Dati bibliografici
Autore: Pietro Cataldi
Tratto da: Dante e la nascita dell’allegoria. Il canto I dell’Inferno e le nuove strategie del significato
Edtiore: Palumbo, Palermo
Anno: 2009
Pagine: 51-53; 87-89; 91-96
Scrivendo questo primo canto [Inferno I], Dante si mostra ben consapevole, oltre che di questo lutto, della difficoltà di raffigurarlo e soprattutto di ricostruire davvero un’alternativa efficacie alla civiltà perduta. È per questo che l’avventura della narrazione è subito collocata accanto a quella dello smarrimento, perché è lo smarrimento stesso a essere doppio, riguardando per un verso la condizione di Dante in quanto individuo costretto a vivere in un mondo che ha perduto le proprie coordinate di senso, in un mondo che appare ormai senza significato, e per un altro verso Dante in quanto cantore rimasto senza i riferimenti adeguati a rappresentare una realtà dotata di senso, quale interprete di una poesia senza significato.
L’avventura è davvero doppia, dunque, se smarrirsi nella selva oscura dell’allegoria, inutilmente animati dal rimpianto per la luminosità del colle, è lo stesso che doverne narrare. Quale sarà mai, infatti, il senso della vita dal momento in cui Beatrice non appare più a proclamarlo con la lucentezza del dato tangibile, e, ammesso che un significato sia ancora perseguibile, esso sarà da ricercare e ricostruire, affannosamente, in un lungo viaggio? Quale potrà ora essere la funzione del poeta, se Beatrice non parla più direttamente all’anima per dirle di sospirare ma piuttosto i sensi sono invasi dai segni di un universo complesso e tutto da decifrare, e l’anima può solo essere invasa dalla paura e dal desiderio di fuggire?
Il lettore del poema sa bene quante volte l’avventura del narrare venga spostata in primo piano, chiamata a dialogare con l’avventura del viaggio, secondo una dialettica che costituisce una parte importante del procedimento allegorico (sugli appelli al lettore si è non senza una ragione soffermato il più grande interprete dell’allegoria dantesca, Auerbach). Nella dimensione dell’allegoria, infatti, l’avventura del viaggio non è più rappresentabile senza il filtro di una ricostruzione intellettuale: avendo il mondo perso la sua trasparenza simbolica, l’ordo rerum non è più pensabile senza l’ordo idearum. Dialogando con il lettore, e più ancora problematizzando gli snodi capitali della narrazione fino a farne il racconto di un’avventura parallela, Dante ha fatto della novità allegorica una strategia di ricostruzione del senso costitutivamente fondata sull’interpretazione della realtà e non sulla descrizione. Diciamo anzi pure che a partire dalla Commedia la realtà non è più descrivibile senza interpretazione; né d’altra parte è più interpretabile senza una descrizione realistica. Descrizione e interpretazione non sono più fuse ma separate, e dialettizzate. Ecco dunque una ragione in più di quel binomio realismo-allegoria (e realismo-figuralità) che costituisce un carattere costante dell’arte dantesca.
Un luogo del poema nel quale la tensione narrativa appare equamente distribuita fra l’avventura del pellegrino e quella dello scrivente, proprio come nella parte iniziale di questo primo canto dell’Inferno e anzi con durata e insistenza anche maggiori, è il XXXIII del Paradiso. In questo modo, una volta di più, all’imponente arco gettato dal poema è garantita solidità e coerenza. Certo, non può sfuggire la profonda diversità intercorrente fra i due casi. Nel canto proemiale la “durezza” del dire coincide, oltre che con l’inquietudine del ricordo e con la consapevolezza del rischio patito, con l’inaugurazione di una sfida nell’ordine dei significati: al poeta sta di sperimentare la possibilità di narrare un universo del quale pare smarrito il bandolo, che sembra naufragare – proprio come la vita del soggetto – nel caos. Nel canto conclusivo, ben diversamente, la difficoltà d’espressione e la difficoltà della testimonianza derivano dal successo conseguito: una volta riuscito a raggiungere il vertice della trascendenza proprio come nella tramontata stagione del simbolismo e nonostante l’impiego di strumenti, per dir così, terreni e secolarizzati, ecco che le modalità allegoriche di conoscenza si rivelano non più adeguate, o almeno insufficienti. Quella tecnica si è mostrata in grado di costringere la realtà a parlare ancora una volta, a svelarsi mostrando il significato della vita individuale, della storia umana, della realtà universale, aprendo infine alla visio Dei. Ma quest’ultima non ammette conoscenza allegorica, non si offre con lo strumentario profano e secolarizzato. Il mistero più alto dell’universo, il suo significato ultimo, non tollera che la descrizione e l’interpretazione agiscano dialetticamente, cioè siano separate. Così l’ultima similitudine del poema ci mostra il «geomètra» inutilmente affannato nel voler ricavare il principio concettuale che spieghi quel che d’altra parte risulta invece chiarissimo alla vista, la misura del cerchio.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova […]
(Par. XXXIII, 133-136).
Esiste dunque una realtà, nell’Universo e nella comune esperienza degli uomini (come l’immagine famigliare della «rota» sta a ricordare al penultimo verso del poema), che è possibile vedere e toccare senza poterla veramente comprendere. Il cerchio è lì: lo vedi ma non lo puoi misurare. C’è dunque una realtà che il procedimento allegorico – così simile a una dimostrazione geometrica – è in grado di assediare ma non di cogliere nella sua essenza (e nella sua semplicità). Dunque la difficoltà a narrare deriva nell’ultimo canto del Paradiso dall’inadeguatezza della tecnica allegorica, che è una tecnica incapace, ovviamente, di rappresentare l’assoluto, visto che è fondata su relazioni; e deriva, d’altra parte, dalla coraggiosa fedeltà di Dante a quella tecnica. Il poeta non fa che lamentare la pochezza di quel dire, ma subito, ogni volta, torna a dire: senza cambiare metodo, coerente con la strategia dei parallelismi e delle contrapposizioni. Finché l’aiuto decisivo arriva da fuori, da un «fulgore» che adempie ogni desiderio, rendendo per un attimo il pellegrino parte di quella perfezione che egli vorrebbe capire.
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(Par. XXXIII, 140-145).
Nel lampo, di nuovo, fenomeno e significato sono uniti. Il viaggio ha ottenuto il suo scopo: la frattura (storica ed esistenziale) fra cosa e idea si è colmata; la forza dell’allegoria è tale da aver ritrovato quel che pareva irrimediabilmente perduto. Dante non è più il geometra che vuol misurare il cerchio, ma è la ruota, è il cerchio. Non solo Beatrice lampeggia come nella giovinezza, ma si è svelata la luce che sosteneva quel sorriso. […]
Un legame profondo congiunge allegoria e realismo. Soprattutto gli studi di Auerbach hanno permesso di valutare appieno questo aspetto della strategia allegorica di semantizzazione della realtà. Ben altro che una semplice figura retorica è dunque, nel senso qui considerato, l’allegoria; la quale, appunto in quanto strategia di semantizzazione, può avvalersi anche di veri e propri simboli. Infatti quel che conta è la dominante gnoseologica, ovvero il principio organizzativo del discorso. E d’altra parte il fondamento realistico del procedimento allegorico ha, oltre che una ragione filosofica, visto che il significato diviene una negoziazione fra dati reali e ipotesi interpretative, anche una ragione retorica: avendo i singoli particolari perduto l’aspirazione diretta al significato, solamente la struttura in cui essi vengono collocati può restituire loro un senso, così che è la coerenza e la tenuta del sistema a conferire legittimità alle ipotesi semantiche specifiche; ne consegue infine che l’universo retorico e narrativo formulato dal punto di vista allegorico aspiri sempre a porsi quale metafora della realtà.
In termini generali, il fondamento realistico dell’allegoria dantesca relativamente al primo canto dell’Inferno consiste innanzitutto nella rappresentazione di una crisi diciamo spirituale per mezzo di eventi fisici concreti, cioè servendosi di materiale avventuroso. Il protagonista è quasi un paladino di Carlo Magno o un cavaliere di re Artù che si trovi a vivere un’avventura eroica; anche se dalla selva, anziché draghi o attentatori all’onore del sovrano, spuntano comuni animali feroci. Tuttavia il lettore è messo sull’avviso che il racconto, mentre chiede di essere preso sul serio e perfino considerato vero in se stesso, parla d’altro, non semplicemente alludendovi, ma costruendolo in parallelo. D’altra parte, così avviene pure – secondo la prospettiva dell’allegorista – nella realtà: essa è vera, e non si limita ad alludere (magari epifanicamente) a una dimensione ulteriore e più vera, ma non meno vero è il significato attribuibile, come costruendoglielo accanto, alla realtà.
Per un altro aspetto, l’allegoria del poema ha un fondamento realistico generale anche grazie alla rappresentazione di una crisi storica (abbiamo addirittura parlato di una crisi di civiltà) per mezzo di un percorso individuale concreto. Come quel che il soggetto fa nella selva corrisponde a eventi della sua interiorità, così quel che accade a lui quale singolo corrisponde ad avvenimenti riguardanti l’umanità intera.
Si è molto discusso se i tre animali feroci raffigurino ostacoli specifici dell’individuo singolo smarrito nella selva, coincidente magari con l’io biografico dell’autore, oppure ostacoli collettivi, e cioè non vizi di Dante ma vizi del tempo e della società suoi. Quale che sia la preferenza di ciascun lettore, una cosa è certa: il sistema dell’allegoria non ammette la rappresentazione di un significato vero per mezzo di un significato falso – non ammette cioè l’uso strumentale di referenti la cui necessità risieda solo (come nel simbolismo) nella verità di ciò che essi significano –, dato che il significato ulteriore si legittima quale interpretazione – e se si vuole quale generalizzazione – del significato primo (diciamo fenomenico), e cioè dato che il non detto è costruito sul detto. Dunque, se nel poema viene raccontato che le tre fiere ostacolano i passi di Dante verso il colle, non sarà legittimo sottrarre l’interpretazione figurale a questo vincolo: e perciò il coinvolgimento personale del protagonista nel male che i tre animali incarnano è fuori discussione. E ci mancherebbe altro che un singolo individuo non possa salvarsi a cagione di un male pubblico dal quale egli sia esente! Proprio al contrario, in molte circostanze abbiamo nel poema esplicite dichiarazioni di individui eccezionali che sfuggono, pur circondati dalla corruzione, alla regola generale (da Nella di Forese Donati a Piccarda, prescindendo dal più ovvio caso dei santi). Se Dante è ostacolato dalle tre fiere, vuol dire allora che è personalmente contaminato dal male che esse rappresentano.
E tuttavia le tre fiere non sono solo un male di Dante ma sono anche un male sociale. Non potrebbero però essere un male sociale, cioè non potrebbero nella Commedia essere proposte quali mali sociali, se non fossero un male riferito a un individuo concreto. Né dunque è accettabile la soluzione pure spesso proposta, che le tre fiere costituiscano sia un ostacolo personale sia un ostacolo collettivo: non è accettabile, cioè, nel metodo. Piuttosto, le tre fiere costituiscono un ostacolo (e un male) sociale letto su un caso individuale concreto: non tutte e due le cose semplicemente, dunque, ma l’una cosa in dipendenza dall’altra.
Questa procedura non fonde – o giustappone – l’universale al particolare ma chiede di leggere nel particolare l’universale, con un procedimento di interpretazione, se si vuole, dialettico. Sono infatti altri elementi della narrazione a legittimare l’allargamento e la generalizzazione sociale del dato particolare, e per esempio nel primo canto stesso la dichiarazione esplicita di Virgilio secondo cui la lupa non lascia passare nessuno per la sua strada ma piuttosto lo uccide (cfr. vv. 95-96): non dunque il solo Dante ma nessuno. Per non dire di altri rimandi infratestuali, a partire dal trio «superbia, invidia e avarizia» del canto VI dell’Inferno (v. 74). Ci sarebbe poi anche il richiamo ai molti animali cui la lupa si ammoglia e si ammoglierà (vv. 100-101), non fosse che pare preferibile non leggere in quel passaggio un riferimento a esseri umani ma ad animali come la lonza e il leone, per così dire accessori del vizio centrale incarnato nella lupa.
Questa procedura dunque, costringendo a cercare il dato generale in quello particolare, e cioè la crisi storica di una civiltà in quella di un individuo specifico, non può fare a meno di essere ancora una volta una procedura realisticamente connotata, e anzi fondata sul realismo.
La grande costellazione realistica della rappresentazione dantesca è poi arricchita grazie a un seducente realismo psicologico e a un non meno innovativo realismo mimetico-narrativo.
Il realismo psicologico costituisce senza dubbio una delle maggiori novità dell’arte dantesca. Si intende qui con realismo psicologico la rappresentazione dei movimenti psichici dell’io per mezzo di rimandi concreti, che possono ora essere gesti e comportamenti effettivi, ora invece oggetti ficti tuttavia nominati quali corrispettivi di ciò che non può essere concretamente descritto perché sfugge alle leggi della materia. Nella Commedia perciò vediamo il protagonista cadere come un corpo morto piuttosto che essere astrattamente angosciato (Inf. V, 142); o lo vediamo cercare Virgilio come un bambino smarrito cerca la mamma e non semplicemente con il desiderio di essere rassicurato (Purg. XXX, 43-45). D’altra parte, perché questo mondo finto possa legittimamente invocare la credibilità sulla quale si fonda il suo stesso potenziale semantico, e dunque la sua scommessa più caratterizzante e più audace, deve fra l’altro costruire una grammatica dell’interiorità oggettivata, ovvero deve produrre una realtà capace di esprimere in forma mediata quella verità intima (spirituale o trascendente) che non può più esprimersi direttamente. Ora la felicità e il dolore devono incarnarsi in gesti o almeno in oggetti esperibili dai sensi. L’anima, per vivere ancora, ha bisogno di una psicologia e di un suo codice di segni materiali. Anche l’interiorità, non potendo più contare su una comunicazione diretta con il significato trascendente e ultimo, deve articolarsi secondo procedure realistiche e concrete: alle espressioni e ai gesti di alto valore simbolico ma bloccati dei fondi oro deve sostituirsi una dinamica variegata e complessa, una narrazione dell’io.
I movimenti psichici del soggetto trapuntano per intero il canto proemiale, con un’accurata alternanza di paura e speranza nei primi sessanta versi (e “paura” e “speranza/sperare” sono parole-chiave del canto) e poi, con provvisorio trionfo dell’atteggiamento positivo, nella conclusione. Di più, i gesti e i movimenti del protagonista sono la manifestazione dell’una o dell’altra delle due dominanti psichiche: in particolare procedere verso l’alto o verso il basso, e anche, implicitamente, avanzare con calma o correre (come fanno intendere il v. 25 e il verbo «rovinava» al v. 61). Perfino il gesto del ricordare e del narrare risulta subito segnato da un contenuto psichico: dire è «cosa dura» e il ricordo «rinova la paura» (vv. 4-6).
La realtà materiale è dunque carica di valenze emotive, e l’emotività si proietta in oggetti e movimenti concreti, realisticamente. D’altra parte la Commedia è un viaggio materiale – un viaggio presentato quale realmente compiuto – che allude anche a un percorso interiore del protagonista. Ciò è vero in due sensi: ciò che egli vede con gli occhi e in generale sperimenta con i sensi costituisce anche un’esperienza interiore; e quanto egli prova nel mondo interiore non può fare a meno di divenire realtà oggettivata fuori di lui stesso. In questo senso, ogni esperienza è duplice: la lupa o Virgilio sono incontri reali che costituiscono subito anche acquisizioni (o perdite) della coscienza, e sono movimenti psichici che si accampano nel mondo delle cose reali proiettandovi i propri contenuti; la lupa e Virgilio sono esperienze per dir così predestinate, che all’io sta di acquisire nel proprio mondo interiore, e sono espressioni del libero arbitrio individuale (e i due movimenti non possono che tomisticamente coincidere). In questo senso, a Dante sono sì mostrate le anime dell’aldilà per una speciale concessione della Grazia divina; ma ogni cosa che egli incontra è anche l’espressione del suo personale processo di maturazione interiore. Ciò vorrà dire che al protagonista accadono quelle cose che egli sceglie dentro di sé (purché al verbo “scegliere” si dia un significato non limitato alla sfera della consapevolezza e della volontà); ovvero il paesaggio esterno e oggettivo è anche la proiezione di quello interiore e soggettivo.
Ma non è forse vero che nella Commedia la tensione fra interiorità e realtà esterna costituisce uno dei fondamentali principi costruttivi? Pensiamo alle anime dei dannati, collocati in una dimensione materiale che, in nome del principio del contrappasso, è al tempo stesso un’imposizione garantita dalla giustizia divina e un inesorabile sconfinamento dell’interiorità oltre il limite dell’individuo. La punizione coincide con un riversamento del male morale dall’interno all’esterno del colpevole, e implica dunque che ciascun peccatore sia condannato a vivere in un mondo che oggettiva la sua soggettività, in un mondo che è tutto costruito, fuori, al modo in cui egli è fatto interiormente. In un certo senso, i dannati ricevono da Dio la punizione di vivere dentro se stessi. Questa geniale trovata non si limita a definire una condizione e una strategia morali, ma è gestita quale complesso meccanismo psichico; tant’è vero che i dannati non possono fare a meno di pensare, ossessivamente, al proprio peccato: la punizione patita discende da questo stato per così dire maniacalizzato, ne è la proiezione e l’oggettivazione; e se per assurdo un dannato potesse pensare ad altro che al proprio peccato, cioè potesse uscire dall’eterno e rientrare nel tempo, allora l’architettura e il meccanismo della punizione si dileguerebbero intorno a lui.
È appunto quanto si vede accadere alle anime del Purgatorio, collocate in un regno assai peculiare rispetto ai parametri dell’oltretomba: un regno ancora abitato dal tempo, che si è formato nel tempo e scomparirà con il Giudizio insieme alla fine del tempo; un regno nel quale il sole sorge e tramonta e nel quale, soprattutto, le anime possono modificare il proprio assetto interiore. Da Stazio, il pellegrino apprenderà infatti come la durata della permanenza in Purgatorio non sia dettata da leggi estrinseche, ma coincida con i tempi di un processo interiore; così che la fine della sua elaborazione non può che comportare il dileguarsi della pena e del suo paesaggio, i quali esistono, certo, in quanto strumenti offerti (e imposti) da Dio, ma anche in quanto proiezioni dell’interiorità dei purganti. Come loro, anche Dante sarà a un certo punto a tal segno liberato dei limiti terreni da innalzarsi, fisso a Beatrice, verso i cieli del Paradiso.
Qui però, come si è già avuto modo di osservare, è ricucito lo iato aperto nella storia fra cosa e idea: tutte perfettamente appagate in Dio, le anime beate non danno al di fuori alcun segno della diversa condizione interiore. In Paradiso la realtà è a tal segno coincidente con il significato e con la verità, da non esistere – almeno nel senso umano del termine. Al fine di essere visibile in termini umani, dunque, il Paradiso deve accettare eccezionalmente – come il verbum lo accetta nelle Scritture – di assumere una qualche dose di realismo. Per mostrarsi agli occhi di Dante, il Paradiso deve cioè allegorizzarsi, con la distribuzione dei beati nei vari cieli e il diverso brillare di ciascuno di essi; e allegorizzandosi il Paradiso assume, sia pure solo per alcuni aspetti specifici (soprattutto luci e suoni), tratti realistici.
In termini storici, la città celeste costituisce la scommessa utopica dell’autore; laddove nell’Inferno egli ha raffigurato la verità di una civiltà, nella quale il mondo prende forma dai soggetti e a poco a poco li imprigiona nei loro vizi, e nel Purgatorio ha prospettato la direzione per riscattarsi da quella caduta. È perciò soprattutto nella prima tappa – come i lettori hanno d’altra parte largamente percepito – che il racconto del viaggio ha bisogno, oltre che di realismo in generale, di realismo psicologico in particolare; perché il realismo psicologico tratteggia la fragilità e la condanna degli umani meglio che non la loro maturità redenta. E dunque ben si spiega la straordinaria sensibilità psicologica espressa nel primo canto dell’Inferno, mentre il rischio per il protagonista è forte come non sarà mai più in seguito e dunque la sua natura umana ha modo di manifestarsi al grado più alto.
Vediamo i segni di questa fragilità umana nel realismo psicologico con il quale è narrato l’esordio dell’avventura, tutto nel segno della inconsapevolezza e della incoscienza: «mi ritrovai» (v. 2), «io non so ben ridir com’i’ v’intrai / tant’era pieno di sonno in quel punto/ che la verace via abbandonai» (vv. 10-12). D’altra parte l’anima, creata da Dio, non può scegliere il male, che sarà quindi accolto solo per il prevalere di una sorta di passività distratta, di una mancanza di sorveglianza (e di scelta) morale.
Della fragilità vediamo un’espressione luminosa allorché il protagonista, vinto dall’entusiasmo per l’agnizione del suo prediletto modello letterario (e non solo), per un attimo dimentica la propria condizione e il rischio per rallegrarsi dell’incontro: segno di umanità, di relatività umana, non meno del grido di aiuto («Miserere di me») rivolto all’apparizione spettrale; a esprimere tutta intera, secondo modi di grande realismo psicologico, la personalità umana del pellegrino, diviso fra disperazione (e coscienza di essa) e orgoglio («lo bello stilo che m’ha fatto onore», v. 87).
D’altra parte, solamente la psicologia – realisticamente raffigurata e non solo dichiarata – può rendere il protagonista un personaggio complesso e modernamente interessante, stendendo davanti agli occhi del lettore l’imprevedibile territorio del «lago del cor» (v. 20): territorio capace di legittimare perfino una tensione fra pulsioni opposte, o fra pulsioni e scelte, come quando il corpo si ferma per riposarsi alla vista del colle luminoso e l’animo continua a fuggire (vv. 25-26 e 28). E dove il rapporto con la realtà è incrinato dalla scissione – come pochi decenni dopo insegnerà Petrarca – la psicologia si impone quale territorio decisivo per la valutazione del significato dell’esperienza e del mondo. Dante non vuole certo sostituire l’interiorità al mondo e alla storia (se non altro Francesca mostra le conseguenze di una simile riduzione), e getta l’interiorità nella dialettica delle cose: ne fa un oggetto, ne parla come di un oggetto, vasto, certo, come un «lago», ma costretto tuttavia a dialogare con la realtà. Il realismo psicologico di Dante sta in questo corpo a corpo fra interiorità e mondo, dal quale anche scaturisce la specifica struttura e la tecnica narrativa della Commedia.
Un attributo del realismo psicologico è il realismo mimetico-narrativo, dal quale – per dirla con brutale semplicità – discende che ogni cosa si comporti coerentemente alla propria natura e alla propria condizione specifica. Ciò vuol dire che gli attori – fossero pure oggetti – della Commedia non vi sono convocati in quanto universali ma in quanto individui particolari. Questo è ovviamente, ancora una volta, un segno del principio allegorico, in contrapposizione a quello simbolistico: per il simbolismo medievale, infatti, la rappresentabilità coincide con il carattere universale, così che, secondo un principio saldamente antirealistico, non si parlerà tanto di un luogo o di una persona particolari quanto di una categoria generalizzante; laddove il modello allegorico non può fare a meno di fondare su individui particolari concreti, realisticamente, la propria ricostruzione di senso, foss’anche di un senso generale. Nella Commedia non troviamo più il traditore o il bugiardo, ma un certo traditore o un certo bugiardo. E l’uno e l’altro non si limiteranno a tradire o a mentire, ma riferiranno un determinato tradimento o una determinata bugia. D’altra parte la crisi della trasparenza epifanica implica appunto l’impossibilità di leggere l’universale nel particolare, cioè di vedere altro che individui concreti e situazioni finite. La nuova strategia allegorica deve pertanto misurarsi con un ben definito hic et nunc, in cui sta alla forza dell’interpretazione – cioè della ricostruzione intellettuale – collocare il singolo gesto dentro un significato generale.
E se le tre fiere sono in questo canto proemiale ancora largamente debitrici del punto di vista simbolistico, uscite come risultano da un bestiario, il deuteragonista Virgilio si annuncia invece, ancora una volta, l’interprete più spigliato della nuova stagione allegorica, e dunque il primo coerente esempio di quel realismo mimetico-narrativo che così profondamente agirà nel poema. Dopo essersi presentata con i tratti di evanescenza di cui si è detto, infatti, la guida risponde alla incalzante richiesta di Dante con un esordio di cavernosa lentezza, tanto più stupefacente se si considerano la delicatezza della missione accolta – soccorrere il pellegrino smarrito – e la proverbiale eloquenza del parlante, di lì a poco rievocata dall’interlocutore:
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui […]».
Perfino la didascalia, con la dittongazione scura in sillaba tonica, coopera alla musica rallentata e grave di questi versi, così come la doppia uscita di rima in –ui, lo iato di «mantoani» e la dieresi «patrïa»; per non dire che qui la didascalia ha tutto il tempo di precedere la risposta, quasi a segnalarne un tentennamento, tanto quanto invece aveva dovuto inseguire la sùbita parlata del protagonista, inserendosi, solo due versi prima, dopo il primo decisivo grido di soccorso. Se la cavernosità della voce di Virgilio suggerita da questi tratti intrinseci del suo esordio può essere decifrata quale equivalente della sua fiochezza, la lentezza scandita delle prime parole ha fatto addirittura immaginare una iperrealistica difficoltà dell’antico poeta nell’uso del volgare toscano; così che quattro su cinque delle parole deposte cautamente, come sillabando, al v. 67 sono linguisticamente ancipiti, e valide anche in latino, mentre una tessera latina bella e buona è il «sub Iulio» del v. 70 (e per ritrovare un altro latino così esplicito, il lettore dovrà aspettare l’ultimo canto dell’Inferno). Chi parla qui non è un’idea di Virgilio, non è il Virgilio per universali delle scuole di retorica medievali, e neppure il Virgilio mitizzato dal giovane Dante cultore dell’Eneide: è un Virgilio costretto alla concretezza di un individuo particolare in una situazione specifica, significativo tassello di quel realismo mimetico-narrativo che collabora a costruire il complessivo realismo dell’allegoria.