibile anche far rivelare alcune delle novità specifiche di questo Eden, per esempio relative alla fuoriuscita di due fiumi (ossia il consueto Letè e l’ignoto Eunoè, cfr. vv. 130-132; il secondo, sia detto per inciso, non potrà certo essere da sempre riservato all’immersione del solo Dante) diversi da quelli che erano stati normalmente segnalati dagli esegeti, sulla base del racconto biblico. Ciò consente inoltre di lavorare su un piano che può essere definito di ‘esegesi creativa’ rispetto a quella tipica dei padri della chiesa e dei teologi più o meno recenti, ampliando le loro riflessioni, spesso ben fantasiose nell’immaginarsi l’Eden, sino a renderle coerenti con la narrazione del poema sacro. Ed è in questo contesto ulteriore che Matelda si fa portatrice di una convinzione decisiva per il Dante autore reale, e cioè che esiste un collegamento profondo tra il “poetare” nelle varie epoche e la possibilità di attingere, magari in modo inconsapevole, una verità sul mondo ultraterreno. È così che il mito pagano dell’età dell’oro diventa una perfetta figura di quello che sarebbe stato l’Eden, adesso di nuovo e forse definitivamente raccontato in un’opera poetica, sulla base di un’autonoma rilettura del testo biblico:
Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice”.
Io mi rivolsi n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avean l’ultimo costrutto
(ivi, vv. 139-147).
In un certo senso, solo qui si compie la lunga parabola che aveva avuto un suo avvio in Inferno IV, là dove gli spiriti magni, e in primo luogo i poeti sommi (affiancati poi da quelli aggiunti nell’elenco di Purg. XXII 97 ss.), non erano stati condannati perché comunque erano stati in grado di ‘acquistare grazia nel cielo’ (cfr. Inf. IV 80).
Superata questa fase di necessario ambientamento nell’Eden, la funzione narrativa di Matelda diventa meno poliedrica, e in sostanza risulta equiparabile a quella di una sacerdotessa, che ha per sempre il compito di portare le anime sino ai lavacri necessari nel Letè e nell’Eunoè: il fatto che a ciò si allude fugacemente non toglie consistenza a questo ruolo, immaginabile dal lettore come in tanti altri casi sulla base persino di un piccolo indizio (qui il “se’ usa” di XXXIII 128, che non pare indicare un evento singolo, ovvero ‘come hai già fatto proprio per Dante’, anche perché allora non sarebbe plausibile il concomitante invito a Stazio a compiere un rito analogo, vv. 134 s.). L’ulteriore snodo, che introduce la scena allegorico-apocalittica inquadrata nel contesto edenico, è vistosamente segnalato da un’elevata invocazione alle Muse (XXIX 37-42) che costituisce quella di grado appena antecedente rispetto alla grandiosa e definitiva di Par. I 13 ss. (per ora basta il solo Elicona, poi occorreranno entrambe le cime del Parnaso all’atto poetico). Per un lungo tratto la visione è di per sé sufficiente al racconto, benché decodificabile solo attraverso il linguaggio suo tipico, appunto profetico. In questo contesto, “la donna” sollecita un’attenzione completa alla lunga teoria di entità simbolico-allegoriche (cfr. vv. 61-63), ma non ha alcuna valenza di possibile ‘decodificatore’, non essendo questa sequenza relativa allo stato consueto dell’Eden; prepara invece il ritorno davvero trionfale di Beatrice nel contesto della storia che si è dispiegata a partire dalla scrittura dell’Antico Testamento, poi con l’arrivo di Cristo-Grifone e in seguito con azioni specifiche (su cui si veda anche il § 3.9).
Dopo la ricomparsa di Beatrice, Matelda assume definitivamente un ruolo vicario benché di stretta e intima collaborazione con lei. Ma qui la narrazione diventa esclusivamente personale, dato che il Dante-agens deve compiere gli atti di umiliazione e poi assistere a un’ulteriore visione che solo per lui è stata questa volta predisposta (Stazio ovviamente non viene coinvolto da Beatrice nell’ambito della sua decodifica e delle esortazioni nel canto XXXIII, vv. 23 ss.). Questa parte della narrazione si deve riconnettere direttamente alla parte finale della Vita nova, rivelando senza ambiguità che la “donna gentile”, la ‘pargoletta’ e altre figure femminili non potevano essere riscattate sulla base di trasposizioni allegoriche (quelle del Convivio, ignote al lettore ma ben presenti all’autore), ed erano invece parte integrante del “falso piacer” delle cose mondane. Esclusivamente a esse si era orientato subito il poeta cui era stato nascosto il volto della Beatrice (cfr. XXXI 36: e si noti il “tosto”, che corrisponde a quello già presente in XXX 124 e indica la rapidità del cambiamento post mortem, davvero incompatibile con la ricostruzione di chi vorrebbe che Dante abbia incontrato la ‘donna gentile’ addirittura intorno al 1293). La confessione e le successive sequenze narrative sono perciò orientate in primo luogo a perfezionare il suo status di uomo ‘rigenerato’.
Nel nuovo frame, Matelda completa le sue funzioni con lo svolgere fattivamente il ruolo di sacerdotessa nei riti di definitiva purificazione. La troviamo quindi nel fiume Letè per far immergere l’ormai contrito Dante-agens (cfr. XXXI 91-105). Poco dopo, a confermare lo statuto di narrazione che adotta, in maniera sottile, vari tipi di valenze allegoriche, si delinea l’episodio in cui il personaggio viene consegnato ad altre donne, ninfe o stelle, di certo sottoposte a Beatrice, quali appunto le virtù cardinali. In ogni caso, la molteplicità dei sensi ipotizzabili e l'immediatezza e plausibilità dei vari passaggi rituali non riducono nemmeno in questo caso le caratteristiche di Matelda a un’unica e banale significazione di secondo grado.
La sua presenza nella parte finale della visione storico-apocalittica (cfr. XXXII 28 ss.) consiste comunque nell’agire secondo i modi di una ‘aiutante’, che deve portare conforto in momenti di dubbio se non di timore (cfr. vv. 82 ss.). Tuttavia, come già segnalato, l’interpretazione almeno della parte conclusiva della sequenza allegorica interna al racconto è demandata alla sola Beatrice, dato che si tratta di leggere il destino in specie della Chiesa e dell’Impero in un momento di grande contrasto (concepibile mentre il papa Clemente V, l’imperatore Arrigo VII e, fra gli altri avversari, il ‘gigante’ Filippo il Bello, erano ancora in vita e in lotta: cfr. § 3.9).
Il personaggio narrativo di Matelda completa ogni sua funzione, acquisendo in quel momento il suo nome, esattamente quando viene svolto l’ultimo rito preparatorio del Dante-agens, grazie a un’ulteriore immersione, questa volta nell’Eunoè (cfr. XXXII 118 ss.). Se il nome viene introdotto en passant da Beatrice (v. 119), non è certo per una dimenticanza, perché si sa che la nominatio ritardata è una delle tecniche più efficaci per fornire una sottolineatura alla stessa operazione ‘onomastica. Ecco perché non si può escludere, e anzi è in questo caso verosimile, che Dante spinga il suo lettore a ragionare pure sulle valenze simboliche della specifica forma “Matelda”, impiegata invece delle più comuni varianti germaniche. Nel contesto narrativo finale del Purgatorio, ritualizzato e allegorico, non è implausibile un invito a congetturare sulla massa fonica del nome rivelato, per esempio applicando una facile retrogradatio, che tuttavia si può concepire solo con la variante onomastica scelta. Matelda, nei confronti di Beatrice, è colei che prepara, conducendo ad letam, e per sempre così resterà nella nostra memoria.
Occorre ancora precisare che, secondo quanto ha messo a fuoco soprattutto Gennaro Sasso, esaminando con cura i principali contributi su Matelda (per esempio di Barbi, Nardi, Singleton e altri), non poche sono le lacune che emergono a un'indagine ravvicinata, in particolare riguardo al ruolo effettivo del personaggio (per esempio il rito finale non è nemmeno illustrato e non sembra necessario per garantire l'ascesa al Paradiso celeste). Ciò è vero su un piano astratto, ma non si tiene conto della specifica qualità della narrazione dantesca, quella di essere coerente e compatta per quanto afferma, non perché non possa andare incontro a obiezioni di tenuta complessiva, se esaminata in modo capillare (e a volte cavilloso).
Nel caso specifico, Matelda risponde alle esigenze e alle necessità che si è cercato di porre in rilievo, mentre non era interesse di Dante descrivere in modo pedante le sue prerogative consuete: il già citato “come tu se’ usa” rivoltole da Beatrice (XXIII 128) va inteso come garanzia di una sua permanenza nell’Eden e di una sua abitudine a svolgere riti come quelli che riguardano Dante e in parte Stazio, ma non è opportuno andare oltre nella richiesta di particolari. Il suo status non deve e forse non può essere definito ulteriormente; tuttavia, che questo personaggio sia intimamente legato alla natura e alla condizione perenne dell’Eden non può essere posto in discussione, perché appunto ciò riguarda i suoi tratti costitutivi ricavabili soprattutto dai canti XXVII e XXIX, ai quali si aggiungono alcune funzioni specifiche nei successivi.
Invece, ribadiamo ancora, non ci sono motivi per far coincidere questo personaggio con Matilde di Canossa o con altre Matilde sante o visionarie: significativamente, però, ai lettori coevi poteva bastare il vago segnale onomastico per tentare una perfetta identificazione con la Contessa, così come con Lia-‘vita attiva’. Ma la capacità narrativa di Dante è di gran lunga superiore a quella interpretativa dei suoi contemporanei. Lo dimostra, assieme a tanti altri aspetti narrativi, la creazione di un personaggio plurivoco e funzionale alle esigenze specifiche del finale del Purgatorio, nonché a quelle letterarie e teologiche in rapporto alla rappresentazione dell'Eden, quale la pienamente vitale e pienamente umana donna-Matelda.
Come si è in parte anticipato, l’episodio in cui compare Matelda si fonde con quello della processione di figure allegoriche, che ha inizio dal verso 43 del canto XXIX, dopo l’alta invocazione a tutte le Muse e all’Elicona (vv. 37-42). Che si tratti di un preciso riuso del codice narrativo profetico, e poi addirittura apocalittico, è segnalato esplicitamente dall’appello al lettore dei vv. 97-105:
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechiel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte,
che una volta di più sottolinea la dimensione intertestuale e autoconsapevole, non per demistificare ma anzi per accreditare la giusta chiave interpretativa, in questo caso per avvalorare una consistenza visionaria che deve essere colta nel suo insieme (ossia arrivando al suo completamento, nel finale del canto XXXII).
La sequenza s’interseca con le sezioni dedicate al ritorno di Beatrice, e ciò implica, narrativamente, una scelta di notevole complessità: infatti, Dante intreccia per vari canti, in particolare tra il XXVII e il XXXII, episodi separati (l’arrivo nell’Eden e l’apparizione di Matelda; la scena allegorica basata su modelli biblico-profetici; il ritorno di Beatrice, da intendersi anche come equivalente di una ‘mirabile visione’, prima di quella nell’Empireo; la confessione definitiva dei peccati da parte dell’agens e la sua purificazione; la prosecuzione delle scene allegoriche), che potevano essere tenuti divisi in vari canti, mentre invece formano come un lungo piano-sequenza. La tecnica è tanto più notevole perché consente di fornire un continuo contrappunto fra le apparizioni allegoriche e la vicenda dell’agens che ora, pur lasciato da Virgilio, è in grado con l’aiuto di Beatrice di penetrare verità sempre più profonde, dato che riguardano l’intera storia cristiana.
Non è qui necessario ripercorrere nel dettaglio i vari snodi, in qualche caso ancora controversi ma nel complesso verificabili. Che il carro trionfale, di cui si comincia a parlare da XXIX 106, rappresenti la Chiesa in quanto istituzione è confermato dall’uso analogo (e con ogni probabilità posteriore) dell’immagine del “currum Sponse” o dello “Sponse vehiculum” di Ep. XI 5-6, inequivocabile nel contesto. È pure largamente accettato che il grifone sia figura allegorica della doppia natura, divina e umana, di Cristo, e che Beatrice svolga in sua vece il ruolo di garante della retta condotta nell’ambito della comunità ecclesiastica, a partire da XXXII 86 ss. Ma una volta compreso il senso parziale (non semplice) delle varie allegorie, va intuito il senso d’insieme, per non misinterpretare l’ampia scena conclusiva, che viene mostrata all’agens per il suo valore altamente esemplare, come viene segnalato da Beatrice stessa:
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive
(Purg. XXXII, 103-105).
Infatti, l’ultima parte della narrazione (vv. 109-160) è costituita da una sintesi della storia dei rapporti fra Chiesa e Impero, che coinvolge eresie e scissioni (la volpe, il drago. ..), tragici errori (la donazione di Costantino), altri eventi ancora, ma soprattutto mira a uno sbocco evidente: la condizione finale è relativa al presente, perché l’intera vicenda dei rapporti Chiesa-Impero è ormai ridotta a una storia adulterina, dopo che la prima, nella veste di “puttana sciolta” (v. 149) si è donata a un “gigante” (v. 152), pur non rinunciando a cercare di concupire o ingannare persino l’agens (vv. 154 s.: “l’occhio cupido e vagante / a me rivolse...”), scatenando l’ira del violento amante, che da ultimo trascina nella selva, ossia separa e nasconde, la donna e il carro ormai mostruoso (vv. 155-160).
Non è possibile fornire un’interpretazione corretta di questo passo senza tener conto della sua collocazione narrativa. Dopo questa scena, Dante annuncia profeticamente il senso che la storia, ancora in corso, dovrà assumere, ossia il ritorno della Giustizia grazie all’azione di un Messo di Dio, secondo quanto lui stesso crede e afferma nelle Epistole enriciane, in particolare nella VII all'Imperatore (17 aprile 1311), là dove si adoperano con altra valenza (in rapporto al comportamento di Firenze) molte immagini allegoriche qui invece riadattate al rapporto Chiesa-Impero. Ma che la scena finale del canto XXXII riguardi la Chiesa governata da Clemente V e il suo sostenitore-amante e poi dominatore, Filippo il Bello re di Francia, non può essere posto in dubbio.
La vicinanza dei due era stata già affermata preventivamente in un passo, forse aggiunto per creare un pendant con questo, del canto XIX dell’Inferno (“Nuovo Iason sarà, di cui si legge / ne’ Maccabei; e come a quel fu molle / suo re, così fia lui chi Francia regge”, vv. 85-87), nel quale Clemente era accusato di essere prono verso il “suo re”, e ciò avvalorava l’adozione di un comportamento che non era certo quello praticato dal papa tra il 1309 e il 1311, quando invece aveva manifestato il suo sostegno a Enrico, propostosi per ricevere la corona imperiale. La compagine di questi dati, narrativamente congruenti, depone a favore di una precisa lettura del canto XXXII: la Curia romana, con Clemente, si è prostituita ai voleri del re di Francia dopo che, tra il 1310.e il 1311 (e sino agli inequivocabili voltafaccia del 1312), aveva ingannato persino Dante stesso, che infatti rischia di essere ammaliato nella sua veste di agens dallo sguardo lascivo della prostituta (da intendersi specificamente come la Curia con il suo Pontefice come guida, quindi distinta dalla Chiesa in quanto assemblea di tutta la cristianità, rappresentata invece dal carro). Il coinvolgimento, sia pure ‘passivo’, in un’azione simbolica è previsto dal codice profetico-apocalittico, e nobilita il ruolo del personaggio, al di là degli effettivi meriti nella realtà.
Nell’insieme, il canto XXXII racconta allegoricamente i rapporti contrastati fra Chiesa e Impero, sino all’attuale prostituzione della prima con un violento gigante che non può non essere identificato con colui che ha compiuto atti analoghi nella realtà terrena, Filippo il Bello. Se non si coglie la consequenzialità della narrazione, non se ne capisce nemmeno il valore di premessa all'effettiva profezia del “cinquecento diece e cinque” nel canto finale dell’intero Purgatorio. Chi per esempio sostiene che la relazione Chiesa-Re di Francia potrebbe riguardare altri momenti storici, magari relativamente ai rapporti tra Bonifacio VII e lo stesso Filippo, non tiene conto dei dati oggettivi (nel caso appena citato, tali rapporti furono pessimi sin dal 1301 e non si capisce quindi quale sarebbe stato il loro osceno connubio), ma soprattutto si preclude la comprensione della finalità ultima di questa grandiosa sequenza: proprio nel momento più drammatico arriverà un salvatore, e ciò è garantito da Beatrice nei celebri versi profetici del canto XXXIII:
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque
(vv. 37-45).