Dati bibliografici
Autore: Pompeo Giannantonio
Tratto da: Letture classensi
Editore: Longo, Ravenna
Numero: 11
Anno: 1982
Pagine: 63-80
La struttura del Paradiso si rivela di ardua definizione tante per la difficile lettura del testo quanto per le implicazioni filosofiche, teologiche e allegoriche. I cosiddetti due Paradisi, quello delle sfere e quello della candida rosa, sono stati visti dalla critica di volta in volta, a conferma di una particolare tesi esegetica, contrastanti, antagonistici o unitari con evidente confusione interpretativa o forzatura dottrinale.
Ma alla base dell'architettura della terza cantica occorre subito porre, a scansò di equivoci, la cultura filosofica e teologica del poeta, che in Platone, Bonaventura e Tommaso rinveniva la certezza di ogni sapere razionale e mistico. Del filosofo greco Dante fa un esplicito accenno specialmente nel canto IV del Paradiso e la sua teoria della provenienza delle anime dalle stelle e del loro ritorno ad esse viene ivi discussa con Beatrice. Nella citazione che in questa occasione il poeta fa del dialogo platonico il Timeo (Par. IV, 49) già indicato precedentemente nel Convivio (III, v, 6), dimostra scarsa dimestichezza con l'opera, per cui a lungo si è discusso se egli ebbe diretta conoscenza del dialogo. D'altra parte le esitazioni di Beatrice (vv. 55-61) e le successive consonanze tra i passi danteschi (Par. VII, 64-66 e XIX, 86-90) e la traduzione del Timeo fatta da Calcidio ci inducono a credere che il poeta attingesse liberamente dal diffuso platonismo medievale, utilizzato nelle proprie costruzioni cosmografiche unitamente alle altre dottrine allora imperanti. La questione, quindi, della presenza dei beati nelle varie sfere celesti e quindi nell'Empireo, espressa nella controversa terzina
Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestial c'ha men salita
(Par., IV, 37-39).
s'intreccia con altri problemi dottrinali in un groviglio di proposte poetiche e di conoscenze teologiche veramente singolari.
Il platonismo filtrato attraverso la mediazione agostiniana e della scuola francescana parigina si riconosce nell'Itinerarium mentis in Deum di s. Bonaventura, quello confrontatosi con il metodo scientifico si riassume nella visione artistotelica del mondo di Alberto Magno e l'altro oxfordiano si attesta nella ricerca matematica di Ruggero Bacone. In questi tre filoni di rielaborazione del pensiero platonico affondano le radici alcuni concetti basilari dell'architettura paradisiaca, che scaturisce da un processo di accumulo di esperienze filosofiche e di inclinazioni dottrinali diverse. Così la diffusa armonia della luminosità celestiale della terza cantica si fonda sulla «metafisica della luce», che unitamente alla nozione di creazione e causalità era stata rielaborata dalla scuola oxfordiana secondo le indicazioni di Avicenna. Roberto Grossatesta nel trattato De Luce seu de inchoatione formarum aveva dimostrato l'avicennistica «metafisica della luce» con formule matematiche, ottiche e geometriche. In pari modo la molteplicità dell'universo, originata da una sola causalità supremamente trascendente, da cui a sua volta si genera soltanto quanto è ad essa simile, viene svolta da Avicenna in un complicato schema, secondo cui l'effetto unico generato dalla causa suprema, ossia la prima intelligenza, genera a sua volta la seconda intelligenza, l'anima del primo cielo e il primo cielo stesso, di conseguenza la seconda intelligenza genera la terza, l'anima del secondo cielo e il· secondo cielo, così di seguito e gradualmente fino all'ultima intelligenza, detta «dator formarum», da cui discendono processi di generazione e corruzione.
Questo emanazionismo, che è sempre una forma di panteismo e contrasta con la dottrina della creazione del mondo dal nulla per atto divino, pur contrapponendosi ovviamente al pensiero cristiano, ispira la visione del II canto del Paradiso
Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l'esser di tutto suo contento giace
(vv. 112-114)
In Dante la prima espressione della divina causalità s'identifica col Verbo, nella sua distinzione e unione alla fonte luminosa, da cui emana l'intera potenza
Lume è là su che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace
(Par. XXX, 100-102)
La luce incorporea del Verbo
luce intellettual, piena d'amore
(Ivi, 40)
che i teologi chiamano «lumen gloriae» s'irradia circolarmente in coincidenza con l'Empireo, ossia con l'estremo limite del Primo Mobile e quindi con la sorgente da cui quest'ultimo prende potere e movimento
È si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quivi vivere e potenza.
(Ivi, 103-108)
In concomitanza con l'ascesa di cielo in cielo la vista del poeta diviene gradualmente più acuta e perfetta pur nella sua intatta natura terrestre e nei limiti delle umane possibilità. Questa progressione di «celestial visione» viene esplicitamente marcata nel passaggio di Dante dai primi tre cieli al quarto (X, 1-18), quando giunge alle stelle fisse (XX, 106-148), all'arrivo nel Primo Mobile (XXVII, 76-148; XXVIII, 1-12) e quindi nell'Empireo. Le gradazioni visive, dunque, includendovi anche l'arrivo nella Sfera della Luna ammontano a sei, che con la finale visione intellettuale di Dio, raggiungono il numero perfetto di sette.
Proprio s. Bonaventura, il cui predecessore Riccardo di san Vittore Dante cita nell'Epistola a Cangrande (XIII, 80) per l'opera De contemplatione a proposito dell'ascesa al cielo, ci parla dell'illuminazione divina nell'Itinerarium mentis in Deum composto alla Verna nel 1259 «dum mente tractarem aliquas mentales ascensiones in Deum» (Prol., 2). Riferendosi, infatti, all'apparizione che s. Francesco ebbe del Crocifisso in forma di Serafino con sei ali quando ricevette le stigmate, Bonaventura sostiene che la ali del Serafino raffigurano i sei gradi di illuminazione che progressivamente ci fanno ascendere verso Dio dal mondo
a l'eterno dal tempo
(Par., XXXI, 38)
poiché «ipsa rerum universitas sit scala ad ascendendum in Deum» (I, 2). I primi gradi dell'elevazione dell'anima a Dio si attuano cercando le «vestigia» di Dio nel mondo sensibile come appare nel primo grado («per vestigia») e come si riflettono nell'anima del secondo («in vstigia»); ritornando dal sensibile e dal senso alla «mens» ossia allo spirito umano in quanto immagine di dio («imago») partendo dalle potenze umane naturali (memoria, intelletto e volontà) nel terzo grado e dalle potenze dell'anima riformate dalla grazia nel quarto grado; elevandosi alla realtà eterna e trascendente, alle «nature deiformi» che sono oltre («supra») il nostro spirito, «per lumen quod est signatum supra mentem nostram» contemplando Dio come essenza («esse ») nel quinto grado e come bontà («bonum») nel sesto grado. Senso e immaginazione quindi nel primo e secondo gradino; ragione e intelletto nel terzo e quarto, intelligenza ed «apice della mente» nel quinto e sesto. Oltre il sesto gradino esiste solo la pace dell'estasi come la provò s. Francesco sulla Verna: «Si autem quaeras, quomodo haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non intellectum; gerrutum orationrs, non studiurn lectionis; sponsum, non magistrum; Deum, non hominem; caliginem, non claritatem; non lucem, sed ignem totaliter inflammantem» (VIII, 6).
Non è difficile scorgere nei sei gradi bonaventuriani dell'illuminazione divina le sei sfere del Paradiso dantesco, che si conclude appunto, anche sulla traccia del santo pensatore, nell'Empireo ove l'occhio rimane abbagliato alla prima apparizione dell'eterna luce, come lo stesso Bonaventura, su indicazione dello Pseudo Dionigi, ci fa notare: «Assuefactus ad tenebras continuas et phantasmata sensibilium, cum ipsam lucem summi Esse intratur, videtur sibi nihil videre; non intelli. gens quod ipsa caliga summa est mentis nostrae illuminatio» (V, 1). Non diversamente Dante si esprime sollevandosi all'Empireo
Così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m'appariva
(Par., XXX, 49-51)
Di solito i commenti richiamano per questi versi s. Paolo (Atti degli Apostoli, XXII, 6-11) «subito de coelo circumfulsit me lux copiosa [...] cum non viderem prae claritate luminis illius»). Dopo l'impatto abbagliante con la luce il poeta rinforza l'acume degli occhi
di novella vista mi raccesi
(Par., XXX, 58)
vede «supra se, per divinae lucis similitudinem super nos relucentem» (Itin., VII, 1) e si tuffa quindi nella «fiumana» di luce per penetrare dagli «umbriferi prefazii» (v. 7-8) del vero nell'essenza del vero, ossia nella «candida Rosa». Nel penultimo stadio dell'ascesa bonaventuriana, quando si contempla Dio come essenza, l'umana conoscenza si va attenuando mentre le cose divine si presentano sotto le spoglie di soavi immagini terrene, ossia fiori, giardini, gemme, primaverili delizie che popolano le accese fantasie di tanti mistici quando accennano alla celeste Gerusalemme. Anche Dante, figlio del Medio Evo mistico, viene per un istante conquiso dal sovrumane spettacolo di una terrestre primavera divenuta celeste; ma poi con uno scatto di poesia e di esaltazione spirituale si affigge nella figura umana e divina del Creatore, perché, come dice Bonaventura, nel sesto grado dell’illuminazione il contemplante che ritiene Dio come il Bene, nella triplice raffigurazione delle umane persone (Padre, Figlio e Spirito Santo) «vede l'uomo fatto ad immagine di Dio», ossia l'immagine visibile dell'invisibile, come il Verbo incarnato, il Cristo, di cui l'immenso esercito dei beati, che si irradiano a cerchio «in circular figura». (XXX, 103), assumono similmente le umane sembianze nel vasto anfiteatro con «più di mille soglie» (v. 113) della candida Rosa.
Sul controverso problema del Paradiso anche s. Tommaso è intervenuto con acume influenzando non solo il pensiero di Dante. L'Aquinate distingue tre cieli: quello della luce, chiamato Empireo, quello diafano chiamato acqueo o cristallino, quello in parte lucido e in parte diafano chiamato. sidereo, che comprende otto sfere ossia la sfera delle stelle fisse e le sette sfere dei pianeti (Summae theol., I, 68, 4, 0). Per s. Tommaso il termine «cielo» ha un triplice significato: reale, attivo e metaforico («essentialiter, partecipative et metaforice», Ivi, I, 68, 4, C) per cui il primo, il secondo e il terzo cielo significano le tre specie di visioni del mondo superiore secondo l'ordine delle potenze conoscitive («visio corporalis, immaginaria et intellectualis», Ivi, I, 68, 4, C): il primo cielo dunque appartiene alla visione corporale, cioè, sotto l'imperio dei sensi; il secondo cielo alla visione immaginaria; il terzo cielo alla visione intellettuale. D'altra parte secondo la teologia e l'ascetica correnti la fede si corrobora «per visiones supermundanas corporales, per visione supermundanas imaginarias et per visiones supermundanas intellectuales». La prima visione, la corporale, ci richiama quella del re Baldassarre (Daniele, 5) che in un convito vide una mano che scriveva su una parete la nota profezia della sua fine. La visione delle prime otto sfere, che s. Tommaso comprende nel primo cielo, ricorda nel Paradiso dantesco questa specie di visione come ha cura di ricordarci la stessa Beatrice a proposito dell'apparizione dei beati nelle varie sfere
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d'intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabriel e Miche! vi rappresenta,
e l'altro che Tobia rifece sano.
(Par., IV, 40-48)
La seconda specie di visione, l'immaginaria, si riferisce alle visioni di Isaia e di s. Giovanni. Il primo racconta (Isaia, 6) d'aver visto Dio sul trono, d'avergli parlato e d'aver udito la sua voce; d'aver visto i Serafini, ognuno dei quali aveva sei ali, e d'averli sentiti cantare: «Santo, santo è il signore degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria»; d'essere stato avvicinato da uno dei Serafini che pose nella sua bocca un carbone acceso. Giovanni narra (Apocalisse, l) di aver udito un giorno, essendo egli in ispirito, una voce dietro di lui che gridava forte: «Io sono l'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo». Voltandosi, quindi, vide un misterioso personaggio fra sette candelabri d'oro. Anche Dante nel Primo Mobile o cielo cristallino vede la raffigurazione della divina essenza e i nove cerchi delle tre celesti gerarchie con quella specie di visione detta dai teologi immaginaria o metaforicamente secondo cielo, che, come insegna Agostino, «quaedam similitudines corporum videntur» (Super Gen., XII, 24, 51 e P. L. 34, 474, 26, 54). La terza specie di visione, quella intellettuale, ci riporta a quella di s. Paolo che fu rapito al terzo cielo, vide il Paradiso e udì «arcana verba, quae non licet homini loqui» (II, Ad Cor., 12, 4). Anche Dante nell'Empireo ricorda che
io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito.
(Par., XXXIII, 79-81);
mentre la visione
fu maggio
che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede.
(lvi, 55-56)
Quindi Dante nell'Empireo sperimenta quella specie di visione detta dai teologi intellettuale o metaforicamente terzo cielo.
Secondo la dottrina tomistica i cieli, intesi metaforicamente, indicano i tre gradi della conoscenza: il primo la conoscenza dei corpi celesti, il secondo la conoscenza dei celesti spiriti, il terzo la conoscenza di Dio medesimo («Primum coelum dicatur cognitio caelestium corporum; secundum, cognitio caelestium spirituum; tertium, cognitio ipsius Dei», Summa tbeol, II, n, 175, 3, 4). Dante, appunto, ripercorrendo i tre ordini di cieli nella suddivisione tomistica, ossia il primo comprendente le otto sfere, il secondo il Primo Mobile e il terzo l'Empireo, esperimenta i tre gradi della conoscenza vale a dire quella dei corpi celesti, dei celesti spiriti e di Dio.
Su queste varie proposte platoniche, bonaventuriane e agostiniano-tomistiche Dante costruì la complessa architettura del suo Paradiso con quelle modifiche e calibrature che la poesia di volta in volta gli suggeriva e la fantasia gli accordava. Non è, perciò, possibile rinvenire un unico influsso dottrinale sulla struttura del terzo regno, che più degli altri due mette a dura prova ingegno, cultura e fede del poeta che ivi vide certamente
cose che ridire
né sa né può che di la sù discende
(Par., I, 5-6).
Non diversamente l'ordinamento morale del Paradiso presenta nodi e dubbi, che possono risolversi solo se non ci si attesta su un unico e limitato indirizzo dottrinale, proprio perché ardua è la materia e l'immensità di Dio tanto s'innalza «da' concetti mortali» (Par., XXXIII, 68). La vastità e l'altezza dell'argomento indussero certamente il poeta, diversamente da quanto aveva fatto nei due precedenti regni, a non privilegiare un'unica dottrina, che proprio nel libero suo utilizzo racchiude la bellezza poetica e l'ansia mistica. Infatti il misticismo si alimenta di carità divina e di mistero, quindi l'indeterminato accresce l'arcano ed esalta la fede proprio come insegnava Agostino: «Ipsa Dei substantia a quibusdam videri potuit in hac vita positis: sicut a Moyse et Paulo, qui raptus audivit ineffabilia verba, quae non licet homini loqui» (De videndo Deum ad Paulinam, in Epist., 147, 12, 13, 31: P. L., 33, 610).
L'ordine morale del Paradiso, contrariamente ai precedenti due regni esposti rispettivamente nell'undicesimo dell'Inferno e nel diciassettesimo del Purgatorio, non trova nella terza cantica una esauriente e sistematica chiarificazione; mentre la duplice apparizione dei beati nei cieli delle sfere e nel cielo dell'Empireo a forma di candida rosa accrescono le difficoltà di una razionale spiegazione. Questa obiettiva situazione ha consentito diverse e contrastanti interpretazioni agli esegeti, che hanno fatto ricorso a varie fonti dottrinali per dare forza e credibilità alle proprie analisi.
Domenico Ronzoni (1868-1933) negava nell'ordinamento del Paradiso il criterio astrologico e teologico per affermare sulla base del verso.
Gli altri regni avevano un'univoca e incontestabile divisione, rispettosa della gradualità etica del male e della purificazione, quasi in contrapposizione alla sconfinata varietà del bene che ha la sua sede naturale nel terzo regno. D'altra parte la dosatura dei dannati e dei purganti nelle precedenti cantiche vincola il poeta per ovvia analogia simmetrica a trovare una possibile distribuzione dei beati nell'ultima cantica. Occorreva, inoltre, prospettare una gerarchia di valori in consonanza con la minore o maggiore felicità dei singoli cieli proponendo anche plasticamente una scala di meriti rapportabili al grado della beatitudini. L'ascesa di Dante di cielo in cielo, dalla Luna a Saturno, è l'occasione per una contestazione visibile e convincente della graduazione delle beatitudini, coniugata dalla diversa lontananza da Dio e dagli influssi esercitati dalle sfere celesti. L'ordinamento delle Sfere è meramente fittizio, perché la sede dei beati è nell'Empireo, in quella candida rosa ove le precedenti divisioni sferiche non sempre sono convergenti in forza del principio dell'immensità cosmica del Paradiso. La lezione platonica, bonaventuriana e agostiniana-tomistica unitamente alla dottrina astrologica si integrano per rappresentare in immagini sensibili e tradurre in concetti metafisici il complesso e straordinario regno dell'eterno gaudio.
L'ordine metafisico e la dottrina teologica, le esigenze astrologiche e le leggi della simmetria, le preoccupazioni etiche e le valutazioni intellettuali, l'impeto fantastico e la cosmicità della materia s'intrecciano in un lungo affascinante discorso lirico, che vuole esprimere l'ansia dell'ascesa verso Dio e la gioia delle visioni soprannaturali:
Ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso
de l'universo; per che mia ebrezza
intrava per l'udire e per Io viso
(Par. XXVII, 4-6).
In questa unica e irripetibile condizione di sublimazione paradisiaca non si possono invocare i parametri riduttivi di una razionalità terrestre, né annullare l'immensità dello spazio e del tempo con rigidi schematizzazioni dottrinali. L'Empireo, poi, è fuori del tempo e dello spazio per cui le comuni dimensioni cronologiche e metriche si vanificano in concetti metafisici e in immagini mistiche. Nell'Empireo risiede Dio, vale a dire l'Essere che travalica ogni norma umana e trascende ogni considerazione contingente per affermare la sua presenza nell'infinito, nell'eterno e nell'onnipotenza, vale a dire in un'area di eccelsa astrazione che in nessun caso i mezzi contingenti e i metodi razionali possono far ricadere nelle loro cognizioni. Siamo, come si vede, in una concezione sovratemporale e sovraspaziale, in una visione ineffabile e trascendente, in un clima sovrumano e rarefatto.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
(Par., XXXIII, 124-126)
L'Empireo, dunque, è «quella zona del mondo con cui il pensiero cerca di esprimere, movendo dallo spazio, il rapporto tra Dio, l'assolutamente trascendente, e il mondo»1; di conseguenza l'integrale trascendenza è fuori dello spazio, la perenne eternità è fuori del tempo, la completa divinità è fuori dell'umanità: si attua, in una parola, l'antitesi perfetta tra il mondo e le sue dimensioni caduche con il Paradiso e le sue essenze immortali. L'uomo, perciò, è inabile a penetrare nel cuore del mistero che governa gli spiriti trionfanti e l'ansia di conoscere si arresta sulla soglia dell'arcano in stupefatta contemplazione e in sospesa ammirazione:
Vedi l'eccelso ornai e la larghezza
de l'etterno valer, poscia che tanti
speculi fatti s'ha in che si spezza
uno manendo in sè come davanti.
(Par., XXIX, 142-145)
Nell'ascesa di cielo in cielo fra schiere di beati e fiumane di luce si dispiegano al poeta la visione sensibile delle celesti parvenze e la visione intellettuale di un universo teologico in un’alternanza di immagini e di dottrina con la sicura prevalenza delle figurazioni sull'argomentare, perché la poesia alla fine sovrasta e signoreggia. D’altra parte la credibilità e la comprensione di concetti o di mistiche sublimazioni si possono coniugare per l'uomo solo sotto forme visibili o spoglie antropomorfiche, ecco perché il Paradiso si esprime in immagini e in astronomiche cadenze:
Qual è 'l geometra che tutti s'afflige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova;
veder voleva come si convene
l'imago al cerchio e come vi s'indova.
(Par. XXXIII, 133-138)
Negli aspetti concreti e nelle raffigurazioni visibile del terzo regno si proietta la norma teologica sciogliendosi in accensione lirica e risolvendosi in linguaggio suadente. Non riusciamo perciò a vedere iato tra dottrina teologica e resa poetica, perché l'una sostiene l'altra in un'osmosi si incentivazione e di proposte, come lo stesso poeta ci fascia intendere:
Nel suo profondo vidi che s'interna
legato con amore in un volume
ciò che per l'universo si squaderna
(Par., XXXIII, 85-87).
Non c'è dubbio a nostro parere che «la sorgente da cui scaturiscono temi e motivi e si determina il ritmo stesso dell'ultima cantica consista in una intuizione essenzialmente teologica»2 e che non sia praticabile perciò una scissione tra l'elemento dottrinale e la realizzazione poetica. Ma ciò non significa pedissequa e grigia ripetizione della norma teologica a danno della poesia, che accetta il dato culturale ma non ne mitizza l'apporto rinunziando alle proprie prerogative di creatività e di rielaborazione. Se «il poema ha sempre soddisfatto il nostro desiderio con la visione incarnata delle sue immagini nelle quali, quell'idea che si fa carne, possiamo vedere e il dove e il come»3 non possiamo ignorare che anche nell'Empireo Dante abbia la compresenza della visione sensibile e della visione intellettuale senza sovrapposizione e· scissione fra le due facoltà.
Certo l'Empireo «nel pensiero di Dante, serve a saldare la frattura del dualismo teologico, fra il mondo spirituale e l'universo sensibile in una perfetta e continua unità»4, ma non può annullare completa: mente quell'«ascesa del vedere, di un duplice vedere, per cui Dio si rivela negli aspetti sensibili del mondo celeste, splendendo alla fine direttamente nell'Empireo, e insieme ci appare, di cielo in cielo, nell'ordine e nella ragione mirabile dell'universo narrati dalla teologia»5. Anche il poeta proprio nel Paradiso ci ricorda che l'occhio e la mente sono congiunti nell'atto dell'apprendere
da pigliare occhi, per aver la mente
(Par., XXVII, 92)
così come si verifica nella sua ascesa paradisiaca e nella contemplazione della candida rosa.
Acutamente l'Auerbach, a proposito dell'ordinamento dei due paradisi, osservò che pur riconoscendo la necessita di una loro coincidenza «la gerarchia morale della bianca rosa non sembra essere portata a compimento, per lo meno nei gradi inferiori», mentre i sette ordini «raffigurano necessariamente solo i gradi superiori della gerarchia e perciò non possono essere messi in accordo con l'ordine delle sfere celesti che simboleggia la totalità dell'ordine del Paradiso; e i tentavi che si sono fatti per superare questa difficoltà e negarla, mi sembrano troppo artificiosi»6. Occorre, però, porre tra le ragioni della discordanza tra il Paradiso delle Sfere e il Paradiso della candida rosa anche come abbiamo osservato, la duplicità della visione sensibile e della visione intellettuale del poeta non sempre conciliabili tra loro, unitamente all'iniziativa poetica che per sua natura ha una propria area di autonomia e di libertà. Solo in questa ottica è possibile capire la polisemia paradisiaca e intendere quella
luce intellettual, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
(Par., XXX, 40-42)
Nell'Empireo o Paradiso della candida rosa, che è «pura luce» Par., XXX, 106), «luce intellettuale» (Ivi, 40), identificabile con lo splendore della Mente divina (Par., XXVII, 109-114) e col raggio «che visibil face lo Creatore» (Par., XXX, 100-101) alla creatura vale a dire con il «lumen gloriae» dei teologi, la divina Bontà arde d'amore e dilaga tra i beati. Quel lume che s'irradia dall'amore che s'accende nella Mente divina.
... si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesse al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
(Par., XXX, 103-103)
Quivi perciò il criterio distintivo della beatitudine è la carità, mentre nell'altro Paradiso, quello delle sfere, questo criterio viene congiunto al giudizio etico-morale che disloca le anime nei cieli secondo le virtù intellettuali e cardinali, proprie dell'uomo. Il libero arbitrio, di conseguenza, nel Paradiso delle sfere e la Grazia in quello della candida rosa regolano le condizioni delle anime; nel primo infatti si distribuiscono secondo i meriti acquisiti sulla terra in base a libere scelte, influenzate dalla natura, dagli astri e dalla volontà personale. Si può per tale via stabilire una connessione tra premio ultramondano o meriti terreni delle anime unitamente ad un giudizio sull'ultimo destino dell'uomo, che è il tema di fondo della Commedia.
La nozione dei cieli, elaborata dalla Scolastica alla luce degli indirizzi platonico-aristotelici, offre a Dante la possibilità di ordinare le anime secondo la propria specifica condizione determinata dagli influssi stellari e dalla libera pratica della virtù graduandole con le tre categorie temporali della vita mondana, della vita attiva e della vita contemplativa. La vita mondana, difettando di carità, ha carenza di virtù e comprende i primi tre cieli; la vita attiva, ripartita secondo le virtù cardinali, abbraccia il cielo del Sole (prudenza e scienza), di Marte (fortezza), di Giove (giustizia), e di Saturno (temperanza e sapienza); in quest'ultimo cielo si accolgono le anime dei contemplanti.
L'anfiteatro della candida rosa, moltiplicando all'infinito il Paradiso delle sfere, solo parzialmente adombra le divisioni dei cieli, sfumate nell'incommensurabile molteplicità dell'Empireo. Quivi, all'attività umana evidenziata nel Paradiso delle sfere e alla volontà divina prevalente nel Paradiso della rosa la Grazia divina ha predisposto altra ripartizione delle anime per gruppi ponendo a destra i cristiani, a sinistra gli Ebrei, in altro gli adulti e dalle metà in giù gli infanti segmentando in settori aperti, sfuggenti e molteplici il regno eterno dell'infinito e del perenne gaudio. Nel mondo dell'immensità e dell'indeterminatezza non si poteva, a parte le ragioni già esposte, soffocare la spontaneità beatifica in norme rigide o in regolamentazioni marcatamente dottrinali.
La sublimazione del poeta non propone astrattezza mistica né evasione teologica, ma si consuma nel perenne inevitabile conflitto tra umano e divino, mentre dottrina e fede suggeriscono fiducia e conforto nell'arduo itinerario che è ansia di perfezione e desiderio di Dio. La teologia e le scienze umane, l'intelligenza e la religione, concorrono in varia misura a sostenere la straordinaria suprema avventura extraterrestre del poeta, che placherà l'irrequietezza del suo spirito solo
nel vero in che si queta ogne intelletto
(Par., XXVIII, 108)
Ma a Dante per giungere all'ultimo stadio di questa incessante ascesa verso l'Eterno, godere dell'ultima suprema visione intellettuale e confrontarsi con Dio occorre che Beatrice e Bernardo, tutti i beati e Maria si facciano mallevadori di lui, divino pellegrino, che fa registrare nella storia dell'umanità l'unico irripetibile evento dell'epifania del Creatore7. In questo estremo istante del viaggio salvifico i cieli delle sfere sono lontani, ma i beati debbono compartecipare al mistero dei misteri che per divina concessione viene offerto ad un uomo ed allora si dispongono in un immenso anfiteatro a forma di candida rosa supplici e solleciti nel sovrumano silenzio, in comunione con la Chiesa orante, e in sintonia con Beatrice, Bernardo e Maria fin quando la
mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne
(Par., XXXIII, 141-142)
L'ordinamento del Paradiso, come s'è visto, si regge sull'intensità della beatitudine della vista di Dio, la visio dei, in cui tutti si placano in un'eterna celestiale pace, che viene graduata dalla misura della grazia. La grazia, dunque, genera la visione, da questa scaturisce l'intensità del celeste fuoco d'amore, della charitas patriae, che a sua volta è regolata dal possesso della grazia conquistata in terra dalla pratica delle virtù originata dall'amore terreno di dio, ossia dalla charitas viae, in quanto questo amore viene determinato nel suo specifico orientamento della disposizione naturale, ossia dall'influsso delle stelle. Il criterio astrologico, quindi, assorbe e rappresenta visivamente le differenziazioni morali, che graduano ed evidenziano le caratterizzazioni umane nella perenne gerarchia del Paradiso.
Con il passare degli anni il significato e la pratica dell'allegoria si erano in Dante maturati fino a passare dalla formula della lettera-concetto, esposta in accordo con Fulgenzio o Alano nel Convivio, all'adesione al modello biblico, dichiarata nell'Epistola a Congrande (39): «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis». Quindi non più e solo allegoria dei poeti, non mera fictio, ma modello allegorico-biblico in un contesto in cui res e verba si accordano sulla realtà e consuonano con l'ordine dell'universo. Questa chiarificazione concettuale si verifica proprio nella felice stagione in cui il divino poeta attende alla stesura dell'ultima cantica, come testimonia l'Epistola a Cangrande. L'allegoria dei poeti, dunque, e la tipologia biblica si saldano nella cosmografia paradisiaca, ove l'homo viator, dopo l'esperienza storica del peccato e della purgazione, conclude la sua parabola come homo comprehensor dell'ordo univerisalis.
Le sfere celesti in questo contesto poetico-scritturale distendono una rete di modelli esegetici, in cui umano e divino, res et verba, ars poetica e lumen gloriae si aggrovigliano e paiono coniugare il concetto biblico: «Eccelsus super omnes gentes Dominus, et super coelos gloria eius» (Ps. 112, 4). Infatti la sfera più bassa, quella della Luna, che l'astrologia ritiene fredda e mutevole ben s'addice a quanti furono mancanti di amore, diversamente dalle anime delle altre sfere ardenti di amore; la sfera di Mercurio, astro dell'attività e dell'abilità terrene, ospita a ragione le anime attive in terra e legate ai beni e alla gloria mondani; la sfera di Venere, stella degli amanti, accoglie, come le seguenti, una delle virtù cardinali e precisamente la temperantia; la sfera del Sole, astro luminoso, la sapientia; la sfera di Marte, stella dei guerrieri e dei martiri, la fortitudo; la sfera di Giove, stella dei principi e dell'aquila, la iustitia; la sfera di Saturno, pianeta dell'azione e della contemplazione, gli asceti.
Nel cielo delle stelle fisse, ove ascende, dopo aver rivolto il nostalgico sguardo verso
L'aiuola che ci fa tanto feroci
(Par., XXII, 151)
Dante s'incontra con i tre apostoli esaminatori e con Adamo, il capostipite che rappresenta l'inizio dell'arco della storia peccaminosa degli uomini la cui conclusione si attua ad opera di Cristo redentore. A questo punto prende l'avvio il terzo sistema della Commedia, quello storico-politico, che colloca il mistico pellegrino in un più vasto panorama in cui l'allegorismo biblico e cristiano si poietta nel grandioso disegno di una metanoia politica.
Il peccato di Adamo, allontanando l'uomo dalla perenne felicità e dall'ordine divino, strappò all'umanità purezza e bontà originaria, che solo Cristo, pagando con la sua morte come uomo il fio del peccato originale e sublimando con i suoi carismi come divinità la natura umana, potè restaurare. All'evento straordinario dell'incarnazione del Verbo è congiunto il disegno provvidenziale dell'Impero di Roma, che prevede l'avvento di Cristo, diviene centro della cristianità e si propone come paradigma di civiltà e di giustizia all'umanità. Storia romana e storia cristiana a questo punto si integrano, infatti Virgilio annuncia «tu regere imperio populos», che è l'imperativo della Roma imperiale e l'angelo Gabriele annuncia con l'«Ave Maria» alla Vergine la nascita del Redentore degli uomini. L'aquila romana, nel cielo di Mercurio con le parole di Giustiniano celebra le sue imprese che si riconoscono nella preparazione della venuta di Cristo e nel completamente dell'opera redentrice; Tiberio, giudice legittimo di Cristo-uomo, esegue il sacrificio del Calvario, che riscatta il peccato originale e placa l'ira di Dio; Tito, legittimo condottiero e imperatore romano, esegue la vendetta divina sui Giudei; nelle fauci di Lucifero con Giuda, traditore della Divinità, sono maciullati Bruto e Cassio, traditori di Cesare.
Ancora una volta l'umanità si è ribellata al divino disegno e Dante nel Paradiso terreste adombra sotto le molteplici simbologie del mistico carro il travaglio del mondo, sconvolto dall'assenza del potere imperiale e del traviamento ecclesiastico. Principi e papi tralignano dalla loro provvidenziale missione e lì nella candida rosa Beatrice addita a Dante il seggio vuoto di Arrigo VII, l'ultima speranza per la restaurazione della podestà imperiale, simbolo della giustizia conculcata, espressione di quelle ragioni che lo avevano mandato in esilio e lo avevano spinto ad intraprendere il fascinoso itinerario poetico, mistico e vaticinante:
«Mira
quanto è 'l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant'ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v'è su posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l'alma, che fia giù agosta,
de l'alto Arrigo, ch'adrizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v'ammalia
simili fatti v'ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e converto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio: ch'el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d'Alagna intrar più giuso».
(Par., XXX, 128-148).
Sulla soglia dell'ultimo mistero, al cospetto della divina epifania, quando si sta per attuare l'estrema aspirazione dell'uomo, ossia la vista di Dio, che significa l'eterna beatitudine, Dante scioglie l'ultimo ispirato inno all'autorità imperiale; la duplicità della condizione, terrena con la vita biologica e celeste con l'essenza dell'anima, si distende in tutta la Commedia e qui nel Paradiso si scioglie definitivamente con la vittoria dello spirito. Se il poema rappresenta lo stato delle anime dopo la morte, nel suo sostrato fondamentale rispecchia la vita terrena, lo «status viatoris» nelle sue implicazioni e proposizioni. Il dramma dell'oltretomba è una proiezione del travaglio terrestre, ecco perché l'ultima grande rievocazione è la figura di un imperatore, nel quale il poeta credette per la pace dell'umanità e per l'impero universale. Nel grande destino della storia l'Impero e la Chiesa sono chiamati a prefigurare la divina beatitudine e a scrivere la prefazione al grande libro dell'eternità, cui l'uomo per sua sorte è chiamato.
«Dottrina e fantasia, storia e mito, si intrecciano nella sua struttura in un quadro difficilmente districabile, spesso un verso richiede forza e tempo quasi impossibili prima di schiudere qualcosa di quello che vi è contenuto; ma quando si è riusciti ad avere una visione d'insieme, allora i cento canti, nello splendore delle terzine, nel loro sempre rinnovato intrecciarsi e sciogliersi, svelano la leggerezza di sogno e l'inattingibilità della perfezione, che sembra librarsi senza fatica, come una danza di figure ultraterrene»8. Qui nel Paradiso si celebra l'estremo trionfo del pensiero di Dante e la sua visione politico-religiosa si esprime nei più alti simboli dell'ordine terreno e del destino divino.