Dati bibliografici
Autore: Charles S. Singleton
Tratto da: Studi su Dante I. Introduzione alla Divina Commedia
Editore: Scalabrini, Napoli
Anno: 1961
Pagine: 47-63
Nel presentare il suo poema a Cangrande, Dante non usò affatto questo termine. Egli scrisse che nel suo poema vi era un duplice soggetto, che preso letteralmente era «lo stato delle anime dopo morte», e che, nell'altra sua intenzione, era «l'uomo, come per merito o per demerito, nell'esercitare il suo libero arbitrio, sia soggetto alla Giustizia che premia o che punisce.» Come, allora, senza la sua sanzione, possiamo noi azzardarci a chiamar simbolico questo aspetto della Commedia? E come possiamo pretendere che il soggetto così concepito sia una dimensione del poema distinta da quella che abbiamo chiamata allegoria?
La risposta è che se Dante stesso definì in tal modo il suo soggetto, a nostra volta noi non possiamo rifiutarci di tentar di capire ciò che egli intendesse o perché egli Io considerasse in tal maniera; e che, nel far così, ci troviamo portati a mettere a fuoco quello che è solo uno degli aspetti della struttura del poema. Perché ora, dopo le precedenti osservazioni, meglio ci rendiamo conto di quel che significherebbe concepire questo come se fosse esclusivamente il soggetto del poema, e di quello che in tal modo si finirebbe per escludere dal quadro: cioè, l'intera dimensione del viaggio, quell'avvenimento per cui diventa possibile per un uomo vivo, guidato prima da un Virgilio e poi da una Beatrice, di contemplare «lo stato delle anime dopo morte». Certo, subito comprendiamo che un'altra via vi sarebbe potuta essere: quella di una diretta, «ispirata» visione, che avrebbe escluso dal poema ogni qualsiasi schema di viaggio. Ma che diverso poema avremmo avuto se Dante avesse scelto tale via! Invece, abbiamo un viaggio come aspetto principale della sua grande visione dell'aldilà, e dallo schema di esso vien fuori una ricchezza di significato, una dimensione di senso che riguarda noi e impegna noi, come abbiamo veduto. Dante è Viandante e si muove come «io». Quell'«io» è aperto a voi, a me, al nostro viaggio terreno.
Così quella che abbiamo chiamata la dimensione allegorica potrebbe anche esser definita la dimensione soggettiva del poema, poiché della struttura totale questa è la parte che presenta uno spettatore e dà conto del modo in cui avvenne il vedere lo «status animarum post mortem». E di questo, del lato soggettivo del poema, l'Epistola dice poco.
In contrasto con tale lato, allora, vorremmo osservare che quello che l'Epistola in effetti definisce come duplice argomento del poema ricade interamente entro un centro focale oggettivo: non è il vedere ma il veduto. Ed è qui, in questa obiettiva dimensione di visione, ove Dante preferì vedere il suo «soggetto», che possiamo parlare di simbolismo come cosa distinta dall'allegoria. Ma che il termine stesso, così applicato, sia giustificato, deve dipendere più dalla maggiore o minore sua convenienza, dovuta all'uso che poi se ne fece, anziché dalla stessa terminologia di Dante, la quale non tiene conto di questa distinzione.
Forse possiamo orientarci meglio nel fatto di tale distinzione se vorremo considerare un singolo breve episodio del poema verso l'inizio del Purgatorio. Colà troveremo rappresentata in piccolo, e in una maniera estremamente viva e semplice, la condizione essenziale da cui nascono e allegoria e simbolismo, nella concezione cristiana medievale.
1. Dante e Virgilio hanno appena raggiunta la spiaggia dell'isola-montagna del Purgatorio, e si volgono a riguardare su per le acque dell'oceano per scorgere una navicella che a loro si avvicina, guidata da un angelo. Sono anime queste che vengono così traghettate a questo luogo. Mentre si approssimano, si sentono cantare in coro un salmo dell'Esodo, In exitu Israel de Aegypto. Poi subito, appena sbarcate, si avviano verso Virgilio e Dante per chieder loro la strada che meni su al monte. Ma Virgilio, sebbene sia tuttora la guida di Dante, si ritrova in Purgatorio come in uno strano luogo nuovo, e deve rispondere che non sa il cammino:
E Virgilio rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti d'esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.»
Purg. II, 61-4
Possiamo notare che già con il loro canto dell'Esodo le anime che vengono sull'acqua (come su di un «Mar Rosso») si dichiaravano «pellegrine». Ora Virgilio, nella sua risposta, anch'egli riconosce questo. E pone sé stesso e colui che gli è affidato nella medesima categoria. È importante veder questo, perché diventa parte essenziale del senso che ha l'episodio che sta per svolgersi.
Quando dal respiro di Dante s'accorgono che egli è vivo, le anime che si sono avvicinate a lui e a Virgilio si ritraggono per lo stupore. E dal gruppo ne avanza una che fa per abbracciare l'uomo vivo. Questi, si viene a sapere, è un vecchio amico di Dante, un musico fiorentino chiamato Casella, da poco morto. E dopo un primo scambio di saluti fra loro (ah, il tono di queste conversazioni nella vita di là: «Ma dove sei stato ultimamente?» «Com'è che sei qui?»), Dante chiede al musico suo amico di consolarlo con un canto d'amore che gli solea, quetar tutte le voglie, poiché egli è ora tanto affannato e stanco dell'ascesa fino a quel luogo. Per tal motivo Casella intona una delle liriche di Dante stesso, una canzone che conosciamo come la seconda del suo Convivio. Ma sembra necessario porre l'intero episodio dinanzi al nostro sguardo, come ce lo presenta il poema:
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso all'amoroso canto,
che mi solea quetar tutte mie voglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la mia persona
venendo qui, è affannata tanto!»'
Amor che ne la mente mi ragiona'
cominciò elli allor si dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi sona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch'eran con lui parevan si contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
alle sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto.»
Come quando, cogliendo biada o loglio,
li colombi adunati alla pastura,
queti, sanza mostrar l'usato orgoglio,
se cosa appare ond'elli abbian paura,
subitamente lasciano star l'esca,
perch' assaliti son da maggior cura;
così vid'io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e gire inver la costa,
com' uom che va, né sa dove riesca:
né la nostra partita fu men tosta.
Purg. II, 106-133
Il «veglio» che viene e pronunzia questo severo comando al gruppo è Catone, incontrato nel precedente canto del Purgatorio come guardiano di questo secondo regno in cui si conquista libertà, ove la volontà distortasi nel mondo viene di nuovo resa diritta e libera, dove «l'uomo antico è deposto e ci si riveste dell'uomo nuovo», come le parole sue, usando l'immagine della pelle di cui il serpe si spoglia nella stagione della speranza, intendono dire a questi pellegrini.
Poiché la Commedia è allegoria e poiché possiamo vedere che gli avvenimenti del viaggio nell'aldilà riflettono il nostro viaggio terreno, siamo invitati a considerare questo avvenimento come se avesse luogo in questa vita. È precisamente per questo rispetto che la parte di pellegrini a cui gli attori nella scena dinanzi a noi sono stati assegnati si fa ricca di significato.
Questa in sé stessa è una maniera di aprirsi all'allegoria, poiché è nell'immagine di quei pellegrini oltremondani che siamo invitati a ritrovar noi stessi e la· nostra vera condizione di cristiani. Noi, come quelle anime, siamo impegnati in un viaggio. E sappiamo alla luce di quanti passi della Scrittura quel viaggio sia da vedersi come pellegrinaggio; e la principale fonte di tale concezione è, fuor di dubbio, quel capitolo degli Ebrei che s'inizia con la definizione della fede che Dante riconosce per vera: «fede è sostanza di cose sperate, ed argomento delle non parventi», e continua passando in rassegna i patriarchi da Abele ad Abramo, a cui la fede era stata data, venendo, poi, a parlare così di tutti loro:
Juxta fidem defuncti sunt omnes isti, non acceptis repromissionibus, sed a longe eas aspicientes, et salutantes, et confitentes, quia peregrini et hospites sunt super terram. Qui enim haec dicunt, significant se patriam inquirere. Et si quidem ipsius meminissent de qua exierunt, habebant utique tempus revertendi. Nunc autem meliorem appetunt, id est, caelestem. Ideo non confunditur Deus vocari Deus eorum: paravit enim illis civitatem.
Al lettore che ha intuito l'intera struttura concettuale del Purgatorio, è del tutto evidente l'importanza di questo brano. All'estrema vetta del viaggio ora iniziato da queste anime che sono appena qui sbarcate c'è una città per esse preparata, una città celeste, che tutte desiderano. E più innanzi nel viaggio per l'uomo vivo stanno due mete: una «città di giustizia restaurata» al sommo del monte, e la città celeste dell'Empireo. Nota-chiave costante ora in questo nuovo regno è la speranza nella promessa, e il moto nella fede.
Il canto dell'Esodo, inoltre, non avrebbe potuto con maggior chiarezza indicare tale importanza. Queste anime hanno ora lasciato dietro di sé l'Egitto (che è il mondo, dice S. Agostino). E le parole che Virgilio rivolge loro collocano lui e Dante all'interno della metafora: «Noi siam peregrin come voi siete». Si può osservare, inoltre, che nel viaggio attraverso l'Inferno mai il poema aveva suggerito che Dante e Virgilio fossero dei «pellegrini». Questo in sé stesso è tanto più notevole in un poema la cui essenziale struttura di viaggio si fonda su tale motivo. È solo qui, dove Virgilio deve dirsi non esperto, che i viandanti diventano pellegrini. Questo è un luogo «cristiano», ciò che l'Inferno non è. Qui in Purgatorio, come in nessun altro luogo, può venir riflessa la condizione essenziale del pellegrino cristiano; perché qui anche le anime sono viandanti. E una terzina del secondo canto del Purgatorio, nel dire come Dante e Virgilio stanno ora sulla spiaggia di questo nuovo regno, volutamente fa cenno a quell'assai intima condizione mentale del cristiano che lo rende pellegrino:
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Purg. II, 10-12
Noi, i viventi, siamo obbligati a dimorare ancora un poco in questa vita. Ciò nonostante, i nostri cuori si muoveranno sempre in un viaggio verso una terra promessa. L'inquieto cuore del cristiano deve sempre essere il nostro. «Quoniam fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrurn, donec requiescat in te.»
Le quali considerazioni tutte si mostrano assai pertinenti mentre innanzi a noi queste anime e quest'uomo vivo sono così interamente presi dal canto di Casella. Perché, dobbiamo pensare, se non ci fosse che il solo senso letterale qui, molta parte del senso si perderebbe. Preso letteralmente, come semplice episodio minore del Purgatorio, non vi sarebbe nulla di sorprendente nel fatto che Catone viene a disperdere queste anime «lente» e a rimandarle sulla loro giusta strada. Esse sono qui naturalmente per purgarsi, per esser pronte ad elevarsi alla beatitudine finale, così come Dante è qui venuto per affrettarsi verso la medesima meta. Ma se quanto accade là è visto riflettere quanto potrebbe accadere nel viaggio della nostra vita, allora evidentemente un nuovo aspetto di significato vi si inserisce. E noi possiamo porre la domanda che allora viene alla mente: presi come un accadimento di questa nostra vita, quali sono i sensi dell'episodio minore? Qui, diciamo pure, è un «pubblico» di ascoltatori (e poiché ciò che Casella canta è una poesia, potremmo dire di lettori), di cui nessun artista o poeta potrebbe augurarsi uno migliore. Non fanno essi ciò che speriamo di poter fare tutti noi che godiamo di un'opera d'arte? Non fanno essi proprio quello che dovrebbero fare, quando divengono così completamente attenti a quell'opera, «come a nessun toccasse altro la mente»?
Non dovrebbero trovare, come Dante dice a Casella, che ogni desio è nell'opera d'arte acquetato? In breve, non può venir loro concesso di avere quell'esperienza di un'opera d'arte di cui la critica e l'estetica moderna parlano come di un «focus of repose», o di una esperienza «terminale» o «intransitiva»? Per qual diritto allora il vecchio Catone insorge (in questa vita) gridando che questo è errore? E come è che la coscienza di tutti riconoscerà quindi che Catone è nel giusto?
La risposta è assai facile, naturalmente, quando ci si ricorda (e il rimprovero di Catone ce lo ricorda) che in questa vita è la nostra giusta condizione, come cristiani, di essere pellegrini. E la nostra mente si volge a quella distinzione che S. Agostino aveva fatta tra l'usare le cose e il goderle:
Frui enirn est amore alicui rei inhaerere propter seipsam. Uti autem, quod in usum venerit ad id quod amas obtinendum referre, si tamen amandum est. Nam usus illicitus, abusus potius vel abusio nominandus est. Quomodo ergo, si essemus peregrini, qui beate vivere nisi in patria non possernus, eaque peregrinatione utique miseri et miseriam finire cupientes, in patriam redire vellemus, opus esset vel terrestribus vel marinis vehiculis quibus utendum esset ut ad patriam, qua fruendum erat, pervenire valeremus; quod si amoenitates itineris, et ipsa gestatio vehiculorum nos delectaret, et conversi ad fruendum his quibus uti debuimus, nollemus cito viarn finire, et perversa suavitate implicati alienaremur a patria, cujus suavitas faceret beatos: sic in hujus mortalitatis vita peregrinantes a Domino (II Cor. V, 6), si redire in patriam volurnus, ubi beati esse possirnus, utendum est hoc mundo, non fruendum: ut invisibilia Dei, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciantur (Rom. I, 20), hoc est, ut de corporalibus temporalibusque rebus aetema et spiritualia capiamus.
Forse in nessun altro luogo con maggior chiarezza che in questo piccolo episodio del Purgatorio possiamo contemplare la condizione dell'opera d'arte entro la cornice medievale cristiana. Inoltre, è evidente che i significati generali si estendono al di là dell'opera d'arte in sé, per abbracciare tutte le cose di questa vita, come S. Agostino afferma. In effetti, attraverso le più ampie significazioni dell'episodio, ci rendiamo conto non solo del fondamento essenziale dell'allegoria medievale e del simbolismo medievale nell'arte, ma anche del loro comune fondamento egualmente nel mondo reale: il mondo che l'arte riflette.
Con l'uso attribuito in tal modo alle cose di questo mondo, fu abbastanza abituale considerare il creato universo come un libro scritto da Dio perché l'uomo vi leggesse. Ugo da San Vittore, che già abbiamo ascoltato a proposito dell'allegoria, può esser citato perché presenti la metafora nella caratteristica maniera:
Universus enim mundus iste sensibilis quasi quidam liber est scriptus digito Dei, hoc est virtute divina creatus, et singulae creaturae quasi figurae quaedam sunt non humano placito inventae, sed divino arbitrio institutae ad manifestandam invisibilium Dei sapientiam. Quemadmodum autem si illiteratus quis apertum librum videat, figuras aspicit, litteras non cognoscit: ita stultus et animalis homo, qui non percipit ea quae Dei sunt (I Cor. II), in visibilibus istis creaturis foris videt speciem, sed intus non intelligit rationem. Qui autem spiritualis est et omnia dijudicare potest, in eo quidem quod foris considerat pulchritudinem operis, intus concipit quam miranda sit sapientia Creatoris.
Il libro dell'universo e m tal modo duplice. Ugo ha presente quel medesimo testo che S. Agostino cita, e che è fondamentale per tutte le concezioni del simbolismo nel Medioevo: «Invisibilia Dei per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur. Sempiterna quoque virtus eius ac divinitas relucet.»
Ancora, per dare anche un altro esempio, possiamo trovare nel Breviloquium di S. Bonaventura questo medesimo concetto di un duplice libro:
...primum principium fecit mundum istum sensibilem ad declarandum se ipsurn, videlicet ad boe, quod per illum tanquarn per speculum et vestigium reduceretur homo in Deum artificem amandum et laudandum. Et secundum hoc duplex est liber, unus scilicet scriptus intus, qui est aeterna Dei ars et sapientia; et alius scriptus foris, mundus scilicet sensibilis.
Perché il mondo poteva così essere considerato come un libro scritto digito Dei e per sua natura duplex; e inoltre, perché la Sacra Scrittura (senza metafora) è anche giustamente e senza metafora chiamata il libro di Dio; diventa possibile e persino cosa comune il parlare, nella concezione medievale, di due libri scritti da Dio, che mostravano ciascuno un senso letterale e un «altro» senso. Nella Sacra Scrittura, come abbiamo visto, è l'evento, ad esempio l'Esodo, che è concepito come allusivo di altro evento al di là di sé stesso, cioè della nostra salvezza per mezzo di Cristo; mentre nella «Scrittura» di un universo creato, le cose fatte da Dio alludono al di là di loro stesse alle invisibili cose del loro Fattore, alla Sua arte e sapienza e potenza. È importante notare che entrambi i «libri» sono scritti da Dio per la nostra salvezza. Ciò è abbastanza ovvio nel caso della Sacra Scrittura. Ma è anche vero dell'«altro» libro, benché noi siamo molto meno assuefatti ad una simile concezione; e ancor meno, dato che fu una delle prime preoccupazioni della scienza moderna, quale nacque nei tempi del Rinascimento, di eliminare dalla natura questa sorta di simbolismo. La scienza moderna dové ristabilire e giustificare una curiosità delle cose per loro stesse, un valore compiuto, «terminale», nelle cose, e ciò l'aveva pienamente raggiunto un Galileo, tanto per fare un esempio, il cui occhio poteva seguire il movimento pendolare di un candeliere in chiesa come se null'altro gli toccasse la mente, e formulare un'analisi matematica del fenomeno. Per avere un'idea della distanza che separa il suo atteggiamento da quello per cui il mondo della natura diveniva un libro, potremmo ricordare ancora un'altra pagina delle Confessioni ove S. Agostino condanna l'oziosa curiosità, trovandola così ricorrente in sé stesso:
Verum tamen in quam rnultis minutissirnis et contemptibilibus rebus curiositas cotidie nostra temptetur et quam saepe Iabamur, quis enumerat? quotiens narrantes inania primo quasi toleramus, ne offendamus infirmos, deinde paulatim libenter advertimus? canem currentem post leporem iam non specto, cum in circo sit; at vero in agro, si casu transeam, avertit me fortassis et ab aliqua magna cogitatione atque ad se convertit illa venatio, non deviare cogens corpore iumenti, sed cordis inclinatione, et nisi iam mihi, demonstrata infirmitate mea, cito admnoneas, aut ex ipsa visione per aliquam considerationem in te adsurgere, aut totum contemnere atque transire, vanus hebesco quid cum me domi sedentem stelio muscas captans vel aranea retibus suis inruentes inplicans saepe intentum me facit? num quia parva sunt animalia, ideo non res eadem geritur? pergo inde ad laudandum te, creatorem mirificum atque ordinatorem rerum omnium, sed non inde intentus esse incipio.
Ogni volta che le cose della natura siano vedute come cose soltanto, quando l'occhio riposa su esse come un termine, allora la coscienza religiosa dei secoli che da S. Agostino giungono a Dante insorgerà a condannare il grave errore. Perché le cose non sono semplicemente cose. Le cose nell'universo creato sono insieme cose e segni. Nel regno dell'apparenza l'occhio dell'uomo dovrebbe sempre discernere le invisibili cose di Dio. Ma ammettiamo che le cose cessino di significare al di là di loro stesse e che non esprimano un «altro» senso. Dov'è allora l'errore? Nello spettatore, direbbe S. Agostino, innanzi tutto. Perché è quando il nostro cuore si acqueta, trovando pace con questo mondo, che ciò può avvenire; e quando dimentichiamo di essere pellegrini. Tocchiamo qui la comune radice sia dell'allegoria che del simbolismo nella concezione medievale cristiana.
A sorreggerli entrambi è quell'inquieto cuore del pellegrino cristiano. Così i due libri di Dio, entrambi scritti per la nostra salvezza, alludono a noi lungo il cammino del nostro viaggio: l'uno, la Sacra Scrittura, in cui gli avvenimenti (come l'Esodo) esprimono proprio il senso del nostro viaggio; l'altro, l'universo creato, in cui le cose predicano le invisibili cose del Divino Architetto, dirigendo a Lui l'inclinazione della nostra mente e del nostro cuore.
Ma nel trovare così che la comune fonte sia dell'allegoria che del simbolismo è l'inquieto cuore del pellegrino cristiano, dobbiamo guardarci dal ridurre l'una e l'altro a semplici fenomeni soggettivi. Certo assai presto ci rendiamo conto che tale concezione, come quella di S. Agostino, rappresenta come un proiettare nel campo della visione la preoccupazione che l'uomo ha per la salvezza: sia essa storia scritturale o natura. Dopo il Rinascimento, e, diremo, da Kant in qua, noi siamo particolarmente disposti a far ciò. Fu per questo piuttosto arduo per la nostra intelligenza moderna il dire che, nel caso dell'Esodo, Dio avesse usato un episodio di storia vera come un autore potrebbe usare una parola, facendo sì che essa significasse la nostra salvezza per mezzo di Cristo. Tuttavia tale è la concezione dell'allegoria scritturale e, dobbiamo ricordarci, quando egli ripete la comune definizione, tale è l'affermazione di Dante: «nam primus sensus est qui habetur per Iitteram, alius est qui habetur per significata per litteram», e cioè per mezzo delle cose che la lettera significa.
Allo stesso modo, nella dimensione del simbolismo, è altrettanto difficile per noi ammettere che il senso trovato nelle cose sia ad esse obiettivamente inerente. Ancora una volta, apparteniamo troppo al Rinascimento, e troppo ne dipendiamo ancora per concepire ciò senza sforzo. Eppure per S. Agostino e per Dante possiamo essere certi che il segno è pensato come esistente nella cosa ed espresso dalla cosa. Dio lo aveva messo li. Non è la mente o il cuore dell'uomo a proiettarlo colà. Egli ve lo scopre. E ciò, fra tutte le nostre generali considerazioni sulla struttura della Commedia di Dante, è estremamente importante. O si riesce con uno sforzo della immaginazione a far nuovamente nostro questo punto di vista, o dobbiamo disperare di poter essere lettori adeguati della Divina Commedia, e continueremo invece a rimodellare Dante e il suo mondo secondo la immagine e la concezione che sono nostre oggi.
La canzone di Casella, nella quale quei pellegrini diventano così assorti in Purgatorio, è proprio questo: una canzone e non un oggetto di natura. Eppure possiamo sostituire alla canzone un oggetto, quale una lepre inseguita da un veltro attraverso un campo, o un ragno che tessa la sua tela. Allora, mutatis mutandis, se ci assorbiamo in tale cosa come quei pellegrini nella canzone di Casella, Catone può sempre venire precipitoso da noi con quel medesimo rimprovero, e la coscienza può sempre in noi stessi proclamare che Catone è nel giusto. Le cose vanno usate, non considerate come fini a se stesse. Nessun oggetto nel campo di visione del pellegrino può propriamente avere in sé stesso un valore concluso. Questo è quanto afferma la coscienza medievale cristiana, e tale dichiarazione è la base stessa del simbolismo medievale. L'oggetto non può essere concluso, «terminale», perché Dio intendeva che solo Lui dovesse essere tale, laddove l'uomo è viator, viandante. L'ontologia poggia sulle Sue intenzioni, ed il mondo reale che Egli creò ex nihilo trova colà il suo fondamento e il suo sostegno.
Da queste considerazioni possiamo tornare a quel che Dante afferma nella Epistola circa il suo duplice soggetto. Il centro focale, come egli là definisce questa materia, è sulle cose vedute; «lo stato delle anime dopo morte». Dobbiamo però subito riconoscere che le cose vedute nella narrazione di questo poema non fanno parte del mondo di natura che noi viventi contempliamo, ma sono situate nell'oltretomba. Un poeta non avrebbe a preferenza potuto considerare le cose vedute colà, su quello straordinario terreno oltremondano, come sufficienti nel loro semplice aspetto visuale o figurativo? Eppure Dante non volle contemplarle a tal maniera, né volle, da poeta, presentarle in tal modo. Quello che per noi è importante vedere è questo: che è semplicemente parte del realismo della visione di Dante che le cose vedute sulla scena dell'oltretomba siano come le cose che vediamo sulla scena di questo mondo. Così, nel mondo al di là, anche come in questo mondo (quando l'occhio dell'uomo non sia offuscato), le cose vedute additeranno, al di là di sé stesse, alle cose invisibili di Dio. Anche nello spazio escatologico, le cose sono e cose e segni. Cioè, per riportarci alla terminologia usata da Dante nell'Epistola, uno stato di anime dopo morte esprimerà un «altro» senso; poiché quello stato è o di premio o di pena, e premi e pene vengono da Dio e manifestano la Sua giustizia. Questa è quella dimensione della Commedia che faremo bene a distinguere dall'allegoria, poiché i modelli, come possiamo vedere, sono in effetto distinti nella loro realtà e per la natura loro: il simbolismo dantesco è l'imitazione della struttura del mondo reale, e l'allegoria dantesca è l'imitazione della struttura dell'altro libro di Dio, la Sacra Scrittura. Se soltanto guarderemo al mondo come egli lo concepiva, vedremo che l'arte di questo poeta religioso è essenzialmente realismo.