Dati bibliografici
Autore: Lino Pertile
Tratto da: La puttana e il gigante. Dal Cantico dei Cantici al Paradiso Terrestre di Dante
Editore: Longo, Ravenna
Anno: 1998
Pagine: 17-20
Non si può […] dimenticare che lo statuto letterario della Commedia è tutt'altro da quello delle lettere politiche. In queste ultime non c'è schermo tra Dante scrittore e Dante uomo. La scrittura è l'arma che Dante Alighieri ha a sua disposizione per intervenire personalmente nel dipanarsi della storia del suo tempo. Nell'utilizzarla impiega certamente tutte le arti della retorica , ma la sua aspirazione che in un modo o in un altro la sua visione trionfi e venga fatta piazza pulita dei suoi avversari politici non è affatto né figura retorica né astratta velleità di poeta, bensì un progetto concreto realizzabile con concrete misure politiche e, se necessario, militari. Vogliamo dire che, nel contesto delle lettere, la Bibbia e l'Eneide non fungono da meri intertesti in una speculazione teoretica che è anche operazione artistica, ma da suprema garanzia della natura sacrosanta dell'azione politica richiesta nelle circostanze storiche attuali.
Tra i seminatori di discordia, che la giustizia divina fa a pezzi nella nona bolgia dell'inferno dantesco, si trova «sbigottito/ con la lingua tagliata ne la strozza I Curio, ch'a dir fu così ardito» (lnf XXVIII 100-02). Nel 49 avanti Cristo Caio Curione, esiliato da Roma come fautore del partito cesariano, esortò Cesare, che indugiava a Ravenna, a varcare il Rubicone e portare la guerra nel cuore stesso di Roma. «Il fornito/ sempre con danno l'attender sofferse»: questa la frase, divenuta proverbiale, che Dante, traducendo dalla Farsalia (I 281), mette in bocca a Curione, e la frase per cui lo condanna a sempiterna tortura. Nulla di più improbabile dunque, almeno a leggere l'Inferno, di un'analogia tra Curione e Dante, benché tutti e due esuli, partigiani dell'impero e consiglieri di Cesare. Sennonché, a poco più di un anno, al massimo due, dalla stesura del canto di Curione, che cosa scrive lo stesso Dante? Nella lettera a Enrico VII, datata 17 aprile [1311], il poeta invita l'imperatore a vergognarsi di indugiare tanto a lungo nell'angustissima aiuola padana, mentre a Firenze la tirannide toscana cresce sempre più temeraria e sobilla nuovi nemici contro di lui. Che Enrico rompa ogni indugio e attacchi subito Firenze: semper nocuit differre paratis, cioè «'I fornito I sempre con danno l'attender sofferse», intona Dante, ripetendo così con la sua voce proprio il detto famoso per cui Curione nell "Inferno ha «la lingua tagliata nella strozza». Dunque, la storia si ripete: Enrico come Cesare, Firenze come Roma e Dante Alighieri, esule fiorentino, come Caio Curione, esule romano.
I commentatori dell'Inferno sorvolano, minimizzano o sottilmente distinguono, ma l'incongruenza dantesca non svanisce né si appiana. Vero è che, passando dal mondo dei valori morali assoluti a quello della prassi politica, lo stesso Dante, come un altro grande fiorentino due secoli più tardi, non esita a consigliare soluzioni moralmente dubbie, purché politicamente certe. Ma di questo forse non si rende conto il poeta. Come i propagandisti della Chiesa del suo tempo, Dante è convinto di essere nel giusto, di avere Dio dalla sua parte e di sapere esattamente in che cosa consista il bene di Firenze, dell'Italia e del mondo intero. Quel bene egli è disposto a imporlo a fiorentini e italiani anche con la forza. Che Enrico attacchi Firenze e la distrugga, se necessario: Dio lo vuole! Citando Paolo (Rom. 13,2), scrive: «chi resiste al potere resiste al divino comandamento», e aggiunge: «e chi al divino comandamento resiste, si ribella a una volontà eguale all' onnipotenza» (Ep. V 14). Non è difficile immaginare come dovevano leggerle i fiorentini «intrinseci», queste sentenze del poeta bandito.
L'allegoria politica, cioè l'interpretazione di testi ed esempi sacri con specifico riferimento a eventi politici contemporanei, non è un'invenzione dantesca. E una strategia che la pubblicistica papale aveva sviluppato da tempo nel suo tentativo di legittimare, fondandole sull' auctoritas della Bibbia, le pretese temporali della Chiesa. Si potrebbe pensare che Dante l'avesse estesa alla storia romana, ma anche in questo il poeta era in buona compagnia. Ad ogni buon conto Dante e i suoi avversari usavano le stesse armi; facevano appello agli stessi testi, specialmente profetici, ma ne traevano messaggi del tutto opposti. Secondo il Padre Henri de Lubac, si tratta di una strumentalizzazione della sacra pagina che segna la decadenza della teologia medievale .
Invero, se di decadenza si trattava, era di vecchia data. L'allegoria politica era di ordinaria amministrazione oltre due secoli prima nel pieno della lotta per le investiture. Caso mai, la novità era un'altra. Agli inizi del secolo XIV la situazione storica era cambiata a tal punto da rendere praticamente irrilevanti le pretese universalistiche dell'una come dell'altra parte in gioco. Dopo tutto, nel 1310-11, il papa, ormai stabilmente insediato ad Avignone, era una marionetta nelle mani della monarchia francese, mentre l'imperatore aveva forze a malapena sufficienti a sottomettere Brescia. Il grande sogno teocratico dei papi medievali era morto con Bonifacio VIII nel 1303. Quanto all'idea della monarchia universale, dopo molti anni di crisi e un ultimo sussulto, anche questa crollava definitivamente con la morte di Enrico VII nel 1313. Nel frattempo le redini del potere militare ed economico passavano ai nuovi stati nazionali, come Francia e Inghilterra, o ai grandi centri commerciali e finanziari, tra i quali appunto Firenze. Nessuna allegoria politica era in grado di incidere su questo nuovo assetto. Consapevole di ciò la Chiesa mirava pragmaticamente a conservare e consolidare, specialmente in Italia, l'autorità che aveva acquisito durante il lungo declino del Sacro Romano Impero. Il sogno che Dante aveva in mente era molto meno «aderente alla grave realtà dell'ora» , e in pari tempo, per dirla in termini moderni, ben più radicalmente reazionario.
Fiorentino escluso da Firenze, aristocratico privo di mezzi, cristiano fervido e convinto anticlericale, politico costretto all'inazione, partigiano senza partito, laico persuaso della propria missione religiosa, intellettuale déclassé, Dante è un microcosmo di tutte le tensioni e le contraddizioni del suo tempo. Nella sua condizione di grande esule è la sua forza e la sua debolezza. L'esilio esalta il suo genio visionario, concentra le sue energie, tende la sua immaginazione, affina il suo pensiero, aguzza il suo mirabile talento di scrittore; allo stesso tempo lo condanna a una risentita marginalità, a una fantastica irrilevanza. Nel 1310-20 la storia si fa Firenze, non a Verona o Ravenna.
Sulla base di una interpretazione della Scrittura volta a riattivarne il messaggio originario, Dante elabora una visione del mondo alternativa rispetto a quella dominante. Vittima del terremoto sociologico prodotto dalla transizione della società feudale alla società capitalistica, si fa profeta di una renovatio etico-religiosa e di una trasformazione politico-sociale che considera strettamente interdipendenti. Questa la grande contraddizione del suo pensiero politico: la sua fede messianica coincide con un progetto utopico di felicità terrena. Il suo ideale religioso è una Chiesa spogliata di ogni potere economico e politico. Il suo piano terrestre la ricostruzione dei vincoli comunitari che l'irrompere del mercato ha dissolto. Il che significa vincere l'avidità e la corruzione degli individui, domare le lotte delle fazioni, placare le tensioni sociali; ma significa anche rifiutare il nuovo dinamismo, la ricerca del benessere materiale, la legge spietata ma potenzialmente egualitaria e democratica dell'industria individuale, della concorrenza e del profitto, per ritornare all'immobilismo di un non ben identificato felice passato, al mitico mondo statico, autarchico, gerarchico, della «cerchia antica». Rientro a Firenze e ritorno al passato divengono per lui gradualmente un solo impossibile mito.