Dati bibliografici
Autore: Gian Roberto Sarolli
Tratto da: Prolegomena alla Divina Commedia
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1971
Pagine: 144-187
La Comedia nell'insieme compositivo presenta una successione tipica da segnalare e far risaltare nella sua originale inventiva. Al Poeta in itinere com'è risaputo, s'affiancano via via le tre guide o «movitori»: Virgilio, Beatrice e San Bernardo. Il cambio dei «movitori», però, come in un gioco delle parti su un palcoscenico, si svolge in un modo quasi analogo ed offre al Poeta un'occasione di più per orchestrare tali trapassi così magistralmente da far apparire l'uno quando l'altro già se n'è andato sì che il Dante-dramatis persona, perno sempre presente, non rimanga mai a volta a volta solo.
Virgilio, il primo, vien presentato subito già nel primo canto e in maniera altamente drammatica con un'invocazione che traduce letteralmente l'incipit del più sofferto dei Salmi penitenziali, «Miserere mei, Deus» (Salmo L), ben allusivamente ampliando di risonanze soteriologiche l'intervento provvidenziale del poeta latino:
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me» gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!»
(Inf. I, 61-66).
Beatrice, la seconda, non solo sottolinea la scomparsa di Virgilio ma in maniera non meno suggestiva si presenta con quella iteratio sulla quale torneremo più oltre, per la quale il nome del Poeta, Dante, sulla scorta della tradizione della nominum interpretatio e del Vangelo assurge a simbolo di una missione:
Ma Virgilio n'avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die' mi;
[…]
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada»
(Purg. XXX, vv. 49-51; 55-7).
San Bernardo, ultimo, come già Virgilio, chiamerà in causa Beatrice, come colei che «mosse» («or movi», aveva infatti detto a Virgilio in Inf. II, v. 67, e qui San Bernardo dirà «mosse Beatrice me del loco mio», Par. XXXI, v. 66), e il verbo muovere, come già abbiam visto è termine-chiave quando si pensi che inchiude circolarmente la Comedia dall'incipit celeberrimo: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», al non meno celebre explicit: «l'amor che move il sole e l'altre stelle»:
E «Ov'è ella?» subito diss'io.
Ond’elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi su nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi metti le sortito»
(Par. XXXI, vv. 64-9).
Questa prima osservazione sui «movitori» Virgilio e San Bernardo «mossi» da Beatrice, va completata sottolineando che Beatrice stessa è «mossa» da Amore:
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare
(lnf. II, vv. 70-2).
Questa osservazione sui «movitori» svela nel Poeta una forma mentis e un concetto antico e nuovo se impieghiamo il metro del Convivio, e proprio un passo già citato ma che per comodità ritrascriviamo: «Per le ragionate similitudini [quelle cioè dei cieli con le Arti, la Fisica, la Metafisica e la «Scienza divina»] si può vedere chi sono questi movitori a cu' io parlo, che sono di quello movitori, sì come Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me, come è detto sopra, ne lo amore, cioè ne lo studio, di questa donna gentilissima Filosofia, con li raggi de la stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra» (II, xv, 1). In questo passo i «movitori», son Boezio e Cicerone, e quindi è passo da traguardare soprattutto dal punto di vista della tecnica descrittiva perché viatico all'allegoresi e fondamentale per capire il cambio e la funzione dei nuovi «movitori». A questa osservazione aggiungeremo quest'altra, e cioè che Dante ha cura di sottolineare il dileguarsi dei «movitori» «volgendosi».
Si veda:
Tosto che ne la vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi a la sinistra col rispitto
col quale il fantolin corre a la mamma,
quando ha paura o quando egli è afflitto,
per dicere a Virgilio: «Men che dramma
di sangue m'è rimaso che non tremi:
conosco i segni dell'antica fiamma».
Ma Virgilio n'avea lasciati scemi
Virgilio di sé, Virgilio dolcissimo patte,
Virgilio a cui per la mia salute die' mi...
(Purg. XXX, vv. 40-51).
Come si vede, l'addio a Virgilio vien sottolineato tre volte: una prima facendo cantare agli Angeli letteralmente quel bellissimo verso d'Eneide «manibus (o) date lilia plenis» (Aen; VI, v. 883) - sul cui valore simbolico (llilium-justus-Christus) torneremo più diffusamente in altro capitolo -, una seconda translitterando un altro non meno celebre verso virgiliano «Agnosco veteris vestigia flammae» (Aen. IV, v. 23) e una terza con l'impiego d'un artificio retorico per cui il nome del poeta latino, ripetuto tre volte a mo' di preghiera, sembra assurgere, se letto trasversalmente, a simbolo grafico della lettera V, che è insieme iniziale di Virgilio e simbolo numerico della natura umana, il 5, di un ben noto simbolo cristologico, il V X D, fondamentale nella Comedia (cfr. più oltre la discussione nella parte IIa); ed è artificio retorico – un altro esempio di simbolismo metrico come i già noti acrostici - da far rientrare in senso lato nelle «iterationes» e da mettere in relazione con quello imperniato sul nome di Cristo, in posizione telestica, ripetuto quattro volte a suggerire la lettera T, simbolo grafico della Croce, e dal Poeta inscritto in un passo altamente suggestivo perché vi si discute la salvezza degli infedeli, e vi compare anche il ben sintomatico termine legno:
...A questo regno
non salì mai chi non credette 'n Cristo,
vel pria vel poi ch'el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan 'Cristo, Cristo!',
che saranno a giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo
(Par. XIX, vv. 103-8).
Per tornar dunque al primo detto, il dileguarsi del «movitore» Virgilio vien sbalzato con l'impiego del verbo «volgersi», e così sarà anche per Beatrice:
La forma general di paradiso
già tutta mio sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso:
e volgeami con voglia riaccesa
per domandar la mia donna di cose
di chi fa mente mia era sospesa.
Uno intendea, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice, e vidi un sene
vestito con le genti gloriose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov'è ella?» subito diss'io
(Par. XXXI, vv. 52-64).
Ma, se più sottilmente osserviamo, questo cambio di «movitori» s'innesta in prospettiva ben piri ampia dal momento che avviene proprio all'inizio di una situazione nuova toccando problemi sempre più profondi, creando come una gradatio movitore-problema che ricorda molto da vicino la successione dei sensi, tradizionale, di cui citeremo soltanto - esempio limite - la definizione, altrove già enucleata, di Pietro Lombardo, il Magister della Magna Glosatura:
Il senso letterale o storico è più facile, il morale più dolce, il mistico più sottile; il letterale è per i principianti, il morale per i più istruiti, il mistico per i perfetti.
Se nei quindi adeguiamo la definizione lombardiana alla «materia» della Commedia, senza difficoltà ribadiremo su premesse esegetico-scritturali e non soltanto su semplici affermazioni apodittiche, come ha fatto sin qui il commento tradizionale, il senso e il tono di quella gradatio che s'invetta vieppiù a partire dall'Inferno al Purgatorio, al Paradiso, e che il Poeta ha sempre cura di sottolineare nei modi e nelle forme ben note con le diverse invocazioni e con i sempre più stringenti appelli al lettore, e massime quello di Paradiso II, vv. 1-15:
O voi che siete in piccioletta barca,
disiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse,
perdendo me rimarreste smarriti.
L'acqua ch'io prendo già mai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse.
Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l'alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l'acqua che ritorna eguale,
ove la coppia Poeta qua autore e qua dramatis persona sembra fondersi per un momento di fronte alle due diverse classi di lettori, quelli «O voi che siete in piccioletta barca» - che richiama e sottolinea ma sempre in forma antitetica il «sol con un legno» e l’«orazion picciola» di Ulisse ai compagni (Inf. XXVI, vv. 101; 122), esaltando una volta di più l’antitesi Dante Ulisse, come già s’è altrove discusso -, e quegli «altri pochi», che drizzaron il collo «al pan degli angeli», i soli, certo i «perfetti», che potran seguire impunemente l'ammiraglia del Poeta e mettersi con lui «per l'alto sale» - e si ripensi ancora una volta ma sempre antiteticamente al «per l'alto mare» dell'episodio di Ulisse (Inf. XXVI, v. 100) - e prender quell'acqua che «già mai non si corse». Distacco tra i lettori che vien ulteriormente ribadito, in maniera altamente allusiva e seguendo il tipico modus componendi dantesco, nell'impiego della due formule per indicare il mare, l'una «il pelago» vocabolo già consacrato e valido per il senso letterale - mare = historia, dirà Berengario - e quindi specifico per i «principianti», l'altra «l'alto sale» che a prima vista varrebbe come metafora impiegata soltanto per evitare la ripetizione ma che invece se traguardata attraverso le «distinzioni», già citate di Alano de Insulis: «sal, proprie Sancta Scriptura» , diventa mirabile impiego d'un termine tecnico valido per il senso allegorico e quindi specifico per «i più istruiti» e «per i perfetti», secondo la formula lombardiana.
A questo punto, e con quanto abbiamo a poco a poco portato alla luce, a noi par chiaro che i «movitori» e la gradatio e il linguaggio, che sempre più si raffina, si amalgamino con i quattro sensi e i loro polisemi simboli, fino a diventare fondamenta strutturali della Comedia, e infine a mostrarci operante la strategia del Poeta.
Ma prima sia dato di ritornare su quella successione dei sensi e sull'ordine quale abbiam definito normativo nei domenicani, e cioè:
1) letterale, 2) allegorico, 3) tropologico, 4) anagogico,
(mentre i francescani e massime San Bonaventura lo mutano scambiando ordine dell'allegoria e della tropologia), ordine che Dante segue sia nel Convivio (II, i, 1-7) che nell'Epistola a Cangrande (XIII, 20), e sull'ulteriore raggruppamento diadico con i sensi contrapposti secondo la formula tradizionale, e cioè con il letterale da solo confrontato dagli altri tre spirituali - «in duas dividitur partes, is est, in historicam interpretationem et intelligentiam spiritalem... Spiritalis autem scientiae genera sunt tria (Rabano Mauro, «P.L.», 112, col. 331) -; raggruppamento che ancora e sempre appare nei passi del Convivio e dell'Epistola, e che graficamente potremmo cosi rappresentare:
1) senso letterale = spirituale (2) allegoria; 3) tropologia 4) anagogia).
Orbene se da vicino seguiamo il Poeta e poniam mente ai cambi operati nel Convivio e nella Comedia, riusciremo a far nostra la sua intenzione e potremo meglio capire i ruoli delle dramatis personae principali, e la stessa invenzione del Poeta qua autore e qua dramatis persona, e perfino potremo finalmente giustificare quel tono sentenzioso che il rsu0lo impone e s'esalta particolarmente in Beatrice.
Infatti in Convivio i «movitori» eran Boezio e Tullio, e i poeti chiamati in causa nell'autoesegesi eran Ovidio e Orfeo, il secondo qua dramatis persona, nella Comedia i «movitori» diventano invece Virgilio - e sia pur parzialmente, ma con funzione altamente determinante, Stazio -, Beatrice e San Bernardo, e il Poeta fondamento dell'autoesegesi e del Poema, Dante qua autore-scribe e qua dramatis persona. E non sarà casuale se dei quattro autori menzionati in Convivio ben tre, nati tutti prima di Cristo, si troveranno nel Limbo, e due Orfeo e Tullio menzionati uno di seguito all'altro («... e vidi Orfeo, / Tullio», Inf. IV, vv. 140-1), mentre dei novi «movitori» il solo Virgilio, problematicamente sarà tratto dal Limbo e diverrà nota umana e patetica per entro il Poema.
Il cambio dei «movitori» non soltanto segna i limiti del Convivio e della Comedia, e le ben diverse finalità, là il cammino alla «Filosofia», qua il cammino ben più sublime ed arduo alla «visione beatifica», al mistero della Trinità, ma addirittura quell'arditissima rivoluzione operata nell'ambito della tradizione letteraria che è la imitatio Sacrae Scripturae, felicemente definita dal Singleton «God's way of writing», di cui Dante, aggiungiamo noi - e più oltre si vedrà ancor più distesamente - sarà lo Scriba.
Ma il cambio dei «movitori» e la gradatio e la successione dei sensi diventando fondamenta del Poema han postulato e resa operante non l'allegoria dei poeti ma quella esegetica scritturale che Dante ha chiamato «allegoria dei teologi», la sola che conviensi di necessità ad uno scriba Dei.
Con questo in mente, sia dato dunque di ripetere il grafico della successione dei sensi e sia dato altresì di completarlo con le figurae - per analogia, in quanto typi Trinitatis, come si vedrà più avanti - corrispondenti ai singoli sensi, seguendo il criterio della gradatio e del nunc et tunc.
Si veda:
1) lettera – Dante qua dramatis pers (2) allegoria – prima di Cristo: Virgilio; dopo Cristo: Stazio; 3) tropologia: Beatrice; 4) anagogia: San Bernardo)
Naturalmente il nostro grafico è concepito secondo i modi e le forme del figuralismo e della tipologia quale era venuta sviluppando la teologia-politica con il ricorso alla mimesis per cui un simbolo cristologico veniva analogizzato in cristomimetico per mezzo della formula consacrante typus Christi gerens. Per essa (ma sia concesso rinviare alla Ila parte per la discussione e i dettagli) la duplice natura del Cristo «Uomo-Dio» veniva mimetizzata nei typi Christi, per grazia, per cui dunque al personaggio storico (e.g. Re o Pontefice) veniva sacramentalmente elargita la natura divina. Nel nostro caso, però, la mimesis, per ragioni teologiche ed artistiche, come dimostreremo, viene allargata fino alla Trinità, assumendo direttamente da Sant'Agostino (De Trinitate: «Intelligamus Trinitatem: cui in creatura, quo dignum est, apparet vestigium») o dagli Scolastici (Alessandro di Hales nella Universae Theologiae Summa aveva risolto la questione V, membro v, nella parte IIa, attingendo a Sant'Agostino: «...Sicut enim relucet vestigium Trinitatis in creatura ita relucet vestigium ipsius unitatis»). Tale mimesis trinitaria, unità nella sostanza trinità negli attribuiti delle persone, seguendo sempre la tradizione, sarà dal Poeta artisticamente resa nell'impiego dei sensi figurati e del cromatismo delle virtù teologali. Analogia Trinitatis infine che sarà mirabilmente espressa nel cromatismo delle vesti, nel nome di Beatrice e nell'allusivo impiego del singolare e del plurale nei versi del «rimprovero» (Purg. XXX, 31 e sgg.), come si vedrà. Qui conta, per comprendere il pieno la magistrale intentio del Poeta, sottolineare ancora la sottile e fondamentale distinctio tra il Cristo e i typi Christi, tra la Trinità e i typi Trinitatis che Dante ha cura di far risaltare nei limiti degli stessi Beati - «...noi, che Dio vedemo / non conosciam ancor tutti gli eletti» (Par. XX, 134-5) - espressi proprio da un altro simbolo mimetico, e cioè dall'Aquila nel cielo di Giove.
Questa distinctio e queste analogie, basilari nella Comedia, si tradurranno ben allusivamente nella gradatio, nello stile e nel linguaggio delle singole figure. Ad illustrare quest'affermazione basterà citare, a mo’ d’esempio, il diverso seppur uguale modo tenuto da Virgilio e da Beatrice nell’annunciare la profezia del Veltro e del DXV, simbolo zoologico, il primo, numerico il secondo, simboli cristomimetici entrambi ma caratterizzanti sottilmente gli espositori: un poeta e la donna-miracolo che nella Vita Nuova era stata definita un «numero 9».
Con questo in mente potremo parlare d'un «attributo» di Virgilio - e ad latere, personaggio-chiave, Stazio -, di Beatrice e di San Bernardo. Attributi per i quali «materia» e «movitori» e linguaggio e stile e tecnica letteraria scandiranno la lenta e fatale progressio di Dante-dramatis persona dall'alienazione all'ordine, dall'imperfezione alla perfezione, dalla lettera all'anagogia. Ai «movitori», poi, e ai rispettivi attribuiti corrisponderanno le virtù cardinali e teologali: le prime e la Fede a Virgilio e Stazio, la Speranza a Beatrice, la Carità a San Bernardo per entro la Comedia.
Queste, s'intenda, son linee essenziali che andranno approfondite, problemi che aspettano soluzioni più sicure, e. g. la presenza di Stazio e il suo ruolo così determinante, e l'esame sulle tre Virtù a cui si sottopone il Poeta. E chiariscono anche i confini dei tre regni e il succedersi a mano a mano dei «movitori» e i limiti, quindi, del loro operare nella strategia della stessa Divina Commedia.
L'Inferno - Limbo a parte - nella distinctio in malo è il regno delle antivirtù. Ivi, e valga come clavis lecturae, non devono trovar posto, tralasciato per il momento il problema della Fede, né la Speranza né la Carità.
E il Poeta ce lo conferma inappellabilmente con l'iscrizione sulla «porta»:
Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate
(Inf. III, v. 9),
e con versi non meno significativi del canto XX:
Qui vive la pietà quand'è ben morta:
chi è più scellerato di colui
che al giudicio divin passion comporta?
(vv. 28-30),
e via via fino al «non piangere» sulla tragedia del Conte Ugolino ed alla «villania» verso frate Alberigo, nel canto XXXIII (vv. 42-150).
Quanto a Virgilio, oltre alla ben nota tradizione legata all'Egloga profetica e alla salvezza di Stazio, varrà, complementare giustificazione del poeta mantovano quale figura dell'allegoria, e certo per penetrare più addentro nell'intelligenza del passo e dei versi relativi al «disdegno» di Guido (Inf. X, v. 63), questo passo del Policraticus di Giovanni di Salisbury :
Licet enim ad unum tantummodo sensum accomodata
sit superficies litterae, multiplicitas mysteriorum
intrinsecus latet. Et ab eadem re saepe allegoria
fidem, tropologia mores variis modis aedificat.
Anagoge quoque multipliciter sursum ducit,
ut Iitteram non modo verbis, sed rebus ipsis
instituat (nostri i corsivi),
dal momento che oltre all'equazione dell'allegoria-fede nell'ambito tradizionale della Sacra pagina può offrirci un metro nuovo con cui misurare e meglio intendere l'episodio di Stazio incentrato sulle parole-chiave poesia (di Virgilio)-fede-battesimo.
Alla domanda di Virgilio, ben allusivamente chiamato «cantar de' bucolici carmi»:
«Or quando tu cantasti le crude armi
de la doppia tristizia di Iocasta»
disse il cantar de' bucolici carmi,
«per quello che Cliò teca lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?
(Purg. XXII, vv. 55-63),
Stazio risponde con i ben noti versi nei quali, oltre ai già citati, altri termini tecnici, come il verbo «colorare» per la tradizione retorica e «levare il coperchio», cioè aprire la verità ascosa per quella allegorica, assurgono a formule emblematiche:
...«Tu prima m'inviasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m'alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: 'Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova'.
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi me' ciò ch'io disegno,
a colorar distenderò la mano.
Già era 'l mondo tutto quanto pregno
de la vera credenza, seminata
per li messaggi de l'etterno regno;
e la parola tua sopra toccata
si consonava ai nuovi predicanti;
ond'io a visitarli presi usata.
[…]
E pria ch'io conducessi i Greci a' fìumi
di Tebe, poetando, ebb'io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fu'mi,
[…]
Tu dunque che levato hai il coperchio
che m'ascendeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio,
dimmi...
(Ibid., vv. 64-81; 88-90; 94-7).
Il Purgatorio è il regno della Speranza, fondata sulla Fede, come Dante ha cura di sottolineare in Paradiso XXIV, 74 «sopra la qual (cioè la fede) si fonda l'alta spene», che il Poeta ripetutamente fa risaltare a missione - esempio per noi limite - nell'episodio di Manfredi, nel canto III, con versi addirittura paradigmatici:
Per lo maladizion sì non si perde,
che non possa tornar l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde
(Purg. III, vv. 133-5)
perché la speranza vien qui esaltata: dalla vicinanza del suo simbolo cromatico, il verde, quello stesso che caratterizzerà la nuova Beatrice, nuova rispetto all'antica della Vita Nuova, quale apparirà a Dante dopo la «decenne sete».
Perché si capisca appieno quest'affermazione si pensi alle aperte allusioni cromatiche e alle non meno aperte dichiarazioni contenute nelle due opere.
Nella Vita Nuova, Beatrice apparirà al Poeta vestita di rosso - «di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno» -, la prima volta, e poi di bianco - «di colore bianchissimo» (V.N. II, 3; III, 1) -, col verde sotteso proprio nei versi più significativi di quella Canzone «Donne ch'avete intelletto d'amore» - con la quale, a detta di Bonagiunta (Purg. XXIV, vv. 49-51):
Ma dl s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando:
«Donne ch'avete intelletto d'amore»,
il Poeta avrebbe tratte «fore le nove rime» -, nei quali l'equazione Beatrice-Speranza vien sbandierata con istanza addirittura soteriologica ed escatologica, perché già anticipano la Comedia: (V.N. XIX, 8, vv. 22-8).
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là 'v'è alcun che perder lei s'attende,
e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza de' beati
Nella Comedia il nuovo cromatismo apertamente svelasi nel momento, pregno di echi evangelici e liturgici, in cui Beatrice appare. Esso ancor più s'esalta, creando una più lata dimensione, se sbalziamo a fronte i colori e le ore delle parousie di Beatrice: il rosso e il bianco e «fermamente» la nona nella Vita Nuova (ora cristologica tradizionale, ma noi sappiamo dal Convivio IV, xxiii, 11, che Dante seguendo San Luca - «onde dice Luca che era quasi ora sesta quando moria» - ha ritenuto di potersi staccare dalla tradizione; e di questo ci occuperemo più distesamente nella Ha parte, e cercheremo di ricavarne la intentio); il bianco, il verde e il rosso, colori trinitari (e della Natura nel De Planctu di Alano ), e non più all'ora nona ma «al cominciar del giorno» nella Comedia. Di fronte a quella che ci sembra una voluta ambiguità da parte del Poeta, noi incliniamo a credere che non si tratti dell’ora prima (che è l'ora della morte di Beatrice nella V.N. e quella problematica - un'altra concordantia temporum - della Resurrezione, accompagnata nel testo di San Matteo, «... et ecce terraemotus factus est magnus» [Matth. XXVIII, 1-2], da quei «grandissimi ternemoti» che il Poeta dice d'aver avvertito nel racconto della morte di Beatrice, a V.N. XXIII, 5) ma della terza, ora nella quale la tradizione, meno problematicamente, ha sempre cantato nei matutini della Pentesoste la «venuta dal cielo» dello Spirito Santo, per cui saremmo tentati di avanzare l'ipotesi che nella nuova «parousia» di Beatrice il Poeta allusivamente ci richiami all'aura di miracolo che sentiamo irraggiarsi dalla lettura del sonetto, «Tanto gentile...» (V.N. XXVI, 6-8), e precisamente nei versi in cui insieme i termini «venuta» e «miracolo» sono impiegati - «... benignamente d'umiltà vestuta; / a par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare » -, fissando cosi i due punti cardinali della parabola soteriologica e poetica:
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orientai tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno adorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che, per temperanza di vapori,
l'occhio la sostenea lunga fiata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve, sotto verde manto,
vestita di color di fiamma viva
(Purg. XXX, vv. 22-33).
La progressione e il succedersi dei colori confluenti nel «color di fiamma viva», nella perenne carità, color di Paradiso, non ricalca soltanto i moduli tradizionali, come ritroveremo nei canti dell'esame sulle Virtù (Par. XXIV, XXV, XXVI), a cui sarà sottoposto il Poeta, ma richiamando anche e proprio il colore della prima apparizione di Beatrice conchiude circolarmente i due tempi ed esalta insieme la speranza come la virtù che là giù bene innamora» - come dirà San Giacomo, in Paradiso XXV, v. 44 -, e di cui Dante nello stesso canto sarà proclamato campione da Beatrice «La Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza» (vv. 52-3), e comandato da San Giacomo di confortarsene e di confortarne («in te ed in altrui di ciò conforte», v. 45) le genti.
Quanto a Beatrice come figura della tropologia nella Comedia varranno sempre quasi tappe da ripercorrere le aperte o velate allusioni che troviamo in nuce o ad latere nelle altre opere del Poeta, ma traguardate sempre attraverso la definizione già citata, di Giovanni di Salisbury: «tropologia mores variis modis aedificat». Già nella Vita Nuova, benché in forma non spiegata come altrove, questo ruolo di moralizzatrice ben può convenirsi a Beatrice che, perfino nei sonetti più coperti, come nel citato «Tanto gentile...» (... 5-7), pur chiaramente opera dal momento che, ripetendo con Dante, «Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stile de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni... Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.». E nel sonetto si sa, le operazioni di Beatrice sono pur le ben note: il «saluto», il far «muta» «ogni lingua tremando», il costringere gli occhi ad abbassarsi, che è polivalente reazione e quindi ben valida per il timor Dei (che è il primo dono del Paracleto):
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e Ii occhi no I'ardiscon di guardare
(lbid., vv. 1-4).
E se il sonetto celeberrimo si chiude con uno dei più alti «sospiri d’amore» di tutte le letterature, non si dimentichi che la speranza, per ripetere ancora con San Giacomo e Dante, è la virtù «che là giù bene innamora», e l'oggetto delle anime «amiche di Dio» è la speranza della beatitudine.
Con questo in mente e usando ormai l'equazione Beatrice-Speranza - tropologia come clavis scripturae, si torni ancora una volta sui versi della Canzone «Donne ch’avete intelletto d’amore»:
Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là 'v'è alcun che perder lei s'attende,
e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza dei beati
(V.N. XIX, 8, vv. 24-8),
che confermano l'intuizione convalidando l'equazione Beatrice-Speranza e chiarendo forse meglio il rimprovero di Beatrice a Dante, nell'episodio dell'incontro, quello che a tanti critici è parso così poco esaltante e che invece, ora, dovrà pur trovare ben diversa accoglienza. Infatti al rimprovero di Beatrice, «regalmente» e «proterva», qual conviensi alla figura della tropologia;
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
non sapei tu che qui è l'uomo felice?»
(Purg. XXX, vv. 73-5),
Dante risponde con la «fronte» gravata di «vergogna». Il triplice «ben» reiterato da Beatrice corrisponde perfettamente al typus Trinitatis e alla Speranza, virtù che «la giù bene innamora», come «il monte» - Paradiso terrestre e Sacra Scrittura - corrisponde alla tropologia, e come «edificatrice di costumi» e come componente essenziale dell'allegoria dei teologi. E a confermarci una volta di più su questa per noi evidente intenzione d'autore, provvederà il Poeta nel modo allusivo ben noto, facendo intonare dagli Angeli il Salmo XXX, «In te, Domine, speravi» - salmo tradizionalmente definito della speranza -, e mettendo in bocca a Beatrice questi non meno significativi versi:
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte volto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
[…]
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti
(Ibid., vv. 121-32; 136-8).
L'equazione Beatrice-tropologia, anche se in maniera meno appariscente, apparirà anche in Convivio e nel De Vulgari Eloquentia.
Nel Convivio, infatti, Dante quando dovrà offrire un exemplum di «moralitade», come promesso nella lunga autoesegesi (Conv. II, i, 15: «Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la letterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà»), e proprio in quel cap. XV, ove son discussi i «movitori» Boezio e Tullio, «movitori» della Filosofia, confermerà l'abbandono di Beatrice per la Filosofia, giustificandosi con il ricorso giocato crediamo tra il Commento dell'Aquinate all'Etica Nicomachea o al De Amicizia, come ha creduto ii Busnelli, e ai quattro articoli del De Ingratitudine, come incliniamo noi a credere, della Summa Theol. (II, ii, q. 107, a. 1-4):
Lo terzo verso (Canz. I: «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete»), ancora s'intende per la sposizione litterale infine là dove dice: L'anima piange. Qui si vuole bene attendere ad alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare: che non dee l'uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi ricevuti dal minore; ma se pur seguire si conviene l'uno e lasciar l'altro, lo migliore è da seguire, con alcuna onesta lamentanza l'altro abbandonando, ne la quale dà cagione, a quello che segue, di più amore (Conv. II, xv, 6-7).
E qui è chiaro che sia Beatrice che la Filosofia son viste come simboli in ambiguo contrasto e dicotomicamente disgiunti nell'allegoresi perché personificazione la seconda e già in nuce figura la prima.
Nel De Vulgari Eloquentia, infine, poeta morale e non d'amore, si dichiarerà Dante quando concessa la palma di poeta d'amore a Cino da Pistoia rivendicherà per sé quella di poeta della «directio voluntatis», cioè, sempre con parole di Dante, dello «honestum in quo nemo dubitat esse virtutem»:
Circa que sola [le tre «magnalia» degne d'esser trattate, e cioè Salus, Venus et Virtus], si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poetasse; scilicet Bertramus de Bornio, arma; Arnaldus Danielem, amorem; Gerardus de Bornello, rectitudinem; Cinum Pistoriensem, amorem; amicus eius, rectitudinem (De V. E. II, ii, 8-9).
Le due dizioni «directio voluntatis» e «rectitudinem» valgono per «Iustitia» secondo la definizione di Sant'Anselmo che Dante o direttamente trasse dal De Veritate o faceva sua a voce o dal De peccato usurae su cui tuonava in Santa Maria Novella Remigio de' Girolami:
Iustitia enim secundum Anselmum nihil aliud est quam rectitudo voluntatis. Rectitudo autem voluntatis dependet a rectitudine rationis, cum obiectum voluntatis sit bonum apprehensum per rationem, sicut patet ex III De Anima... Ergo quod est contra voluntatem est contra rationem, ac per hoc contra iustitiam... (nostri i corsivi) .
Ma è anche e soprattutto la «proprietas» o «attributo» assegnato specialius allo Spirito Santo, come leggiamo, esempio limite, nel De Trinitate (V, xv) di Riccardo da San Vittore: «Bonitatis est autem bene velle: quid est enim bonitas nrsi bona voluntas?» .
Con questo in mente, e cioè con Beatrice figura della tropologia e della Speranza, saremo finalmente in grado di comprendere a piene il ruolo suo rileggendo proprio quei versi da cui il commento tradizionale ha ricavato la duplice definizione di Beatrice quale «divina rivelazione»:
'O donna di virtù, sola per cui
l'umana spezie eccede ogni contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui
(Inf. II, vv. 76-8),
oppure di «simbolo della vita contemplativa» perché nominata accanto seduta alla «antica Rachele»:
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov'i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele
(Ibid., vv. 100-3).
Questi versi invece saran da leggersi nel senso da noi indicato, e cioè di Beatrice «donna della speranza», della Virtù «che la giù (cioè sulla terra, sotto «il ciel c'ha minor li cerchi sui») bene innamora», e figura della tropologia, dell'allegoria dei teologi nel suo senso centrale, e quindi in senso lato di tutta la Sacra Scrittura, ma non nella sua definizione tradizionale di teologia soltanto ma in quella più lata di intelligenza della stessa e quindi di Paracleto e di figura Trinitatis.
A ciò aggiungasi che il Paracleto tradizionalmente vale Consolatore (e «de ejus semper consolatione gaudere», sempre dicesi nella «Orazione» «In Festo Pentecostes») per cui, a definitivamente illuminare il conflitto ConvivioComedia e il rimprovero di Beatrice, si ponga mente, insieme a quella stilistico-esegetica, già segnalata, alla nuova dimensione scritturale e soteriologica. Infatti se la Filosofia quale consolatrice era stata scoperta dal Poeta sulla scorta del De Consolatione del «movitore» Boezio, egli aveva peccato di «desperatio» simbolica contro il Paracleto apparsogli nell'equazione Beatrice=Angelo, («Angelus est Spiritus Sanctus») secondo Rabano Mauro («P.L.» 112, col. 831).
Unificata nunc et tunc nella sua dualità, Beatrice che in terra e nella Vita Nuova era «Monna Bice», e proprio in quel cap. XXIV nel quale per la prima volta il Poeta tanto insiste sul valore della nominum interpretatio e seguendo la tradizione esegetica che si rifà a Sant'Isidoro verifica il valore dei «nomina» quale «consequentia rerum» - e di cui più oltre ci occuperemo -, in Paradiso nel canto VII, in forma che sempre ha lasciato indecisi o confusi i commentatori:
Ma quella reverenza che s'indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l'uom ch'assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice
(vv. 13-6),
sottilmente, impiegando, accostate, una sincope ed un'epentesi per sbalzarne il simbolismo numerico - tre -, suggerirà il typus Trinitatis - Be(a) ± tri ± (i)ce -, come già ancora prima ma solamente post mortem (e così crediamo di meglio comprendere perché la Vita Nuova dovesse di necessità dividersi in vita e in morte Beatricis, ed è ipotesi da ulteriormente elaborare) lo era diventata:
Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna foe accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch'ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. (V.N. XXIX, 3).
E non sorprenderà certo che nella Divina Commedia proprio Santa Lucia definisca Beatrice «loda di Dio vera», e tale «loda» cioè, ma nella forma latineggiante di «laude», la celebri salutandola il Poeta in quell'acrostico che carica così di risonanze liturgiche quei versi che si conchiudono con l'arrivo del terzo «movitore», San Bernardo, «movitore» nell'Empireo:
(Par. XXXI, vv. 52-69).
[LA] La forma general di paradiso
già tutta mio sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
e volgemi con voglia riaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mie era sospesa.
[U] Uno intendea, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice, e vide un sene
vestito con le genti gloriose.
[D] Digguso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
[E] E «Ov'è ella?» subito diss'io.
Ond’elli: « A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Questo acrostico a noi par richiamare, sia pur in forma diversa, la iteratio del nome di Virgilio nei versi, già segnalati, dell'addio. E, inscritto com'appare in 6 terzine, cioè in 18 versi, riprende insieme uno dei numeri che già fu di Beatrice nella Vita Nuova e, con la menzione del «terzo giro / dal sommo grado» e del «trono» anche l'equazione Beatrice= Spirito Santo insieme col problema dell'angelologia dantesca riveduta nella Commedia, dove le Potestà son diventati Troni, ai quali pur sempre spetta la «contemplazione... de lo Spirito Santo» (Conv. II, v, 11).
Il Paradiso è il regno della Carità, virtù legata alla Speranza e alla Fede, come del resto già nel Convivio il Poeta ha cura di descrivere: «Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza, [che è] de lo proveduto desiderare; e per quella nasce l'operazione de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolmente concorrono» (Conv. III, xiv, 14-5); mutatis mutandis, ovviamente.
Questo passo mostra come si vede quella successione delle virtù e il loro stretto rapporto nei modi e nelle forme che abbiamo ormai enucleato, e cioè con l'alternarsi armonico dei «movitori», culminante con San Bernardo figura dell'anagogia, della Carità e typus Trinitatis («e vidi / un sene vestito con le genti gloriose», Par. XXXI, vv. 59-60). Più oltre, ove saran discusse le analogiae Trinitatis, si vedrà più compiutamente la ragione che ha strategicamente guidato il Poeta nella scelta di San Bernardo, come ultimo «movitore», ma per il momento ridiscutiamo le chiose tradizionali, e cioè il «fedel Bernardo» della «devozione a Maria:
E la regina del cielo, ond'i' ardo tutto d'amor, ne farà ogni grazia, però ch'i' sono il suo fedel Bernardo (Par. XXXI, vv. 100-3),
e dell'impiego del termine tecnico «volatus» («vola con li occhi per questo giardino», I bid., 7. 97), così caro al Doctor mellifluus nei Sermoni e specifico in quello In Ascensione, già segnalati dal Busnelli , e aggiungere insieme con la concordanza dei due autori, San Bernardo e Dante, sulla metafora del «pane» e sul ministero esegetico Spiritu Sancta spirante, anche un'altra ragione, e cioè quella carica morale che di San Bernardo ha fatto un campione della «tropologia mistica» . Tra queste ragioni, operando poi una necessaria distinctio perché i tasselli combacino nell'irripetibile ed unico mosaico che è la Comedia, meno valida è certo la «fuga saeculi» e l'invito al cenobio perché snaturerebbe la finalità del Poema che tende, se di contemplazione dobbiamo parlare, non verso quella tradizionale ma verso quella che già abbiam chiamato azione contemplativa, dal momento che la visione dantesca, non lo si dimentichi, è visione globale, e triplice, profetica e paolina.
Fondamentale invece è la marianità di San Bernardo che permette di completare e meglio capire la terna dei «movitori» con le figure della Trinità femminile, le tre donne benedette che han cura di Dante «ne la corte del cielo» (Inf. II, 125). Di esse Lucia, come s'è visto, è «attributo» della Fede - e Luce, giocata etimologicamente sulla nominutn interpretatio ben conviene a Lucia da lux, così come il Cristo che è sempre stato identificato dalla tradizione esegetica con Lumen («Lumen dicitur Filius Dei, quia in amore Dei nos accendit» e «Lux inestiguibilis», da Sant'Agostino, «P.L.» 35, coli. 1782-1375) -, Beatrice della Speranza e Maria della carità a muoversi, rovesciando l'ordine tradizionale dalla fede alla carità, è, e non potrebbe essere altrimenti, proprio Maria, la quale crea nell'invenzione del Poema un movimento circolare che ne rinserra in un'aurea di miracolo il principio e h fine. E non sarà casuale se nelle parole di Beatrice prima e in quelle di San Bernardo poi comparirà ben allusivo il vocabolo «fedele»:
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo impedimento ov'io ti mando,
sì che duro giudicio là su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: Or ha bisogno il tuo fedele
di te, ed io a te lo raccomando.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov'i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse: Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t'amò tanto,
ch'uscì per te de la volgare schiera?
(Inf. II, vv. 94-105),
e nelle parole di San Bernardo:
E la Regina del cielo, ond'io ardo
tutto d'amor, ne farà ogni grazia,
però ch'i' sono il suo fedel Bernardo
(Par. XXXI, vv. 100-3).
Il vocabolo «fedele», dunque, e la virtù teologale della fede di cui Santa Lucia è «attributo Trinitatis» oltre ad essere basilari nel problema epistemologico e tecnico delle Scritture, diventano qui ulteriore mirabile prova della complessità e delle difficoltà risolte dal Poeta in quanto servono ad illuminarci ancor meglio sui criteri delle scelte dantesche e della sua dialettica interna, e per noi risolvono, ma solo dopo lunga e penosa «auscultazione», il problema della presenza di Stazio accanto a Virgilio. Nell'episodio di Stazio, infatti, i termini-chiave, come già s'è visto, son proprio «fede» e «battesmo», ma entrambi i poeti son dichiarati in modo aperto - Stazio -, in modo chiuso - Virgilio -, «fedeli» di Lucia-Cristo, come leggesi nei versi grandi messi in bocca a Stazio e in cui la metafora bellissima e suggestiva del «lume» è derivata da un passo della Epistola II di San Pietro «esaminatore» - non lo si dimentichi - di Dante proprio sulla fede.
Si veda a fronte:
«Or quando tu cantasti le crude armi
de la doppia tristizia di Iocasta» [Et habemus firmiorem
disse il cantar de' bucolici carmi, propheticum sermonem,]
«per quello che Cliò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta
Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sl che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?»
Ed elli a lui: «Tu prima m'inviasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m'alluminasti.
Facesti come quei che va di notte, [cui benefactis attendentes quasi
che porta il lume dietro e sé non giova, lucernae lucenti in caligionoso loco,
ma dopo sé fa le persone dotte, donec dies elucescat,
quado dicesti: ‘Secol si rinnova; et lucifer oriatur in cordibus vestris]
torna giustizia e primo tempo umano, (II Petr. 19).
e progenie scende dal ciel nova’
(Purg. XXII, vv. 55-72).
Il passo della Ila Petri, inoltre - e questo valga come constatazione generale e probante sul valore che noi attribuiamo alle «fonti» nel Poema -, illumina non solo l'episodio dantesco in superficie, cioè nei riscontri puntuali, ma anche ci svela l'intenzione del Poeta nel definire Virgilio «cantor de' bucolici carmi», e quindi profeta.
Così operando Dante fonde insieme la tradizione profetica, quella ch'è dunque alla base della Comedia, e la tradizione esegetica, perché metafora tipica del Commento scritturale impiegando quell'altra bellissima metafora della «navigazione», che da Origene: «... juxsta historiam... interpretati sumus et inter confragosos scopulos naviculam reximus, spiritalis intelligentiae vela pandamus, ut, flante Domino et sua reserante mysteria, laeti perveniamus ad portum» , giunge fino a San Tommaso e al Dante dell'appello ai lettori di Paradiso II (vv. 1-18, e qui basteranno: «L'acqua ch'io prendo già mai non si corse: / Minerva spira e conducemi Apollo, / e nove Muse mi dimostran l'Orse. / Voi altri pochi... / metter potete ben per l'alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l'acqua che ritorna equale»).
Infine, e sia ultimo anello che saldi questa nostra lunga catena costruita sui «sensi» e i lor «movitori» e figure, con le virtù teologali e «attributi», e con le presenze di Virgilio e Stazio, proprio perché meglio chiariranno i canti dell'esame sulle tre virtù cui si sottoporrà il Poeta e la necessità dell'esame stesso, sia dato richiamare un passo di Purgatorio (VII, vv. 31-6):
Il passo della Ila Petri, inoltre - e questo valga come constatazione generale e probante sul valore che noi attribuiamo alle «fonti» nel Poema -, illumina non solo l'episodio dantesco in superficie, cioè nei riscontri puntuali, ma anche ci svela l'intenzione del Poeta nel definire Virgilio «cantor de' bucolici carmi», e quindi profeta.
Così operando Dante fonde insieme la tradizione profetica, quella ch'è dunque alla base della Comedia, e la tradizione esegetica, perché metafora tipica del Commento scritturale impiegando quell'altra bellissima metafora della «navigazione», che da Origene: «... juxsta historiam... interpretati sumus et inter confragosos scopulos naviculam reximus, spiritalis intelligentiae vela pandamus, ut, flante Domino et sua reserante mysteria, laeti perveniamus ad portum» , giunge fino a San Tommaso e al Dante dell'appello ai lettori di Paradiso II (vv. 1-18, e qui basteranno: «L'acqua ch'io prendo già mai non si corse: / Minerva spira e conducemi Apollo, / e nove Muse mi dimostran l'Orse. / Voi altri pochi... / metter potete ben per l'alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l'acqua che ritorna equale»).
Infine, e sia ultimo anello che saldi questa nostra lunga catena costruita sui «sensi» e i lor «movitori» e figure, con le virtù teologali e «attributi», e con le presenze di Virgilio e Stazio, proprio perché meglio chiariranno i canti dell'esame sulle tre virtù cui si sottoporrà il Poeta e la necessità dell'esame stesso, sia dato richiamare un passo di Purgatorio (VII, vv. 31-6):
Quivi [Limbo] sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l'umana colpa esenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l'altre e seguir tutte quante;
nel quale Virgilio, a Sordello da Goito che gliene avea fatto richiesta, dichiara ch'egli «non si vesti le tre sante virtù», - e il vestirsi è lo «induere» della tradizione esegetica, che noi abbiam già rilevato col non meno tradizionale cromatismo per Beatrice e San Bernardo - e non ebbe «battesmo» , mentre Stazio lo ebbe «pria» ch'egli conducesse «i Greci a' fiumi / di Tebe poetando».
Con tutto questo in mente, tornando dunque alle figure dei «movitori» ed a quelle delle tre virtù teologali, sia dato di integrare il grafico già offerto con queste ulteriori aggiunte:
(qua dramatis personae)
Senso letterale – Dante: senso allegorico, senso tropologico, senso anagogico (Virgilio; Fede-Lucia; Stazio; Beatrice-Speranza; San Bernardo; Carità-Maria)
Il nuovo grafico attraverso i sensi e le loro figure, evidenzia quella dualità che il Curtius ha ricavato dalla Epistola a Cangrande, là dove il Poeta affronta e definisce la «forma sive modus tractandi» come «poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus» (Ep. XIII, 27). Contro la sordità della tradizione del commento dantesco - la «curious list» secondo il pur grande Edward Moore -, il Curtius scopre un'ennesima prova dell'unicità della mente del Poeta: «Dante's creative production is governed by a symmetrical tectonics. This is evident in his table of modi too. From the wealth of available modi he makes a carefully considered choice. lt comprises ten items: a perfect number. It falls into two series of five. The first, as we now see, characterizes the poetico-rhetorical aspect of the work, the second the philosophical aspect. The formula «et cum hoc» connects them programmatically. It states: «My work affords poetry, but at the same time philosophy too». With this Dante claims for bis poetry the cognitional function which Scholasticism denied to poetry in general. Dante's table of modi contains his autonomous and sovereign stand in the dispute to which Mussato's polemic is the prelude» .
La simmetria e la dualità - poesia e filosofia - evidenziata mirabilmente dal Curtius alla luce della nostra lunga discussione sui «movitori» del Convivio e della Comedia (nel primo lavoro Ovidio ed Orfeo, Boezio e Tullio, sostituiti rispettivamente nel secondo da Virgilio e Stazio, e da San Bernardo), deve essere modificata in questa nuova, e cioè poesia e teologia, - «theologus Dantis» -, simbolizzate rispettivamente in Virgilio e Stazio (ante et post Christum) e in San Bernardo. Dualità che naturalmente diventa endiade e s'unifica come poesia teologica in Beatrice, emanazione insieme dell'una e dell'altra. Tale unificazione già era apparsa, ma sottesa, al Gilson che ha scritto da par suo: «L'ordonnance générale du poème requiert que la charité s'ajoute à la foi, et la couronne, come la foi s'ajoute à la raison et I'illumine» . Ma nel nostro caso la funzione di corona è data dalla speranza, proprio quella virtù del cui colore non nella Vita Nuova ma nella Comedia apparirà «vestita» Beatrice. Nel cromatismo da noi già enucleato, - che è il cromatismo stesso della Trinità, come implicato in Paradiso XXXIII, vv. 115-20:
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri,
e in ciò che diremo, Beatrice più e più appare insieme con gli altri «movitori» quasi typus Trinitatis, come del resto era stato suggerito nella Vita Nuova, con il ricorso insieme e alla «subtilitas» allegorica («ma più sottilmente pensando») e al simbolismo numerico, «secondo la infallibile veritade».
Si veda:
«...ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch'ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade» (V.N. XXIX, 3-4).
In questo “sillogizzato” simbolo numerico, nel quale solo il Curtius ha capito, sia pur parzialmente, il valore tutto soteriologico - «The only thing of which we can be sure is that the nine is a 'soteriological numerical riddle'» -, da mettere in relazione diretta con il Veltro e il D X V, come più avanti si vedrà, Dante già agiva non solo nell'ambito tecnico del simbolismo numerico - «Bere Dante is within a widespread antique and medieval tradition» (Curtius) - ma in quello anche ben più sottile della teologia-politica, quella che il Kantorowicz illustra cosi magistralmente , la sola che, riconoscendo nell'Imperatore e nei Pontefici, i typi Christi, ci permetterà di capire attraverso l'equazione Deus-natura (Cristo) e Deus-gratia (typus Christi, Imperatore o Pontefice) gli attributi spirituali del Veltro - il «cibarsi» di «sapienza, amore e virtute» e il nascere «tra Feltro e Feltro» (Inf. I, vv. 104-5) -, letti secondo l'allegoria dei teologi, sciogliendo finalmente l'annoso «enigma».
Identico procedimento deve essere seguito per capire il simbolismo di Beatrice, assurgente in questo passo della Vita Nuova, post mortem -. «Io dico che, secondo l'usanza d'Arabia, l'anima sua nobilissima si partio ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l'usanza di Siria, ella si partio nel nono mese dell'anno ... e secondo l'usanza nostra, ella si pardo in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio» (V.N., XXIX, 1-2) -, ad «economia di salute» di Dante e per estensione dell'intera umanità.
Beatrice, dunque, traducendo in termini numerici il sillogismo dantesco muore «nella prima ora» - 1 - «nel nono giorno» - 9 - «nel nono mese» - 9 - «in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero» - 10 - «nove volte» - 9 x 10 - 90 - «era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio» - 1 2 0 0 -, e quindi, sommando e riepilogando, l'intera successione di Beatrice diventa la seguente: 1 - 9 - 9 - 1 2 9 0.
Ma Dante continua dicendoci che Beatrice era «per similitudine» «questo numero», cioè «ella era uno nove» - Beatrice - 9 - perché «lo numero del tre è la radice del nove» - 3 x 3 - 9 -, e dunque «se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno» - 3 e 1 -, «... questa donna era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade».
La Beatrice storica - e col Boccaccio possiamo preferire la figlia di Folco Portinari, sulla scorta della "fide digna persona", all'anonima fiorentina -, è allegoricamente (ma sempre e solo allegoria dei teologi) un numero figurato, e il procedimento impiegato dal Poeta è quello consacrato da una tradizione ben remota - «I'idée de l'identité du nombre et de la figure exprimée dans les ' numeri figurati ' est transmise au Moyen Age, surtout par Boèce et par Macrobe» - e resa canonica ed operante nell'esegesi scritturale da Sant'Isidoro di Siviglia , dagli interpreti dell'Apocalisse, dalla tradizione figurativa e scrittoria, dalla teologia-politica. Come numero figurato Beatrice era quindi assunta a typus Trinitatis gerens, e nel far questo il Poeta ricorre «sottilmente» alle Theologicae Regulae di Alano, come già abbiamo affermato, e precisamente alla «cinquantesima»: «... In divinis autem non proprie, sed per similitudinem potest assignari personalis status, ut personalis proprietas», e alla «centotreesima»: «Ut testatur Augustinus, numerus memorialis est ejusdem rei iteratio, quae quodammodo gerit imaginem numeri; ubi enim repetitio, ibi videtur esse numeratio , ut si dicam: Sol, Sol, Sol; Deus, Deus, Deus ... et talis iteratio dicetur memorialis numerus...» («P.L.» 210, coli. 613; 676-7), impiegando insieme e la formula, tradotta, «per similitudine, dico» e la numeratio - 3 x 3 - (nostri i corsivi).
Per verificare l'intenzione del Poeta, e per comprovare questa nostra intuizione, cerchiamo la riprova nella Comedia. Nel Poema non solo ritroveremo impiegato in modo non meno mirabile e suggestivo lo stesso simbolismo numerico, nella descrizione della Trinità - la «numerositas Trinitatis» e lo «unus, duo, tres et caetera partitiva» di cui alla Summa di Alessandro di Hales -, ma anche il ricorso non meno esaltante ai versus retrogradi, i soli che permettono a Dante di suggerire quella «circolarità» con cui nella Vita Nuova si autodefinisce la personificazione d'Amore: «Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic» (XII, 4), che è formula teologica, ben nota nel XIII sec., riconducibile anche se parzialmente modificata ad Alano: «This (la definizione dantesca) is a modification of Alan's seventh 'theological rule' (P.L., CCX, 627 A): 'God is an intelligible sphere whose center is everywhere and whose circumference is nowhere'. This speculative formula obtained wide currency in the thirteenth century» (Curtius).
E in Paradiso, nel canto XIV, il cui incipit s'apre con il ben noto verso:
Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro,
la Trinità vien «numericamente descritta» in una non men famosa terzina, nella quale veramente un artificio retorico, una tecnica versificatoria tra le più ermetiche - che discuteremo a fondo nella IIa parte - viene esaltata:
Quell'uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno,
non circunscritto e tutto circunscrive
(Par. XIV, vv. 28-30).
Come numero figurato Beatrice sta dunque alla Trinità, come più avanti vedremo il DXV stare a Cristo, di cui la profezia numerica è simbolo cristomimetico. Ma se per l'Imperatore, secondo i principi della teologia-politica, la cristomimesis si concretava durante la cerimonia dell'incoronazione per cui egli diventava typus Christi gerens, dotato di attributi divini «per grazia», per Beatrice il Poeta è chiamato ad uno sforzo rischioso, per evitare l'eresia o il mito, e giustificare teologicamente il solo «movitore» non storicamente consacrabile. Da ciò il ricorso al «miracolo» ed a tutte l’altre invenzioni, dalla nominum interpretatio - «la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare» (V.N. II, 1) -, da traguardarsi attraverso quest'altro passo successivo, giustificante insieme il nome della donna del primo amico, cioè Giovanna come «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d'oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la immaginazione del suo fedele... lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: 'Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini'» (Ibid. XXIV, 4-5), e il nome di Beatrice, dopo l'allusivo richiamo evangelico, come «Amore, per molta somiglianza» (ibid. 6 ), alle citazioni scritturali del Vecchio e Nuovo Testamento, alla chiamata da parte de «lo segnare de la giustizia ... a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetti virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole cli questa Beatrice beata» (Ibid. XVIII, 1) (nostri i corsivi).
E in questo modo mirabile, creata la leggenda «Beatae Beatricis », la Beatrice storica era in grado di diventare figura fondamentale, accanto a Virgilio, Stazio e San Bernardo, ed assumere quella funzione soteriologica personale ed universale fino a diventare un capitole nuovo nella storia e nell'economia della salute dell'umanità.
Ma nel momento in cui, morta e diventata del Cielo « cive », Beatrice era pronta ad interpretare il ruolo di typus Trinitatis , di «attributo» della Speranza - non si dimentichi che già in terra sub specie aeternitatis era stata conclamata dal Poeta «speranza dei beati» - e della Tropologia nella funzione di «movitore», assurgendo ad esemplarità soteriologiche e didattiche, la stessa Beatrice una volta ancora lasciava aperto il problema dello stabilire nell'ambito trinitario di quale persona lei fosse il simbolo per analogia.
Ed ancora una volta l'esegesi scritturale quadrifaria e la teoria dei sensi ci soccorre offrendoci una nuova chiave per meglio intendere alcuni passaggi oscuri, gli ormai tradizionali «versi difficili», nella Comedia.
Scoperta per la prima volta, da Ugo di Rouen, la analogia Trinitatis con i sensi spirituali era destinata ad essere ulteriormente elaborata dagli Scolastici fino ad essere inserita nella canonica Summa di Alessandro di Hales , in cui appare definita per mezzo delle seguenti equazioni:
sensi spirituali (1) allegoria-Cristo; 2) tropologia-Spirito Santo; 3) anagogia-Padre),
significando ben suggestivamente non solamente la circolarità trinitaria ma anche il ritorno definitivo al Padre.
Se dunque Beatrice, come figura della tropologia, quale typus Trinitatis, è da riportarsi analogicamente allo Spirito Santo, meglio e più compiutamente capiremo la scelta della formula esegetica quadrifaria domenicana contro quella francescana (secondo le analogie Trinitatis e tutta la tradizione esegetica scritturale l'allegoria è sempre stata considerata il senso del Cristo e della Chiesa militante, e l'anagogia del Padre e della Chiesa trionfante, figurati dunque da Virgilio + Stazio e Lucia, da San Bernardo e Maria), il vero significato della Processione guidata dal Grifone-Cristo - che non è dunque Processione mistica ma Processione del Sacro romano impero e della Chiesa militante - e, infine, i limiti del pur grande momento gioachimita nella Comedia e l’afflato profetico e la missione stessa del Poeta.
Se riproviamo a leggere gli ultimi canti del Purgatorio, alla luce di questa analogia Trinitatis, e massime i canti XXXII e XXXIII ove col Poeta riviviamo le pagine sublimi evangeliche della Trasfigurazione, dell'Assunzione e della promessa dell'invio del «Paracleto», elaborata preparazione alla profezia del DXV annunciata da Beatrice con il ricorso al simbolismo numerico, meglio ci rendiamo conto dell'intenzione dell'autore che proprio in questi canti ed episodi magistralmente mette a frutto la lezione esegetica e profetica per ridurla ai fini teologico-politici del suo ideale di azione contemplativa, mirabile sincretismo trinitario che armonizza stupendamente il «serafico ardore» di San Francesco, la «cherubica luce» di San Domenico e la «profezia» politica di Natan, come vedremo nella Ila parte, in questa sua milizia letteraria cli scriba Dei, profeta e consigliere, intesa a rimodellare in terra analogicamente la Monarchia celeste.
Dei canti citati ritrascriveremo qui soltanto quei passaggi, ove la equazione analogica Beatrice-typus Spiritus Sancti, potrà servire quale riscontro ed illustrazione.
Si veda:
S'io potessi ritrar come assonnato
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essemplo pinga,
disegnerei com'io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo
del sonno e un chiamar: «Surgi: che fai?»
Quali a veder de' fioretti del melo
che del suo porne li angeli fa ghiotti
e perpetue nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornato a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola
così di Moisè come d'Elia,
ed al maestro suo cangiata stola;
tal torna' io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.
E tutto in dubbio dissi: «Ov'è Beatrice?»
Ond'ella: «Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice:
vedi la compagnia che la circonda:
li altri dopo il grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda».
E se più fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m'era
quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.
Sola sedeasi in su la terra vera,
come guardia lasciata Il del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.
In cerchio le facean di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.
«Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive».
Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
de' suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov'ella volle diedi.
(Purg. XXXII, vv. 64-108).
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu amai ti disviluppe,
sì: che non parli più com'om che sogna.
Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe
(Purg. XXXIII, vv. 31-6).
Con larghe e veloci pennellate, il Poeta prima richiama i due momenti evangelici della Trasfigurazione - quello stesso che gli era servito come exemplum del senso tropologico nel Convivio: «Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come apposatore si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per trasfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre…» (II, i, 5) - e dell'Ascensione, e poi descrive Beatrice «lasciata lì guardia del plaustro» circondata dalle «sette ninfe» recanti in mano gli indistruttibili sette «lumi» - e Beatrice «guardia del plaustro», vien metaforicamente riindicata come Tropologia e typus Spiritus Sancii, perché la Tropologia è il senso tipico della vita spirituale nel seno della Chiesa, sempre secondo Alessandro di Hales -. L'allusione qui allo Spirito Santo è così puntuale come al sotteso altro momento evangelico della Pentecoste, e per consequens l'analogia mutatis mutandis tra la missione agli Apostoli, repleti dei «doni» ed illuminati, ed il Poeta che «ritornato di là» dovrà «scrivere». E ciò che il Poeta dovrà scrivere è il consumarsi in un'aura apocalittica del trionfo dell'Ingiustizia, preludio inevitabile e magistralmente architettato della vittoria della Giustizia nel canto XXXIII; canto che chiude la parabola profetica legata e non a caso ai due simboli cristologici del Veltro, nel canto I dell'Inferno, al DXV in questo stesso canto XXXIII del Purgatorio.
E non è senza ragione che il canto XXXIII - che d'ora in poi vorremmo definito come il canto della Giustizia restaurata - s'apre proprio con l'imperioso e ben allusivo richiamo al Salmo 78 - «Deus, venerunt gentes» -, salmodiato alternativamente dalle quattro virtù cardinali e dalle tre teologali, preludio fausto ed armonico. Nella tradizione esegetica, tale Salmo è sempre stato identificato con lo status justitiae, «In hoc triplici statu», (e cioè poenitentiae, - i primi 50 Salmi -, justitiae - i secondi 50 -, gloriae - gli ultimi 50 -), «decantantur Psalmi Davidici utiliter, et decenter... Secunda quinquagena terminatur... in Psal. 100», e tale status justitiae nella stessa tradizione era stato corroborato dalla visio justitiae, raffigurata nella equazione tipologica Davide-Salomone-Cristo, «Videtur autern Salomon in Mundo, videbitur in Judicio, videbitur et in Regno...», ma solo dopo che Davide fece «la vendetta di Dio» - «David, idest manus fortis, quia tunc debellavit aereas potestates» (Ugo di Santo Caro) . - equazione tipologica, quella di Davide-Salomone-Cristo, basilare nella teologia-politica e nella Comedia, come più oltre si vedrà.
Al Salmo intonato dalle sette virtù, Beatrice non meno allusivamente risponde con le parole di Cristo nel Vangelo di San Giovanni: «Modicum, et non videbitis me, modicum et vos videbitis me» (XVI, 16), con le quali vengono annunciate insieme la «parousia» e per analogia tipologica l'arrivo del «messo», del DXV, del novello Davide-Cristo, cioè del typus Christi gerens della teologia-politica, perché, sempre nello stesso capitolo di San Giovanni, la missione del Paracleto è quella di annunziare «quae ventura sunt» (Ibid. 12-3).
I versi centrali del canto XXXIII son certo quelli relativi alla profezia, ma l'operazione o meglio la missione fondamentale del DXV sarà anticipata proprio in quelle terzine iniziali:
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu ornai ti disviluppe,
sì che non parli più com'om che sogna.
Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe
(Purg. XXXIII, vv. 31-6),
su cui il commento tradizionale s'è inutilmente industriato , e su cui seguendo il Croce s'è stesa la «tinta neutra», compromettendo come sempre l'intelligenza d'uno dei temi centrali della Comedia di cui proprio queste terzine sono stupenda prova.
Ancora una volta seguendo la tradizione esegetica e con l'occhio sempre volto all'opera globale del Poeta chioseremo questi altri «versi difficili», ed apriremo l'intenzione di Dante.
Le parole-chiave delle due terzine e di conseguenza dell'intera profezia sono i termini qui altamente allusivi di «suppe» e di «vaso» traduzione del «calix» quale appare nel Salmo 74: «Calix in manu Domini vini meri est plenus» (v. 9), contaminato con il passo di San Matteo, «Aut quomodo potest quisquam intrare in domum fortis, et vasa ejus diripere, nisi prius alligaverit fortem? Et tunc domus illius diripiet» (Matth. XII, 29-30). Questo calice interpretato già dai Padri come «calix vini meri, id est legis sincerae, plenus est mixto, id est curo faece corporalium sacramentorum», in Sant'Agostino , attraverso Cassiodoro e San Gregorio Magno giungerà fino a Manegoldo di Lautenbach: «Calix, id est Scriptura veteris Testamenti, est in manu Domini; in quo calice est vinum merum, id est simplex littera vel intellectus, quantum ad Judeos... plenus vero misto est quantum ad nos, qui per carnalia ascendimus ad spiritualia» e a Pietro Lombardo: «Calix est lex; vinum merum, caeleste mysterium, id est spiritualis sensus; plenus, quia et si semper bibitur, nunquam expenditur; musto, id est utroque testamento, quia vetus et novum simul sunt» ; interpretato come in Sant'Agostino ma mescidato con il passo di Isaia «Caupones tui miscent aquam vino» in San Girolamo , attraverso Remigio d'Auxerre: «Qui praecepta sacrae Scripturae, quibus debet auditores corrigere, ad eorum voluntatem emollit, suo sensu inmisto, vinum corrumpit... Vinum suum, id est pura et sincera veritas... mistum est aqua, pravum expositione corrumpente et molliente rigorem sacrae Scripturae insipiditate sua» , giungerà fino a Bruno di Segni, e dal Commento tradizionale ai Salmi sarà trasferito a quello dell'Apocalisse: «Calix in manu Domini vini meri plenus est mixto (ps. LXXIV), per quem sacram Scripturam intelligimus, guae quidem secundum se mera est et pura, sed ab haereticis inficitur, turbatur et deprauatur; unde non calici, sed vino haereticorum quod mero vino et sanae intelligentiae mistum est, iratus Dominus esse dicitur» (nostri i corsivi) .
Letta, traguardando attraverso così ricca e nota tradizione, la terzina dantesca, che ripete traducendo quasi puntualmente la chiosa di Bruno di Segni, è quindi da considerare come un ultimo anello nella lunga catena della lotta contro l'eresia, che tocca il suo apice in due esempi clamorosi. Il primo trovasi in Inferno, nel canto XIX, - canto il cui clamoroso incipit esalta le insegne di Simon Mago e dei seguaci -, nel quale, contro Bonifazio VIII, Dante non esita a mettere in bocca a Niccolò III quella forte metafora:
Se' tu sì tosto di quell'aver sazio
per lo qual non temesti torre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio.
(Ibid. vv. 55-7),
che par recta linea derivata da una immagine contro Abelardo: «Scripturam sacram devirginasti et usque ad verticem violasti» , il secondo proprio nella metafora con cui si chiude il canto XXXII di Purgatorio:
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovr'esso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte.
E come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e baciavansi insieme alcuna volta.
Ma perché l'occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di sospetto pieno e d'ira crudo,
disciolse il monstro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana ed a la nova belva
(vv. 148-60),
nella quale in alta resa poetica vengon fuse disparate immagini che la tradizione da Origene, a San Girolamo, a Sant'Agostino, a San Gregorio ha consegnato a Bruno di Segni: «Haeretici... in densa silva sanctarum Scripturam ea quae intelligere non possunt, violenter rodunt et lacerant» ed a Ruperto di Deutz, il quale a sua volta l'ha arricchita completando l'idea della violenza con quella della copula pervertitrice: «Sic haeretici... thorum Dei Patris, id est sanctae legis Scripturam, violenter ascendentes, plebem ejus iniquo semine corruperunt» e anche «Oculus, inquit, adulteri observat caliginem (Job. XXIV, 15), id est sicut adulter per tenebras in carnali coitu non prolem quaerit, sed voluptatem; sic haereticus in hypocrisi adulterat Dei verbum, quia vid. non spirituales Dei filios gignere sed suam scientiam praedicando desiderat ostentare, et quasi alienam conjugem tollit, duro fidelem animam in suum errorem allicit» .
Le «suppe» quindi - nell'uso degradato d'un termine popolare, ma scelto evidentemente ad hoc - che rappresentano qui il vino adulterato» della Scrittura, condizionano sia il «vaso» che il «sepente» - si badi non il dragone -; e il demone della tentazione e della superbia umana vien dal Poeta espresso in termini forse imprestati da quel Riccardo da San Vittore che tante volte è stato da noi citato sulle orme sempre del Poeta. Di Riccardo ritrascriveremo, tratti dal Commento al Cantico, questi due passi, che consideriamo parlanti, il primo che chiarisce le allegorie del canto XXXII di Purgatorio:
«Bestia enim tangit montem quando irrationalibus motibus dediti Scripturae sacrae celsitudini propinquant, et non eam secundum quod debent intelligunt, sed irrationabiliter ad suae voluptatis intelligentiam flectunt»,
il secondo le terzine già enucleate ed oggetto della nostra disanima del canto XXXIII, sempre di Purgatorio:
«Ipse inimicus in Scripturae intelligentia nos impedire conatur, ne in ejus eruditione proficiamus, terrenis cogitationibus vel carnali scientia puritatem spiritualis intelligentia maculans et offuscans» (nostri i corsivi).
Questi passi non solo paiono la « fonte » concettuale da cui liberamente sgorga uno degli ampi affluenti che alimentano il mare della poesia dantesca nei passaggi considerati, lo sforzo dello «impedimento» dello «inimicus» può ben essere sciolto nel «vaso che il serpente ruppe» la cui «purità» «fu» dunque e non «è» più essendo stata «maculata ed offuscata» e quindi degradata a «suppa», ma possono valere quasi sigla generale alla stessa Comedia sol che si torni con la mente alla lotta che il Dante-dramatis persona sostiene nella «selva» di fronte alle tre fiere, che s'uniranno in una sola bestia, coi tre nomi - sia dato ripeterlo ancora una volta - che iniziano con la sola identica consonante L che sta per Lucifero, antitetico simbolo trinitario.
Considerati questi canti di Purgatorio, e massime il XXXIII, canto della Giustizia restaurata, come il capitolo dantesco dell'ortodossia - eredità agostiniana del De Genesi ad litteram e del De doctrina christiana -, non dovrebbero più sorprenderci i passi dell'Epistola ai Cardinali: «Forsitan 'et quis iste, qui Oze repentinum supplicium non formidans, ad arcam, quamvis labantem, se erigit?' indignanter obiurgabitis. Quippe de ovibus pascue Iesu Christi minima una sum; quippe nulla pastorali auctoritate abutens, quoniam dioide meum non sunt. Non ergo divitiarum, sed gratia Dei sum id quod sum, et ‘zelus domus ejus comedit me'... Nec Oze presumptio quam obiectandam quis crederet quasi temere prorumpentem me inficit sui tabe reatus; quia ille ad arcam, ego ad boves calcitrantes et per abvia distrahentes, attendo. Ille ad arcam proficiat qui salutiferos oculos ad naviculam fluctuantem aperuit» (nostri i corsivi) (Ep. XI, 9-12), e questi del Monarchia:
Ad bene quoque venandum veritatem quesiti scire oportet quod divinum iudicium in rebus quandoque hominibus est manifestum, quandoque occultum. Et manifestum potest esse dupliciter: ratione scilicet et fide. Nam quedam iudicia Dei sunt ad que humana ratio propriis pedibus pertingere potesi, sicut ad hoc, quod homo pro salute patrie seipsum exponat; nam si pars debet se exponere pro salute totius, cum homo sit pars quedam civitatis, ut per Phylosophum patet in suis Politicis, homo pro patria debet exponere seipsum, tanquam minus bonum pro meliori. Unde Phylosophus ad Nicomacum: 'Amabile quidem enim et uni soli, melius et divinius vero genti et civitati'. Et hoc iudicium Dei est; aliter humana ratio in sua rectitudine non sequeretur nature intentionem: quod est impossibile. Quedam etiam iudicia Dei sunt, ad que etsi humana ratio ex propriis pertingere nequit, elevatur tamen ad illa cum adiutorio fidei eorum que in Sacris Litteris nobis dieta sunt, sicut ad hoc, quantumque moralibus et intellectualibus virtutibus et secundum habitum et secundum operationem perfectus, absque fide salvari potest, dato quod nunquam aliquid de Christo audiverit. Nam hoc ratio humana per se iustum intueri non potest, fide tamen adiuta potest. Scriptum est enim ad Hebreos: «Impossibile est sine fide placere Dee»; et in Levitico: «Homo quilibet de domo Israel, qui occiderit bovem aut ovem aut capraro in castris vel extra castra et non obtulerit ad hostium tabernaculi oblationem Domino, sanguinis reus erit». 'Hostium tabernaculi' Christum figurat, qui est hostium conclavis eterni, ut ex evangelio elici potest: occisio animalium operationes humanas. Occultum vero est iudicium Dei ad quod bumana ratio nec lege nature nec lege Scripture, sed de gratia speciali quandoque pertingit; quod fit pluribus modis: quandoque simplici revelatione, quandoque revelatione disceptatione quadam mediante. Simplici revelatione dupliciter: aut sponte Dei, aut oratione impetrante; sponte Dei dupliciter: aut expresse, aut per signum; expresse, sicut revelatum fuit iudicium Samueli contra Saulem; per signum, sicut Pharaoni revelatum fuit per signa quod Deus iudicaverat de liberatione filiorum Israel. Oratione impetrante, quod sciebat qui dicebat secundo Paralipomenon: «Cum ignoramus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui, quod oculos nostros ad Te dirigamus». Disceptatione vero mediante dupliciter: aut sorte, aut certamine; 'certare' enim ab eo quod est 'certum facere' dictum est. Sorte quidem Dei iudicium quandoque revelatur hominibus, ut patet in substitutione Mathie in Actibus Apostolorum (II, vii, 1-9)...
«... Idem [Augustinus] ait in Doctrina Christiana loquens de ilio qui vult aliud in Scripturis sentire quam ille qui scripsit eas dicit, quod «ita fallitur ac si quisquam deserens viam eo tamen per girum pergeret quo illa via perducit», et subdit: «Demonstrandum est ut consuetudine deviandi etiam in transversum aut perversum ire cogatur». Deinde innuit causam, quare cavendum sit hoc in Scripturis, dicens: «Titubabit fides, si Divinarum Scripturarum vacillat auctoritas». Ego autem dico quod si talia fiunt de ignorantia, correptione diligenrer adhibita, ignoscendum est sicut ignoscendum esset illi qui leonem in nubibus formidaret; si vero industria, non aliter cum sic errantibus est agendum, quam cum tyrannis qui publica iura non ad comunem utilitatem secuntur, sed ad proprlam retorquere conantur. O summum facinus, etiamsi contingat in sompniis, eterni Spiritus intensione abuti! Non enim peccatur in Moysen, non in David, non in lob, non in Matheum, non in Paulum, sed in Spiritum Sanctum qui loquitur in illis. Nam quanquam scribe divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est.» (III, iv, 8-11) (nostri i corsivi).
Essi, i passi dico, comprovano quanto sentito fosse il senso della missione di cui si sentiva «gratia Dei» investito il Poeta, e quanto alta la posta e quanto lungo lo studio per adeguarsi alla «materia» il cui «fondo» è l'universo, ed esserne di tale materia «Scriba» quando il «Maestro» è Dio (Par. X, vv. 1-27). E naturalmente solo in un contesto di ortodossia avocata saran da traguardare i canti XXIV-XXVXXVI di Paradiso, quelli in cui il Poeta si sottopone all'esame sulle tre virtù teologali ad opera di San Pietro, San Giacomo e San Giovanni rispettivamente, e ricevuta come un'investitura nel triplice «cingere» di San Pietro a Dante sarà ordinato, dopo la tremenda invettiva dell'Apostolo contro i degeneri successori, nel canto XXVII, e l'annuncio del soccorso provvidenziale, di farsene portavoce:
Ma l'alta provedenza che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com'io concipio.
E tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascendo
(vv. 61-6).
L'esame delle tre virtù imperativo per se appare esemplato sul De Doctrina Christiana di Sant'Agostino, e massime sui capp. 39 e 40 che integralmente trascriveremo:
CAPUT XXXIX. - Scripturis non indiget homo fide, spe et charitate instructus, - 43. Homo itaque fide, spe et charitate subnixus, eaque inconcusse retinens, non indiget Scripturis nisi ad alias instruendos. Itaque multi per haec tria etiam in solitudine sine codicibus vivunt. Unde in illis arbitrar jam impletum esse quod dictum est: Sive prophetiae evacuabuntur, sive linguae cessabunt, sive scientia evacuabitur. Quibus tamen quasi machinis tanta fidei et ipsi et charitatis in eis surrexit instructio, ut perfectum aliquid tenentes, ea quae sunt ex parte non quaerant: perfectum sane, quantum in hac vita potest; nam in comparatione futurae vitae nullius justi et sancti est vita ista perfecta. Ideo manent, inquit, fides, spes, charitas; tria haec: major autem borum est charitas (I Cor. XIII, 8, 13); quia et cum quisque ad aeterna pervenerit, duobus istis decedentibus charitas auctior et certior permanebit.
CAPUT XL. - Qualem lectorem Scriptura postulet, - 44. Quapropter, cum quisque cognoverit finem praecepti esse charitatem, de corde puro, et conscientia bona, et fide non ficta (I Tim. I, 5), omnem intellectum divinarum Scripturarum ad ista tria relaturus, ad tractationem illorum Librorum securus accedat. Cum enim diceret, charitas, addidit, de corde puro ut nihil aliud quam id quod diligendum est, diligatur. Conscientiam vero bonam conjunxit propter spem: ille enim se ad id quod credit et diligit perventurum esse desperat, cui malae conscientiae scrupulus inest. Tertio, et fide, inquit, non ficta. Si enim fides nostra mendacio caruerit, tunc et non diligimus quod non est diligendum, et recte vivendo id speramus, ut nullo modo spes nostra fallatur. Propterea de rebus continentibus fidem, quantum pro tempore satis esse arbitratus sum, dicere volui, quia in aliis voluminibus, sive per alios sive per nos multa jam dieta sunt. Modus itaque sit iste libri hujus. Caetera de signis, quantum Dominus dederit, disseremus.
Ancorata al magistero agostiniano la Comedia si trasformava così, com'è scritto nell'Epistola a Cangrande: «Finis totius et partis esse posset et multiplex, scilicet propinquus et remotus; sed, omissa subtili investigatione, dicendum est breviter quod finis totius et partis est remouere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Ep. XIII, 39), in una delle più alte «Gesta Dei per Dantem», in un capitolo, almeno nelle intenzioni del Poeta - che è quella in definitiva che più conta -, dell'economia e della storia della salute.
E se abbiam parlato, a proposito di Dante, di azione contemplativa lo abbiam fatto pensando e al «genus phylosophie... morale negotium, sive ethica; quia non ad speculandum, sed ad opus inventum», come descritto sempre nell'Epistola a Cangrande, XIII, 40, e alla chiara ingiunzione, con cui s'apre il trascritto cap. XXXIX del De Doctrina christiana, di farsi cioè campioni delle tre virtù e delle Scritture «ad alios instruendos».
E se abbiam parlato anche di «Gesta Dei» e di «Opus Dei per Dantem», lo abbiam fatto avendo in mente un altro capitolo del De Doctrina Christiana che per maggior chiarezza ritrascriviamo:
CAPUT XXXVIII. - Charitas perpetuo manet, - 42. Sed fidei succedit species, quam videbimus; et spei succedit beatitudo ipsa, ad quam perventuri sumus: charitas autem etiam istis decedentibus augebitur potius. Si enim credendo diligimus quod nondum videmus, quanto magis cum videre coeperimus? et si sperando diligimus quo nondum pervenimus, quanto magis cum pervenerimus? Inter temporalia quippe atque aeterna hoc interest, quod temporale aliquid plus diligitur antequam habeatur, vilescit autem cum advenerit; non enim satiat animam, cui vera est et certa sedes aeternitas: aeternum autem ardentius diligitur adeptum, quam desideratum: nulli enim desideranti conceditur plus de ilio existimare quam se habet, ut ei vilescat cum minus invenerit; sed quantum quisque veniens existimare potuerit, plus perveniens inventurus est.
Ciò che nel testo agostiniano è promessa e certezza futura, diventa nella Comedia, realtà vista, non imaginata, in quella visione profetica concepita e realizzata come adtestatio rei visae al pari dell'Eneide e della Visio Pauli, ben allusivamente richiamata sempre nell'Epistola a Cangrande: «Et hoc insinuatur nobis per Apostolum ad Corinthios loquentem, ubi dicit: 'Scio hominem, sive in corpore sive extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium celum, et vidit arcana Dei, que non licet homini Ioqui» (Ep. XIII, 79).
E se le domande di Sant'Agostino nel dubbio e nell'angoscia della notte passata «con tanta pieta» possono aver agito da catalizzatore, tutto quel che fa della Comedia quell'unicum nella storia delle letterature, come forma e materia e come strategia d'autore, nasceva utilizzando e volgendo ad altissima conquista poetica la tradizione esegetica scritturale come veicolo epistemologico e normativo per il Poeta-dramatis persona, figura, del senso letterale mosso a volta a volta dagli altri «movitori» alla visione beatifica, all'anagogia. Tale dialettica successione dei sensi consuona con una delle più alte ed umili definizioni di San Tommaso nel Commento all'Epistola agli Ebrei: «Dominus enim voluit nos ad intelligibilia et spiritualia manuduci» . E il Poeta - dramatis persona - senso letterale - e noi tutti con lui - siam dunque caritativamente condotti per mano per entro il Poema, attraverso i tre stadi, cioè dall'imperfezione alla perfezione, dall'inconosciuto al conosciuto, come esemplati nella definizione più volte citata, di Pietro Lombardo:
Il senso letterale o storico è più facile, il morale più dolce, il mistico più sottile; il letterale è per i principianti, il morale per i più istruiti, il mistico per i perfetti.
Da queste considerazioni derivano ad abundantiam le nostre convinzioni e addirittura la giustificazione di questo nostro studio sulla tradizione esegetica medievale dal momento che siam addirittura pronti ad affermare che senza l'esegesi biblica e la lettura quadrifaria la Comedia come la conosciamo non sarebbe esistita. Essa è infatti condizionata da tale tradizione esegetica nella sua tecnica, nel suo vocabolario altamente specializzato ed allusivo, nel «furor dell'esercizio» conoscitivo, nell'invenzione e nell'impiego dell'allegoria dei teologi. Il senso letterale condiziona ed è condizionato dagli altri sensi, e massime da quello anagogico (che nel Convivio non esiste e non può esistere), così come il Dante-dramatis persona condiziona ed è condizionato come nunc et tunc, come personaggio storico e sub specie aeternitatis. E la scelta del Salmo CXIII, culminante con la visione di Dio e profetico: «In exitu Israel de Egipto... Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis» (Ep. XIII, 21), quale esempio sottile del modus tractandi, per analogia significherà suggerendo ben altro exitus, quello di Dante dal nuovo Egitto, «in exitu Dantis-Humanitatis de Egipto», come troviamo nel canto XXV di Paradiso, canto della Speranza, canto del Poeta per eccellenza, come meglio si vedrà più oltre, proclamato da Beatrice-Speranza-Tropologia-Spirito Santo:
La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com'è scritto
nel sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che d'Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che 'l militar li sia prescritto
(vv. 52-7).
E poiché nessun credente dubiterà che storicamente gli Ebrei siano usciti dall’Egitto, - e Dante in Convivio aveva scritto: «Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto... » (II, i, 7) e nella Epistola a Cangrande, «Nam si ad litteram solam inspiciamus, signicatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempere Moysis...» (XIII, 21) - cosi nessun lettore dovrà dubitare, di fronte alla stupenda ed acutissima analogia, che il Poeta sia andato, grafia Dei, dall'Egitto terreno litteraliter sive historialiter alla Gerusalemme celeste o, meglio ancora, per la legge del parallelismo, «al divino da l'umano, / a l'etterno dal tempo..., / e di Fiorenza in popol giusto e sano» (Par. XXXI, 37-9).
Ma per rendere plausibile ed operante il suo exodus la strategia mirabile del Poeta ha stupendamente e rigorosamente mobilitato tutti i ricorsi che la lunga ed ampia tradizione esegetica, così abilmente disceverata ed asservita, gli offriva. Quindi, oltre all'analogia e al parallelismo, ha validamente sfruttato il doppio senso letterale, quello storico stricto sensu, cioè, e quello parabolico o metaforico, l'intentio auctoris e l'Autore vero o alluso, e infine la scelta non del Libro dell'Esodo ma proprio del Salmo CXIII che lo storico Exodus poeticamente canta, giustificando cosi l'ulteriore scelta stilistica della forma poetica contro quella prosastica: la Comedia è dunque storia poetica della profetica visione dell'opus et causa restaurationis, di cui Dante deve farsi scriba.
La Comedia, proprio per la scelta del sistema quadrifario, è fondata sul senso letterale e sui tre altri sensi allegorici, nunc et tunc, nunc et sub specie aeternitatis, e i personaggi possono e devono dire, per citare un esempio limite, «Io fui da Montefeltro, io son Buonconte» (Purg. V, 88), e il Poeta solo vivente che condiziona però la stessa allegoria dei teologi può dirlo altrettanto sub specie aeternitatis. Il paradosso del cristiano che è vivo quando è morto, solamente con la stupenda trovata del Poeta-dramatis persona - che viene ulteriormente ribadita con la non meno stupenda invenzione per antitesi del personaggio di Branca d'Oria, già morto da vivo (Inf. XXXIII, 115-50) nel drammatico racconto di Frate Alberigo -, trasforma il dualismo tra la terra e il cielo in una dualità, e il Poema può ben accettare la definizione di «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, vv. 1-2), e massime quando Dante sempre per analogia con la «God's way of writing» alla maniera di tutti gli «scribi divini» ha voluto esserne con profonda umiltà teologica non l'autore ma il «calamus scribae», dal momento che «unicus tamen dictator Deus est» (Man. III, iv, 11).
Ma per arrivare a tanto occorreva che, parafrasando liberamente un'acutissima definizione di Giorgio Petrocchi , «tra Lukacs che ci ammonisce: l'artista sa sempre quel che fa, anche se non so quel che pensa, e Spitzer che ci insegna: l'artista sa quel che pensa, ma non sa quel che fa,» Dante sapesse sempre quel che pensava e sapesse sempre quel che faceva. Questa definizione ha colto nel segno e la dantologia la deve considerare regola metodologica fondamentale, e tirarne le somme sgombrando il campo dai vecchi idola: la cieca fiducia nei primi commentatari, preoccupati e tralignanti per ragioni di inesistente eterodossia, le remore dell'allegoria ad «allotria» e la riduzione della tecnica dell'enigma e peggio delle subtilitates ad inutili crittografie, che per parziale conoscenza del metodo quadrifario e dell'allegoria dei teologi l'esegesi tradizionale ha affastellato.
La parola resta come sempre in primis alla filologia nel senso più ampio del termine (Pasquali), alla «explanatio verborum», al «circulus metodicus», alla equazione dialettica, all'umiltà del dantologo cui la mirabile sapienza ed esercizio del Poeta deve veramente chiedere una «unstinting expenditure of the self» pari alla «superhuman difficulty», alla «boundless devotion» (Auerbach) richieste dalla Comedia al suo Autore.
Essa, «la sconfinata devozione» dico, è la sola che ha concesso a Dante di raggiungere pedetentim, per impiegare un termine tanto caro a San Tommaso, come ci ricorda Étienne Gilson , la suprema Verità, armonizzando in un circolo dialettico «amore (volontà) e sapienza» - Spirito Santo e Cristo-, e di attingere a quella «profondità» che a T. S. Eliot è apparsa principium individuationis nel felice paragone tra il Poeta e Shakespeare; e sembra la stessa esclamazione che di fronte alla Sacra Pagina - e la Comedia ben allusivamente diventa Poema sacro e sacrato poema, a Par. XXV, 1 e XXIII, 62 - tutti gli esegeti con Sant'Agostino e San Gregorio han sempre prodigiosamente ed umilmente ripetuto: «Mira profunditas, Deus meus, mira profunditas!».