Dati bibliografici
Autore: Paola Nasti
Tratto da: Dante
Editore: Carocci, Roma
Anno: 2020
Pagine: 267-285
Tradizione e Scrittura è un binomio tanto indissolubile quanto problematico nella storia del cristianesimo. La Sacra Scrittura si manifesta divina, inviolabile, impassibile alla contingenza (Deut 4,2; Prov 30,6; Rev 22,18-19; Mt 5,17-18; 28,18-20; Gal 3,19). La tradizione, al contrario, è umana, transeunte, soggetta al tempo e agli usi. In essa è dunque insito il seme della corruzione postlapsariana (Col 2,8; Mr 7,7-13; Il Cor 1,13; Ef 3,4; Gal 1,8), eppure, proprio nella tradizione, la Bibbia da parola si fa esperienza e vita. Non a caso già i primi Padri della Chiesa avevano negato un avvicinamento alla fede per sola scriptura invitando il credente ad affidarsi alla Chiesa e alle tradizioni esegetiche, liturgiche e teologiche che illuminano il senso di questa complessa mappa verbale dell’universo, e offrono le chiavi di lettura di un libro che, se ben letto, può rivelare i misteri del mondo e della vita.
Nell’Occidente medievale, dunque, la Bibbia penetra l'esperienza. dell'individuo e attraversa ogni nervo delle sue culture quasi esclusivamente mediante le tradizioni della Chiesa. La lettura privata del testo sacro è, del resto, esperienza riservata a pochi, religiosi o confratelli, e per lo più limitata al Salterio; la diffusione medievale delle Bibbie “tascabili” fra un pubblico laico è fenomeno tardo e lento, anche se ebbero una certa diffusione parafrasi, in prosa o in versi, che romanzavano e volgarizzavano il testo. La parola sacra, mediata dalle tradizioni dei religiosi, era dunque fruita, in maniera più o meno diretta, soprattutto in spazi sociali e in situazioni associative o comunitarie: la chiesa abbellita da programmi iconografici e animata da canti, letture e riti liturgici ispirati alla Scrittura; la piazza, estensione della chiesa, luogo di predicazione e riti scenografici (processioni, canti) imbevuti di cultura scritturale e teologica; le scuole in cui i giovani imparavano i fondamenti del latino sul Salterio; le università in cui si dibattevano grandi questioni teologico-scritturali; i conventi degli ordini minori, che, innestati nel tessuto urbano tardomedievale, aprivano le proprie porte ai laici, più o meno eccezionalmente, consentendo scambi di idee, libri e saperi; infine, le confraternite che, sul modello monastico e conventuale, prescrivevano la ruminazione della parola sacra ai devoti e alimentavano la produzione di opere librarie, poetiche e iconografiche di materia scritturale al fine di nutrire lo spirito dei confratelli. Proprio la natura collettiva del patrimonio scritturale consentì la moltiplicazione dei percorsi della tradizione al di fuori del raggio di controllo della Chiesa; la Scrittura, riformulata da visionari e cantori di ogni lingua, trovò innumerevoli metamorfosi di genere e modo, dall’elegia al dramma, dal romanzo alla loda. Essendo legata ai luoghi del potere e dell'autorità (la Chiesa), essa penetrò anche il discorso delle cancellerie e della politica, permeando la retorica dei protagonisti della grande storia.
Pur senza avere accesso immediato al libro sacro, dunque, l'uomo medievale viveva la Scrittura e ne comprendeva il messaggio, più o meno consapevolmente, a seconda del grado di educazione e competenza. Dante Alighieri, fra i poeti e intellettuali laici del suo tempo, dimostrò (e dimostra tutt'oggi) una dimestichezza con la tradizione (o le tradizioni) scritturale tale da indurre i suoi contemporanei a definirlo theologus (cfr. Hollander, 2000). Il poeta non ostenta solo di conoscere la Bibbia a memoria, citandola, ampiamente e con precisione, in ognuna delle sue opere, ma prova di saper riconoscere le stratificazioni della tradizione scritturale, di saper “usare” le diverse declinazioni della Bibbia, nelle sue vesti liturgiche, teologiche, militanti, pedagogiche, e di poterle discutere, correggere e rinnovare, esercitando un lavoro. d'esegesi sul testo biblico tanto attento quanto originale.
Nelle pagine che seguono il lettore non troverà una lista dei luoghi, delle storie e dei personaggi biblici recuperati o risemantizzati dal poeta, ma una snella selezione di casi che esemplificano il modo in cui il poeta si avvicina a diverse manifestazioni della tradizione scritturale nelle sue opere, non solo per dimostrarsi theologus o biblicus e congegnare la propria statura di auctor e la sacralità della sua opera, né unicamente per completare il suo progetto di sincretismo e sintesi culturale attraverso l'appropriazione del libro dei libri (cfr. Barariski, 2000a). Dante dialoga con la tradizione biblica anche per proclamare, predicare e dimostrare il potere salvifico della parola di Dio correttamente sentita, interpretata e vissuta. Non a caso, come in Pd 29.94-96, il poeta lamenta spesso l'abbandono delle scritture e dei padri, accusa gli uomini di religione del suo tempo di vender «ciance» (P4 29.110) ai fedeli distraendoli dalla veritiera parola di Dio ed esalta, per contrasto, la centralità della Scrittura come strumento di liberazione e salvezza (Pd 5:73-78). 14.2
Con un migliaio di riprese, fra citazioni, allusioni, e riferimenti espliciti alla Vulgata nella sola Commedia (cfr. Lund-Mead, Iannucci, 2012) è facile immaginare che l'Alighieri avesse una Bibbia personale. Sembra certo, alla luce delle numerose citazioni in latino dei salmi, che il poeta possedesse almeno un Salterio Gallicano, nella versione tradotta da Girolamo dal testo greco della Settanta tramandata da Origene (cfr. Groppi, 1962, p. 30). Il XIII secolo è segnato dall’apparizione delle Bibbie in miniatura (quasi certamente a uso dei frati mendicanti e itineranti) e dunque dalla produzione di “oggetti librari” accessibili e maneggevoli. Più che una miniatura, però, è probabile che sullo scrittoio del poeta ci fosse un volume di media grandezza, del tipo parigino, contenente, oltre al testo della Bibbia, i prologhi di Girolamo a ciascun libro. È possibile poi che includesse, come tanti dei manoscritti superstiti, strumenti esegetici quali elenchi di nomi greci o distinctiones (dizionari di temi e simboli biblici) che adiuvavano lo studio di un testo che Dante mostra di saper leggere e interpretare. La profonda «conoscenza che il poeta possiede su tante questioni d’esegesi biblica, e su cui avremo modo di tornare, ha però sicuramente origini più profonde. Senz'altro tanta della cultura biblica dantesca è di natura indiretta e arriva al poeta per il tramite della predicazione e dell'omiletica (cfr. Delcorno, 1985; Maldina, 2018). Seppure sia difficile stabilire quanto dell'opera dantesca abbia subito l’influenza di predicatori come Servasanto da Faenza, Remigio de' Girolami o Giordano da Pisa, è tuttavia chiaro che le modalità di ripresa della Bibbia nella sua opera siano vicine per qualità della selezione, finalità e formulazione a quelle che informavano le prediche dei frati che popolarono il suo tempo e i suoi luoghi. Data la precisione di tante riprese bibliche è però probabile che lo studio dantesco si fosse nutrito anche di fonti dirette. Dante parrebbe avere avuto accesso, anche ripetuto, a alla Glossa ordinaria (commento completo alla Bibbia progettato da Anselmo di Laon) e ad altri commenti su singoli libri del testo sacro, dalle Enarrationes in Psalmos di Agostino ai Moralia in Job di Gregorio Magno, dal Commentarius in Evangelium S. Lucae di Bonaventura al commento sull’Apocalisse di Pietro Giovanni Olivi, o forse, con più probabilità, a catene e florilegi dell’esegesi patristica e moderna quali la Catena aurea di Tommaso d'Aquino, l'Historia scholastica di Pietro Comestore o i più popolari commenti versificati come l'Aurora di Pietro Riga.
Il poeta avrà potuto apprezzare qualche Bibbia miniata e commentata, probabilmente nelle biblioteche dei frati che gli fecero scuola a Firenze stando alla lettera del Convivio (II XII 1-7). Si pensi, ad esempio, ai diciassette codici che formano la Bibbia Laurenziana di Santa Croce, con iniziali miniate e contenenti l'intero testo corredato dalla Glossa Ordinaria (cf. Pegoretti, 2017). Che quest’imponente gruppo di volumi sia stato uno dei canali attraverso cui la Glossa giunse a Dante è difficilissimo stabilirlo, ma già Nardi suggeriva la possibilità che un passo di Valafrido Strabone sulla collocazione dell'Eden nel mezzo dell’Oceano, tratto proprio dalla Glossa, avesse ispirato l'immaginario dantesco (Nardi, 1967, p. 318). Se non a Santa Croce, l'Alighieri parrebbe dunque aver consultato quel testo altrove. I fondi biblici di Santa Croce e Santa Maria Novella, senza tener conto delle biblioteche di altri luoghi dell’esilio dantesco, sono poi ricchi di commenti ai diversi libri della Bibbia, spesso appartenuti a singoli frati, alcuni dei quali vicini agli ambienti dell'Alighieri, e da loro i imprestati o messi a disposizione dei confratelli e del convento. Anche in questo caso non ci pare possibile offrire certezze, ma la presenza di questi testi nei luoghi del sapere fiorentino ci induce a sciogliere, almeno per quel che riguarda l’esegesi biblica, le tante riserve, per altri casi valide, sulla conoscenza diretta che il poeta dovette avere di alcuni degli strumenti fondamentali per avvicinarsi all'esegesi della Scrittura. Non solo il poeta dimostra di conoscere la storia dell'esegesi di loci biblici a lui utili, ma padroneggia, sin dai tempi del Convivio (ma si direbbe già della Vita nova, infarcita di letture figurali della Scrittura), le nozioni principali dell’ermeneutica scritturale e si dimostra competente nell’applicare ai passi biblici e ai suoi stessi versi il metodo dell’allegoresi. Il poeta illustra infatti la dottrina dei quattro sensi biblici nel Convivio (II 1 3-15) e la riprende, applicandola poi al Salmo 113 e al proprio poema, in un notissimo passo dell'epistola a Cangrande (XIII xx-xxv):
Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; [...] Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versibus: «In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio cius, Israel potestas eius». Nam is ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. [...] Et ideo videndum est de subiecto huius operis, prout ad litteram accipitur; deinde de subiecto, prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.
Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati; [...] Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico. Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i versetti: «Allorché dall’Egitto uscì Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata a Dio; e dominio di Lui venne ad essere Israele». Infatti se guardiamo alla sola lettera del testo, il significato è che i figli di Israele uscirono d'Egitto, al tempo di Mosè; se guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se guardiamo al significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù della presente corruzione terrena alla libertà dell’eterna gloria. [...] È dunque il soggetto di tutta l'opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera. Ma se si considera l'opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.
Quest'affermazione dantesca ha, come è noto, un effetto strabiliante sul lettore moderno: il poeta attribuisce al proprio testo una polisemia riconosciuta di norma solo al testo biblico, qualificandolo dunque d’ispirazione divina e sacra. Per quanto coraggiosa, tuttavia, l'assertività dantesca non sbalordì la maggior parte dei suoi primi commentatori, ci fu anzi chi, come Guido da Pisa, ritenne del tutto legittimo equiparare Dante ai profeti dell'Antico Testamento e la Commedia a uno dei libri più misteriosi della Bibbia: il Cantico dei cantici (cfr. Nasti, 2013a). Guido da Pisa era un frate dotto e, come tanti altri religiosi, amante dei classici. Non è raro, infatti, trovare negli scritti dei lettori specializzati della Bibbia come lui l'accostamento fra piani ermeneutici apparentemente diversi (cfr. Smalley, 1960): i miti antichi erano passibili di interpretazioni cristologiche oltre che morali, Ercole poteva essere figura di Cristo per il domenicano Nicholas Trevet, Virgilio vate a sua insaputa per commentatori cristiani come Bernardo Silvestre.
D'altro canto, già nel XIII secolo, sotto l'influsso del rinnovato aristotelismo, l’esegesi scritturale aveva subito profonde trasformazioni che avevano portato a una riconsiderazione del concetto di auctoritas. Nell’esaminare le causae e le formae dei libri biblici, gli accessus dei commentari tardomedievali dedicarono ampio spazio agli elementi metaletterari del testo sacro (cfr. Minnis, 1984). La Bibbia divenne, cioè, oggetto di valutazioni estetiche e retoriche a opera di interpreti che ne apprezzavano la ricchezza e la complessità stilistica, la compresenza dei registri, la polisemia, l'armonia o le peculiarità formali ascrivibili tutte all’i intervento di autori ispirati ma umani. Quest'enfasi mai prima d’allora posta sull'attività creativa e sull'umanità degli scribae Dei consentì un'eccezionale contiguità fra autori sacri e profani, fra antichi e moderni. La verità, a detta degli esegeti tardomedievali, aveva trovato più tube, spettava dunque al lettore saper leggere correttamente le grandi opere secondo l'esempio dei Padri. Allo stesso tempo, se Bibbia e letteratura incrociavano ora i propri percorsi, l'’appropriazione dei modelli sacri e l'imitazione dei modi della poesia e dell’allegoresi biblica erano considerate più plausibili.
Dante partecipò in prima persona a questo rinnovamento della sensibilità epistemologica ed ermeneutica tardomedievale. Non a caso proprio alla lettura e all’interpretazione della Scrittura è dedicata una lunga riflessione nel terzo libro della Monarchia (III iv 6-10), svolta all'insegna dell’ermeneutica agostiniana del De doctrina christiana. Per l’Alighieri la Scrittura, e in generale le scritture, se male interpretate (o utilizzate) hanno il potere di destabilizzare la percezione dell'autorità, del vero e del giusto. È dunque necessario leggere senza negare e anzi per stabilire il principio fondante della Bibbia e dell’universo: la carità (cfr. Nasti, 2013c). L’interpretazione del vero è operazione d'amore (e giustizia). Allo stesso modo, niente di ciò che è scritto, Agostino docet, può contraddire l'equivalenza giovannea fra Dio e caritas. Essere scriba Dei, per Dante, come per il vescovo d’Ippona, significa scrivere secondo i dettami dell'amore universale. È questo il senso della dichiarazione poetica di Pg 24 che chiarisce la natura sacrale del poema al quale «ha posto mano e cielo e terra» (Pd 25.2):
I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando
(Pg 24.52-54).
La perfetta aderenza della propria scrittura alla carità divina, misurata sullo zelo che consapevolmente anima Dante (Ep XI xix), autorizza non solo la ripresa della Parola sacra ma anche la sua attualizzazione, sul piano morale, figurale e anagogico attraverso l'imitazione e la riscrittura. Così, a mo’ d'esempio, nella Vita nova, Dante riprende le fila (e i versi) del Vangelo per presentare Beatrice come figura Christi, assimilando il suo ruolo di scriba a quello di un evangelista (cfr. Singleton, 1968; Cristaldi, 1994). Senza dover elencare tutti gli aspetti cristologici di Beatrice già segnalati con dovizia di particolari dai commentatori, basterà ricordare che la gentilissima, come il Cristo del Vangelo di Giovanni, è amore (Vn XXIV 5), e che la sua morte (avvistata in sogno) scatena gli stessi effetti della Passione di Cristo: buio e «grandissimi tremuoti» (XXXIII 5). Non solo: l'annuncio della tragica dipartita dell’amata è segnato da un disperato gemito tratto dalle Lamentationes di Geremia: «Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina gentium» (XXVIII 1). Il verso, figuralmente applicato alla storia di Cristo, era stato letto dagli esegeti come il pianto dei fedeli per la morte del Messia e utilizzato nella liturgia del Giovedì e del Venerdì santo per narrare e celebrare la Passione (cfr. Martinez, 1998). Dante poteva dunque contare sulla tradizione esegetica e liturgica per “figurare” l'analogia fra Beatrice e Gesù. Eppure, a differenza dei Vangeli, la Via nova narra la storia di un fatto erotico (amoroso); in forma di prosimetro. Il ricorso alla prosa da parte dell’Alighieri rispondeva, come ormai riconosciuto dai più, alla sua necessità di creare attorno al testo lirico un tessuto narrativo che desse spazio anche a un'attività esegetica al fine di orientare il suo libello in una direzione risolutamente religiosa e spirituale (cfr. Cristaldi, 1994; Nasti, 2007). Orbene, anche per operare la sua “rivoluzione” della lirica romanza, Dante poté forse contare su un modello biblico e la sua esegesi: il Cantico dei cantici di Salomone corredato dal suo plurisecolare commento (cfr. Nasti, 2007). Il testo salomonico e il suo paratesto, infatti, si offrivano all’immaginazione medievale e dantesca come il racconto di un'avventura erotica fra due amanti, la cui fabula era ricostruita in un continuum narrativo i cui sensi spirituali e religiosi erano appurati dal commento di devoti chiosatori. Risillabando il suo incontro con la “salvatrice” sul modello del Cantico, Dante poteva rappresentare l'evento amoroso come la difficile (e a volte anche dolorosa) scoperta del rapporto fra il divino e l'umano, fra il tempo e l'eterno, fra i beni e il bene. Non andrà sottovalutato, fra l’altro, che nella tradizione esegetica, liturgica, innodica e laudistica delle confraternite tardomedievali il testo salomonico, come si vedrà a breve, fosse riutilizzato soprattutto come cantico mariano. Plasmata sul modello della sposa del Cantico, Beatrice, come Maria, è dunque la sposa divina che media la presenza del sacro, testimoniando il valore trasformativo della rivelazione. Non a caso, allora, sulla vetta purgatoriale il ritorno di Beatrice, vestita d'umiltà come Maria, è accompagnato da un coro d'angeli che intonano il versetto del Cantico: Veni sponsa de Libano (Pg 30.10-12), in un contesto tutto intessuto di immagini e simboli tratti dalla tradizione esegetica e liturgica del grande epitalamio biblico (cfr. Pertile, 1998).
Nel nome di Maria si svolge tutto il viaggio di Dante nella Commedia, ma è soprattutto nel Purgatorio che Maria offre al poeta materia di canto e ai penitenti esempi di vita religiosa su cui modellare la propria esperienza di crescita spirituale ed etica, forse secondo la lezione già offerta dallo Speculum Beatae Mariae Virginis del francescano Corrado di Sassonia (1264-ca. 1270). Nella Bibbia, gli episodi mariani sono pochi e succinti, proprio per questo l’analisi della ripresa di questa vena scritturale può essere utile all’illustrazione del peso che la tradizione ebbe sulle modalità della ricezione e dell’appropriazione biblica nell'o- pera dantesca. La scarsità di informazioni sulla Vergine nella Scrittura. aveva infatti sollecitato, soprattutto a partire dal IX secolo, un'ingente proliferazione di materiale extrascritturale liturgico, iconografico e laudistico volto a ricostruire, per il devoto, la vita e l'esperienza della madre di Cristo esaltandone il ruolo cardinale nella storia della salvezza e contribuendo allo sviluppo di una vera e propria teologia della Vergine. La devozione a Maria fu particolarmente sentita negli ambienti comunali della Firenze medievale e in più in generale dell’Italia di Dante, specialmente grazie alla predicazione degli ordini mendicanti e lo zelo delle confraternite che alla vergine dedicavano raccolte di laude e icone realizzate da grandi artigiani come Duccio.
Dante si mostra continuamente sensibile agli sviluppi della mariologia del suo tempo, ma, a differenza di altri cantori di Maria, narra solo gli episodi prettamente scritturali della vita della Vergine, amplificandone, attraverso il ricorso alla tradizione, dettagli di grande portata teologica e spirituale. Così, ad esempio, nella prima cornice del Purgatorio il poeta ricrea, ecfrasticamente, un bassorilievo ispirato alla scena dell’Annunciazione narrata da Luca (Lc 1,26-38), simbolo dell’umiltà di Maria, riportando in latino lo scambio fra l’arcangelo Gabriele e la Vergine:
L'angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch'aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”;
perché iv' era imaginata quella
ch’ad aprir l'alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favela
‘Ecce ancilla Dei, propriamente
come figura in cera si suggella.
(Pg 10.34-45)
Lo stringato scambio scritturale è qui chiaramente infarcito di versi che hanno una funzione prettamente esegetica e narrativa (vv. 35-36; 42). Il senso dell’Annunciazione come chiave di svolta della storia della caduta e della salvezza umana è, cioè, illustrato al lettore che ne apprende il significato teologico: il sì di Maria è un tutt'uno con l'Incarnazione e la Passione, i due eventi che misero fine all'irreparabilità della colpa umana aprendo le porte del Paradiso. L'Annunciazione dantesca è narrata dunque sulla falsariga della tradizione esegetica e teologica, esemplificata, per citare un caso fra i tanti forse noti al poeta, da un passo della Summa theologiae di Tommaso d'Aquino: «A causa del peccato all'uomo era precluso l'ingresso nel regno celeste [...] Prima della passione di Cristo nessuno poteva entrare nel regno celeste» (ST III, q. 49; a. 5). Nel solco della tradizione è pure la scelta di presentare la risposta di Maria («Ecce ancilla Dei») come esempio di umiltà: così faceva ad esempio Corrado di Sassonia nel quarto capitolo del suo Speculum, citando a sua volta Beda il Venerabile. Di questa scena piuttosto tradizionale va tuttavia notato un particolare: secondo la lezione evangelica all'annuncio del messaggio celeste, Maria rimase turbata (Le 1,29). A partire dalle Omelie su Luca di Origene, secondo i commentatori, a suscitare terrore nella Vergine furono la novità del mistero e l'oscurità della salutatio adoperata dall'’arcangelo. Non a caso, d'innanzi all'apparizione dell'angelo, la Madonna della tavola dipinta da Simone Martini nel 1333 per l’altare di Sant’Ansano (Duomo di Siena) ha un'espressione scostante, di difesa quasi, e nasconde il volto impensierito col mantello. Il nostro poeta, invece, sembra infondere la scena scritturale di una profonda dolcezza definendo l'evento come “atto soave” e coronandolo di termini positivi quali «pace» e «amore». L'impressione che questa sia l'interpretazione dantesca dell'Annunciazione è d'altronde confermata dalle altre due riprese dell'episodio biblico nella Commedia: Pd 14.34-36, Pd 32.94-114.
Alla fine del viaggio, nell’apoteosi del trionfo paradisiaco, Dante-personaggio assiste al tripudio degli angeli in presenza di Maria e ascolta la «divina cantilena» (P4 32.94-99) di Gabriele che in Purgatorio aveva solo immaginato per «visibile parlare». Il Pellegrino è incantato dall’atteggiamento amoroso dell’Arcangelo e si appella a san Bernardo: pur conoscendo il passo biblico dell’Annunciazione, il poeta vuol spiegare ai lettori la sententia o l'insegnamento che quel brano porta agli uomini, non solo sulla storia dell’Incarnazione ma anche e soprattutto sulla carità che l’ha motivata:
«O santo padre, [...]
qual è quell angel che con tanto gioco
guarda ne li occhi la nostra regina,
innamorato sì che par di foco?».
Così ricorsi ancora a la dottrina
di colui ch'abbelliva di Maria,
come del sole stella mattutina.
Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
quant’esser puote in angelo e in alma,
tutta è in lui; e sì volem che sia,
perch’elli è quelli che portò la palma
giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio
carcar si volse de la nostra salma.
(Pd 32.100-114)
Pure questa ripresa di derivazione scritturale ha, pertanto, finalità esegetiche, didattiche e teologiche, e anche in questo caso Dante fa ricorso a un filtro della tradizione cristiana per articolare la sua attualizzazione della Bibbia, rivolgendosi alla “dottrina” di san Bernardo che su Maria aveva composto sermoni e libelli notissimi. Nel suo De laudibus Virginis Matris, Bernardo aveva infatti spiegato che il nome Gabriele significa esattamente fortitudo, la virtù che consente all'angelo di annunziare un mistero tanto straordinario senza spaventare la Vergine (Hom 1,2). Non solo. Il grande dottore mellifluo era stato uno delle voci più influenti di una teologia affettiva fondata sulla caritas a partire soprattutto dalla sua interpretazione del Cantico dei cantici che, dal IX secolo, si era imposto come uno dei testi fondamentali nella liturgia delle ore dedicata alla Vergine e nei riti di celebrazione dei grandi eventi della sua vita. Col proliferare delle letture mariane del Canzico, l'Annunciazione fu invariabilmente interpretata come l’inveramento delle dolci nozze fra divino e umano narrate dall'epitalamio di Salomone e proprio con queste tonalità Dante narra la salutatio di Gabriele nel trionfo paradisiaco (cfr. Nasti, 2007).
Senza dover affinare ulteriormente l’analisi delle stratificazioni della ricezione dantesca del Vangelo di Luca sul mistero dell’Annunciazione, quanto fin qui illustrato vuol servire ad affermare innanzitutto questo: la perizia del poeta sulla scrittura è specialistica, il poeta fa sempre appello alle tradizioni bibliche più popolari, la liturgia, l'iconografia, ma radica la sua comprensione del senso della parola divina sempre a partire dallo studio di dotte discussioni esegetiche e teologiche. Ogni parola delle sue riscritture di eventi e passi biblici andrà dunque trattata come un termine tecnico, come una finestra sui modi e sui percorsi della tradizione biblica che l’autore riprende e a volte reinterpreta in maniera originale al fine di costruire la scena del suo oltretomba e allo stesso tempo educare i lettori alla corretta interpretazione della parola (e della storia) sacra. In questo senso non si può non ricordare l’esempio più pregnante dell’attitudine esegetica, didattica e allo stesso tempo creativa del poeta nei confronti della Bibbia, il famosissimo passo di Purgatorio 29 in cui il poeta, come spesso fa, ci invita a leggere due passi paralleli ma contrastanti della Scrittura (Ez 1,6 e Apoc 4,7) per illustrare il senso dei quattro animali che il pellegrino vede in processione (cfr. Sbordoni, 2005; Cristaldi, 2008; Cerbo, 2010):
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne,
tanto ch'a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechiel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
(Pg 29.97-102)
Qui, nel rimandare alla Scrittura, il poeta non si ferma alla constatazione della contraddizione fra fonti: egli la risolve con l'autorità di cui si sente coronato, autorità che lo trasforma non solo nell’esegeta più autorevole della parola di Dio ma anche e soprattutto in un nuovo seri ha del Verbo divino iscrivendolo in una genealogia di profeti che va da Paolo a Davide e da Geremia a Salomone (cfr. Barolini, 1984; Hawkins, 1999; Martinez, 2002; Nasti, 2007; Ledda, 2011):
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch'a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.
(Pg 29.103-105)
Per queste vie e con tale perizia tecnica, la Bibbia risuona in ogni angolo del racconto visionario di Dante, ma se nel caos morale e metafisico dell'Inferno la tradizione sacra è sovvertita e parodiata per lo più attraverso il contrappasso (cfr. ad esempio Nasti, 2013b), essa è invece cantata (in forma di inni e preghiere) e studiata (grazie agli exempla di virtù a cui assistono i penitenti) dai penitenti del Purgatorio. Proprio in questo secondo reame, immaginato come una grande comunità ecclesiale, superata la dissimulazione delle riprese infernali, la Scrittura si esplica in tutta la sua potenza liturgica, svolgendo un ruolo determinante nella rieducazione alla caritas dei salvati (cfr. Treherne, 2013; Martinez, 2002; 2004). Non a caso, il percorso di conversio cordis programmato da Dante è contrassegnato sin dall’inizio dal ricorso alla preghiera e alla salmodia biblica: le anime espianti entrano infatti nel regno della speranza cantando all'unisono, secondo i canoni gregoriani, il Salmo 113, carme della fuga degli ebrei dall'Egitto verso la terra promessa. La situazione narrativa giustifica chiaramente l’utilizzo di questo inno davidico: come nell’esegesi del Salmo 113 gli ebrei che trovano la libertà dalla schiavitù egiziana rivelano l'approdo alla visione di Dio dopo l’uscita dalle tenebre della vita, così pure le anime salve del Purgatorio, liberate dalle scorie della morte, entrano nel regno che è scala a Dio. Il passo biblico ha però anche altri riverberi sull’episodio dantesco (cfr. Singleton, 1960; Armour, 1981; Freccero, 1986; Pasquini, 19992). Il salmo era infatti letto durante i vespri della Pasqua, dinnanzi al fonte battesimale, proprio alla stessa ora in cui il vascello dei purganti arriva sulla spiaggia della montagna dantesca. La connotazione liturgica è dunque essenziale al poeta non solo per stabilire la coincidenza anagogica fra resurrezione delle anime e anastasi divina, ma anche per segnare l'ora e il tempo del pellegrinaggio dantesco, che come sappiamo si svolge durante i giorni della Pasqua cristiana, a sottolineare, dunque, il ruolo salvifico del viaggio ultraterreno. Il riferimento alla liturgia, che diverrà da questo snodo della Commedia una costante della poesia del Purgatorio, si caratterizza, già in limine, come la strategia più cogente per esaltare la Bibbia come strumento di conoscenza e salvezza, disponibile agli uomini, anche i meno dotti, già in vita (cfr. Ardissino, 2009; Treherne, 2013; Maldina, 2015; Martinez, 2002; 2004).
Lontano dalla vita terrena, nel Paradiso, la relazione fra anime e parola sacra cambia però di segno. I beati, pur continuando a celebrare il verbo nelle sue forme liturgiche, partecipano già, nella loro perfezione, alla realizzazione della verità proclamata dal Verbo. Di fatto, si fanno essi stessi in Verbo divino, come pare affermare la spettacolare metamorfosi delle anime del cielo di Giove che, inscenando una coreografia celestiale, si tramutano in una sentenza del Libro della Sapienza: «Diligite iustitiam qui iudicatis terram» (Pd 18.76-93) per esaltare la giustizia di Dio proclamata dalla Bibbia e anelata dal poeta. Nei cieli insomma la parola divina si incarna in una fusione perfetta fra grazia e realtà che trasforma l'universo in un libro vivente.
Non è certo un caso che in Pd 18 Dante dia un esempio così eclatante dell’arte divina, in cui umanità e parola di Dio si fondono, per celebrare la giustizia e il buon governo. Non è unicamente per conforto alla fede che Dante legge e induce a leggere la Bibbia. Il poeta scrive, non solo nella Commedia, in «pro del mondo che mal vive» per volontà divina («Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive», Pg 32.103- 105). Era dunque prevedibile che, anche la trattazione dantesca di temi politico-sociali si reggesse su passi, eventi e immagini di origine scritturale. La Bibbia è infatti una traccia da seguire per ristabilire le vie della giustizia e dell'armonia sociale necessarie alla realizzazione del piano provvidenziale che Dante vide serrate fra gli uomini del suo tempo sin dai tempi del Convivio (cfr. Brilli, 2012), quando l’esule fiorentino, per dimostrare in che modo e per quali motivi l'Impero «da Dio avere spezial nascimento, e da Dio avere spezial processo» (Cv IV iv 13), aveva avviato la sua trattazione politica con una ripresa dal Libro dei Proverbi che connota profeticamente la voce dello scrittore:
E però io nel cominciamento di questo capitolo posso parlare colla bocca di Salomone, che in persona della Sapienza dice nelli suoi Proverbi: «Udire: però che di grandi cose io debbo parlare» (Cv IV v 2).
Sulla traccia di questo inizio, tutto il discorso politico dantesco si avvicina alla Bibbia non solo come fonte di citazioni, ma anche e soprattutto come modello di retorica profetica e militante. Non è infatti difficile rinvenire calchi di espressioni scritturali soprattutto negli snodi in cui il poeta attacca i potenti che tradiscono l'insegnamento divino come nella drammatica esclamazione: «O miseri che al presente reggere [...] si che a tutti si può dire quella parola dell’Ecclesiaste» (Cv IV vi 19).
Per castigare i rei (fiorentini e non) e al contempo suscitare speranze di rinnovamento fra i sostenitori dell'Impero, Dante continuerà d’altronde a rimaneggiare e imitare il serz0 Dei in tutti momenti politici della sua opera. Così, ad esempio, nelle epistole scritte a ridosso dell’elezione di Enrico VII (1309) e della sua discesa in Italia (1310-11), l’exul immeritus veste apertamente i panni scomodi ma solenni del profeta clamantis in deserto, per esaltare l’imperatore come colui che rinnova la storia biblica identificandolo con Davide pronto a uccidere il suo Golia (Ep VII 29), o Mosè emancipatore del suo popolo (Ep V 4), o infine Giosuè (Ep VII 19) (cfr. Brilli, 2007; Honess, 2007; Rigo, 1994; Pertile, 1997). Più spesso ancora, Enrico è trasformato in una figura cristologica, con qualità che la Bibbia e la tradizione scritturale attribuiscono solitamente al Messia: egli è infatti chiamato sposo (Ep V 5), e gigante (Titan: Ep V 3) sulla scorta delle denominazioni di Cristo derivate dal Cantico dei cantici e dal Salmo 18 (cfr. Pertile, 1997). Sia detto che l'operazione dantesca potrebbe non avere nulla di straordinario, la risemantizzazione della storia e del dettato biblico è infatti fenomeno tipico di tutta la retorica politica del Medioevo. Tanto la Curia quanto le cancellerie imperiali non si sottrassero mai a un utilizzo, spesso cinico, del verbum Dei per legittimare i propri disegni espansionistici. Ciò che rende folgoranti e originali gli scritti e i brani politici di Dante è tuttavia la capacità di evitare l'ipse dixit e adottare modelli retorici e formali che inscrivono le vicende di Enrico VII nella longue durée della lotta fra giustizia e malizia che la Bibbia narra e trasformano il suo idolo in un personaggio della storia sacra (cfr. Nasti, 2007).
In modi non dissimili, seppure in versi e in volgare, nel Paradiso terrestre, il poeta riprende immagini e simboli dell'Apocalisse (e dei libri profetici a essa legati nell'esegesi) per inserire lo sventurato connubio fra monarchia francese e Curia in una rappresentazione sacra della storia sub specie aeternitatis. Nell’Eden, il pellegrino assiste a sei calamità che danneggiano il carro rappresentante la Chiesa, la settima conclude il ciclo di sventure:
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte;
e come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.
Ma perché l'occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.
(Pg 32.148-160)
Dante assiste qui alla trasformazione del carro su cui era apparsa Beatrice in un mostro con sette teste e dieci corna che ricorda la bestia di Apoc 17,3: «Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna». Sulla bestia dantesca appare infatti anche una «puttana sciolta». L'immagine della prostituta era già stata utilizzata da Dante in If 19.106-111 come simbolo della Chiesa corrotta e dei prelati simoniaci (cfr. Benfell, 2011; Nasti, 2013b). Nel testo di Giovanni, la meretrix magna rappresenta la Roma imperiale, ma Dante interpreta la simbologia apocalittica attraverso il filtro dell'esegesi di (Gioacchino da Fiore e della Lectura super Apocalipsim del francescano Pietro Giovanni Olivi, che soggiornò a Firenze e insegnò a Santa Croce in anni significativi per la formazione intellettuale dantesca. La meretrice è, per questi uomini religiosi assetati di riforma, la Curia romana, l’ecclesia carnalis, che ha rinnegato il precetto della povertà evangelica «per oro e per argento» (If 19.106-108) e si è lasciata trascinare in cattività ad Avignone (cfr. Picone, 2002). Il gigante, al quale la donna vende baci, è invece generalmente identificato con Filippo il Bello, re di Francia, che, nell'’epistola VII xx1x, era già stato soprannominato «Golia» dal poeta (cfr. Pertile, 1997). Questo gigante sarebbe dunque il sovvertimento o l'amara parodia del titano Enrico vi (a sua volta figura Christi) esaltato da Dante nelle epistole, mentre la meretrice sembrerebbe un capovolgimento della vera Sposa del Cantico dei cantici, figura della Chiesa, topos biblico già significativamente utilizzato da Dante anche nell’invettiva contro Simon Mago di Inferno 19.2-3 («e cose di Dio, che di bontate / deon essere spose, e voi rapaci»). L'intreccio di testi scritturali e i riferimenti intratestuali ingaggiati per la creazione di quest’apocalisse dantesca dimostrano che l'immaginario biblico del poeta dialoga in maniera diretta con la pagina sacra, risalendo le vene del profetismo scritturale senza perdersi nei rivoli delle riscritture tardo-medievali (Aversano, 1988).
Non è però solo con la forza della profezia che il poeta cerca di dimostrare la sacralità della sua visione politica e contrastare la tesi antimperiale a partire dalla Scrittura (cfr. Puletti, 1989; Cremascoli, 2011). Nella Monarchia, ad esempio, pur non rinunciando alla retorica affettiva e profetica (cfr. Chiesa, Tabarroni, 2013), l'impegno dell'Alighieri è smontare le interpretazioni della Bibbia che i papalisti ostentavano per giustificare l'attacco all'Impero perpetrato da Bonifacio vu e dai suoi sostenitori. In un 1047 de force esegetico, il poeta analizza quei passi biblici implicati nella controversia suscitata soprattutto dai libelli de lite e dalla trattatistica ierocratica di un Egidio Romano (De ecclesiastica potestate) o un Agostino Trionfo (Summa de ecclesiastica potestate), prestando attenzione soprattutto alla littera del testo sacro. Il poeta, ad esempio, rifiuta la catena di letture allegoriche di un famosissimo passo del Vangelo di Luca, in cui a Cristo che invita gli apostoli a impugnare la spada, Pietro risponde «ecco qui due spade» (Lc 22,38), proposte dai papalisti per attribuire al papa il potere sia temporale che spirituale (44 III 1x 1-5). Seguendo un'analisi del testo che oggi diremmo narratologica, e apportando ragionamenti filosofici, Dante dimostra che la risposta di Pietro non aveva valore allegorico ma dimostrava, al massimo, l’incomprensione da parte di Pietro dell’espressione usata da Cristo per descrivere la natura combattiva dell’apostolato (Nasti, 2013c). In questa occasione l'approccio al testo sacro documenta un'attitudine del nostro poeta all’interpretazione letterale della Scrittura che si andava affermando fra gli esegeti del tardo Medioevo al fine di evitare quello che nel suo commento ai Salmi Tommaso d'Aquino definì adulterio spirituale: il travisamento interessato e disonesto della parola di Dio.
Mi pare difficile portare a conclusione in così breve spazio un discorso sulla fonte e sul libro più importante per la vita e per l'opera di Dante. Spero tuttavia che «l’essemplo basti» (Pd 1.71), per delucidare come, per attivare il potenziale della parola sacra e trasformarla in esperienza per sé e per i suoi lettori, il poeta abbia fatto ricorso alle tradizioni liturgiche, teologiche, esegetiche e devozionali che vivificano il testo sacro nella storia. La Bibbia come libro della vita è per il credente un testo complesso, polisemo, il cui senso, come dimostra rigorosamente il terzo libro della Monarchia, è spesso frainteso o oscuro a chi non la frequenta con devozione, caritas e studio. Per “figurare” il suo oltretomba e comprendere le leggi del mondo Dante si è fatto biblicus, studioso della Scrittura e della sua densissima tradizione esegetica. Eppure, se si fosse limitato a questo uso dotto della parola di Dio, la sua opera avrebbe corso il rischio di rimanere fra il computo dei contributi eruditi ed enciclopedici. Poiché scriveva per riformare, Dante ricorse alla Bibbia per farsi innanzitutto nuovo evangelista, apostolo, profeta, e scriba Dei. In questo senso, però, il nostro dimostra di avere più mezzi dei suoi precursori biblici. A differenza di san Paolo, ad esempio, il poeta fiorentino utilizza costantemente la tradizione scritturale per argomentare quel viaggio nell'aldilà che il grande evangelista non aveva saputo, né potuto, comunicare per verba. La liturgia, la teologia, l’esegesi della Bibbia aiutavano Dante a costruire una visione totalizzante della realtà e della vita che doveva coinvolgere, attraverso l’affectus della devotio e dell'estetica e l'appello alla razio dell'ingegno, tanto uomini colti quanto lettori scevri di dottrina: una visione che poteva finalmente illuminare il legame organico che nel Medioevo si riteneva tenesse uniti il libro della vita (il mondo) e libro della Scrittura. La parola di Dio è per il fedele la trama della realtà e Dante è per noi il poeta che ne ha reso esplicita la tessitura.
Lo studio della tradizione scritturale in Dante ha trovato nuova linfa negli ultimi decenni a partire da un saggio fondamentale: Auerbach (19918), uno studio ancora essenziale per capire l'importanza del concetto di figuralità biblica nella cultura tardoantica e nella Comedia. Auerbach dimostra come, utilizzando una categoria esegetica cara agli interpreti cristiani, la Commedia sia fondata su una visione della storia secondo cui i personaggi e le situazioni sono l'ombra del futuro e l'attuazione del passato nel flusso eterno della storia provvidenziale narrata dalla Bibbia. La varierà delle linee investigative da seguire per lo studio della tradizione scritturale in Dante segnalate in questo studio, profezia, inzitatio Bibliae, esegesi, emergeva già in uno dei primi volumi di saggi sul tema che in quanto tale resta ancora uno dei più importanti: Barblan (1988). Aggiornamenti, innovazioni e supplementi di indagine nel testo di Ledda (2011), che include studi su argomenti non esaminati in Barblan (1988), come la traduzione e l'iconografia, e offre ancora importanti spunti di riflessione per lo studio dell'approccio dantesco alla Bibbia. Fra i volumi che si impegnano a riportare le filigrane bibliche nell'opera dantesca si ricordano: Rigo (1994), che porta alla luce alcuni dei canali attraverso cui Dante poteva recepire la sentenzia della Bibbia; Barariski (20002), che offre un ampio ventaglio di esempi sull'impatto della cultura esegetica sull'opera dantesca; Hawkins (1999), monografia fondamentale soprattutto per l’analisi del concetto di “io scritturale” nella Commedia e per lo studio dell’imzitatio paolina e dell’eredità agostiniana. Pur non considerando la tradizione scritturale, Benfell (2011) offre close readings di molti passi della Commedia per esplorarne fenomeni di intertestualità biblica. Orientati all'analisi del riuso dantesco di tradizioni bibliche specifiche sono invece: Cristaldi (1994), uno degli studi più innovativi sul libello dantesco, che dimostra come il ricorso ai Vangeli e alla storia di Cristo consenta a Dante di trasformare il frammento lirico in narrazione; Pertile (1998) è invece essenziale per seguire in profondità la complessa rete di riprese e riscritture del Cantico dei cantici nella Commedia (in particolare nel canto del Paradiso), attraverso lo studio della ricezione del testo biblico nel Medioevo; sulla scia di Pertile, Nasti (2007) indaga la vastissima tradizione medievale legata a Salomone e illustra le dinamiche, gli episodi e le implicazioni culturali e letterarie del dialogo dantesco con essa; delinea un quadro complesso in cui l’imitatio Bibliae viene praticata dall’Alighieri come tirocinio poetico, teologico ed esegetico. Lo studio della liturgia e della predicazione come filtri essenziali della ricezione biblica in Dante richiede familiarità con due volumi: Ardissino (2009), monografia essenziale per lo studio delle riprese scritturali attraverso la liturgia, in cui la Bibbia del culto emerge come principio strutturante e culturale del poema dantesco, e Maldina (2018) che, sulla scia dei suggerimenti di Delcorno (1985), offre finalmente un'ampia riflessione sull’influenza della predicazione sull'opera dantesca, dimostrando anche, nell’ottica scritturale del nostro studio, come tanta della cultura biblica di Dante sia filtrata dall’omiletica del suo tempo. Infine, si segnala un volumetto molto utile come introduzione a tanti passi di ispirazione biblica della Commedia che offre anche una buona prospettiva sulla visione religiosa del poema: Ledda (2015).