Dati bibliografici
Autore: Nino Borsellino
Tratto da: Ritratto di Dante
Editore: La Terza, Roma-Bari
Anno: 1998
Pagine: 59-83
Fino alla Commedia l'opera di Dante, che già superava per vastità e risultati tutte le altre del suo tempo, rimane distinta tra poesia e filosofia, tra le motivazioni liriche e quelle intellettuali, che di volta in volta erano prevalenti nello scrittore. Il poema cancella questa distinzione, messa in luce proprio nel Convivio dall'apparato interpretativo che vuole rivelare l'allegoria nascosta dal «velame» dei versi, e crea un modello nuovo e fin qui ineguagliato di letteratura che unisce indissolubilmente fantasia e ragione sotto il segno della poesia.
Per Boccaccio Dante ha pari diritto a più titoli. Lo ricorda nella Vita (§ 2, ed. cit.): «E di tanti e sì fatti studii non ingiustamente meritò altissimi titoli; però che alcuni il chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teolago, mentre visse». Ma è certo che dei tre solo il titolo di poeta può interamente soddisfare, e non perché ripudi gli altri, ma perché solo esso li comprende tutti, mentre gli altri non definiscono che se stessi. Questa unità sostanziale, non puramente formale, della Commedia non è soltanto implicita, come in tutte le opere di poesia che traducono in immagini una materia conoscitiva; è insieme creativa e compositiva; è cioè programmata dall'autore in modo che essa risulti evidente in ogni sua parte: nell'azione e nella rappresentazione, nelle situazioni e nei personaggi, ed anche nella struttura fisica e morale che disegna lo scenario di un altro mondo - ovvero dell'altro mondo - con la sua geografia e le leggi che lo presiedono.
Strutturalmente il poema è come un grande edificio gotico, una cattedrale con un impianto murario solidissimo e tutto, all'esterno e all'interno, animato da figurazioni fantasiose che si alternano ad altre realistiche senza però che i particolari alterino l'effetto d'insieme. Il mondo che vi è rappresentato può attrarci e affascinarci anche a frammenti, anche nel contatto di una sua piccola porzione espressiva, di pochi versi, ma la sua immagine è unitaria; s'impone attraverso il tempo, che pure è ora tanto lontano dall'idea che lo sorregge, soprattutto nella sua dimensione totale. Per questo esso va tutto recuperato in rapporto al soggetto che per primo, creandolo, ne ha fatto esperienza - lo stesso poeta, che ne è quindi autore e attore-, poi in rapporto ai suoi lettori, ai modi con cui quel mondo rivive nella loro esperienza estetica e intellettuale.
La Commedia è il racconto in prima persona di un viaggio nell'aldilà durato una settimana. Dante ne fissa l'inizio a trentacinque anni, nella notte del venerdì santo, l’8 aprile del 1300, dopo che, uscito da una selva oscura in cui s'era smarrito e dove rischiava di riprecipitarlo l'opposizione di tre fiere, è soccorso ai piedi di un monte rischiarato dai raggi del sole da Virgilio. Nel Limbo, dove la sua anima dimora tra altri spiriti nobili che tuttavia non conobbero la fede cristiana, Virgilio era stato visitato da Beatrice discesa dal Paradiso per indurlo ad aiutare il suo fedele in nome anche di altre due donne pietose, la Vergine e santa Lucia. Per questo celeste intervento Dante può allora affidarsi alla guida del suo poeta prediletto, e questi lo conduce attraverso l'Inferno e il Purgatorio fino a Beatrice che lo attende nel Paradiso terrestre e da qui lo innalza con sé nei cieli fino all'Empireo. Ma sarà infine san Bernardo, il grande mistico, ad introdurlo alla visione gloriosa di Dio.
I regni dell'oltretomba che il pellegrino così conosce appartengono a una topografia che è iscrivibile nell'ordine tolemaico, geocentrico, dell'universo, senza però corrispondere a uno schema teologico, a una verità di fede; essa è in altri termini, una creazione poetica.
L'Inferno è un baratro aperto al centro della terra, sotto Gerusalemme, dalla caduta degli angeli ribelli che infatti lo abitano e lo governano fino al suo fondo chiuso da Lucifero, «lo 'mperador del doloroso regno», mostro gigantesco con tre teste che maciulla nelle sue bocche altri esemplari traditori: Giuda che vendé Cristo per pochi denari e Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, loro benefattore e simbolo dell'autorità imperiale.
Di contro, nell'emisfero australe disabitato si erge dal mare la montagna del Purgatorio, calco della terra svuotata dalla caduta angelica. Sulla sua cima è l'Eden, il Paradiso che Adamo ed Eva abitarono fino alla loro disubbidienza e al loro esilio nel mondo.
Da quella vetta, ascendendo fino all'Empireo, al cielo di puro fuoco dove fiorisce la candida rosa dei beati, il paesaggio perde i suoi contorni terrestri, deformati ma pur sempre riconoscibili, anche nell'Inferno. Il paesaggio dei nove cerchi celesti è luce, e la sua figurazione deve avvalersi di questo unico medium immateriale. Ma la percezione di Dante e quella nostra passa anche qui attraverso i nostri sensi, attraverso la vista e i suoni che danno evidenza alle immagini del Paradiso per analogia con le immagini terrene.
Solo alla fine il racconto della visione di Dio esce dal sistema delle nostre percezioni, abbandonando ogni possibilità di riscontro con la nostra memoria, con le esperienze mondane. E l'ultimo mistero apre e chiude lo scenario esclusivamente mentale della «forma» dell'universo entro la quale si manifesta, senza tuttavia poter essere riprodotta, per la sua intrinseca ineffabilità, l'immagine irrappresentabile di Dio.
L'Inferno non ha confini custoditi. In questo mondo rovesciato si scende attraverso una porta al sommo della quale «parole di colore oscuro» danno l'avvertimento per l'eternità: «lasciate ogne speranza, voi ch'intrate». Nella sua voragine, suddivisa in nove cerchi concentrici, si raccoglie il popolo dei dannati che la giustizia divina distribuisce a seconda dei peccati nei luoghi di pena indicati da Minosse con sen - tenza bizzarramente mostruosa, a giri di coda.
Ad eccezione delle anime del Limbo - bambini non battezzati e adulti meritevoli della beatitudine ma anch'essi senza battesimo e perciò condannati a desiderare invano Dio -, la regola che domina quest'universo carcerario è il tormento fisico, attribuito per «contrappasso», secondo l'antica legge del taglione per cui la pena corrisponde al tipo di colpa. Gli ignavi sono punzecchiati a sangue da mosconi e vespe, i lussuriosi sono sbattuti in vortici di bufera, i golosi sono fiaccati da una pioggia incessante e urlano nella melma mentre Cerbero, cane trifauce, li introna a sua volta e li divora, gli avari e i prodighi, sorvegliati da Pluto, il dio della ricchezza, rotolano pesanti massi col petto rinfacciandosi l'opposto vizio, gli iracondi e gli accidiosi emergono dalle acque fangose di una palude per percuotersi e azzannarsi.
Sono i dannati che abitano la zona alta dell'Inferno: gli ignavi nel vestibolo, confinati per disprezzo, per aver vissuto «senza 'nfamia e senza lodo», di qua dall'Acheronte, il fiume che le anime attraversano dentro la barca di Caronte, nocchiero infernale, per entrare nel regno della dannazione; gli altri nei cerchi dell'incontinenza, dove sono puniti i peccatori «carnali» che sottomisero la ragione al «talento», ovvero all'istinto. Più giù, attraversate sulla barca di Flegias le acque paludose di Stige, si entra in Dite, la città di Satana presidiata dall'esercito dei diavoli e da una varietà di mostri mitologici: è il dominio della malizia che si esercita per forza o per frode. L'incontinenza offende meno Dio perché è debolezza naturale che non sa dominarsi, ma la violenza è effetto di volontà bestiale e l'inganno di volontà razionale, della ragione, bene esclusivo dell'uomo, volta al male: perciò il tormento è maggiore. «Amaro», sottolinea Dante, è il modo della pena nel sesto cerchio, riservato per intero agli eretici. Ma il paesaggio sepolcrale, il cimitero dove quei dannati giacciono sepolti dentro arche roventi, ha un aspetto terreno, e la sua classica monumentalità sembra onorare la memoria di un orgoglio intellettuale intransigente, seppure peccaminosamente incurante delle verità di fede. È malizia o solo incontinenza di ragione l'eresia? Il peccato è soggetto alla sanzione teologica non a quella etica che informa e umanizza la giustizia dantesca. Perciò quei dannati sono collocati in un luogo distinto ed elevato, negli «alti spaldi» di Dite. Dentro la città diabolica e verso il fondo i violenti, i fraudolenti, i traditori.
I violenti contro il prossimo nella persona e negli averi - tiranni, omicidi, predoni- sono custoditi dal Minotauro e immersi nel Flegetonte, fiume ribollente di sangue dalle cui sponde i centauri saettano quanti tentano di emergere; i violenti contro la propria persona, i suicidi, sono mutati in piante e straziati dalle Arpie che si nutrono delle loro foglie, mentre gli scialacquatori, violenti contro i propri beni, sono prede di cagne «bramose e correnti» mandate alla loro caccia; i violenti contro Dio, la natura e l'arte, sue filiazioni-vale a dire bestemmiatori, sodomiti e usurai che offendono la creazione direttamente o nelle sue manifestazioni naturali e sociali - sono battuti da una pioggia di fuoco e giacciono o corrono in un sabbione ardente. Al di sotto dei tre gironi in cui è diviso il cerchio della violenza stanno le Malebolge: dieci sacche o fosse concentriche che ospitano i fraudolenti collegate da ponticelli e terminanti in un pozzo che apre lo scenario del nono ed ultimo cerchio, la landa ghiacciata dei traditori sulla quale con le sue nere ali Lucifero ventila il suo soffio di gelo.
Una «sozza immagine di frode», Gerione con faccia di uomo giusto e corpo di serpente, raffigura la varietà del peccato dei dannati di Malebolge: i ruffiani e i seduttori fustigati dai demoni, gli adulatori attuffati nello sterco, i simoniaci interrati a testa in giù come a conservare la «mal tolta moneta» delle compravendite ecclesiastiche, gli indovini con la testa stravolta dal petto al dorso per guardare indietro anziché avanti, i barattieri immersi nella pece bollente e straziati dai diavoli della bolgia, i Malebranche, se tentano di trarsene fuori, gli ipocriti gravati da cappe fuori dorate e dentro di piombo, i ladri trafitti dai serpenti che li inceneriscono e li sottopongono a orrende mutazioni anatomiche, i consiglieri di frode imprigionati in fiamme come di rogo, i seminatori di scandalo o discordia smembrati come alla fine di una carneficina guerresca, infine i falsari di monete, di parola e di persone abbandonati a spasimi di devastanti malattie da lazzaretto.
Quattro sezioni distinguono poi il nono e ultimo cerchio che il pozzo dei giganti, del biblico Nembrot e dei pagani Fialte, Briareo e Anteo che invano tentarono la conquista dei cieli, divide dall'ottavo. È il vasto lago di Cocito tutto ghiacciato che chiude nella prima zona (Caina) i traditori dei congiunti, nella seconda (Antenora) i traditori della patria, nella terza (Tolomea) i traditori degli ospiti, nella quarta (Giudecca) i traditori dei benefattori, i più prossimi a Lucifero, e per la gravità maggiore del tradimento interamente chiusi nel ghiaccio, da dove traspaiono «come festuca in vetro». Il paesaggio dell'Inferno è al suo estremo confine una landa gelata come nell'estremità della terra; ma non è disabitata, perché, come tutto l'Inferno, è un lager di eterne torture, non un campo di sterminio.
Per uscirne Dante deve scalare in discesa la voragine cercando appigli dietro Virgilio nelle «vellute coste», tra i peli delle gambe di Lucifero, finché non entrano in una caverna naturale («natural burella») alla fine della quale rivedranno le stelle: «E quindi uscimmo a riveder le stelle».
Le stelle, le immagini che siglano il congedo da ciascuna tappa nel triplice aldilà, sono la luce che prima fa scoprire la terrestrità del secondo regno. Non ancora la luce solare, che sarebbe abbagliante dopo tanta oscurità, ma la luminosità antelucana che via via si schiarirà e consentirà al pellegrino e alla sua guida di lasciare la spiaggia dell'isola e ascendere il monte del Purgatorio. Lungo le pendici della montagna si distribuiscono le anime dei penitenti per un soggiorno più o meno lungo, a differenza delle anime dei dannati e a seconda della loro durata nel peccato, comunque temporaneo nell'attesa della beatitudine a cui sono destinate. Giungono in quest'isola dell'altro polo, l'australe, circondata dall'oceano, dalla foce del Tevere dove un angelo le raccoglie a turno, come a lui piace, e s'avviano su per le balze tagliate nella roccia in sette gironi corrispondenti ai sette peccati capitali.
Il principio che regge qui la giustizia e la sua applicazione, con lo stesso criterio del contrappasso, è opposto a quello infernale: è l'amore, il bene che ha prevalso sul male, ma di cui le anime devono pagare la distorsione che in vita le ha indotte a peccare. La superbia, l'invidia e l'ira sono espressione di amor proprio che si volge in danno di altri, l'accidia impedisce di operare per il bene per scarso vigore, l'avarizia, la gola e la lussuria sono vizi per eccesso di amore. Le anime ne devono scontare la memoria prima di ascendere al cielo dalla foresta del Paradiso terrestre, in cima al monte. Ma gli scomunicati perdonati dalla misericordia di Dio, i pigri nell'esercizio della fede, i morti ammazzati, pentiti in fin di vita, e i principi negligenti all'esercizio del loro potere sono costretti a sostare nell'Antipurgatorio e perciò a ritardare il periodo di pena per la purificazione. Un vecchio che induce alla riverenza, il romano Catone, detto l'Uticense, simbolo della libertà morale che si acquista con la vittoria sui vizi, ha in custodia la montagna e avvia le anime alla porta del Purgatorio che un angelo apre con la chiave dorata dell'assoluzione e quella argentea del giudizio.
Sulla vetta, il Paradiso terrestre sovrasta i luoghi dell'espiazione. Vi alita un eterno clima di primavera e vi fiorisce una vegetazione incontaminata e ristorata dai due fiumi che vi scorrono: il Letè, che cancella la memoria dei peccati, e l'Eunoè, che restituisce la memoria del bene. Vi abita da sola una «bella donna», la misteriosa Matelda, che si muove dentro «la divina foresta spessa e viva» paga di se stessa «cantando e scegliendo fior da fiore». E forse non è una custode, a differenza del vecchio ai piedi della montagna. Come raffigurazione della fantasia poetica di Dante la donna completa con una delicata presenza vitale lo scenario, altrimenti ridotto a puro rigoglio vegetale, di questo eden per sempre perduto. Ma già a Dante poco prima dell'alba, quando in cielo splende la stella Venere, era apparsa in sogno una prefigurazione di Matelda, anch'essa intenta a cogliere fiori per farsene una ghirlanda e a cantare. È Lia, simbolo della vita attiva, come Rachele, sempre vaga di specchiarsi, è simbolo della vita contemplativa. Personaggi biblici, le due mogli di Giacobbe anticipano le due successive apparizioni, quella edenica di Matelda e quella celeste di Beatrice, scienza divina rivelata, che introdurrà Dante al pieno godimento dell'amore di Dio. Ma per le anime che si libereranno della memoria del peccato è la terrestre Matelda il tramite verso l'ultima purificazione col battesimo nell'Eunoè e prima col lavacro del Lete, l'oblio dei mali della vita e delle pene umilmente sostenute nelle balze della montagna.
La sofferenza fisica dei penitenti risponde anche nel Purgatorio alla norma del contrappasso per contrasto o analogia col peccato e non è meno intensa di quella dei dannati. Ma è diversa la qualità del tormento, mai esasperato fino alla più ignobile degradazione. I superbi sono cariatidi mobili schiacciate da pesanti massi; gli invidiosi sono ciechi che lacrimano dalle suture di ferro che chiudono quei loro occhi che furono malevoli; gli iracondi si aggirano in un fumo vischioso e anch'esso accecante come l'ira che li infiammò e accecò; gli accidiosi pagano la loro debolezza spirituale correndo a galoppo e ricordando con grida dolorose azioni opposte di sollecitudine; gli avari giacciono bocconi con la faccia che preme la terra e tutti stretti tra loro a ricordare quanto amarono le cose terrene e ignorarono la solidarietà cristiana; i golosi sono scarnificati dalla fame e dalla sete che un albero colmo di frutti e irrorato di fresche acque lascia inappagate; i lussuriosi, infine, scontano il tormento del desiderio carnale nel fuoco. Il contrappasso qui è applicato in funzione di un processo di purificazione e non avvilisce le anime e la loro immagine umana in situazioni e metamorfosi ripugnanti, come spesso nell'Inferno. Né ci sono torturatori. La pena è esaltata con canti di penitenza, salmi e preghiere, ed è sollecitata da esempi memorabili dei vizi corrispondenti e delle virtù contrarie, quelli puniti e queste magnificate. Sono figurazioni scultoree, voci che riempiono l'aria, visioni estatiche, celebrazioni intonate dalle stesse anime, invocazioni, evocazioni. Ed hanno un valore di freno e di stimolo, però soltanto commemorativo, non più attuale per chi è ormai immune dal peccato. Ma diversa è soprattutto la condizione dei penitenti. Il martirio è temporale e può essere abbreviato per i suffragi dei viventi. Perciò non c'è rancore, e la sofferenza è sopportata pregando con quella coralità che, a differenza di quanto avviene nell'Inferno, non isola le anime e meno che mai le spinge all’odio reciproco, anzi le prepara a godere di quell'amore circolare che ha il suo centro in Dio. L'amore, l'inclinazione al godimento dei piaceri terreni, riprende nella comunità dei penitenti la sua forza ascensionale che lo dirige verso quel centro, principio e fine della gioia spirituale:
Poi, come 'I foca movesi in altura
per la sua forma ch'è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così l'animo preso entra in disire,
ch'è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
(Pg. XVIII, 28-33)
È attorno a quel centro d'amore che sono disposti i beati del Paradiso, in un anfiteatro che essi infiorano in forma di rosa. La loro beatitudine è piena e pienamente appagante, ma diversamente graduata in riferimento ai meriti acquistati in vita. E per questo si manifestano a distanza più o meno ravvicinata con Dio, nei nove cieli concentrici presieduti da nove cori angelici. Nel primo cielo, della Luna, gli spiriti mancanti ai voti si rivelano come immagini riflesse in uno specchio d'acqua con un candore di perla, nel cielo di Mercurio gli spiriti di quanti operarono bene per fama e gloria terrena si esprimono dall'interno di bozzoli di luce vivacissima, nel cielo di Venere gli spiriti amanti sono faville mobilissime che danzano nel chiarore uniforme dell'astro che inclina all'amore, nel cielo del Sole gli spiriti sapienti formano una corona di luci diversamente intense. Ma più su le figurazioni assumono maggiore spettacolarità. È la croce dei combattenti per la fede nel cerchio di Marte che scintilla lungo i due bracci di luci che trascorrono in orizzontale e in verticale; è l'aquila di Giove, formata dai gioielli incastonati, fiammeggianti e parlanti all'unisono, degli spiriti giusti, risplendente con più forza nell'occhio che raccoglie i più rappresentativi protagonisti della giustizia; è la scala d'oro dei contemplativi che si allunga nel cielo di Saturno ed espande per i suoi gradi un inno di gioia. Poi la ferma geometria delle stelle fisse, e i trionfi celesti di Cristo e della Vergine. Infine, gli spazi supremi del Primo mobile, delle gerarchie angeliche e l'Empireo, la sfera ultima di puro fuoco, il fiume di luce delle anime festanti in una esplosione di faville e fiori e la candida rosa con gli scranni dei beati e la glorificazione di Maria. Al sommo la folgorazione dei misteri della trinità e dell'incarnazione, e Dio stesso nel grande scenario della conciliazione dell'umano col divino, nella circolarità dell'universo mosso dall'amore: «l'amor che move il sole e l'altre stelle».
Tutt'insieme il paesaggio del Paradiso è un gran teatro di luci che danno forma ad immagini del mondo di evidenza simbolica e voce ai beati per soddisfare il desiderio di conoscenza di Dante. Nell'attraversamento dei cieli solo Beatrice conserva il suo aspetto di giovinezza; gli altri saranno visibili nella rosa celeste, «nel giallo della rosa sempiterna», il più bel fiore, fulgente dell'oro che risplende con i colori di tutti i fiori di primavera nel trionfo dell'Empireo. La musica è l'armonia delle sfere e s'accorda con i movimenti delle anime e degli angeli. Tempo e spazio in quel luogo sono aboliti. L'infinito parifica le distanze e la visione:
La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e 'l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
(Pd. XXX, 118-124)
Per questa compenetrazione di tempo e spazio, per questo superamento delle leggi naturali, il Paradiso è il regno più remoto, più incomparabile col nostro mondo. Il lettore penetra negli altri due regni senza smarrire i riscontri con la realtà. Lassù, invece, deve chiedere soccorso anch'egli, col poeta, «all'alta fantasia». Perché il Paradiso è un luogo esclusivamente mentale; è in senso proprio una visione intellettuale, pura, che prende forma da se stesso, mentre l'Inferno e il Purgatorio disegnano il proprio paesaggio nel fondo oscuro della pena eterna e nella faticosa ascesa nel lume della purificazione. Sono proiezioni della coscienza dei viventi che è passione, non solo conoscenza del male e del bene, testimonianza ancora della vita.
Osservato così, come fin qui abbiamo fatto, dall'esterno, quasi in assenza di Dante, senza la motivazione narrativa da cui si origina il suo viaggio e la sequenza degli episodi che danno vita di volta in volta a situazioni e personaggi e sviluppano la trama ideologica strettamente connessa al racconto, l'aldilà dantesco appare soltanto come uno spettacolo, però ricco di straordinarie invenzioni figurative, né prima né dopo eguagliate in poesia. Sono infatti incomparabili con quelle della Commedia le rappresentazioni dell'Inferno e del Paradiso che Giacomino da Verona nel De Babilonia civitate infernali e Bonvesin de la Riva nel Libro delle tre scritture tentarono di animare senza risparmio di enfasi teatralistica. Esse sono peraltro rappresentazioni di un aldilà diviso in due mondi opposti, dell'eterna condanna e dell'eterno premio, senza quel mondo dell'espiazione temporanea, il Purgatorio, a cui Dante ha voluto dare una precisa evidenza fisica pur essendo una credenza maturata nel cristianesimo ufficiale non più di un secolo prima. Quel tanto che il poema dantesco ha in comune con queste opere appartiene a un fondo popolare più che letterario di ossessioni apocalittiche e di visioni mistiche, le stesse che, del resto, alimentavano l'immaginario artistico della pittura e della scultura medievali. Così come è comune a una produzione di leggende e romanzi edificanti in latino, per esempio la Navigatio Sancti Brandani di origine irlandese, il tema del viaggio oltremondano. Più prossimo però è in questo senso l'influsso che possono avere esercitato sulla Commedia il Tesoretto e il Favolello di Brunetto Latini, poemetti d'ispirazione laica che allegorizzano le tappe di un viaggio immaginario a fini di apprendimento morale. Quanto alla componente più propriamente escatologica del viaggio ultramondano, è stata anche proposta - ma resta opinabile - una fonte islamica, Il libro della Scala di Maometto, della cui conoscenza sarebbe stato tramite proprio Brunetto Latini che ne avrebbe recato notizia a Firenze dopo un suo viaggio in Spagna (1260).
Il viaggio è in realtà lo schema delle narrazioni romanzesche medievali, siano esse di contenuto etico-religioso o avventuroso. Ad esso si attiene anche il poema dantesco. Con questa differenza tuttavia: il viaggio di Dante non è un'avventura, la peregrinatio cli un errante, come in molte leggende devote o nei romanzi arturiani; non è segnato da una casualità di avvenimenti che mettono alla prova il valore del cavaliere, che è poi quanto basta per dare significato a quel tipo di racconto. Dante stesso, all'inizio, nel secondo canto dell'Inferno, mostra di non comprenderne la ragione, non si sente degno di una simile impresa. «Io non Enea, io non Paulo sono», dichiara a Virgilio, richiamandosi ai due modelli, epico il primo e scritturale l'altro, che sono i veri ispiratori, gli unici certi antecedenti della sua esperienza poetica di viator nell'aldilà. Argomentando il suo dubbio, Dante dice di capire per quali fini Dio aveva concesso loro quella grazia: Enea, come proprio Virgilio narra nel suo poema, aveva preso visione negli inferi della gloria futura di Roma, di cui sarebbe stato il progenitore, e del privilegio universalistico della sede dell'impero e poi della cristianità; Paolo, come rivela l'apostolo stesso nella Seconda lettera ai Corinzi, aveva udito in un rapimento in Paradiso gli arcana verba, i misteri della verità che dovevano rafforzare la fede nel messaggio cristiano. La ragione del viaggio di Dante è spiegata appunto da questi due esempi con cui egli esita a confrontarsi; ha un valore insieme epico e mistico; è un itinerario provvidenziale, iscritto in un disegno divino per la salvazione civile e spirituale della società cristiana, alla quale egli consegnerà al ritorno in terra come scriba Dei, ma nella forma profana della poesia, il senso della sua esperienza morale e creativa.
Questa finalità messianica del viaggio dantesco non è però subito confermata da Virgilio. Egli si limita a rassicurare Dante con un viatico che serva a dargli coraggio all'impresa che è necessaria per la sua personale salvezza: la protezione delle tre donne del Paradiso (santa Lucia, la Vergine e Beatrice) senza la quale si perderebbe ancora nella selva del peccato. La verità più generale e il compito che in questo senso gli è stato assegnato da Dio gli saranno chiariti da Beatrice nel Paradiso terrestre e il suo destino di esule, più volte profetizzato nell'Inferno e nel Purgatorio, dal trisavolo Cacciaguida nel cielo di Marte insieme all'invito di affrontare i rischi della persecuzione dei potenti per la sua denuncia del mondo corrotto. Questa rivelazione graduale del significato del viaggio dantesco ubbidisce a una strategia narrativa che mette in luce un altro carattere strutturale e creativo della Commedia. Per il privilegio che gli viene assegnato di visitare l'oltretomba e accedere alla visione di Dio egli non ha né i meriti eroici del personaggio virgiliano né quelli apostolici di san Paolo, «vas d'elezione», interprete della volontà divina. È un cristiano come tanti e per giunta un peccatore incapace di riscattarsi con le sue sole forze, nemmeno per la sua «altezza d'ingegno». «Da me stesso non vegno», dirà infatti a Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido, che è deluso di non vedere il figlio con lui. Per questo la prima motivazione esplicita del viaggio è relativa alla sua condizione semplicemente «creaturale» che impone per il riscatto dalle colpe una piena conoscenza della giustizia di Dio: del peccato e delle sue conseguenze infernali come dei meriti e delle loro gratificazioni paradisiache. Così, a partire dalla situazione iniziale nella selva, cioè nel traviamento, e poi lungo i tre regni dei defunti, l'esperienza di Dante non è di spettatore, ma di attore, ed è, attraverso l'esemplarità morale del suo viaggio, esperienza di tutti.
La Commedia si caratterizza quindi, in quanto storia (o anche romanzo o leggenda) di Dante e insieme di «ognuno», come un itinerario edificante dalla schiavitù del peccato alla libertà spirituale e come uno speculum salvationis, una rappresentazione dei vizi e delle virtù che aiuti gli uomini a combattere il male per la vittoria del bene. Per questo, per la coscienza morale del bene, è sufficiente la ragione naturale, ed è infatti Virgilio, un pagano, ad incarnarla. Dante lo elegge a guida fin dove è consentito al suo «maestro», al suo «autore», escluso per la sua condizione storica dal dono della grazia, di accompagnarlo. La sua poesia è una summa della saggezza antica, di una «misura» intellettuale e passionale che conferisce all'eroe del suo grande poema, di quell'Eneide che Dante si vanta di conoscere tutta, qualità non solo epiche ma etiche e civili.
Nell'Inferno e nel Purgatorio Virgilio apre la strada a Dante, lo rincuora moralmente, lo sorregge nelle difficoltà del percorso, vince le opposizioni diaboliche al cammino, si propizia il consenso di Catone e degli angeli custodi e, dove è necessario, quello delle anime per disporle a parlare di sé, a dialogare col vivo. Ma è anche il sapiente («famoso saggio» lo chiama Dante invocandone il soccorso) che spiega l'ordine razionale dell'oltremondo terreno, dell'Inferno e del Purgatorio, il suo sistema generale e le sue partizioni.
A Virgilio Dante affida il compito di argomentare la coincidenza tra struttura fisica e struttura morale dei due regni terreni dell'aldilà proprio per l'auctoritas acquisita nei secoli dal poeta latino, per la fama della sua saggezza, deformata nella tradizione popolare addirittura in magia. Il canto XI dell'Inferno e il XVII del Purgatorio chiariscono, con l'evidenza sintetica dell'esposizione virgiliana, i principi a cui si ispira la filosofia dantesca del diritto umano e divino che sovrintende ali' applicazione della giustizia nell'oltremondo. Essi sono articolati sul modello romano del Corpus iuris di Giustiniano e vanno riportati al grande apparato dottrinario del razionalismo classico, alla filosofia di Aristotele recuperata nel secolo XIII come dottrina del cristianesimo dalla filosofia della Scolastica, e soprattutto, con particolare sistematicità, nella Summa Theologica di san Tommaso.
Il fondamento filosofico e teologico che regge il sistema della ·commedia va riconosciuto in questa rinascita della filosofia classica e nel suo grande sforzo di conciliarla con la teologia, di accordare ragione e fede. Non che quel sistema raccolga tutte le istanze del pensiero dantesco, il fermentare dialettico delle sue opinioni e dei suoi dubbi, quel suo incontenibile desiderio di conoscenza umana e di rivelazione divina che intreccia per tutto il poema un inscindibile rapporto tra spirito e materia, tra anima e corpo. Ad altre fonti attinge di volta in volta la sua sete di verità. Il Paradiso è per la sua stessa sostanza intellettuale la cantica della metafisica, di una logica sovrasensibile che non contraddice il sistema della razionalità ma assimila la tensione visionaria dei mistici e degli ascetici, dei teorici dei gradi di perfezione come Bonaventura da Bagnoregio e Pietro Damiani, dei teologi degli stati conoscitivi e contemplativi, Riccardo da San Vittore e i vittorini. Ma dovunque circola la memoria delle letture con cui Dante si era confrontato in gioventù e con cui poteva confrontarsi ancora nell'esilio: il suo Agostino, che già nel Convivio egli congiungeva a Cicerone, a Boezio e all'etica antica, gli altri padri della Chiesa, i primi scrittori del cristianesimo impegnati a spiegare il messaggio di Cristo e la consonanza nel libro di Dio, nella Bibbia, tra nuovo e vecchio Testamento; poi anche Platone e i neoplatonici e perfino i seguaci del1' aristotelismo eterodosso dell'arabo spagnolo Averroè (posto, non certo a caso, tra i grandi spiriti del Limbo, così come l'averroista cristiano Sigieri di Brabante è tra i beati col suo avversario Tommaso).
I riscontri della cultura di Dante, e quindi delle fonti intellettuali della Commedia, possono essere dilatati fino a coincidere con l'intera tradizione trasmessa dall'antichità al Medioevo. Resta però la centralità del modello classico che prende corpo in Virgilio. Il grande poeta dell'età aurea della romanità costituisce il ponte tra paganesimo e cristianesimo, tra un'umanità a cui Dio ha concesso di esprimere, pur nell'errore delle sue false credenze, le virtù cardinali (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza) che ne nobilitano la natura e l'umanità nuova, che Cristo ha riscattato dalla condanna delle origini e che perciò può manifestare le sue virtù divine o teologali (fede, speranza, carità) reintegrando quelle antiche che aveva perduto. Questa integrazione è per Dante necessaria al compimento della storia dell'uomo nel tempo e nell'eternità e in nome di quella renovatio del mondo cristiano che l'uomo non può aspettarsi gratuitamente da Dio, ma deve conquistarsi con la sua volontà, con il libero arbitrio. Da qui il valore operante che egli vuol dare al suo messaggio per conciliare la città dell'uomo con quella di Dio e la forza morale della sua battaglia per la riforma delle istituzioni religiose e civili.
Letterariamente, l'assimilazione del modello classico-pagano dentro la nuova realtà cristiana si attua con il procedimento dell'allegoria, che è insieme concettuale e retorico. I padri della Chiesa se ne servirono per conciliare il vecchio e il nuovo Testamento, per leggere le storie veterotestamentarie alla luce dei Vangeli come prefigurazioni del Cristo incarnato. Dante estende il criterio alla cultura e alla poesia dei pagani (non alla loro religione); e questo suo sincretismo gli consente di invocare la protezione delle Muse e di Apollo per la sua opera, non diversamente dai poeti antichi, di ridurre mostri mitologici e divinità infere della paganità a demoni cristiani, infine di associare l'apparizione astrale dei beati del Paradiso alla memoria degli dei «falsi e bugiardi» (Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno).
Anche Virgilio è un'allegoria, oltre che un personaggio rivissuto dalla fantasia dantesca in un intenso rapporto di riverenza affettiva da figlio a padre e perciò soggetto alla reciprocità delle reazioni psicologiche e ali' occasionalità dei comportamenti provocati dalle situazioni del racconto. In un certo senso compendia il fondamento dell'allegoria, il rapporto tra ragione e verità. Nell'incontro con l'anima di Stazio, narrato nei canti XXI e XXII del Purgatorio, il valore illuminante della sua poesia si chiarisce in una triplice direzione. Stazio, l'autore della Tebaide, è diventato poeta per lui, accendendo il suo fuoco poetico con le faville dell'Eneide, si è corretto del suo vizio di prodigalità facendo tesoro di un avvertimento virgiliano contro il cattivo uso dell'oro, infine si è convertito al cristianesimo leggendo come una profezia del Vangelo i versi in cui Virgilio nella quarta bucolica annuncia una nuova età:
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: «Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova».
Per te poeta fui, per te cristiano. (Pg. XXII, 67-73)
L'allegoria qui non è soltanto una figura retorica: ha un significato rivelatore, di adempimento, come l'allegoria dei teologi che riscattava la condizione precristiana dei profeti biblici. Solo che Dante deve sacrificare Virgilio, il lampadoforo che illumina gli altri e non se stesso e resta escluso dalla grazia beatificante. La ragione naturale che egli incarna non basta infatti al suo riscatto.
L'esempio di Virgilio è sintomatico di una complessità creativa della Commedia che l'interpretazione allegorica spiega solo parzialmente. Giova di più richiamarsi al concetto di simbolo, tenendo presente la fondamentale distinzione di Goethe tra allegoria e simbolo: un particolare, la prima, che fa da emblema ed esempio dell'universale, un universale, il secondo, che si è tutto calato nel particolare, senza mostrarsi con una maschera, con un'altra identità fisica. Così lonza, leone e lupa, le fiere del primo canto dell'Inferno sono allegorie della lussuria, della violenza e dell'avarizia, ma Catone nel Purgatorio è qualcosa di più dell'allegoria che lo riveste con i raggi delle sante stelle (le virtù cardinali degli antichi) che fregiano il suo aspetto; è il simbolo della libertà spirituale che Dante sta conquistando e che egli da vivo difese come valore civile. Tanto meno è quindi una maschera Virgilio, pur manifestando funzioni allegoriche e profetiche. La sua vita nella Commedia non è fittizia, astratta; è la vita piena del personaggio, per giunta di un personaggio comprimario, come si dice in teatro, di un deuteragonista.
Per superare questa impasse dell'allegorismo - di cui bisogna capire il procedimento senza però adoperarlo, al modo soprattutto dei primi commentatori del poema, come unico criterio valutativo - è stata introdotta da un grande dantista del Novecento, Erich Auerbach, una chiave interpretativa più adatta a comprendere tanto il mondo intellettuale quanto quello poetico di Dante. È il concetto di figura derivato sempre dall'esegesi testamentaria medievale ma applicato a tutta la realtà storica, per cui il futuro è rappresentato come già avvenuto e il passato è interpretato come figura ovvero prefigurazione di quella più piena realtà che le anime acquistano nel loro stato post mortem. I personaggi danteschi, alla luce di questo concetto, assumono nell'oltretomba quell'autenticità morale che la vita adombra o nasconde, sono in una condizione inalterabile di verità. Ma rispetto a che cosa, ci domandiamo: rispetto alla colpa o al merito che assegna a ciascuno di loro un posto per l'eternità o rispetto ad altro, alle molte altre esperienze della loro esistenza terrena non tutte riducibili alla categoria che li qualifica nell'aldilà, ai vari aspetti della loro personalità che la morte non ha cancellato? Il sistema della Commedia, simmetrico nel suo inquadramento, è aperto a molte asimmetrie: il vizio o la virtù non coincide necessariamente con la caratterizzazione del personaggio o con il rilievo esistenziale e intellettuale che Dante gli fa acquistare spesso trascurando la sua condizione oltremondana. Perciò anche l'interpretazione figurale soddisfa criteri di lettura complessiva ma non può essere estesa a tutte le situazioni. Calata nelle situazioni, la figura può rivelarsi anti-figura: il tipo, anti-tipo.
Abbiamo detto che Dante è un attore, il primattore del suo poema. Ma egli è anche, anzi soprattutto, l'autore, il creatore di un mondo che non è fantascientifico, ma anzi è il nostro, che egli rievoca continuamente, per allusioni talora, che nascondono circostanze private ignote anche ai primi lettori, ma spesso con dettagli da cronaca cittadina. Infatti il poema è anche un eccezionale monumento storico, e Dante, come Omero era per Vico il primo storico dell'umanità, è per noi il grande storico del Medioevo. Gli episodi narrati sono fatti accaduti di qua, in questo mondo, vissuti prima e dopo il tempo immaginario del viaggio, tranne quelli che Dante stesso vive lungo il percorso dei tre regni e che formano il teatro del poema. Il mondo si riflette nello specchio della memoria, e perciò la Commedia non è solo speculum salvationis, esso è speculum mundi, della vita tutt'intera che, riflessa nell'oltremondo, si potenzia di immagini e di significati. Questa dimensione memoriale in cui i due mondi si incontrano spiega le asimmetrie dei personaggi, evidenti soprattutto nell'Inferno, e l'effetto di «memorabilità» che essi producono nel lettore indipendentemente dalla loro personificazione di vizi o virtù. Francesca ci resta nel ricordo come un'adultera punita o non piuttosto come una donna che ora può esprimere una piena coscienza intellettuale del suo amore e lo rivive come un tempo felice presto violentemente interrotto?
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte. (If V, 100-106)
La pietà di Dante compiange un destino, ma accompagna la riflessione postuma sull'idea d'amore che fu sua, salvifica finché agisce solo sullo spirito, letale se si traduce in passione. E intanto esprime la nostra stessa inclinazione emotiva.
Come Francesca, molti altri magnanimi popolano l'Inferno, e Dante spesso trascura la memoria del peccato, per riscattare la memoria della loro virtù, pur dando evidenza alla pena e commiserandola. Il goloso Ciacco è orrendamente imbrattato nel fango come un porco in brago, ma Dante gli affida il privilegio della prima profezia dei mali di Firenze, interroga la sua antiveggenza sugli esiti delle lotte di parte dei suoi concittadini, «se alcun v'è giusto», sui motivi della discordia. E la risposta risuona grave come un oracolo tra l'imperversare della tempesta di «grandine grossa, acqua tinta e neve», le urla 'dei dannati e i latrati di Cerbero:
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testè piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n'aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi».
(If VI, 64-75)
Farinata è un eretico, ma l'eresia non conta per la sua forte caratterizzazione: contano il suo orgoglio di politico e il suo amor di patria, e per essi il condottiero è nobilitato statuariamente dopo aver ricevuto rispettoso omaggio anche da Virgilio, anche nel fervore della polemica di parte con Dante che gli rinfaccia la responsabilità nella strage dei fiorentini a Montaperti:
«A ciò non fu' io sol» disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
(If X, 89-93)
Pier delle Vigne è un suicida, eppure il suo racconto sposta l'attenzione dalla condanna per la sua infrazione sulla rivendicazione della fedeltà di ministro tanto da perderne «li sonni e i polsi» e sull'invidia dei cortigiani che spiega la sua morte volontaria «per disdegnoso gusto»:
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiamrnati infiammar sì Augusto,
che' lieti onor ternaro in tristi lutti.
(If XIII, 64-69)
Il tormento per sodomia di Brunetto Latini è per Dante soltanto un'occasione di rammarico («siete voi qui, ser Brunetto?») e forse carica di tanta maggiore affettività quell'incontro che sancisce nelle parole del maestro il destino di gloria del pellegrino:
Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
e s'io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.
(If. xv, 55-60)
In Malebolge la concordanza tra il carattere e il peccato si fa più stretta: la malizia fraudolenta è nell'etica dantesca una connotazione negativa dell'uomo che non lascia spazio a caratteri positivi. Dante semmai si duole per lo stravolgimento nella pena della nostra immagine, per l'orrida deformazione della nostra natura. Ma in qualche circostanza si compiace che i dannati si sottraggano momentaneamente al tormento, per esempio che i barattieri riescano ad ingannare i diavoli e ne inscena un «nuovo ludo», una grottesca rappresentazione, mentre, nel descrivere la trivialità militaresca dei demoni, lo scriptor rievoca divertito i sentimenti del viator, misti di paura e divertimento, riportandoli ai suoi ricordi militari:
Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
(If XXII, 1-15)
Sembra che la coscienza di Dante qui si distragga. È come se raccontasse una sua avventura nel mondo, non nell'aldilà infernale, dove il giudizio dovrebbe essere sempre quanto meno implicito. E certo, laddove il viaggio si fa più rischioso e la situazione non mette in evidenza personaggi di rilievo, il racconto può prendere uno sviluppo comico, tragicomico, avventuroso, quasi libero da ipoteche morali. Ma dove emerge il personaggio, non il teatro delle maschere dei vizi o dei semplici attori, il comico si muta in sarcasmo, si fa negativo. L'immagine più realizzata in negativo nel fondo d'abiezione di Malebolge è, come osservava De Sanctis, Vanni Fucci, ladro e spregiatore di Dio. Il suo gesto osceno di scherno verso l'alto («Togli, Dio, ch'a te le squadro!») non intacca la divinità ma l'umanità. Infatti è una bestia:
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
(If XXIV, 124-126)
Ma ancora più in basso altri personaggi esprimono una tragicità che va oltre la loro attuale sofferenza. Ulisse, l'eroe della conoscenza che infrange i limiti posti all'uomo, reincarna il destino del primo uomo che sfidò il divieto divino; e Dante non indugia sulla memoria virgiliana della caduta di Troia e sull'ordito di inganni per cui il guerriero è condannato tra i politici fraudolenti, ma inventa la leggenda del suo ultimo viaggio, che fu temerario, ma in nome di quel valore intellettuale che distingue gli uomini dai bruti, per grandezza d'animo e d'ingegno («per seguir virtute e canoscenza»), e forse anche col diritto di acquistare gloria e compianto che in questo mondo e nell'altro i più perseguitati dalla sorte hanno come riscatto. E nella stessa bolgia Guido da Montefeltro ci appare piuttosto vittima che consigliere di frode, al punto che la sua storia esemplifica più del suo il peccato dell'odiato papa Bonifacio, «lo principe d'i navi Farisei» che l'ha trascinato alla perdizione. Infine Ugolino, e l'orrore non del suo tradimento, che Dante sembra mettere in dubbio e comunque giustificare imprecando contro la crudeltà dei pisani, ma della sua tragedia di padre, dello strazio lacerante della fame che si rinnova in eterno, nel ghiaccio dell'Antenora, come bestiale castigo del persecutore che qui è il vero dannato a cui Ugolino sembra associato per vendetta e per rivelarne l'infamia.
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
(If XXXIII, 1-9)