Dati bibliografici
Autore: Bruno Nardi
Tratto da: Saggi e note di critica dantesca
Editore: Ricciardi, Milano-Napoli
Anno: 1966
Pagine: 110-165
Salvatore Battaglia, in un discorso tenuto a Caserta nel maggio 1961, in occasione del I Congresso Nazionale di Studi Danteschi, ha spezzato una lancia sulla necessità di richiamare la critica moderna della Divina Commedia ad una più aderente interpretazione allegorica che meglio corrisponda al «linguaggio figurato» proprio dei medievali. A giustificazione del qual richiamo precedono in detto discorso alcune pagine, piuttosto involute e confuse, ove s'afferma che «la lirica del Duecento, la Divina Commedia, la stessa poesia del Canzoniere petrarchesco restano ancora in gran parte affidate ad una interpretazione di scarsa presa storiografica, perché ancora estranea al clima spirituale del Medioevo, nel quale la natura delle cose e soprattutto la situazione dell'uomo erano contemplate e valutate con occhi diversi dai nostri e dispiegavano una cerchia d'interessi che per noi moderni non hanno più la medesima qualità».
E quale sarebbe questo clima spirituale in cui gli uomini del Medioevo guardavano «con occhi diversi dai nostri»? A parte la difficoltà che ci sarebbe per noi a capire chi contempla e valuta, cioè intende, una cosa con occhi, siano pure metaforici, diversi dai nostri (non so se il Battaglia abbia riflettuto abbastanza su questa difficoltà), l'affermazione che, durante il Medioevo, si sia usato ed abusato, da parte di molti, di reconditi significati allegorici e simbolici attribuiti alle parole e alle cose significate dalle parole, è verissimo; non da parte di tutti, però. Ci son buoni poeti del Duecento e del Trecento che dell'allegoria non ne fanno né punta, né poca. E anche prima del Duecento. I Carmina Burana non sono affatto allegorici; lo Stabat Mater e il Dies irae neppur essi sono allegorici. Lo sono forse le rime di Ce eco Angiolieri, E potrei continuare per un pezzo.
Il Battaglia pretende che l'intelligenza del simbolismo sia indispensabile per arrivare alla soglia di una intelligenza critica della mentalità medievale. Questo è vero quando il simbolismo c'è, come per esempio nei Bestiarii allegorizzati. Ma dove non c’è, mi pare esagerato volercelo ficcare ad ogni costo.
Eppoi quale simbolismo, Vediamo se riusciamo a capirci sul significato esatto di questa parola che, nella sua genericità, temo si presti a molti equivoci. Il simbolismo di cui parla il Battaglia, è quello che «si risolve e attualizza nella realtà della fede, del sapere, del sentimento: come rivelazione e veicolo di cognizioni, di miti, di situazioni morali». E più oltre, nella stessa pagina: «Per intendere il problema fondamentale della conoscenza medievale e ilei tramite simbolico a cui essa finiva per affidarsi, bisognerà partire dal sentimento della realtà che la mente medievale è venuta elaborando. La natura delle cose e dei fenomeni, ciò che chiamiamo realtà, non ebbe per il Medioevo una presenza autonoma e obiettiva, idonea cioè a diventare oggetto di scienza e d'indagine positiva e sperimentale come per noi moderni. O meglio, il Medioevo aveva un senso del reale che rispondeva alla sua particolare situazione intellettuale. Nell'interpretare il mondo e la natura, la mente medievale si affidava a criteri esclusivamente spirituali, che non le consentivano di obiettivare una verità esterna, indipendente e autosufficiente. Tutto il cosmo era per il Medioevo un cifrario dello spirito».
Prima di tutto, in questo ragionamento del Battaglia appari· troppo scoperta una maniera di rappresentarsi il «Medioevo» quale è appena tollerabile in certi libercoli di divulgazione popolare. Il Medioevo abbraccia un periodo assai lungo, almeno un millennio di storia, piuttosto più che meno (per taluni non è ancora finito!); e i fatti accaduti in Occidente e in Oriente durante questo millennio sono molti, molto gravi, molto complessi e accaduti in tempi e luoghi spesso tra loro assai distanti. Il parlare come fa il Battaglia di «Medioevo» e di «mente» o «mentalità medievale» è un far uso di espressioni astratte che non ci aiutano certo a comprendere questo lungo periodo storico nella concreta complessità di eventi che finirono per far crollare antichi istituti politico-giuridici e col maturarne di nuovi. Grande fu certo l'opera civilizzatrice della Chiesa nella ricostituzione dell'unità dell'Occidente, e del monachesimo nella cristianizzazione dei barbari e nel conservarci quel che era sopravvissuto dell'antica civiltà greco-romana, particolarmente per quel che concerne le lettere e le arti. Ma al rifiorire della cultura occidentale nel periodo della rinascita carolingia un nuovo e vigoroso impulso sopravvenne dall'incontro del pensiero scientifico e filosofico islamico e bizantino. Alla fine del secolo XI da Salerno s'irradiarono in tutto l'Occidente alcune delle opere fondamentali di medicina tradotte eia Costantino, e concepite nello spirito del più autentico naturalismo aristotelico e stoico. Nel corso del secolo XII, uno dei più splendidi della cultura medievale, gran parte delle opere filosofiche di Aristotele e di opere mediche, come la Pantegni di 'Ali ibn al-'Abbas e il Canon medicinae di Avicenna, matematiche come gli Elementi di geometria e l' Ottica di Euclide, la Perspectiva di Alhazen, l'Almagesto e l' Ottica di Tolomeo, il Fedone e il Menone di Platone, correvano ormai per le mani di tutti coloro che avevano interesse per i problemi della scienza della natura e della filosofia. Il secolo XIII venne in possesso di nuove traduzioni. Ma quello che caratterizza questo secolo è piuttosto il conflitto patente fra l'aristotelismo aviccnnistico e averroistico e la concezione agostiniana della vita e del mondo ispirata all'interpretazione delle Sacre Scritture, e i vari tentativi di risolvere questo conflitto che pareva insanabile, mentre tutti i teologi finirono per accettare la concezione aristotelica della natura, perché nella patristica non ne trovavano una migliore da opporle. Ma di questo ho già detto nel saggio precedente.
Se il Battaglia avesse riflettuto su tutto questo, sarebbe stato forse più cauto nello scrivere quello che abbiamo udito da lui. Il guaio maggiore è ch'egli parla del «Medioevo» com'uno che parlasse d'un sistema di montagne intravisto di lontano, quando comincia appena a profilarglisi all’orizzonte, e non avesse mai provato ad avvicinarvisi e ad addentrarsi per quelle innumerevoli valli che separano catene di monti da altre catene, né mai avesse tentato l'ascesa di quelle innumerevoli vette, «di collo in collo», dalle quali si dominano panorami sempre nuovi, sempre più vasti, impensati e meravigliosi.
Quindi egli continua con grande disinvoltura: «L'universo, in tal modo, tutto lo scibile della natura e delle cose, non era che una visione di simulacri e di parvenze, che potevano essere illusorie per chi non sapesse leggervi nell'interno e al di là del loro schermo, e potevano viceversa divenire illuminazione e presentimento di verità, se si riusciva a penetrarle nei loro significati. reconditi e allegorici. Dietro di loro, oltre il loro velo, si poteva intuire una realtà sicura ed eterna, che si celava o si rivelava (secondo l'intuizione spirituale di ciascuno, ma di conserva con una educazione religiosa) in una fenomenologia episodica e mutevole. La verità non è nei loro aspetti, ma si custodisce nei valori simbolici che l'interpretazione spirituale è capace di intravedere, indovinare, anticipare». Ora tutto questo, se è vero per alcuni educati. all'interpretazione allegorica della Bibbia e alla teologia simbolica, non è vero però per i filosofi aristotelici e averroisti, e nemmeno per molti teologi che, per risalire dal temporale all'eterno, preferiscono i procedimenti logici del principio di causalità, e mettono in guardia contro i pericoli dell'argomentare dall'interpretazione simbolica dei testi sacri. Lo stesso Bonaventura, nell' Itinerarium mentis in Deum, nell'interpretare allegoricamente le sei ali del serafino alato che impresse le stigmate a S. Francesco sull'aspro sasso della Verna, muove dalla costituzione fisica del mondo sensibile, che è in sostanza quella aristotelica integrata da quella agostiniana, per passare alla natura umana elevata dalla grazia e quindi al concetto di essere e di bene in sé e per sé. Ma giunto a questo punto, abbandona la speculazione simbolica e s'affida allo slancio 'mistico dove le immagini sensibili non sono più d'alcun giovamento. E nel De reductione artium ad theologiam, Bonaventura non solo riconosce la validità delle tre arti del trivio (compresa la dialettica), ma anche delle quattro arti del quadrivio che ci fanno conoscere la realtà oggettiva del mondo esterno e c'insegnano il modo, per mezzo delle sette artes niechanicae elencate da Ugo di S. Vittore, e cioè il lanificio, la fabbricazione delle armi, l' agricoltura, la caccia, la navigazione, la medicina con la chirurgia e perfino l'arte teatrale (theatrica), di trar vantaggio da siffatta realtà oggettiva, e niente affatto illusoria, pei bisogni della nostra vita e per nostro sollazzo. E ci parla altresì dei bisogni della vita vegetativa, dei sensi esterni ed interni, della conoscenza razionale propria dell'uomo, nonché della filosofia con le sue tre parti, la logica, la fisica e l'etica.
Che a tutto questo ragguardevole complesso di conoscenze umane e filosofiche, le quali i teologi eran ben lontani dal disprezzare, gli stessi teologi aggiungessero, a compimento della concezione platonica e aristotelica del mondo, i dati della rivelazione consacrati da oltre sei secoli di speculazione patristica, come appare dai numerosi commenti al Liber sententiarum di Pietro Lombardo e dalla stessa Summa theologica di S. Tommaso, non autorizza davvero ad affermare che «la natura delle cose e dei fenomeni... non ebbe per il Medioevo una presenza autonoma e obiettiva[?!], idonea cioè a diventare oggetto di scienza e d'indagine positiva e sperimentale come per noi moderni». Se la ricerca scientifica soffrì di gravi limitazioni per difetto di mezzi e per errori di metodo insiti allo stesso Organon aristotelico, ciò non è dovuto alla «nozione della trascendenza e dell'umana insufficienza ad attingerla», né «al tramite simbolico» a cui l'anima medievale finisce per affidarsi. Se v'erano monaci che allo studio delle arti preferivano dedicarsi nella pace dei chiostri all’escogitazione di riposti sensi allegorici delle Sacre Scritture, e cercarono nelle apparenze del mondo sensibile e caduco simboli di quello intelligibile ed eterno, ve ne furono altri che non s'acquetarono a questa nuova forma di aruspicina, ma coltivarono le arti liberali con serietà cd impegno, sia quelle riguardanti il «sermo» interiore ed esteriore, sia quelle concernenti la realtà del mondo considerata nella sua oggettività, e ne trassero nuovo impulso allo sviluppo delle «artes mechanicae» per il soddisfacimeno dei bisogni umani e l'elevazione dei tenore di vita del popolo, per l'incremento delle industrie e dei commerci e il rifiorire dell'economia.
Se un appunto è stato fatto alla teologia del secolo XIII e XIV, è proprio quello di aver fatto troppo larga parte al naturalismo r all'intellettualismo aristotelico nella trattazione delle cose di fede; che è l'appunto mosso, poco dopo la metà del secolo XV, dal Bessarione al Trapezunzio, dietro le cui spalle si celava S. Tommaso.
Il «Medioevo» è ben diverso e più complesso di quello che ci vorrebbe far credere il Battaglia in un gergo espressivo di frasi senza senso, che potrebbe citarsi come esempio moderno di quello che nel Medioevo si diceva blitteri o biltri.
Sì, nel «Medioevo» ci furono anche autori di Bestiarii allegorizzati e moralizzati, ed escogitatori di simboli e di allegorie, rinnovatori dell'aruspicina e dell'«Etrusca disciplina», ma ci furono anche sottili filosofi, che costruirono per mezzo della ragione umana un sistema compatto della natura nel quale gli esseri che lo costituiscono hanno esistenza oggettiva, legati tra loro da rapporti di causalità che li uniscono ad una prima causa da cui tutti dipendono; ci furono, sì, degli uomini che abbandonarono le vanità del mondo e alla vita attiva preferirono la pace dell'eremo e la vita contemplativa; ma ci furono altresì uomini che si affannarono a organizzare la vita sociale, civile ed economica e lottarono per i loro interessi, guelfi o ghibellini che fossero, senza risparmio di colpi, da una parte e dall'altra, e senza guardare troppo per il sottile ai mezzi coi quali tendevano al fine che s'erano proposto; e c'erano infine i veri credenti in Cristo, non solo a parole, ma non mancavano «credenti per conformismo» e miscredenti, come ad esempio Federico II di Svevia. il quale andava dicendo che i fondatori delle «tre leggi», cioè Cristo, Mosè e Maometto, erano stati tre baratores i quali avevano raggirato l'umanità. Lo so, Martin Grabmann pretende che questa «eresia dei tre impostori» nel Medioevo non ci sia mai stata. Ma papa Gregorio IX nella lettera che nell'estate 1239 indirizzò all'arcivescovo di Canterbury primate d'Inghilterra (ma la lettera fu indirizzata anche ai vescovi della Francia e della Germania), si diceva in possesso di prove sicure che Federico, questo «rex pestilentiae», questo «preambolo dell'Anticristo», andava dicendo che il mondo era stato ingannato «a tribus baratoribus», per usare, diceva il papa, le sue stesse parole, «ut verbis eius utamur»; e quasi questo non bastasse, il papa si diceva informato che l'imperatore era giunto fino a dichiarare, «a voce spiegata», che son pazzi coloro che credono che Dio potesse incarnarsi e nascere da una vergine.
Tale si presenta, nella sua storica complessità, il Medioevo a chi lo guardi da vicino, e non attraverso illusorie astrazioni unilaterali, che deformano, come sempre, e mortificano la realtà vivente della storia.
Ma viste le premesse dalle quali muove il Battaglia, per giustificare quello che egli chiama «il processo di revisione critica che va subendo oggi la lettura del Poema dantesco», esaminiamone un po' più da vicino l'applicazione.
Questo processo di revisione critica del Poema sacro sarebbe, secondo il Battaglia, «orientato principalmente sul riconoscimento dei suoi valori spirituali e simbolici, da cui non si può prescindere per lo stesso accertamento della poesia», sì da poter affermare che «ogni verso della Divina Commedia contiene nel suo più riposto significato questa aspirazione». E per i «valori spirituali» va bene; si tratta, niente meno, d'un «poema sacro» in forma di «visione» profetica, e non sarò proprio io a dargli torto. Ma egli per «valori spirituali» sembra intenda soprattutto quelli simbolici. Ora che nella Commedia vi siano alcuni episodi allegorici non si può negare; meno però di quel che creda il Battaglia, e in generale Dante stesso, quando ricorre a simboli, ce ne avverte e ci aiuta perfino a decifrarli. Tali sono quelli della «selva oscura», delle tre fiere, del Veltro, del «feroce Gorgòn» la cui vista fa l'uomo «di smalto» in quanto significa l'ostinazione nel male propria degli eretici e comune a tutti i dannati alle cui spalle risuona il terribile verso: «Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate», perché morti senza pentimento. E vi sono pure quelli del «veglio di Creta» e della «femmina balba», e la processione che accompagna il carro della Chiesa tirato dal Grifone, innanzi all'apparizione cli Beatrice, che costituisce il grande finale del Purgatorio, e nel Paradiso quello della scala di Giacobbe, tutti ispirati dalla Bibbia, e però agevoli a intendersi. Invece quello dei «tre giri di tre colori e d'una contenenza» ripugna ad esser tradotto sensibilmente in disegno geometrico, e resta affidato alla pura musicalità della parola nello sforzo d'esprimere l'inesprimibile. E sarei curioso di sapere dal Battaglia quale «aspirazione mistica» egli subodori nel verso dell'Inferno, XXI, 139: «Ed egli avea del cui fatto trombetta», poiché egli parla di «ogni verso» della Commedia!
Tutto questo è vero, ed è già stato considerato in parte (tranne che per il verso ora citato) da molti commentatori antichi e moderni. Ma il Battaglia ·intende altra cosa, quando trova che nel primo verso della Commedia c'è già «un segnale, una cifra», che doveva «subito dare il senso della qualità spirituale che avrebbe sostanziato tutta la sua poesia» (anzi, «ogni verso»), un segnale insomma che «era come un allarme e un emblema»! Dante infatti immagina di fare ii viaggio oltremondano nel 1300, «l'anno del grande giubileo», e «vuol precisare di essere nel suo trentacinquesimo anno di vita. La prima considerazione da fare a questo proposito concerne questa coincidenza. Senza dubbio Dante fu felice di approfittare di tale circostanza, per fissare non una ma due fortunate congiunture: la prima, che la sua grande avventura ultraterrena si verificasse nell'anno giubilare, eh' era il sigillo d'un· secolo, il 1300; l'altra, che, essendo nato nel 1265, egli compiva il trentacinquesimo anno di età. Lo lusingava una segreta e altera emulazione, quella d'innalzare nella solenne ricorrenza giubilare un monumento di fede e di giustizia...». Ecco un letterato che deve averci... il filo diretto con Dante. Perché di tutto questo non c'è ombra né nel primo canto né in tutto il poema.
Il primo verso dcli' Inferno pone lo smarrimento nella selva al trentacinquesimo anno della vita di Dante. Da rimanenti indicazioni disseminate nel poema s'arguisce che dalla notte dello smarrimento alla conclusione della visione beatifica di Dio corrono otto giorni, dal 7 al 14 aprile. Quanto alla «solenne ricorrenza giubilare» del 1300 (che non era una «ricorrenza» perché il giubileo fu indetto la prima volta con Bolla del 23 febbraio 1300, e avrebbe dovuto ricorrere dipoi ogni cento anni), non mi consta che vi siano nella Divina Commedia se non l'allusione poco chiara che ad esso fa Casella (Purg., I, 99-100), il quale è appena arrivato fresco fresco la mattina di Pasqua, dopo «tanta ora», e il riferimento esplicito all'«anno del giubileo» (Inf., XVIII, 29) sul quale si fondano alcuni per asserire che anche Dante vi partecipò. Veramente del tramezzo sul ponte per regolare l'andata e il ritorno da «Santo Pietro» Dante poteva avere avuto notizia dai pellegrini che tornavano da Roma, oppure averne sentito parlare l'anno dopo, quand'egli a Roma dovette recarsi con l'ambasceria fiorentina e sostarvi più del previsto, trattenuto dal papa. Anche le anime del Purgatorio che attendono i suffragi dei vivi per abbreviare la pena, ignorano il giubileo dal quale avevano tanto da sperare, per la «pienissima omnium peccatorum venia» che v'era annessa.
Intendiamoci bene. lo non escludo che Dante nell'anno 1300 possa essersi fatto «romeo», come altri suoi concittadini, e si sia recato a visitare le tombe dei beati apostoli Pietro e Paolo. Dante era credente sincero e cattolico senza alcuna vocazione eretica; e se nel corso dell'anno giubilare eran già cominciati i suoi attriti con Papa Caetani, per l'ingerenza di questo nelle faccende politiche del comune fiorentino, il peggio non era ancora avvenuto. Solo nel corso del 1302 e 1303, Bonifacio gli si rivelò davvero quel «lupo rapace» quale appare nella Divina Commedia, anzi come usurpatore della cattedra di S. Pietro «che vaca ne la presenza del figliuol di Dio», e come colui che della tomba del primo vicario di Cristo aveva fatto «cloaca del sangue e de la puzza». Che Dante dunque abbia partecipato alla perdonanza del giubileo, bandito da Bonifacio, è ammissibile; ma per dire che vi abbia effettivamente mente partecipato, ci vuole una prova indicativa che nella Commedia non c'è.
A lui anzi appena uscito dalla «selva selvaggia e aspra e forte, che nel pensier rinnova la paura», Virgilio, mandato da Beatrice in suo aiuto, quando il giubileo era stato bandito solennemente da ben sei settimane, non suggerisce affatto di recarsi a Roma per lucrarvi la «pienissima perdonanza», bensì di «tenere altro viaggio», che è un pellegrinaggio ultraterreno, attraverso l'Inferno e il Purgatorio, e che 'ha per mèta ultima, dopo aver ottenuto davvero, pentito e confesso, pienissima perdonanza di tutti i suoi peccati, l'ascesa alla Gerusalemme celeste. Si che il viaggio dantesco, anzi che di «romeo», è parso al teologo luterano Carl Stange quello d'un «palmiere».
Ma forse il Battaglia non ha posto sufficiente attenzione al fatto che, se la visione dantesca è stata fissata intorno alla Pasqua del 1300, la narrazione invece di quel che il Poeta vide s'impernia tutta quanta sul passato remoto; il qual passato remoto, secondo la mia convinzione, indica un periodo di almeno otto anni trascorsi dopo il 1300; anzi per alcune parti del poema o per alcuni eventuali ritocchi, un periodo assai superiore. Certo è questo, che la visione quale è narrata nella sua compiutezza nella Commedia, Dante non poté averla sicuramente intorno alla Pasqua del 1300, poiché molti avvenimenti narrati o giudicati nel corso del poema maturarono assai più tardi, ed anche talune idee affermate nel poema stesso son frutto d'un ulteriore sviluppo morale, religioso e filosofico del pensiero di Dante assai diverso da quello del Convivio, del De vulgari eloquenitia e delia stessa Monarchia.
Perché dunque il Poeta ha posto la visione, concessagli per singolare privilegio da Dio, nella primavera del 13001 Ho già più volte accennato alle ragioni che lo indussero a scegliere questa data. Quando, verso il 1308, ormai esule da quasi sei anni, e perduta la speranza d'esser richiamato in patria, si raccolse a meditare sui casi della sua vita e su quelli d'Italia, gli eventi che si susseguirono a Firenze prima e dopo gl'infausti comizi del suo priorato gli parvero essere stati davvero principio di tutte le sventure successive. Volgendosi indietro, con l'animo che ancor fuggiva «a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva», comprese che non senza una grazia celeste era campato alla morte temporale ed eterna che incombeva su di lui «su la fiumana ove 'l mar non ha vanto». Rassegnato alla dura sorte di uomo senza una patria (nos cui patria est mundus, velut pisci bus aequor!), aveva cercato conforto dapprima nella filosofia del Convivio e della Monarchia; e la passione politica degli anni burrascosi s'era placata nel raccoglimento delle meditazioni filosofiche.
Ma proprio mentre egli, tutto preso d'ardore filosofico, si destreggiava tra le aporie dell'aristotelismo averroistico e dimostrava consumata avvedutezza e sottigliezza di dialettico nel rintuzzare i paralogismi dei decretalisti, brillò al suo sguardo, dalle pagine del Vangelo di Matteo,' la grande luce che dischiudeva al suo pensiero nuovi e più vasti orizzonti che non fossero quelli della filosofia aristotelico-averroistica e spronava la sua arte a tentare l'acqua sconfinata che «già mai non si corse», sì che egli si sentiva ormai un novello Giasone superiore in ardimento all'antico, la cui impresa, venticinque secoli prima, aveva pur fatto «Nettuno ammirar l'ombra d'Argo».
Fu a questo punto che egli ebbe davvero la visione che finge avuta tra la notte del 7 e il I4 aprile 1300. Ed è finzione verace, poiché tra gli avvenimenti che gli erano occorsi a Firenze nell'anno del suo priorato, e i casi della sua vita negli anni successivi del doloroso esilio, egli scoperse un legame di fatalità provvidenziale, prima non avvertito, ma predisposto da chi conduce gli uomini a far senno per mezzo della «provvida sventura». Fu, dicevo, «finzione verace» di poeta che si sente «vates», nel senso usato spesso dagli antichi, cioè «profeta» nel significato biblico della parola, capace di elevarsi al di sopra dei fuggevoli eventi che s'incalzano come i flutti del mare, nella visione d'una storia eterna. Fissando la sua visione ai giorni intorno alla Pasqua del 1300, egli poteva dare al «poema sacro» quella forma di «visione profetica» che ha, e nella quale gli accenni alle effimere baruffe cittadine narrate nelle cronache di quel tempo si trasfiguravano al suo sguardo, purificato da ogni nebbia passionale, in dramma religioso di rinnovamento di cui son protagonisti la Chiesa e l'Impero, mentre a lui spetta la parte di annunciatore del grande evento.
In questa visione Bonifacio è il nemico numero uno, lupo in veste di pastore, l'uomo che ad inganno occupò il seggio di S. Pietro che ormai «vaca ne la presenza del figliuol di Dio», «lo prencipe de' nuovi farisei» che deride Celestino per non avere avute care le chiavi che aprono e serrano il cielo, il «servo de' servi» che trasmutò «d'Arno in Bacchiglione » il sodomita, e magnus bestionus, vescovo di Firenze Andrea de' Mozzi, la fornicatrice dell'Apocalisse che tresca col gigante francese, «quel d'Alagna» confitto nel pozzo dei simoniaci e che l'arrivo del Guasco farà «intrar più giuso». Questo è per Dante papa Caetani in tutta la Commedia; e questa è la ragione perché Virgilio, invece di consigliare lo smarrito poeta di farsi «romeo», lo esorta invece: «A te con vien tenere altro viaggio». E Beatrice, alludendo alle grandi speranze di rinnovamento eh' ella sa perseguite da Dante:
La chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com'è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo,
Però li è conceduto che d'Egitto
vegna in Ierusalernme per vedere,
anzi che 'l militar li sia prescritto.
Altro che giubileo! E prima della donna beata, S. Giacomo in persona, cioè «il barone per cui... si venera Galizia», e che di pellegrinaggi s'intendeva, lo informa che l'imperatore celeste, per grazia speciale, gli aveva concesso di trovarsi faccia a faccia con lui, «ne l'aula più secreta co' suoi Conti», perché il Poeta, «veduto il ver di questa corte», cioè conosciuti i disegni di Dio intorno all'umanità, riconfortasse in sé e in altrui la speranza di un rinnovamento (Par., XXV, 40-57). Dante è certamente cattolico di salda tempra; ma il suo Dio, di cui il papa è legittimo vicario in terra, pare non intenda ridursi nelle condizioni degli ultimi re merovingi di fronte ai loro maggiordomi. È un Dio che non sta a vedere, ma interviene nelle faccende umane, e tien d'occhio i suoi vicari, a quanto pare.
Dopo le considerazioni che il Battaglia fa sulla coincidenza dell'anno santo col trentacinquesimo dell'età di Dante, e delle quali abbiamo visto la fondatezza, egli ne aggiunge altre intorno ai settant'anni della durata media della vita umana. Trentacinque è appunto la metà di settanta. «Settanta, - osserva il Battaglia -, era per la mente medievale un numero perfetto. Aveva una duplice perfezione: perché era un multiplo di sette che... aveva allora valore magico, ed era multiplo di dicci, il numero pieno, completo, divino. Dante, come tutta l'antichità, sia classica e sia medievale, credeva incondizionatamente a questa interpretazione pitagorica del mondo».
Il discorso avviato dal Battaglia è un argomento ormai largamente esplorato da un pezzo; almeno da quando Galileo nel Dialogo dei massimi sistemi prese a burlarsi di Simplicio fin dalia prima giornata, ove questi, per dimostrare che le dimensioni del continuo sono tre e soltanto tre, non sa trovare migliore ragione che «il tre è ogni cosa, e 'l tre è per tutte le bande», e che ciò «è confermato con l’autorità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezzo e fine, che è il numero del tutto»; e aggiunge perfino l'altra ragione, così evidente e probativa, che «quasi per legge naturale, cotal numero si usa ne' sacrifizii degli Dèi». Ma Simplicio cita il De coelo di Aristotele. Ora Aristotele, che non è così tonto come taluni han l'aria di credere, cita a sua volta i Pitagorici, per alcuni loro detti dei quali egli spiega il significato, perfettamente intelligibile anche per noi e che il Salviati giustifica. Se il Battaglia vi avesse fatto caso, avrebbe visto subito che altro è il tre come cifra aritmetica, cioè come somma o gruppo di tre unità supposte identiche, altro è invece il tre come simbolo di cosa che nasce, si sviluppa e infine raggiunge la perfezione, o di altra cosa siffatta costituita di materia, «privazione», forma, e quindi del composto che ne risulta. Qualcosa di simile dice anche Dante, Conv., II, xiii, 16-18. Ma in tutti questi casi il tre non è più cifra aritmetica, perché le tre unità che comprende son qualitativamente diverse; e il numero cardinale «tre» non ha valore di sostantivo, bensì di aggettivo quantitativo. Peggio ancora nel caso del tre assunto come simbolo magico o religioso: l'assunzione in questo caso di simboli numerici è spiegata da Aristotele col bisogno che gli uomini provano di assimilare alle cose naturali quello che fanno e che dicono: «tre, e soltanto tre, sono le cose che piacciono a me»! Ora, per stabilire con esattezza la posizione di un punto nel cosmo basta prendere tre coordinate perpendicolari tra loro, le sole che possono condursi per un punto, cioè lunghezza, larghezza e profondità; e queste sole bastano per i calcoli geometrici del cosmo e dei corpi in esso contenuti; che è quello che Simplicio doveva dire, e non dice. E appunto perché Aristotele si rappresenta la forma dell'universo come quella d'un solido sferico, di diametro finito, poteva dire che in esso sono tutte le tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità, e che perciò i Pitagorici dicevano che l'universo e tutti i corpi che sono in esso si determinano e definiscono per mezzo di tre cose, applicando così e limitando il concetto aritmetico di «tre» alla geometria e alla natura; di guisa che la «triade» o «trinità», che S. Tommaso preferisce chiamare «numero ternario», dicevano propria dell'universo e di ogni corpo che in esso è racchiuso.
Se il Battaglia avesse cominciato a parlare di queste cose prendendo le mosse da Galileo, toscanaccio che ha il vizio di parlar chiaro, molte cose che gli erano oscure le avrebbe capite a volo. Invece ha preferito cominciare con un discorso piuttosto ingarbugliato, dove non so se io ce la farò a cavarmela. Proviamo. Dice dunque il Battaglia che per «il Medioevo e Dante», i quali «ebbero fede nei numeri», trentacinque è la metà di settanta. E fin qui lo seguo. Ma quando egli continua: «Settanta era per la mente medievale un numero perfetto» che godeva di «una duplice perfezione: perché era un multiplo di sette che... aveva valore magico, ed era multiplo di dieci, il numero pieno, completo, divino»; e quando egli rintosta, che «Dante, come tutta l'antichità, sia classica e sia medievale [e perciò non solo la «mente medievale»], credeva incondizionatamente a questa interpretazione pitagorica del mondo», mi sento piovere addosso un subisso di affermazioni inaspettate che sono tanti colpi sulla mia povera schiena vibrati a tradimento.
Sì, a dir vero, ho sentito parlare anch'io della settimana religiosa degli Ebrei che corrisponderebbe ai sei giorni della creazione del mondo, ai quali si aggiunse il settimo in cui Dio «si riposò». E parimenti ho sentito parlare della settimana planetaria dei Babilonesi; e come, tanto tra questi quanto tra gli Ebrei, dalla settimana di sette giorni si passò a calcolare il tempo per settimane di anni. Così accade, per esempio, là dove il mirabile veggente Daniele, narrando il futuro della venuta del Messia, si ricordò degli anni ancor non nati raggruppandoli per ebdomade, non di giorni, s'intende, ma di anni; e sette settimane già compiute di anni sono anche quelle dei poeti ricordati da Aristotele," al quale rimanda Cristoforo Landino, che l'ha chiosato e integrato col testo di Macrobio. Ma a proposito della numerazione per settimane o ebdomade, mi piace ricordare il Пερ ίέβδομάδων, o meglio una parte di quest'opera che, inserita nella grande collezione degli scritti di Ippocrate, è stata analizzata da W. H. Roscher nel 1911, e studiata anche da Aldo Mieli. 3 Il cap. VI del commento di Macrobio In somnium Scipionis, oltre a fonti platoniche, utilizza altresì l'opera più antica della collezione dei libri ippocratici (direttamente o per il tramite di commenti di Galeno), che rivela l'influenza della cultura babilonese nell'Ionia, Non va dimenticato che la scuola ippocratica ebbe il centro nell'isola di Coo prospiciente la costa dcli' Asia Minore e trae origine da una precedente scuola medica sacerdotale, e che Pitagora era venuto con altri emigrati da Samo a Crotone e insieme allo spirito matematico aveva portato seco idee religiose d'origine orientale ben riconoscibili nelle dottrine professate tenacemente dalla sua scuola.
Per la fortuna che la matematica incontrò nell'ordinare il molteplice e diverso dell'esperienza sensibile, apparentemente confusa e disordinata, essa costituì la prima logica dei Greci e fornì gli schemi astratti tanto alla dialettica platonica quanto all'Organon aristotelico, come strumento della ricerca scientifica; per questo appunto si disse mathesis, cioè disciplina per eccellenza del pensare, in quanto abitua la mente a unificare e a distinguere. L'applicazione che se ne fece in tutti i campi dell'esperienza, cogliendo quello che nelle cose è suscettibile di numero e di misura, cioè l'elemento quantitativo, condusse i Pitagorici a ritenere che i numeri fossero i princìpi stessi delle cose; il che va inteso, non nel senso che i principi della realtà siano costituiti da astrazioni quali sono i numeri dell'aritmetica e le figure della geometria, bensì nel senso che gli elementi della realtà fisica sono governati da leggi numeriche e rapporti quantitativi, ossia, come spiega Aristotele, perché pareva ai Pitagorici «di scorgere nei numeri molte somiglianze con le cose che sono e che vengono all'esistenza». Ed Aristotele stesso, ove distingue le tre parti o generi di filosofia, pone la matematica per prima, come quella che è presupposta dalla fisica e dalla metafisica; e nell'analisi ch'egli fa del procedimento dimostrativo, ha sempre lo sguardo rivolto al ragionamento matematico come a quello che presenta minori incertezze.
Senonché, mentre i ragionamenti matematici dei Pitagorici servivano ottimamente a ordinare l’esperienza fisica e a stabilirne alcune leggi, fino a scoprire nella compagine cosmica quella stessa armonia che è propria della musica, il linguaggio matematico degli iniziati serviva altresì ad avvolgere di mistero idee religiose che si volevano tener celate ai profani. Ma la svolta decisiva 'nel tentativo di creare una matematica simbolica con intenti metafisici e teologici, si ha con alcuni neopitagorici, quali Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa, col platonico Teone di Smirne e col neoplatonico Giamblico. I Theologumena arithmeticae di Friedrich Ast (Lipsia 1817) ne forniscono la prova perentoria. Anche Calcidio come Macrobio risentono di questo indirizzo; come pare evidente su entrambi l'influsso del commento al Timeo platonico di Posidonio d' Apamea.
Ma per attribuire a Dante il ragionamento che gli attribuisce il Battaglia bisogna trovare nelle sue opere qualche appiglio che lo giustifichi, e non scaricare su lui, come fanno taluni senza alcuna necessità, tutto il bagaglio di idee pitagoriche o neopitagoriche, platoniche o neoplatoniche che sono in Macrobio o in Calcidio e nelle loro fonti assai più antiche.
Di numeri sacri e simbolici cui Dante accenna, io non conosco che questi: l'Uno per sé in quanto significa l'indivisibile Unità della sostanza divina, la Trinità delle persone (che sono numeri passati dalla speculazione teologica d'oltre un millennio nel comune linguaggio della cristianità), e il nove come numero simbolico di Beatrice avente la sua radice quadrata nella Trinità divina. Ecco il ragionamento di Dante: «Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero ciel nove a dare ad intendere eh' ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade» (Vita Nuova, XXIX, 3). Il che è detto da Dante, che aveva già preso a frequentare «le scuole dc li religiosi e le disputazioni de li filosofanti», a conferma che «secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e, secondo comune oppinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme», sì che il numero nove, associato nel pensiero del Poeta a molte circostanze nelle quali Beatrice gli era apparsa, a tal segno da potere affermare che il nome di lei «non sofferse stare se non in su lo nove» (Vita Nuova, VI, 2; cfr. XXVIII, 3), questo numero, dico, gli parve «dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s'aveano insieme» (ib., XXIX, 2). Ove, tra parentesi, è da notare che la frase «perfettissimamente s'aveano», al pari del «s'abbia» al cap. XLI, 6, è espressione caratteristica, nel latino medievale, di traduzione del verbo greco €XW usato intransitivamente, nel senso di stare o trovarsi in un certo stato, condizione, rapporto (onde έξις e habitus) o relazione con qualcosa. Così a proposito del «s'abbia», Aristotele in un celebre passo della Metafisica, che Dante ricorda, aveva detto, secondo la traduzione greco-latina ormai d'uso comune già negli anni giovanili del Poeta: «Sicut nycticoracum oculi ad lucem diei se habeut (έϰει) sic et animae nostrae intellectus ad ea quae sunt ad omnium naturae manifestissima». E del resto, nella stessa Vita Nuova, XII, 4, vi sono le parole pronunziate da Amore e imitate da un qualsiasi manuale di geometria: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circurnferentie partes». Entrata nel latino medievale dalle traduzioni dal greco, la frase acquistò una propria indipendenza, e in particolare essa ha invaso addirittura la Monarchia dantesca.
Ma chiusa la parentesi, torniamo al ragionamento col quale Dante, nella Vita Nuova, non ha inteso altro se non dare la dimostrazione del suo convincimento che Beatrice sia «una cosa venuta di cielo in terra a miracol mostrare» (XXVI, 6). E questo egli ha fatto prima di tutto assicurandoci, sull'autorità di Tolomeo, che «ne la generazione» di lei tutti i nove cieli mobili erano tutti insieme nella loro migliore disposizione, proprio come al momento della nascita di Cristo (Conv., IV, v, 7)! Ma questo, se prova che nove sono i cieli mobili che hanno contribuito alla generazione di questa donna miracolosa, non basta però a dimostrare in che modo il numero di nove «fue à la medesima»; per similitudine, s'intende. E per dimostrarlo; non ha bisogno né di Macrobio né di Calcidio; gli basta sapere che questa donna è figlia di Dio; il quale l'ha creata a sua immagine e somiglianza, e che… «tre via tre fa nove» sul serio: «tres vices tres fiunt novero», come si legge nell'Abaco di Leonardo pisano! Scommetto che Salvatore Battaglia a combinare un ragionamento così ingenuamente sottile non ce l'avrebbe fatta; «forse» perché egli mi pare quella «più sottile persona» di cui parla Dante (Vita Nuova, XXIX, 4), capace di vedere «in ciò più sottile ragione» che egli non sapesse vedere.
Insomma, io non riesco a trovare in Dante il ragionamento che vorrebbe attribuirgli il Battaglia, sulla scorta di Macrobio, di Calcidio e del Landino, per dimostrare che nel primo verso della Commedia v'è coincidenza del calcolo che Macrobio fa delle età della vita umana col «mezzo del cammin di nostra vita» e coll'intera durata di questa. A dir la verità, siccome Dante questo calcolo ha fatto per conto suo nel Convivio (IV, xxiii-xxiv), determinando la tesa dell'«arco de la vita» secondo la «regola dc la umana natura», e di quest'arco ascendente e discendente aveva indicato il «colmo» e i tre periodi principali in tre età (adolescenza, gioventù e vecchiezza) alle quali nei «perfettamente naturati» aveva aggiunto il «senio» o età decrepita, non riesco a capire perché il Battaglia di questa sufficientemente ampia trattazione nella quale Dante ci rivela i criteri dei suoi calcoli e ci scopre, per così dire, tutte le sue batterie, abbia taciuto, preferendole il ragionamento e il calcolo di Macrobio, che in sostanza rimane quello del Περίέβδομάδων. Il corso normale della vita umana resta fissato a settant' anni, tanto per Macrobio quanto per Dante; ma ciò non prova niente, perché questa cifra, come «regola dc la umana natura», è già nel Salmo LXXXIX, 10: «dies annorum nostrorum in ipsis, septuaginta anni; si autem in potentatibus, octoginta anni; et amplius eorum, labor et dolor», Dante non cita mai questo versetto; e ciò è tanto più strano, in quanto anch'egli fa eccezione dei più robusti (in potentati bus), che chiama «ottimamente» o «perfettamente naturati» (Conv., IV, xxiii, 9-10; XXIV, 5-6). V'è di più. Siccome Dante sapeva dal libro della Sapienza (XI, 21) che Dio aveva costituito pitagoricamente (il libro risale al massimo al secondo secolo a. C.) «omnia in mensura et numero et pondere», ha pensato che Dio stesso avesse posto un termine anche alla vita umana, «del quale si dice per lo Salmista: 'Ponesti termine, lo quale passare non si può'». E infatti nel Salmo CIII, 9, si legge: «Terminum posuisti, quem non transgredientur». Ma qui il salmista parla delle acque che, costrette entro il corso loro assegnato sui monti e nelle valli, non possono uscirne (magari!); aquae infatti sembra il soggetto di transgredientur. Quindi parrebbe evidente che Dante, cercando a memoria un passo scritturale che calzasse al suo concetto, abbia confuso questo del Salmo cm, con quello di Job, XIV, 5, citato anche da Pietro d'Abano, che dice: «Breves dies hominis sunt, numerus mensium eius apud te est: constituisti terminos eius qui praeteriri non possunt». Ed invero dalle parole che precedono nel testo del Convivio (IV, xxiii, 7) parrebbe che Dante intenda qui parlare non della «regola de la umana natura», ma dell'arco della vita di ciascun uomo, in quanto è di maggiore o di minore tesa in uno che in altro individuo. Il che peraltro non toglie che sia vero, anche per Dante, che secondo la «regola de la umana natura» quest'arco abbia una tesa media di settant'anni, come, d'accordo col Salmo LXXXIX, sostenevano comunemente medici e filosofi.
Ma qui, per venire a capo dell'imbroglio che s'è venuto a creare, è necessario insistere sull'errore commesso dal Battaglia, trascurando quanto Dante ci ha fatto sapere sul calcolo «de brevitate et longitudine vitae» fatto da lui nel quarto del Convivio.
Ivi Dante afferma anzitutto, con Aristotele, da lui non bene inteso, che l'arco della vita umana, come quello degli altri viventi, è misurato sul circuito o περίοδος celeste delle costellazioni che al nascere e al tramontare d'ogni sorta di viventi presiedono (Conv., IV, xxiii, 5-7). E dall'arco celeste dipenderebbe la «regola dc la umana natura», cioè la durata della vita umana, se qualcosa non l'impedisse. Poiché è evidente che questa «regola» fissata dal sorgere e tramontare delle costellazioni in troppi casi è impedita. A parte la morte violenta, le pestilenze, i climi malsani, i terremoti, le inondazioni e altri accidenti dovuti a cause esterne, sulla «regola de la umana natura» influiscono in meglio e più spesso in peggio la «complessione del seme... migliore e men buona, la disposizione del seminante... migliore e men buona, e la disposizione del Cielo... buona, migliore e ottima (la quale si varia per le costellazioni, che continuamente si transmutano)» (Conv., IV, xxi, 7).
Aristotele, in vista di tutto ciò, dopo quanto aveva affermato nel De generatione et corruptione, aveva creduto opportuno tornare sull'argomento e trattarne più ampiamente nell'opuscolo che s'intitola appunto De longitudine et brevitate vitae, e che precede quello De iuventute et senectute et de vita et morte. E sia nell'uno come nell'altro, a dar ragione del variare della lunghezza e brevità della vita umana nei singoli, e a stabilire la durata media della vita per ogni specie e genere di viventi, sente il bisogno di prestare attenzione a quel che ne dicono i fisici e i medici. E manda a farsi benedire i matematici del sette (numero perfetto) moltiplicato per dicci (numero arciperfetto); proprio lui che, nell' elaborazione dello strumento della ricerca scientifica e nella stessa costruzione del mondo fisico, non aveva mai saputo celare la sua ambizione di giungere a un sapere uguale in certezza al sapere matematico, e mostrava il suo disappunto quand'era costretto a contentarsi di ragionamenti topici e retorici!
Anzi che al 7 x 10, Aristotele preferisce attribuire la lunghezza della vita, sì negli individui come nella specie, al rapporto esistente fra l'umido radicale, soggetto a consumarsi e bisognoso d'essere restaurato, e il caldo, poiché in queste due qualità risiede appunto la vita. Il corso della vita in ogni specie di viventi si divide in due momenti essenziali: l'ascesa o accrescimento, eh' egli chiama gioventù, e il declino o discesa, eh' egli chiama vecchiezza. Al sommo di quest'arco, descritto dallo slancio vitale che comincia con la nascita, e dal declino che termina con la morte, sta l'άϰμή, che taluni considerano come il punto che divide il momento ascendente da quello discendente dell’arco stesso, ed altri invece come un'età frapposta fra l'adolescenza e la vecchiezza, e che chiamano status o aetas consistendi. Così Aristotele, mentre nel De generatione et corruptione fa dipendere la tesa dell'arco della vita per la specie umana dal periodico accesso e recesso delle costellazioni dal «cerchio obliquo che i pianeti porta» (cioè dall'eclittica) e giunge a sostenere che la generazione e la corruzione, ossia l'ascesa e la discesa di quest'arco si compiono teoricamente, secondo la «regola de la umana natura», in tempi eguali, nei due opuscoli De longitudine et brevitate vitae e De iuventute et senectute viene a dirci che questa «regola» è puramente teorica e consente con quanto ne avevano detto i «fisici», e anch'egli, come loro, sembra rifuggire dal fissare una cifra, anche come durata media, della vita umana. E infatti tra i «fisici» e i medici antichi e medievali vi sono molte esitazioni, sebbene tutti oscillino fra il sessanta e il settanta o fra il settanta e l'ottanta per gl'individui meglio complessionati. E altrettanto si dica per il colmo dell'arco della vita. Averroè, commentando il t. c. 58 del secondo libro del De generatione et cotruptione, aveva perciò notato:
Et debes scire quod, quando posuerimus hoc quod dixit Aristoteles, quod tempus crementi est aequale tempari senectutis, proponemus hoc quod Medici dicunt, quod tempus iuventutis sii in homine usque ad triginta quinque annos; et propter hoc vita naturalis in septuaginta annis sit; et propter hoc dixit magister quod vita est media in septuaginta et sexaginta annis.
Veramente ove questo dica il magister, cioè Aristotele, io non saprei. Però so che nella Politica, lo Stagirita, volendo stabilire qual è l'estremo limite del potere di generare, secondo l'esperienza comune, indica i settanta anni per i maschi e i cinquanta per le femmine. Il che non significa che i settanta e i cinquanta segnino l'estremo limite della vita.
Perciò Averroè, nella parafrasi del De longitudine et brevi tate vitae di Aristotele, è d'accordo con questo e con i medici; specialmente con Galeno, nel ritenere che la durata della vita, più che da un numero ricavato dalla comune esperienza, dipenda unicamente dalla proporzione delle qualità umorali in cui consiste la «complessione» che anche Dante ricorda (Conv., IV, xxi, 4, 7) come «vertù de li elementi legati» e che «puote esser migliore e men buona». Senonché, aggiunge il commentatore di Cordova, conoscere per di- retta esperienza sensibile qual è la complessione naturale di ogni uomo non è punto facile, e per determinare la durata media della vita umana bisogna contentarci d'un calcolo razionale forzatamente approssimativo:
Et complexio media, quam ponit Galenus, videtur esse ista. Sed scire is tam complexonem sensu valde est difficile; et magis videtur esse per rationem quam per sensum. Et quia ista proportio est ignorata naturaliter, videmus quod multi graviter infirmi etiam vivunt multum, et multi bonae consistentiae moriuntur iuvenes. Et diversitas hominum in vita est secundum diversitatem eorum in hac proportione complexionali in illis duobus, scilicet in abundantia caliditatis et humiditatis, et in dominio virtunrm activarum.
Se a tutto questo avesse badato il Battaglia e avesse letto con attenzione i capp. xxiii-xxiv del quarto trattato del Convivio, avrebbe visto che per Dante le età della vita umana normale non sono affatto sette, ma tre: l'adolescenza, di venticinque anni; la gioventù, dai ventisei ai quarantacinque; e la vecchiezza, che, nella discesa dell'arco della vita, ha una durata uguale all’adolescenza, dai quarantasei anni ai settanta: 25+20+25=70, pari pari, che è l'intero «cammin di nostra vita» anche secondo il Salmo LXXXIX, come abbiamo già visto: «dies annorum nostrorum in ipsis, septuaginta anni... ». Nel distinguere queste tre età e nel determinarne la rispettiva durata, Dante s' attiene in sostanza ad Aristotele e ai fisici. Di Aristotele è la distinzione fra l'adolescenza (tempus trementi, periodo ascendente dell'arco della vita) e la vecchiezza (periodo del declino, che, almeno teoricamente, dovrebbe avere la stessa durata dell'adolescenza), fra le quali due età s'inserisce la gioventù, che Aristotele chiama άϰμή. Dai fisici e medici derivano invece le dubbiezze e riserve che Dante esprime sull' effettiva durata di queste tre età della vita calcolata di settant'anni. Il «senio» è una quarta età per gli ottimamente o perfettamente naturati e complessionati la cui vita si protrae oltre i settanta. In tutto questo il calcolo settennale di Macrobio o d'altri non c'entra per niente.
E nondimeno, dalle premesse di cui abbiamo saggiato la solidità, il Battaglia vorrebbe trarre questa conclusione: «Allora si capisce che i trentacinque anni di Dante hanno un significato che trascende la sua personale esperienza e si vengono a porre in una prospettiva paradigmatica... ». E ancora: «i suoi trentacinque anni sono sì i suoi, ma sono anche quelli di tutti, di ciascuno. Sono una pietra miliare della sua esistenza, ma in trasparenza alludono a quella di ogni individuo. Un elemento, vale a dire, autobiografico diventa una tipizzazione universale. Questo è il processo spirituale con cui Dante si pone a protagonista del suo Poema: è lui, sì, come persona determinata e individua, ma in lui si assomma l'umanità, tutto il corpus cristiano. "Nel mezzo del cammin di nostra vita", con quel pronome possessivo esteso all'intero consorzio degli uomini, Dante ha già segnato il carattere di universale solidarietà spirituale dell'intero Poema. Insomma, i trentacinque anni eh' egli toccava in quel solenne 1300, l'anno del grande giubileo, sono gli anni della crisi di ogni vita ed esperienza cristiana... ».
E tutto questo il chiaro autore ha l'aria di enunciare, non dico come una scoperta, ma come il «processo di revisione critica che va oggi subendo la lettura del Poema sacro», al quale è sua convinzione che la storiografia italiana e la stessa interpretazione dantesca partecipino piuttosto scarsamente. Senonché mi viene in mente un passo ben noto intorno all'argomento della Commedia tutta intera, Inferno, Purgatorio e Paradiso, sul quale vorrei richiamare la sua attenzione, perché m'è sempre parso duro a mandar giù, prima e dopo la lettura della Poesia di Dante del Croce. Dice quel passo:
Hiis visis, manifestum est quod duplex oportet esse subiectum, circa. quod currant alterni sensus [se. litteralis et allegoricus]. Et ideo videndum est de subiecto huius operis, prout ad litteram accipitur; deinde de.subiecto, prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animanrum post mottem simpliciter sumptus; narn de ilio et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merenda et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.
Conosce il Battaglia l'autore di questo testo? Io proprio no; tanto mi pare insensato. Ho dei sospetti, e li ho resi noti: ma certezza no. So che taluni si son battuti e si battono ancora gagliardamente per attribuirlo niente meno che a Dante. Che gusto ci provino è affar loro. Io sarei piuttosto d'avviso che autore ne fosse qualche frate veronese la cui anima benedetta si sia reincarnata, dopo sei secoli, nelle fiorite terre della California, o anche sulle sponde del lago Michigan, o dove l'acqua del Patapsco s'insala. La sua voce pare sia improvvisamente risuonata nel golfo di Napoli, e v'abbia di soprassalto destato dal suo «sonno dogmatico» il Battaglia che ha gettato l'allarme. Non abbia paura: nessuno toglierà alla critica italiana questo primato dell'interpretazione allegorica della Commedia. Un testo come quello ora allegato nessuno riuscirà a distruggerlo, e resterà a documentare con quali intenti e sotto quali auspici è nata e s'è largamente diffusa la «prospettiva paradigmatica» suggerita dal Battaglia ai lettori moderni del poema dantesco.
A me per altro questa «prospettiva paradigmatica» sembra che abbia assai scarsamente contribuito all'intelligenza del senso letterale, dal quale, a giudizio di Dante (Conv., II, i, 6-12), è pur sempre necessario muovere per giungere a un più profondo senso «spirituale» o allegorico, quando la lettera lo suggerisce. Il più delle volte m'è parso che si tratti di lambiccate buggerate teologiche, o d'altro genere, che col senso letterale non hanno proprio nulla o assai poco che fare, e, anzi che illuminarlo, lo oscurano. Quelle, per esempio, che ho già segnalato.
Ma il Battaglia ne offre un altro esempio proprio qui, nel tentativo di spersonalizzare la vicenda dello smarrimento nella selva, e del viaggio nell'oltretomba, prima sotto la guida di Virgilio e poi sotto quella di Beatrice.
Lo smarrimento di Dante nella selva è ampiamente spiegato: 1. dalle tre fiere che vorrebbero ricacciarvelo appena n'era uscito; 2. dall'accenno abbastanza esplicito nell'incontro con Forese (Purg., XXIII, 114-23) e dai rimproveri di Beatrice, la quale non si riferisce soltanto a infedeltà e altri traviamenti morali (Purg., XXX, 103-41), ma altresì a errori dottrinali (Purg., XXXIII, 85-99); 3. dalla dichiarazione della donna: beata (Purg., XXX, 136-41):
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l'uscio de' morti;...
come appunto si legge nel canto II dell'Inferno (52-114), ove Lucia l'esorta, accennando al pericolo di morte che corre il suo fedele:
Non odi tu la pièta del suo pianto?
non vedi tu la morte che 'I combatte
su la fiumana ove 'I mar non ha vanto?
Il Battaglia invece con animo distaccato si chiede; «Nel 1300, o giù di lì, quali accadimenti biografici avranno potuto sconvolgere l'intimità morale [bello, bello!] di Dante e farlo deviare dal suo abituale cammino e». E più giù: «Insomma, la crisi di Dante non era da misurarsi con i criteri della più personale biografia, ma in vista di una verità universale e ineccepibile e perciò non limitata a un motivo individuale ed episodico, ma estesa all'orizzonte di tutta l'esistenza umana… Il poeta assumeva se stesso a simbolo dell'intera umanità»! E così. Dante Alighieri, il pronipote di Cacciaguida, quel che ruppe uno dei pozzetti del suo bel San Giovanni per un che dentro v'annegava, è trasformato in ameno teologico colossale mannequin di tutto il genere umano. Sulla base di quel teologico mannequin è sorta la nuova «estetica mannequine» o «manichina» che pare si sia proposta di mettere allo sbaraglio il campo d'Agramante dell'estetica crociana. Sento parlare anche d' una «componente metafisica della poesia»; ma non la conosco abbastanza per esprimere un giudizio sui rapporti di questa teoria con «l'estetica manichina» di cui s'è fatto propugnatore il Battaglia.
Però si direbbe che Dante faccia di tutto per respingere da sé questa funzione di mannequin. Il viaggio che Virgilio lo esorta a intraprendere è altra cosa dall'invito rivolto a tutti i cristiani da papa Bonifacio VIII di recarsi a Roma per lucrare la perdonanza, non un viaggio da «romeo», ma un viaggio da «palmiere», che ha per mèta ultima la Gerusalemme celeste, suggerito da Beatrice, perché la famelica lupa non gli consentiva altra ... «alternativa», un viaggio eccezionale, insomma, come l'andata d'Enea all’Averno e ai Campi Elisi e come il ratto di Paolo al cielo, con una missione speciale assegnata tanto all’uno quanto all'altro. E Dante l'ha capito così bene, che, pensandoci, si sente venir meno il coraggio:
Il Battaglia invece con animo distaccato si chiede; «Nel 1300, o giù di lì, quali accadimenti biografici avranno potuto sconvolgere l'intimità morale [bello, bello!] di Dante e farlo deviare dal suo abituale cammino e». E più giù: «Insomma, la crisi di Dante non era da misurarsi con i criteri della più personale biografia, ma in vista di una verità universale e ineccepibile e perciò non limitata a un motivo individuale ed episodico, ma estesa all'orizzonte di tutta l'esistenza umana… Il poeta assumeva se stesso a simbolo dell'intera umanità»! E così. Dante Alighieri, il pronipote di Cacciaguida, quel che ruppe uno dei pozzetti del suo bel San Giovanni per un che dentro v'annegava, è trasformato in ameno teologico colossale mannequin di tutto il genere umano. Sulla base di quel teologico mannequin è sorta la nuova «estetica mannequine» o «manichina» che pare si sia proposta di mettere allo sbaraglio il campo d'Agramante dell'estetica crociana. Sento parlare anche d' una «componente metafisica della poesia»; ma non la conosco abbastanza per esprimere un giudizio sui rapporti di questa teoria con «l'estetica manichina» di cui s'è fatto propugnatore il Battaglia.
Però si direbbe che Dante faccia di tutto per respingere da sé questa funzione di mannequin. Il viaggio che Virgilio lo esorta a intraprendere è altra cosa dall'invito rivolto a tutti i cristiani da papa Bonifacio VIII di recarsi a Roma per lucrare la perdonanza, non un viaggio da «romeo», ma un viaggio da «palmiere», che ha per mèta ultima la Gerusalemme celeste, suggerito da Beatrice, perché la famelica lupa non gli consentiva altra ... «alternativa», un viaggio eccezionale, insomma, come l'andata d'Enea all’Averno e ai Campi Elisi e come il ratto di Paolo al cielo, con una missione speciale assegnata tanto all’uno quanto all'altro. E Dante l'ha capito così bene, che, pensandoci, si sente venir meno il coraggio:
Io non Enea, io non Paolo sono:
me degno a ciò né io né altri crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la' venuta non sia folle...
(Inf., II, 32-5).
S'è mai fermato il Battaglia a considerare la piena consapevolezza che Dante ha già dell'impresa che Virgilio gli ha consigliata? E il senso di trepidazione e quasi di sgomento al risonar di quei due nomi, ugualmente santi per lui, e d'un tratto affiorati insieme alla sua memoria: Enea e Paolo? Enea, «de l'alma Roma e di suo impero / ne l'empireo ciel per padre eletto» (Inf., II, 20-1); Paolo, «il gran vasello / de lo Spirito Santo» (Par., XXI, 127-8), il «gentium predicator» (Ep., XI, 3), per cui l'unico Impero fondato da Enea e l'unica Chiesa di Cristo s'estesero al mondo intero! - «Io non Enea, io non Paolo sono!...» - E tuttavia Dante capiva fin da questo momento che il poeta mantovano lo incitava a mettersi sulle orme di Enea e a tentare il ratto di Paolo al cielo. «A te convien tenere altro viaggio»! Altro che il viaggio d'un «romeo»...
A vincere la sua «viltà» di cuore e a ridargli «ardire e franchezza», l'anima cortese di Virgilio gli svela com'è venuta al suo soccorso e come «tre donne benedette / curan di lui ne la corte del cielo». Sì che Dante, rinfrancato, non esita più a seguire la sua guida, e ben tosto apprende che il suo viaggio pei tre regni della morte è un «fatale andare», voluto «colà dove si puote / ciò che si vuole», per la missione che gli è affidata da Dio stesso, di vedere «la cagion che 'l mondo ha fatto reo», di assistere alla mistica processione ove gli son mostrati la pianta edenica «due volte dispogliata», il carro della Chiesa trasformato in mostro, e infine di annunciare l'imminente venuta del «messo di Dio» che «anciderà la foia» che puttaneggia coi re, e in quel momento col gigante francese «che con lei delinque». A questa missione a lui personalmente affidata da Dio, invano s'oppongono le potenze infernali; poiché proprio a lui solo
è conceduto che d'Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere
anzi che 'l militar li sia prescritto;
a lui solo, in quel momento, è conferito il singolarissimo privilegio già un tempo concesso a Enea e a Paolo:
Poi che per grazia vuol che tu t'affronti
lo nostro imperadore, anzi la morte,
ne l'aula più secreta, co' suoi Conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la speme, che là giù bene innamora,
in te ed in altrui di ciò conforte.
Quale fosse la speranza da riconfortare in sé e in altrui, tornato in terra, è ben noto per quello che Dante vede e ode negli ultimi canti del Purgatorio, e di nuovo alla fine dei canti IX e XXVII del Paradiso. Ché su questo punto non è ammissibile il più piccolo dubbio: il viaggio suggerito a Dante da Virgilio, e compiuto parte sotto la guida del poeta mantovano e parte sotto quella di Beatrice, quanto al senso letterale perfettamente chiaro e coerente, anche tenuto conto delle metafore e di eventuali espressioni enfatiche, si offre al lettore come un viaggio pei tre regni d' oltretomba compiuto per singolare privilegio di Dio, che ha affidato a Dante una missione. E questo ammette anche il Croce. Che poi la narrazione che Dante, autore e protagonista del poema, ce ne ha fatto, sia una «fictio rethorica», una favola, una bella menzogna, un romanzo teologico, o che invece sia esperienza vera d'ordine religioso (magari illusoria, come pensava il Foscolo) da lui personalmente vissuta, non ha alcuna importanza in rapporto alla pretesa «paradigmatica» dell’«estetica manichina», professata dal Battaglia: il quale vorrebbe trasferire al genere umano o anche soltanto all'umanità cristiana un avvenimento che, reale o fittizio, resta, nella narrazione che il poeta ne ha fatto, indissolubilmente legato alla persona del protagonista della Commedia. Avulso dall'eroica personalità del protagonista ed esteso a tutti gli uomini, in una «prospettiva paradigmatica», l'avvenimento narrato non solo perde colore e calore di altissima poesia, ma resta privo di vero significato letterale, che non sia quello d'un'interminabile serie d'indovinelli. E questa è la prima e perentoria ragione che rende, più che vano, insensato ogni tentativo d'interpretazione «paradigmatica» e manichina.
Ma poi è davvero la Commedia quella «fictio rethorica», per cui «pictoribus atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas»? Quale assurdo ne seguirebbe a pensare che essa sia stata concepita dal suo autore come vera visione profetica, apparsagli dopo le accese meditazioni sull'Eneide e sulle visioni profetiche e apocalittiche della Bibbia, nel generoso proposito di trovare l'unica soluzione ragionevole dello scandaloso conflitto fra la Chiesa e l'Impero, nel momento che l'esser giunta la spada col pastorale appariva al suo animo di credente la vera cagione del disordine morale e religioso che regnava nel mondo cristiano? Nessuno. Soltanto uomini come frate Guido Vernani, domenicano di Rimini, espositore della bolla Unam sanctam e apologista della ierocrazia di Bonifacio, potevano mostrarsi adontati del poema e del suo autore, e pensare, come appunto scriveva il frate, che Dante, «multa fantastice poetizans», ma, non essendo in sostanza altro che un verboso sofista, «suis poeticis fantasmatibus et figmentis ... scenicas meretriculas adducendo, non solum egros animos, sed etiam studiosos dulcibus sirenarum cantibus conducit fraudolenter ad interitum salutifere veritatis». Il che spiega perché il Capitolo della provincia toscano-romana dell'Ordine domenicano, tenuto a Firenze in S. Maria Novella nel 1335, interdicesse a tutti i frati, giovani e anziani, di tenere presso di sé e di leggere «pocticos libros sive libellos per illum qui Dante nominatur in vulgari compositos». Onde pare avesse ragione Pietro, .il figlio del poeta, di lagnarsi che la nomea del maestro di tutte le arti fosse stata «condannata in concestoro», da parte «di quei che voglion dire che 'I Mastro della fede fussi errante», e non sanno che se la fede «fussi spenta, rifariela Dante». A gravi accuse da parte d'invidiosi che rimproveravano a Dante il temerario ardire d'essersi misurato con S. Paolo nella sua ascesa al cielo, s'accenna anche nella seconda parte dell'Epistola a Cangrande (xxviii, 78-82), dalle quali l'anonimo autore di questa seconda parte difende il poeta. Da siffatte accuse appunto cercano di scolparlo i più antichi commentatori con la trovata del soprasenso allegorico, nel quale sarebbe da cercare quella verità che la «fictio rethorica» del senso letterale nasconderebbe.
All’esempio di costoro, e con gli stessi intenti, s'ispirano oggi i sostenitori dell'esegesi «manichina» della Commedia, perché l'accettazione pura e semplice del senso letterale puzzerebbe troppo d'eresia anche alle loro narici, e questa oppongono all'interpretazione estetica del Croce.
Benedetto Croce fu indotto ad avvicinarsi alla poesia di Dante quando aveva ormai elaborato la sua dottrina estetica in tutte le sue parti e nelle relazioni di essa con le altre forme o momenti della coscienza nel sistema della «filosofia dello spirito»; ed oltre ad averne schizzato il disegno storico, ne aveva perfino elaborato come complemento e chiarificazione quel Breviario che ha avuto tanta fortuna fra i letterati meno preparati ad intendere certi termini ed espressioni filosofiche della trattazione maggiore. Nella quale, tra l'altro, i riferimenti a Dante si riducono a ben poco, e cioè a quanto si legge alle pp. 199-201 dell’Estetica nella terza edizione riveduta del 1909, per quel che concerne l'origine dell'interpretazione allegorica del poema virgiliano nel Medioevo, e l’uso del procedimento per cui nell’esegesi delle Sacre Scritture invalse l'uso di distinguere (cosa ben diversa) i quattro significati: letterale, allegorico, morale e anagogico, «che Dante doveva poi» (si notino bene «trasportare alla poesia volgare». Dopo questo accenno assai vago, che parrebbe attribuire a Dante l'aver trasportato alla poesia volgare l'uso dei «quattro sensi», estesi a tutto il poema, il Croce si sofferma sulla definizione della poesia nel De vulgari eloquentia, come «nihil aliud... quam fictio rethorica musicaque poita», senza neppure accorgersi della chiosa che Dante vi fa nel Convivio (I, vii, 14-15; IV, vi, 3-4), là dove si parla dell'arte di legare parole «per musaico legame armonizzare» con la conseguenza che Dante, assai prima del Croce stesso, ne aveva tratto, che cioè una poesia, come quella dei poemi omerici, scritti in greco, o dei Salmi ebraici, non si possa «de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Fino a questo momento assai debole appare pertanto l'attenzione posta dal Croce alla poesia di Dante.
Ma nel 1911 egli dava alla luce La filosofia di G. B. Vico. Possiamo asserire con sicurezza che fu negli anni di meditazioni nei quali fu recata a termine quest'opera, se il Vico rivelò al Croce un Dante al quale egli non aveva ancora pensato: il Dante fratello medievale d'Omero, esempi l'uno e l'altro di poesia primitiva.' Con· Vico, concludeva il Croce, «l'Italia ritrovò così la grandezza del suo Dante, e quella critica dantesca che il Vico aveva iniziato, il De Sanctis portò a compimento».
Parole alquanto enfatiche, che, pronunziate in quel momento nel quale gli studiosi italiani e di tutto il mondo si apparecchiavano a celebrare il sesto centenario della morte del poeta, non mancarono di produrre viva impressione, e in taluni perfino scompiglio.
Il Croce, puntando sulla poesia cli Dante, lasciava in disparte questioni da lui ritenute marginali o addirittura non pertinenti e perfino ingombranti ai fini della sua indagine, e già pareva orientato a fare del poema dantesco il banco di prova della solidità della sua dottrina estetica, precedentemente elaborata e sistemata nel sistema compatto della «filosofia dello spirito». Il momento pareva senza dubbio indovinato. Ma proprio sul finire del 1913 e nei primi mesi del 1914, noi giovinotti tra la ventina e i trenta ci trovammo di fronte al «grand différend» tra l'elaboratissimo sistema crociano della «filosofia dello spirito» e il recente «attualismo» gentiliano. Il che sorprese non pochi aficionados della Critica, abituati da oltre un decennio a considerare un po' «Croce-e-Gentile» quasi due fratelli siamesi. Veramente, chi aveva seguito con occhio attento quel che l'uno e l'altro pubblicavano nella rivista, aveva potuto notare segni di acuti dissensi che, prima o poi, avrebbero dovuto rivelarsi apertamente. Primo a manifestare il suo dissenso dagli amici della Biblioteca Filosofica di Palermo fu il Croce; il quale aveva tutte le sue ragioni di vedere nell'e attualismo» gentiliano una minaccia diretta alle «quattro forme» e ai «quattro distinti» della sua «filosofia dello spirito». Il dibattito che ne seguì, tenuto ad altissimo livello filosofico, e per i problemi posti in discussione e per nobiltà d'intenti e signorilità che animavano hinc inde la discussione stessa, parve l'evento più importante della filosofia europea di quegli anni indimenticabili, quando l'Italia ne deteneva davvero il primato. Dal dibattito esulava allora ogni ombra d'interesse pratico. Non si avvertivano ancora nell'aria i segni forieri della grande tempesta che, pochi mesi dopo, doveva sconvolgere il volto della vecchia Europa; ed erano ancora insospettati, nonché imprevisti, i torbidi fatti che nel dopoguerra agitarono l'Italia, e resero impossibile la ripresa proficua e serena del nobile dibattito fra i due contendenti, dei quali pareva si dovesse ormai dire quel che Lucano aveva detto dei «gemini fratres, fecundae gloria matris, quos eadem variis genuerunt viscera fatis» (Phars., III, 604-5).
Questa contesa ebbe come conseguenza un approfondimento del distacco fra la concezione crociana e quella gentiliana proprio sul tema che stava più a cuore al Croce: quello dell'indipendenza della poesia da ogni forma d'invasione del dominio della fantasia da parte del pensiero logico e di quello pratico.
Lo si vide ben presto, quando il Croce pubblicò, nel 1921, La poesia di Dante. Ove l'affermazione che il De Sanctis avesse recato a compimento la critica dantesca iniziata dal Vico, è sopraffatta da troppe riserve e dissensi fondamentali (nell'appendice sulla «Storia della critica dantesca», pp. 190-5). Soprattutto appariva evidente nel Croce, in perfetta coerenza con la sua dottrina estetica precedentemente elaborata (specie nel Breviario), la tendenza a liberare la forma da ogni considerazione «allotria», quale a lui sembrava quella del De Sanctis che tanta parte faceva al contenuto e all’ambiente storico nel quale un'opera è stata concepita, Il Croce insomma si mostrava assai meno preoccupato del De Sanctis che la scissione fra la struttura architettonica del poema e l'invenzione poetica compromettesse l'interiore unità d'un' opera congegnata con sì mirabile corrispondenza in tutte le sue parti. Anzi, egli pareva soddisfattissimo di vedere infranta questa pretesa unità. Il paragone della «fabbrica robusta e massiccia, sulla quale una rigogliosa vegetazione si arrampichi e stenda e s'orni di penduli rami e di festoni e di fiori, rivestendola in modo che solo qua e là qualche pezzo della muratura mostri il suo grezzo o qualche spigolo la sua dura linea», questo paragone, dicevo, starebbe a indicare che «il rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra un romanzo teologico, ossia una didascalia, e la lirica che lo varia e interrompe di continuo», e metterebbe in evidenza (fin troppo, perché tra la fabbrica e la vegetazione non c'è nessun vero ed intimo rapporto. Chi ha costruito la fabbrica non pensava alla vegetazione che per caso vi s'è abbarbicata) il carattere frammentario della poesia dantesca e l'impossibilità di ricostituirne l'unità per mezzo della struttura del poema.
La sola unità possibile, per il Croce, fra la struttura del «romanzo teologico» e la poesia su di essa abbarbicata, è data da un atto non poetico, ma pratico, di Dante, il quale avrebbe riunito in tre cantiche tre gruppi di frammenti lirici, che gli sembravano avere fra loro maggiore affinità, si da dare a ciascun gruppo una particolare fisionomia che lo distingueva dagli altri due. Perciò, il lettore che cerca in Dante solo la poesia, pur senza respingere le parti strutturali del poema come «non poesia» o «poesia sbagliata», potrà «rispettarle come necessità pratiche», ma non insistere in quelle e soffermarsi invece in altre; «ossia leggere Dante proprio come tutti i lettori ingenui lo leggono e hanno ragione di leggerlo, poco badando all’altro mondo, pochissimo alle partizioni morali, nient' affatto alle allegorie, e molto godendo delle rappresentazioni poetiche, in cui tutta la sua multiforme passione si condensa, si purifica e si esprime».
Dubito assai che questo lettore ingenuo della Commedia sia proprio il Croce. Quando, per esempio, - a proposito di chi pensò, al seguito del Foscolo, che Dante stesso, ingannato dalla vivezza delle proprie immaginazioni, cadesse in una sorta d'allucinazione (il Foscolo preferisce la parola «illusione»), ritenendo d'aver visitato davvero i tre regni d'oltretomba, per un singolare privilegio concessogli da Dio, - il Croce afferma che questo non è per niun conto da ammettere, «non già perché con tale ipotesi s'introdurrebbe nel genio di Dante una troppo grande mistura di demenza... ; ma veramente perché l'ipotesi contrasta alla limpidezza e consapevolezza della mente e dell'animo di lui, e, per di più, non è necessaria», in realtà egli è condotto a negare credito a quello che Dante risolutamente e pertinacemente vuol farci credere, dal principio alla fine del poema, per un suo pregiudizio intorno al «filosofismo» e al «mitologismo» a cui vorrebbe ricondurre la «religione», confondendola con la «teologia». La religione non nasce dalla teologia, ma da una particolare forma d'esperienza che si dice «fede» e che neanche i teologi riescono a spiegare; tanto vero che la dicon prodotta dilla «grazia», a guisa d'illuminazione interiore.
Il Croce pare non ritenga possibili visioni come quella che Dante pretende d'aver avuto, senza introdurre nel genio di lui «una troppo grande mistura di demenza ...». Una così recisa affermazione mi sembra gettare sulla storia dell'umanità troppo discredito. Io proprio non me la sentirei di ritenere dementi tutti coloro che nell'antichità e nel Medioevo, prima ed anche dopo di Dante, hanno dichiarato d'avere avuto visioni e rivelazioni dalle quali han tratto argomento a scrivere e ad agire per il bene dell'umanità riconoscente. E se visioni e rivelazioni ebbero S. Francesco e i suoi compagni, perché non poteva averne Dante? Non è forse anche quello di Dante un «poema sacro»? E dalle leggende francescane non sgorga forse la più fresca e vivida vena di poesia? Né, d'altra parte, è necessario che il lettore moderno pensi e creda quel che Dante ha pensato e creduto della sua vicenda, bensì che egli intenda e giustifichi storicamente quel modo di pensare e di sentire, senza ritenerlo demenza. Mi sembra insomma che il Croce, in questo caso, si metta da un punto di vista illuministico di pura marca volterriana.
Con che non è mio proposito fare onta né al Croce né al Voltaire, ad ambo i quali mi sento da molti decenni affezionato per averne letto e meditato gli scritti con grande giovamento, segnatamente il Dictionnaire philosophique di quest'ultimo, non foss'altro che per le gustose pagine dedicate al «santo asino di Verona» (volgarmente detto «la muleta») che si «venerava» nella chiesa di S. Maria in Organis. II Voltaire dichiara di non averlo visto; io invece l'ho visto e ammirato e mc ne son procurato una magnifica fotografia. Ma, certo, con Voltaire l'apparire d'un poema co- me la Commedia non si capisce né si spiega.
Il Croce afferma altresì, come abbiamo udito da lui, che il pensare che Dante credesse d'aver davvero visitato l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso terrestre e celeste, è una supposizione «non necessaria». Intanto bisogna riconoscere che questo, proprio questo, che cioè egli, nel suo «fatale andare», visitasse i tre regni d'oltretomba, e che vedesse ciò che egli narra d'aver veduto, né più né meno d'Enea e di Paolo e d'altri a cui Dio concesse lo stesso privilegio, è quello che Dante non si stanca di ripeterci, secondo il senso letterale della sua narrazione, e quello di cui vuol farci persuasi. Inoltre mi par certo che Dante, come tutti i cristiani del suo tempo, credesse alla realtà «fisica» dei tre regni d'oltretomba, che egli, descrivendoli, inserisce nel suo sistema «fisico» dell’universo. Infine, pare egualmente certo, come del resto ritenevano anche i teologi, che Dio può, secondo Dante, concedere ad un uomo ancor vivo sulla terra visioni del mondo ultraterreno, come quella che egli ritiene concessa a sé e altre visioni consimili concesse ad altri, in perfetta coerenza con la loro fede religiosa e con la loro maniera di rappresentarsi la vita e il mondo. Che egli e i suoi contemporanei s'illudessero nel credere tutto questo, è un'altra faccenda. Da un punto di vista storiografico si può anche ammettere che siffatta concezione sia stata superata, come, ad esempio, s'ammette che è stata ormai superata la concezione medievale della terra centro dell'universo. Ma se quel che Dante vuol farci credere del suo viaggio, e che forma appunto la struttura del suo poema, il romanzo teologico, non ha in sé alcuna necessità, che cosa ci sta a fare?
«Paragone per paragone», dopo quello della « fabbrica robusta e massiccia»,' nonché quello dei «tre libri in cui uno stesso poeta abbia raccolto, raggruppandole secondo talune affinità, le proprie liriche»; il Croce parla anche di «una certa compressione... che il romanzo teologico eserciti talora sulla vena poetica», e nota «l'efficacia benefica che quella compressione... esercita, e per la quale la poesia di Dante prende carattere di assoluta necessità, prorompendo attraverso lo schema, resa più vigorosa e intensa dall'ostacolo che le frappone e che essa sorpassa: cosicché ... questo furore poetico di Dante teologo e politico, questo torrente che alta vena preme,... s'apre la via tra le rocce e i sassi e scorre impetuoso. E tanta è la sua forza, tanta la sua ricchezza, che esso penetra in tutti i cavi delle rocce e dei sassi e avvolge con le sue onde spumeggianti e col velo d'acqua che solleva lo spettacolo alpestre, a segno che sovente non si vede altro che il moto delle sue acque».
Questo ultimo «paragone» mi sembra più calzante, e starei per dire altamente poetico, quasi che «lo spettacolo alpestre» inondato dal torrente di poesia «che alta vena preme» avesse finito per commuovere il critico e render poeta anche lui! Che sarebbe davvero «un curioso accidente» toccato ad un critico che sdegna le seduzioni della fantasia quando ragiona da critico. E veramente nel panorama alpestre immaginato dal Croce, «le rocce e i sassi» che oppongono resistenza all'acqua che sgorga impetuosa da un'alta vena e precipita abbasso, formano insieme a questa un tutto inseparabile: ché la resistenza dei macigni è anch'essa una forza (forza di resistenza!) la quale modifica il cadere del!' acqua ed esercita una pressione, un'efficacia benefica» sul rifrangersi dell'impeto del torrente e sul suo spumeggiare. Mi si dirà che le quattro «idées claires et distinctes» si uniscono per il Croce nella «circolarità dello spirito» o nella «vitalità» di esso che circola nelle sue quattro forme passando dal!' una al!' altra. Parole! Francesca e Farinata son legati all'Inferno come Dante lo rappresenta, per esservi tormentati con diversa pena, per aver commesso diversa colpa. La prima, travolta dalla «bufera infernal che mai non resta», se ne difende invocando a sua discolpa due concetti cari a Dante: quello dell'amor ch'al cor gentil ratto s'apprende», e quello dell's amor eh' a nullo amato amar perdona»; e Dante china il capo e sospira. L'altro s'erge dal suo letto di fuoco, «com'avesse l'Inferno in gran dispitto». Ma l'Inferno per il Croce fa parte dello schema «pratico» dell'«altro mondo», cui il lettore ingenuo poco deve badare; come se Francesca fosse ancora, agonizzante, là dove il marito tolse la vita a lei e a quello del cui piacer sì forte fu presa che ancor (nella «bufera inforna! che mai non resta»!) non l'abbandona! E lo stesso si potrebbe dire di tutti gli altri incontri che Dante fa nelle varie soste del suo cammino, là dove pare al Croce che la poesia sgorghi più vigorosa.
Taluno ha pensato che Dante si sia attribuita quest'andata all'altro mondo per un singolare privilegio concesso a lui da Dio, come artificio o finzione poetica con l'intento di dare maggiore verisimiglianza alle sue rappresentazioni e quasi un sostegno (fittizio!) al «realismo» della sua poesia, come se questa ne avesse avuto bisogno! Altri ha pensato che solo per mezzo di questa poetica finzione Dante poteva giustificare le invettive scagliate contro gli uomini di chiesa, parecchi dei quali sono addirittura dannati; quasi che egli credesse che gli uomini di chiesa avrebbero tremato per le cose terribili scagliate contro di loro in nome di Dio! I teologi s'eran premuniti da un pezzo di ottimi parafulmini contro le sue poetiche invettive. Avevano quello della Poetica oraziana: Pictoribus atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas, rincalzato dal Multa mentiuntur poetae della Metafisica aristotelica. Ed era un parafulmine abbastanza sicuro in quanto basato sul concetto della «fictio rethorica», sì che potevano sorridere di quelle invettive. Ma i teologi ne avevano perfezionato un altro: l'allegoria biblica. Sarebbe lungo a dire com'è nato e come s’è sviluppato nel Medioevo l'uso e l'abuso dell'allegoria, sia nell’interpretazione dei miti e dei poemi classici, sia nell'interpretazione dei libri sacri, e come la triplice allegoria biblica si tentasse d'espandere alla Commedia di Dante. Il passo della seconda parte dell’Epistola a Cangrande, citato innanzi, è abbastanza significativo, né sento il bisogno di appulcrarvi altre parole. Noterò soltanto come del concetto espresso in quel passo si appropriarono i primi commentatori del secolo XIV, i quali fecero soggetto della vicenda che Dante narra di sé, non la persona di Dante stesso qual egli si, presenta con la sua individuale fisionomia spirituale al lettore, ma l'homo in generale, l'umanità intera, «una tipizzazione universale», dirà poi il Battaglia, in una «prospettiva paradigmatica» sì che Dante ti balza innanzi nella qualità di perfetto mannequin della ditta.
E fu appunto questa allegorizzazione del poema dantesco rinnovata nell'Ottocento che provocò il disgusto del De Sanctis. Ma pur con disgusto finiva anch'egli per attribuire a Dante quella che era soltanto virtuosità enigmistica di gente avvezza a cavare fumi sensi insospettati dalle pagine della Bibbia, e magari a risolvere l'arduo problema Utrum chimera bombìnas in vacuo nutriatur intentionibus secundis. E così anche il De Sanctis dovette dibattersi a lungo tra l'esigenza di salvare l'unità interiore del poema ch'egli non si rassegnava a vedere spezzata, o ingoiare il rospo dell’allegoria. A un certo momento, però, parve aver intravisto la possibilità di ricostituire l'unità interiore del poema e di sbarazzarsi dell'allegoria, per mezzo della costante presenza e della personale e individuale esperienza del protagonista della Commedia che è Dante stesso, nello smarrimento nella selva come nell'ascesa «al divino dall'umano, all'etterno dal tempo… e di Fiorenza in popol giusto e sano», Dante stesso con la sua personale e ricca esperienza morale, civile, politica e religiosa e con le aspirazioni, che nel suo animo erano maturate, ad un profondo rinnovamento del vetuls homo ch'era in lui, e d ella società civile ed ecclesiastica. Ma per mettersi su questa via e percorrerla sino in fondo era necessario restituire a Dante la sua individuale biografia, liberarlo dalla sua funzione di mannequin di un'umanità, che non è altro se non un'intentio secuuda di cui si pasce soltanto la chimera «bombinans in vacuo»; e soprattutto era necessario rendere alla Commedia il suo senso letterale, che solo interessa il lettore veramente ingenuo. Che cosa ha impedito al De Sanctis di essere questo lettore veramente ingenuo? Il circospetto e cauto Sapegno' ritiene che più della «forte sensibilità romantica, con la conseguente incapacità ad aderire simpaticamente ai temi e agli schemi della poetica medievale», vi fosse forse nel De Sanctis «un residuo di atteggiamenti illuministici, che gli precludeva l'intendimento e la valutazione positiva del "mondo intenzionale" cli Dante nella specifica sostanza della sua cultura religiosa e delle forme scolastiche del suo pensiero...». Non so se tutto questo, anche introdotto con un prudente «forse», vi par poco!
Ma ben più forte che nel De Sanctis, la persuasione che l'allegoria ostacoli nella Commedia l'impeto poetico è stata sentita dal Croce. Il quale, convinto, come abbiamo udito da lui, che Dante avrebbe trasportato nella poesia volgare i «quattro sensi» dell'interpretazione teologica della Bibbia, intraprese un'analisi critica intorno alla natura dell'allegoria ritenuta da lui «una sorta di criptografia, e perciò un prodotto pratico, un atto di volontà, coi quale si decreta che questo debba significare quello, e quello quell'altro...». E di questo carattere essenzialmente pratico, e perciò antipoetico, dell'allegoria egli ha fatto il punto di partenza della sbrigativa liquidazione d'ogni genere di figurazione allegorica, sì da escluderla dal giardino incantato della poesia, per relegarla se mai nella «struttura» del poema; ove si dovrebbero raccogliere e ammassare le didascalie con tutto ciò eh' egli chiama «non-poesia». Siffatta liquidazione dell'allegoria mi pare, a dir vero, troppo sbrigativa e affrettata, anche se si danno allegorie o simboli che presentano il carattere «pratico» di «criptogrammi» a decifrare i quali occorre una «chiave».
Nei vecchi manuali di retorica, era uso ricollegare l'allegoria con la metafora, e considerarla come una «metafora continuata» e sviluppata. Ora quando si dice che un uomo è un «lupo» o un «corvo», è evidente che alla base di siffatte affermazioni metaforiche sta un giudizio, cioè un elemento conoscitivo, e non volontario o pratico; quell'uomo ha costumi che si notano nel lupo, oppure nel corvo, per cui si percepiscono tra certi uomini e il lupo, oppure il corvo, talune rassomiglianze o analogie, le quali c'inducano a trasferire· all'uomo certe proprietà del lupo e del corvo. Altrettanto si dica quando, a significare il comportamento di altri uomini, si usa la metafora dcli' agnello e della volpe. La favoletta del lupo e dell'agnello che s'incontrano allo stesso ruscello, oppure quella di Maitre Coubeau sur un arbre perché e di Maitre Renard par l’odeur alleché sono due piccoli gioielli poetici che si sviluppano da due innocentissime metafore in due raccontini evidentemente allegorici, ove la stessa morale che Esopo e La Fontaine ne traggono sgorga senza nessuno sforzo dalla rappresentazione poetica, all'intelligenza della quale non c'è bisogno di nessuna «chiave».
Il Croce potrebbe osservare che l'esempio d'allegoria dantesca da lui addotto, e preso dal Convivio, II, xiii, I sgg., non è così semplice ed evidente come nel caso delle due favolette d'Esopo e del La Fontaine. No, il caso è proprio identico; la differenza è nel fatto che l'allegoria, per quel che concerne le due favolette, si sviluppa da metafore d'uso comune e perfettamente intelligibili «a tutti i non minorati», direbbe Aristotele; invece la metafora cli «cielo» nel senso cli «scienza» esige un lungo addestramento nelle arti del Trivio e del Quadrivio, rinforzate, al tempo di Dante, da conoscenze astronomiche ed epistemologiche. L'ordine dei pianeti, la natura dei corpi celesti, i loro movimenti, le loro influenze, presuppongono la conoscenza di dottrine piuttosto complicate e non accessibili neppur oggi alla maggior parte degli studiosi di Dante, i quali del resto non ne sentono alcun bisogno, neppure quando questa conoscenza parrebbe per lo meno giovevole a intendere l'esatto significato delle parole.
Ad ogni modo, neppure dall'esempio allegato dal Croce, si deduce quel carattere volitivo e «pratico» di «criptograrnma» che si dovrebbe applicare all'allegoria dantesca. Nell'esposizione letterale della canzone Voi che' ntendendo il terzo ciel movete Dante aveva parlato chiaramente, secondo le dottrine fisico-astronomiche del suo tempo, del numero e dell'ordine dei cieli, e delle intelligenze separate preposte al loro movimento (Conv., II, iii-v), e alle intelligenze motrici del cielo di Venere s'era rivolto per palesare ad esse il contrasto sorto nella sua coscienza fra il ricordo di Beatrice e il nuovo amore che s'era acceso in lui per la filosofia. Invece nell' esposizione allegorica, dal cap. xii in poi, premesso un nuovo e più ampio chiarimento a quanto aveva detto nel cap. ii, sul modo come il secondo amore per la filosofia aveva finito per prevalere sul primo, torna a ripeterci che la donna «pietosa e umile, saggia e cortese ne la sua grandezza» e adorna «di sì alti miracoli» da superare la stessa Beatrice salita alla gloria di Dio, come si legge nella canzone presa a commentare, era «figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia». Il che lo porta a stabilire il posto che alla filosofia compete nell'ordinamento delle scienze umane. Nel disegnare questo ordinamento, Dante scopre che ai sette cieli planetari corrispondono le sette arti del Trivio e del Quadrivio, al cielo stellato od ottava sfera corrisponde la Metafisica, al nono cielo, detto anche primo mobile, la Filosofia morale, e infine all'Empireo, cielo di tutta pace (proprio così!), corrisponde la Teologia, regina e signora (sissignori!) di tutte le scienze. La Filosofia di cui Dante si dice innamorato nel Convivio comprende tutte e dieci queste scienze: 7 + 3 = 10 scienze; 7 + 3 = 10 cieli; e come l'Empireo è «lo soprano edificio del mondo» che racchiude in sé tutte le sfere inferiori ad esso, le quali da quello prendono «vivere e potenza» (Par. XXX, 106-8; cfr. II, 112-23; son versi citati perfino in una memoranda cartolina-caricatura di Montecatini!), così la Teologia abbraccia e subordina a sé tutto lo scibile.
Per questa ragione Dante poteva ben fare del cielo una metafora della scienza. Ma a svilupparla in allegoria egli, proprio nel luogo cui si riferisce il Croce, è condotto non da arbitrio, sibbene da «tre similitudini che li cieli hanno con le scienze massimamente», sospintovi da considerazioni astrologiche sulle «significationes» e sulle «influenze» proprie di ciascun pianeta come dei dodici «signa» dello zodiaco; basta ricordare che gli spiriti beati del suo Paradiso gli appaiono proprio in quel cielo di cui han subito una particolare influenza; e come Cangrande «segnato fue» dalla «stella forte» di Marte, sì che notevoli furon l' opere sue di guerriero, così il poeta stesso e protagonista del poema rende grazie alle gloriose stelle della costellazione dei Gemelli d'aver gustato di prima l' aere tosco (e n' avea ben ragione) mentre il sole sorgeva e s'ascondeva con esse. Allo stesso modo anche Ristoro d'Arezzo,' come fa corrispondere all'influenza dei sette pianeti la generazione dei sette metalli degli alchimisti, dirà altresì: «E anche saranno sette arti liberali e non più, sì che ciascheduno pianeto avrà la sua; la più vile, come la grammatica, sarà per ragione del più vile pianeto come la Luna, e la dialettica sarà di Mercurio, e Venere avrà la musica, e così ciascheduno avrà la sua...».
Ma il Croce contro gl'influssi astrologici s'era premunito col bel corno di corallo che soleva mettere bene in mostra, sì che a lui il lento e frigido pianeta di Saturno non concesse (come neppure a me) d'esser così profondo in astrologia, com'erano Ristoro, Dante e Cecco. Onde male egli ha fatto, per esprimere il suo pensiero contro l'allegoria, a servirsi d'un esempio scelto, proprio col lumicino, dall'astrologia medievale, contro la quale s'era premunito.
Ristoro parla soltanto delle sette arti liberali; ma D ante si spinge più su, come abbiamo visto, e porta il numero di sette a dieci (chi sa come batterà il cuore a Salvatore Battaglia, a sentir ricordare ancora questi due «numeri perfetti»!), aggiungendo alle arti liberali la Metafisica, l'Etica e la Teologia, regina di tutte le scienze. E il rapporto fra il cielo e la scienza non consiste in un atto pratico o volitivo, come vorrebbe il Croce, sibbene nella scoperta di somiglianze, d'influenze e perfino di causalità, da parte del conoscere. Quello che ha tratto in inganno il Croce è la frase: «prima si suol vedere che per questo solo vocabolo "cielo" io voglio dire»; ove «si vuol vedere» significa è necessario, oppure fa d'uopo; e «io voglio dire» significa soltanto qual è il significato della parola cielo, secondo il mio parere.
Si dirà che un'allegoria ottenuta per questo verso è una cosa macchinosa, cerebrale, e non giova affatto all'intelligenza della canzone Voi che 'ntendendo, che, presa in se stessa, è assai più agevole a capirsi senza tener conto del farraginoso commento, in quanto esprime il contrasto, cioè la «battaglia de' pensieri» (Conv., II, ii, 3-4), fra il ricordo di Beatrice morta e salita con lo spirito immortale alla gloria di Dio, e il nuovo amore che s'era acceso nell'animo del Poeta per una misteriosa donna, la quale, per le sue caratteristiche, parrebbe non essere donna mortale; e s'aggiungerà che i concetti di «cielo» e di «scienza», come Dante l'intende, compresa la Metafisica e la Teologia, anzi che veri concetti sono concetti empirici, pseudo-concetti, privi di elaborazione veramente critica, insomma atti pratici, «economici», ecc. ecc. E tutto questo in parte è certo e ben detto, in parte discutibile. Ma perché il Croce, invece di umiliare quei poveri diavoli che sono i dantisti, non s'è dato pensiero di far loro osservare che fu proprio Dante il primo ad accorgersi che con siffatto genere d'allegoria non avrebbe potuto continuare a lungo, e di lì a poco preferì «piantarla», visto che la «donna gentile» gli s'era fatta «fera e disdegnosa»? «Pera», ché non gli ridea, in quanto le sue persuasioni e gli ancora non intendea, e «disdegnosa», ché non gli volgea l'occhio, si eh' egli non potea vedere le sue dimostrazioni (Conv., II, xv, 19). Il che lo indusse a interrompere questo genere di rime allegoriche dal «soave stile», perché in quella donna non v'era amore (Rime, LXXXIV), e a volgersi con «rima aspra e sottile», spoglia dei fronzoli retorici dell'allegoria, ai problemi morali della vita sociale (Conv., IV, i, 5-9).
Questa crisi fu sì profonda nella storia del pensiero e dell'arte di Dante, che senza di essa la Commedia non sarebbe nata. Nel poema sacro ci sono, sì, particolari e figurazioni allegoriche, ma non del genere di quello citato come esempio dal Croce. La selva oscura è certamente una selva metaforica, ma non offre serie difficoltà d'interpretazione tranne a chi vuol cavarne fuori-quel che abbiamo udito dal Battaglia; e lo smarrito in essa è Dante Alighieri fiorentino con tutto quello che narra di sé, dei suoi parenti, amici e conoscenti in cui s'imbatte; nemmeno le tre fiere appaiono così enigmatiche, come pretende qualche scervellato che nel loro rapido apparire ha visto la trasformazione dell'una nell'altra e nella lupa l'antitesi del Logo e non so qual «doppiogiochismo della parola» (!). Il Veltro, sì, offre un aspetto alquanto enigmatico. Ma non occorre disperarci per questo. Intanto è certo che esso è un cane da caccia, e non da pastore, ed ha per compito di cacciar la lupa «per ogni villa / fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno». E siccome la lupa è metafora che indica sicuramente la brama insaziabile o ingordigia di ricchezza e di dominio, e la funzione di cacciare dal mondo la cupidigia è costantemente assegnata da Dante all'Impero, a noi basta di scorgere nell'immagine del Veltro quel tanto di evidente e trasparente allusività ad intender la quale non occorre grande sforzo. Il pretendere che Dante ci dicesse con maggior precisione chi è questo misterioso personaggio che «non ciberà terra né peltro» e nel quale forse riponeva, in quel momento, le sue speranze per il riassetto del mondo sconvolto, mi pare un po’ troppo. A noi basta sapere che cosa dovrebbe venire a fare; e questo è ben chiaro, per chi sa che cosa Dante s'attende da lui. Siccome si tratta d'avvenimento futuro, è probabile che Dante non ne sapesse di più di quel che egli sperava.
Altrettanto si dica del «messo di Dio» alla fine del Purgatorio; ma l'idea di questo personaggio è meno indeterminata, perché s'illumina della luce che su di essa gettano gli avvenimenti cui Dante si riferisce, e che quando scriveva gli ultimi canti del Purgatorio erano in corso di sviluppo. Ed erano appunto questi avvenimenti «li fatti» che avrebbero dovuto, di lì a poco, essere «le Naiade», capaci di risolvere «questo enigma forte». Anche in questo caso, la poesia esprime con vigore quella che era l'accesa speranza nell'imminente futuro: il «messo di Dio anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque». Guarda caso: la fuia e il gigante andarono al diavolo proprio nel corso del 1314, cinquecentoquindici anni dopo l'incoronazione di Carlo Magno, cioè dal principio della translatio imperli a Graecis in Francos, quando Leone III s'era adoprato al trasferimento per certi suoi scopi di dominio, mentre Dio nei suoi eterni decreti ne perseguiva un altro ben diverso, secondo il modo di vedere del Poeta.
Allegorica è senza dubbio la solenne processione che precede l' apparizione di Beatrice, e simbolicamente allusive sono le figurazioni delle vicende del carro della Chiesa, dal tempo delle persecuzioni alla lotta contro l'eresia, e quindi al giorno in cui il carro stesso s'è trasformato in mostro, per avere la Chiesa accettato come dominio sovrano quello che, nella pia intenzione di Costantino, era soltanto una «dote» che l'imperatore cristiano le aveva fatto pro pauperibus Christi. Ma tutte queste figurazioni allegoriche e simboliche sono perfettamente chiare e trasparenti per chiunque conosca la storia degli eventi a cui Dante si riferisce, e in particolare le polemiche intorno a questi eventi; nelle quali polemiche furon tirati in ballo testi del diritto civile e di quello canonico, opinioni di civilisti e di decretalisti, testi biblici d'ogni specie interpretati e spesso stiracchiati in tutti i sensi, letterale ed allegorico, e perfino i pittori s'erano ingegnati di ritrarre la bestia dalle sette teste e dalle dieci corna cavalcata dalla grande prostituta dell' Apocalisse. E come ingegnosamente!
E v'è altresì tra le allegorie il «gran veglio» di Creta. Ma questa figurazione senza dubbio allegorica è suggerita alla fantasia di Dante dalla «statua magna», d'altezza gigantesca e d'aspetto terribile, veduta da Nabucodonosor nel sogno che Daniele gl'interpreta. Il profeta Daniele scorge in essa il preannuncio del decadere della potenza assiro-babilonese e delle monarchie che succederanno ad essa: la testa d'oro è il regno di Nabucodonosor, almeno finché questi non perse la testa; seguirà la monarchia mede-persiana, d'argento; e quindi la monarchia macedone, di bronzo, cui porrà fine il dominio romano, di ferro, che abbatterà la statua, mandandola in pezzi, e inaugurerà un'era nuova, col sorgere di un nuovo regno che si assoggetterà il mondo. Questo aveva predetto Daniele; ma nel Medioevo molte chiose erano state fatte a queste predizioni del profeta ebreo, che Virgilio, com'è naturale, mostra d'ignorare. Egli parla da pagano, ignorando la vicenda d'Adamo nel Paradiso terrestre e quel che vi hanno imbastito su i teologi medievali. Rifacendo a suo modo la storia dell'umanità, egli trasferisce a Creta la statua che Nabucco aveva vista in sogno a Babilonia. A Creta, sotto il regno di Saturno, «in mezzo mar», col monte Ida «già lieto d'acqua e di fronde», fiorì la prima età dell’oro cantata dai poeti. A questa prima età d'innocenza, di giustizia e di pace, in una perfetta primavera, successero l'età d' argento, e di poi, in un progressivo rimbarbarimento, quella del bronzo, «non scelerata tamen», e infine quella del ferro, quando la vergine Astrea, «ultima caelestum», fu costretta ad abbandonare la terra, secondo la narrazione d'Ovidio nelle Metamorfosi (1, 89-150). Ma Virgilio sa inoltre che, nel periodo celeste del «grande anno» cosmico, coll'età del ferro è giunta anche l'ultima età di dolori, di travagli e di scelleratezze che affligge l'umanità, e che è ormai imminente con Augusto il ritorno alla prima età felice: «Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna». Il veglio di Creta guarda appunto a Roma, perché di là tornerà a risplendere sul mondo giustizia e pace tra gli uomini.
Fin qui, pertanto, nella costruzione della statua allegorica del «gran veglio» custodita nella caverna del monte Ida, niente di arbitrario o di «pratico» che raffreni o spenga l'impeto poetico, bensì suggestione di reminiscenze poetico-letterarie che stimolano la fantasia di Dante, audacissima, ma che non si sottrae mai al controllo della ragione, e tratta anche l'ombre come cosa salda.
L'intermezzo del veglio di Creta, dopo l'episodio di Capaneo che nella sua superbia sfida le folgori di Giove, è come una sommessa e grave meditazione sul sinistro paesaggio infernale pieno di pericoli, ai quali occorre fare attenzione per non subirne il danno. Il particolare del picciol fiumicello che spiccia fuor della selva rosseggiando di sangue, e sul quale il poeta mantovano richiama l'attenzione dell'alunno fiorentino, porge occasione a questo intermezzo, ove un profondo concetto filosofico trova adeguata espressione in una composta creazione fantastica. L'unità del «genus humanum», dopo l'età aurea, è «rotta d'una fessura» in ciascuna sua parte dal petto in giù. Non mi pare che Dante abbia voluto attribuire al poeta pagano l'idea delle quattro ferite elencate dai teologi medievali, come conseguenza del peccato d'Adamo; a spiegare questa scissione nella «tunica inconsutilis» quale doveva essere nell'intenzione di Dio e della natura il genere umano, basta l'«artiglio della cupidigia» (Mon., I, xvi, 2-3), diretta nemica dell'Impero. Su questa fessura, che dal petto e dalle braccia s'estende alle membra inferiori, ferma l'attenzione Virgilio, e la vede gocciare di lacrime. Le lacrime veramente dovrebbero gocciare dagli occhi. Se esse gocciano da questa fessura che comincia dal petto, saranno stille e gocce di sudore e di sangue; e queste stille di sudore misto a sangue sgorgate dal dolore umano per le lotte fratricide che la cupidigia ha suscitato fra gli uomini, son quelle che alimentano i fiumi infernali.
Questa volta pare che l'allegoria non abbia opposto verun ostacolo al fluire della vena poetica.
E che dire della famosa corda con la quale alcuna volta il Poeta tentò di prendere «la lonza a la pelle dipinta» e poi attirare dal fondo delle malebolge il triforme mostro di Gerione, «sozza imagine di froda»? Solo improvvisatori scervellati, senza alcuna preparazione e perciò incapaci d'intendere il reale significato delle immagini foggiate dalla fantasia di Dante ed espresse con parole suggerite dall'ambiente culturale a lui familiare, hanno potuto attribuirgli balordaggini prive di senso comune, come quelle che ho avuto occasione di mettere in rilievo in un precedente studio. La corda ha un preciso significato allegorico suggerito a Dante da numerosi testi biblici e liturgici, e giustificato da un passo importante del settimo libro dell'Etica Nicomachea. Gerione invece non è affatto un'allegoria, ma un diavolo dell'Inferno, cioè un angelo ribelle, caduto dal cielo insieme a Lucifero (=Dite), e preposto al governo delle «male bolge». Così è anche delle altre divinità infernali ricordate da Virgilio, ivi compresi i mostri della mitologia, come le feroci Erinni, Cerbero, le Arpie, i Centauri, ecc., cui sono affidati speciali funzioni ed incarichi, nel doloroso regno dell'eterno pianto.
Ma cosa sono questi particolari allegorici, in confronto all'azione che il protagonista svolge in prima persona ad ogni momento, per tutto il poema, in continuo e animato colloquio con le sue guide e coi personaggi in cui s'imbatte? Non dirò che siano particolari trascurabili; anzi son tutti fortemente legati alla vicenda che il Poeta dice accaduta a sé. Ma sta di fatto che tutto quello che si legge nel poema, i casi narrati, gli episodi, i personaggi incontrati, le discussioni filosofiche e teologiche, perfino quella estetico-letteraria sul «dolce stil nuovo» avuta con Bonagiunta, le molte allusioni e accenni a circostanze della propria vita, tutto cospira a mettere in risalto una salda e virile individualità che è centro. di complessi sentimenti di cui si alimenta la fantasia per trarne immagini nitide e possenti, di violente passioni morali che un profondo senso religioso della vita doma, purifica e placa, d'un ardore di conoscenza da cui sgorgano le innumerevoli discussioni che Dante ha con le sue guide e con altri personaggi che incontra sull'arduo cammino, e non per ingannare il tempo, intorno a sottili problemi filosofici e teologici, né per far mostra di saccenteria, come pare credesse il padre Bettinelli, ma per chiarire a se stesso gravi dubbi che lo turbavano, mentre insorge e si sdegna per le favole e le ciance che si gridano in pergamo, e per le rumorose diatribe nelle scuole, ispirate solo dal desiderio d'apparire e di dir cose nuove, anzi che dall'amor del vero.
Giusto, anche le digressioni filosofico-teologiche si ritiene da molti interrompano troppo spesso l'impeto lirico. Ed è vero per chi non ha interesse per gli argomenti posti in discussione né preparazione a intenderli; sì che gli accade di leggere senza voglia e più spesso salta a pie' pari quello che gli sembra ingombrante, estraneo e, per giunta, noioso. Ma se vi sforzate di capire il problema e l'opportunità di chiarirlo proprio a quel punto del poema, vedrete che una ragione c'è. Pigliamo ad esempio quello dcli' origine dell'anima umana affrontato da Stazio nel canto xxv del Purgatorio. il Poeta s'era già posto questo problema nel Convivio (IV, xxi, 1-10), ad approfondire il suo concetto della vera nobiltà, che non deriva dalla schiatta, come nel feudalismo, ma dal valore di chi compie imprese magnanime. Nel Purgatorio lo stesso problema è posto invece a render conto in che modo le anime separate dal corpo possano sentire «caldi e geli» e altri tormenti sensibili come la fame e la sete, essendo prive degli organi della sensibilità. Per un credente come Dante, il problema è reale e presenta serie difficoltà già poste in evidenza molti secoli prima, e di recente dall'averroista Sigieri. il Poeta non poteva continuare, sulla scorta del VI dell'Eneide, a parlare delle ombre che incontra nell'Inferno come nel Purgatorio senza renderne conto al lettore e, prima ancora, a se stesso, poiché, per lui, non è problema illusorio da risolvere con la bacchetta magica della fantasia, come faranno, in simili casi, il Pulci o l'Ariosto, ma è problema filosofico da risolvere razionalmente, cioè coi termini usati nei trattati latini di anatomia e fisiologia che circolavano nelle scuole medievali di medicina, i quali termini entravano così, insieme ·ai corrispondenti concetti (e chiamateli, se v'aggrada, pseudo-concetti), nel patrimonio linguistico di cui Dante usava a foggiare il volgare illustre italiano.
Ma nel far questo, il poeta segue con vigile e commossa fantasia il processo della generazione umana in tutti i momenti che attraversa la virtù «informativa», derivante dal sangue perfetto del cuore del generante, la quale costruisce nel seno materno l'embrione umano, lo avviva e lo prepara a ricevere l'intelletto dal Creatore che quel processo ha disposto. È tutto un susseguirsi d'immagini d'alto valore espressivo, che sfuggono a chi è tediato di siffatto genere di poesia (e chi te lo fa fa'?) la quale ben potrebbe dirsi lucreziana. Ché le vicende dell'attrarsi e del respingersi degli atomi e i vortici di questi nel processo di formazione dei mondi nell'universo infinito sono, nel canto di Lucrezio, eventi di tal portata che la guerra intorno a Troia o la conquista del Lazio da parte d'Enea diventano giochi tra monelli, in confronto al poderoso sforzo per liberare gli uomini dal terrore della morte e degli dei e dalla superstizione. Avanzato al convito delle membra e carico di quella virtù attiva che forma gli organismi viventi dal di dentro, il sangue perfetto del cuor del generante, dopo un'ulteriore cottura e digestione, «geme sovr’altrui sangue», lo coagula, mentre la virtù attiva del cuore paterno penetra in questo coagulo, gli dà vita e ne diviene essa stessa l'anima. La quale si palesa dapprima come principio di vita vegetativa; ma di lì a poco si palesa principio anche di moto e di sensibilità, «come fungo marino», cioè come una spugna, che gli antichi ponevano sul confine del regno vegetale e di quello animale. Da questo momento la stessa virtù attiva, di cui è carico il seme paterno, comincia a organizzare quella massa ancora informe e a crearvi gli strumenti per mezzo dei quali essa eserciterà le varie capacità che promanano dalla sua natura in via di sviluppo; e per mezzo degli organi che essa ha creati, darà vita a tutto l'organismo embrionale, quasi distendendosi in esso e nelle sue varie parti che si vengono differenziando tra loro. Creando il proprio corpo come struinento delle proprie funzioni, essa è l'architetto interno che lo costruisce, come aveva detto Galeno e come dirà Bruno, e con esso fa una cosa sola.
Ma pervenuta a questo punto, l'«informativa», ossia la virtù attiva «ch'è dal cor del generante», se ha prodotto un animale apparecchiato a diventare uomo dotato di pensiero e loquela, al pensiero però non può giungere. Sì che è necessario il diretto intervento del primo motore del cielo, che nell'embrione, già vivo di vita vegetativa e sensitiva, spira la capacità di pensare. E ad esprimere l'unità inseparabile che risulta dall'anima già viva nell'embrione e dallo «spirito nuovo» spirato da Dio, sì da formare «un'alma sola», ancora una meravigliosa similitudine, che dovrebbe illuminare la dottrina trovata in Alberto Magno:
Guarda il calar del sol che si fa vino
giunto a l'omor che de la vite cola.
Così, quando lo strumento corporeo è distrutto dalla morte, la stessa virtù attiva che l'aveva plasmato, e che sopravvive unita all'intelletto, è capace di foggiarne un altro di materia più sottile, un corpo d'ombra, che essa informa come informava l'altro, e v' organa «ciascun sentire infine a la veduta».
V'ingannereste, perciò, a credere che il Poeta dica tutto questo per celia e senza un impellente bisogno che urge nel suo pensiero e quindi muove la facoltà poetica. E altrettanto si dica, per fare un altro esempio, dell'altra e non meno impegnativa discussione, introdotta nel II canto del Paradiso, intorno ad un problema che ci fa sorridere oggi, quale è quello delle macchie lunari. Si può pensare che a interrogare Beatrice sui «segni bui / ... che là giuso in terra/ fan di Cain favoleggiare altrui», Dante sia mosso dall' occasione che gli si presenta di ritrattare un'opinione già da lui professata nel Convivio. E può darsi che sia vero, per ciò che riguarda la prima parte della quaestio proposta, ove Beatrice confuta con sottili argomenti di ragione e d'«esperienza» la falsità di quella opinione; ma per quel che concerne la seconda parte della discussione, non è così. La donna beata, che nei circa quindici anni, dopo la morte, trascorsi in Paradiso, n'è ritornata scaltrita nell'arte del loicare, «provando e riprovando», più e meglio dei teologi «per le nostre scuole», espone al suo fedele una dottrina intorno al turbo e al chiaro della faccia lunare, che è la chiave di volta per intendere il processo di derivazione del molteplice dall'uno, mediante le sfere celesti e l'azione che le intelligenze motrici spiegano facendo di esse strumenti del proprio pensiero per la produzione delle cose del mondo sublunare; sì che il provveder divino per mezzo di queste cause intermedie dispone tutte le cose «a lor fini e lor semenze». Anzi, con siffatta teoria che eleva a dignità di princìpi metafisici vecchie dottrine astrologiche, si vuole stabilire quel «fondamento che natura pone» alle differenze individuali d'ogni uomo che viene all’esistenza, alle varie attitudini, capacità e vocazioni che sono il presupposto della vita civile. Ma Dante si spinge anche più in là, affermando che la grazia divina «s'incappella» in diversa misura sugli uomini fin dalla nascita, «secondo il color de' capelli», cioè secondo queste varie disposizioni naturali.
Non si trattava, dunque, di respingere una vecchia opinione che Dante aveva trovato nel commento averroistico al De coelo, bensì di sostituirle una dottrina neoplatonica che egli si sforzava, sull'esempio di Alberto Magno, d'inserire entro lo schema teologico della creazione.
Altrettanto mi sarebbe facile dimostrare d'altre disquisizioni che troppo spesso, a giudizio d' alcuni, ostacolerebbero lo spontaneo fluire della vena poetica di Dante. Il vero è che, come al suo spirito balenò l'idea della «mirabile visione», ch'egli ritenne una rivelazione fatta a lui da Dio col preciso comando di far conoscere al mondo i suoi arcani disegni sul rinnovamento che i riformatori religiosi annunciavano imminente, il Poeta, col vivo e commosso sentimento della nuova e più alta ascesa che, per sovrumana ispirazione, s'offriva alla sua arte, si pose all’opera per dare esecuzione al disegno che la sua fantasia, sotto lo stimolo e la compressione, direbbe il Croce, della predominante passione religiosa, andava elaborando. E ripensando alle varie forme di componimento poetico delle quali aveva parlato o s'era proposto di parlare nel De vulgari eloquentia, non ne trovò una che facesse alla sua bisogna. Data la complessità dell'opera che s'andava delineando nella sua mente, fermò l'attenzione sulla «commedia elegiaca» che aveva avuto in Francia un notevole sviluppo, nella seconda metà del secolo XII, e ottenuto, almeno in certi ambienti, un assai vivo successo.
Tal genere di «commedia», che spesso trae argomento da commedie di Plauto, differisce da queste perché in essa la vicenda non è direttamente rappresentata, ma raccontata come nei fabliaux, nelle novelle o nei romanzi. Come si sa, la commedia direttamente rappresentata si regge su due elementi essenziali: la scena col suo sfondo, e l'azione dei personaggi che si muovono entro lo scenario e completano col gesto e il comportamento quello che dicono con le parole conversando tra loro. Dante intuì subito i vantaggi che si potevano ricavare dalla trasformazione della rappresentazione teatrale in narrazione, e le possibilità che questo genere di letteratura assai diffuso gli offriva per l'attuazione di un così complesso e insolito disegno della visione oltremondana.
E chiamò il poema cui metteva mano Comedia Dantis, indicando il nome del protagonista del dramma narrato, che è, in questo caso, quello dello stesso narratore, cioè dell'autore o causa efficiens dell'opera scritta; e indicando altresì il genere letterario da lui preferito per scriverla, cioè quello della commedia elegiaca latina già in uso e che poteva trasferirsi al volgare italiano, con la semplice e vantaggiosa sostituzione della terzina di endecasillabi al distico latino. L'ampio arco dell'endecasillabo con la varietà dei suoi accenti e la terzina a rime incatenate si prestavano ottimamente ad esprimere con compiutezza melodica a largo ritmo panorami, episodi, incontri, la fatica dell'andare, le discussioni con le sue guide e con gli spiriti dell'oltretomba, i quali, non solo nello stato di dannazione eterna, ma perfino assorti nella gioiosa contemplazione di Dio faccia a faccia, non sanno dimenticare l'affannosa vita terrena e l' «aer dolce che dal sol s' allegra».
Commedia è chiamato da Dante il suo poema, perché nel variare continuo dello scenario, ove si svolge tra orridi e foschi panorami la discesa al centro dell'universo, quindi la faticosa salita all'Eden, dal levare al tramonto del sole, e infine l'ascesa all'Empireo, oceano sconfinato di luce abbagliante, il dramma consiste principalmente nel dialogo che si svolge prima tra Dante e Virgilio, quindi tra Dante e Beatrice, e in altri dialoghi, assai frequenti, vari di tono e spesso molto animati. In questo continuo dialogare, le discussioni filosofiche e teologiche servono da intermezzi, come abbiamo veduto, strettamente legati con l'azione, in quanto son necessarie a chiarire fatti, cose e circostanze che altrimenti sarebbero parsi illogici o strani. Poiché la preoccupazione costante del poeta è quella di mostrare che l'oltretomba in cui s'aggira è saldato da leggi naturali col mondo terreno. E perciò quelle discussioni e digressioni fanno parte anch'esse dello svolgimento unitario del poema concepito come Commedia.
Che poi la Commedia di Dante superi di gran lunga, per complessità di motivi e arditezza di concetti, la commedia elegiaca latina del secolo XII, vuol dire soltanto che una più alta ispirazione infiammava l'animo di Dante autore e protagonista, che non l'animo di Vi tal e di Guglielmo di Blois, di Matteo di Vendòme e d'altri anonimi autori, che ritessevano per loro conto la trama di drammi già composti da altri su casi della vita ordinaria, mentre Dante nello schema letterario della commedia elegiaca metteva la sua propria avventura concepita come visione concessa a lui da Dio. Lo schema letterario è inizialmente lo stesso; ma l'impeto del sentimento religioso che lo pervade sospinge la sua fantasia ad altezze irraggiungibili, e lo stile elegiaco acquista, nei momenti di più alta commozione lirica, la risonanza e il pathos dello stile tragico.
Il Croce a separare la poesia della Commedia dalla struttura del poema era stato condotto, anzitutto, dalla distinzione, accettabile in sede logica, delle sue quattro forme dello spirito. Ma se formalmente l'arte; e quindi anche la poesia, è intuizione lirica, da parte della fantasia, questa non crea nulla senza uno stimolo, cioè un sentimento che, a guisa di materia, essa plasma. Ora fra i sentimenti che possono commuovere la fantasia, ci sono anche la passione per la filosofia e quella religiosa. E perché no? Non è forse poesia quella che Lucrezio trae dalla filosofia di Epicuro? E non è altissima poesia il Cantico di Frate sole? Bonagiunta degli Orbicciani rimproverava appunto il Guinizelli d'aver mutato «la mainera de li piacenti ditti de l'amore», introducendo nei suoi canti concetti tratti dalla filosofia, sì che le rime del bolognese gli parevano troppo sottili e difficili a intendere:
E voi passai' ogm’om in sottiglianza
e non si trov'alcun che bene ispogna
tant'è iscura vostra parlatura:
Ed è tenuta gran dissimiglianza,
ancor che 'I senno vegna da Bologna,
trare canzon per forza di scrittura.
Ma il Guinizelli rispose, al lucchese, che ogni poeta trae ispirazione dai sentimenti a lui familiari, che ciascuno esprime in vario modo col canto:
Volan per l'aire augelli di stran guise
ed han diversi loro operamenti,
né tutti èn d'un volae né d’un ardire.
Deo e natura e il mondo in gradi mise
e fe’ dispari senni e ‘ntendimenti.
Forse la congiunzione fra Deo e natura è da eliminare; ché il concetto mi par questo: Dio ha fotto le cose della natura e gli uomini (il mondo umano) di gradi differenti anche tra individui della stessa specie; sì che ogni poeta esprime il proprio sentire alla sua maniera, giacché non tutti gli uccelli «èn d'un volar né d'un ardire». E fu questa risposta che aperse nuove vie al Cavalcanti e a Dante.
Tutto ben considerato, par dunque a mc che la separazione, ritenuta necessaria dal Croce, fra struttura e poesia sia da eliminare, anche se la forza poetica non conserva la stessa intensità da un episodio all'altro, dalla pittura d'un paesaggio alla discussione d'un argomento filosofico o teologico, dall'incontro con Minos, con Farinata, con Brunetto, a quello con Catone, con Manfredi o con Guido Guinizelli, dal finale dell'Inferno a quello del Purgatorio e ai canti dell'Empireo. La struttura, il viaggio attraverso i tre regni d'oltretomba, con le necessarie didascalie, non sono che l'attuazione di quella prima visione che, apparsa d'un tratto allo spirito di Dante, ne ha esaltato la fantasia creatrice a darle la complessa forma di poema che le ha dato in un lungo periodo di veglie, freddi e fami, ma anche d'intensa e fervida meditazione, calcolabile approssimativamente in dodici o tredici anni.
Ma perché la separazione fra struttura e poesia scompaia davvero, bisogna eliminare l'idea di un Dante mannequin, la quale da troppo tempo pesa sull'interpretazione della Commedia, sì da aver influenzato lo stesso Croce che, per liberarsene, come d'un'ossessione, ha finito per rompere l'unità del poema. E per liberarci dal Dante mannequin bisogna affidarci unicamente al senso letterale, tranne in quei non molti particolari ove l'allegoria è evidente cd è giustificata, e ritrovare il vero Dante con tutta la sua umana esperienza di cittadino fiorentino e di esule ramingo che a un certo momento s'è sentito cittadino del mondo, e dalla terra è salito in cielo, «in popol giusto e sano», ove la sua intrepida fede di cristiano, messa a dura prova da chi trescava nel tempio coi re della terra, lo portava. Questo Voltaire non poteva capirlo, e, pare, neanche il padre Bettinelli. Ma il Foscolo sì, un po' a suo modo...