Dati bibliografici
Autore: Margherita De Bonfils Templer
Tratto da: Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society
Numero: 105
Anno: 1987
Pagine: 79-94
I versi 6-8 del canto IX del III libro del De Consolatione Philosophiae di Boezio, tradotti da Dante nel secondo capitolo del m trattato del Convivio, contengono le radici del suo innamoramento intellettuale per la donna gentile. La traduzione di Dante, che supera l’originale, rifacentesi a sua volta al testo timaico, esprime in potente sintesi il fulcro del suo filosofico innamorarsi.
È l’immagine del superno essemplo il centro di gravità della riflessione poetica e filosofica del Convivio. Dante ben sapeva dal suo Boezio che si trattava di immagine platonica: quando attraverso la sapiente guida di Filosofia il filosofo latino giunge ad identificare la falsa felicità, “imagines veri boni vel imperfecta quaedam bona” (De Cons. III, ix; p. 224), e dalla sua maestra è avviato alla ricerca della sorgente della vera felicità, è al grande modello platonico che si rivolge:
Sed cum, ut in Timaeo Platoni, inquit, nostro placet, in minimis quoque rebus divinum praesidium debeat implorari, quid nunc faciendum censes, ut illius summi boni sedem reperire mereamur? (De Cons. III, ix; p. 224)
Si noti che questo passo del De Consolatione si riferisce al capitolo 27 del Timeo, cui seguono subito i passi cui s’ispira il canto rx del m libro del De Consolatione (Timeo, 28-29). L'immagine timaica con cui si dischiude questo canto è immagine che s’imprimerà indelebilmente nella fantasia poetica di Dante. Il dio, “livore carens,” che, immoto, imprime il moto alle cose e fa scorrere il tempo; che, “non indotto da cause esterne a dare forma alla materia fluttuante ma dalla somma bontà,” tutto deriva dal divino modello:
Tu triplicis mediam naturae cuncta moventem
conectens animam per consona membra resolvis;
quae cum secta duos motum glomeravit in orbes,
in semet reditura meat mentemque profundam
circuit et simili convertit imagine caelum.
(De Cons. III, ix, vv. 13-17)
Ho citato questi versi del canto nono non solo perché in essi affondano le loro radici i codici linguistici e poetici sia del Convivio che della Commedia, ma perché secondo me son soprattutto questi versi del De Consolatione che han portato Dante ad un approfondimento della fonte ispiratrice di questo canto.
Penso che la familiarità di Dante, a livello Convivio, sia con la traduzione calcidiana del Timeo che con le Glosae super Timaeum Platonis di Guillaume de Conches, sia sufficientemente provata. È proprio a queste letture che dobbiamo rifarci per vedere in esse il fulcro dell’intellettuale innamorarsi dantesco del Convivio. Una prova ulteriore, e fondamentale, del radicarsi del codice genetico della poesia e del pensiero del Convivio nella lettura diretta del Timeo e delle Glosae di Guillaume, l'abbiamo nella seconda canzone: “Amor, che ne la mente mi ragiona.” Essa ci dischiude un codice poetico nuovo: ché si tratta di un amore nuovo. La terminologia dei primi quattro versi s'impone come squisitamente platonica:
Amor, che ne la mente mi ragiona,
de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr'esse disvia.
(Canz. II, vv. 1-4)
Il verbo muovere, indubbiamente non nuovo nella poesia dantesca, sia nella sua accezione letterale che nelle svariate accezioni metaforiche, in quanto riferito ai processi mentali e al rivolversi della mente sul suo oggetto e su se stessa, è verbo che in Dante si arricchisce di un significato nuovo, probabilmente sotto l’influsso della lettura della versione calcidiana del Timeo (36E-37C) e della Glosae di Guillaume de Conches, ed è verbo che in questa sua veste di traslato metaforico del processo del pensare, Dante farà suo. Il disviar dell’intelletto chiarisce in modo inequivocabile la connotazione metaforica del succitato verso.
Nel capitolo XCII delle Glosae Guillaume parla del movimento spirituale dell'anima del mondo. Si tenga presente che ciò che è rilevante in rapporto a Dante, è soprattutto l’immagine metaforica adoperata per illustrare i processi del pensiero e non in particolare la concezione dottrinale dell'anima del mondo: leggiamo all’inizio del capitolo XCII: “Ostendit hucusque Plato motum anime corporalem, id est quo movet corpora. Hic incipit assignare motum eiusdem spiritalem, id est quo movet seipsam. Sunt autem hi: ratio, intelligentia, opinio, etc.” (Glosae, XCII; p. 173). E al termine dello stesso capitolo, sempre in riferimento all'anima del mondo:
Sed ne aliquis putaret quod moveret tantum cetera et iudicaret tantum de eis et non de se ipsa, addit: revertens in semetipsam id est movens sese et iudicans de se. Unde a Platone dicitur αντοκίνητος id est se ipsam movens. (Glosae, XCII; p. 174)
Volgiamoci ora ai versi 18-20 della terza canzone del Convivio:
E, cominciando chiamo quel signore
ch’a la mia donna ne li occhi dimora,
per ch’ella di se stessa s'innamora...
e ritorniamo al commento agli stessi nei paragrafi 17-18 del capitolo II del IV trattato: siamo rinviati dalla terminologia dantesca, riferentesi all’anima filosofante che si rivolge su se stessa, la quale se traduzione fedele sia della versione calcidiana del Timeo che del linguaggio delle Glosae, a quella che è la metafora chiave che ha innamorato di sé Dante tramite Boezio. Nel canto IX di Boezio leggevamo a proposito dell’anima del mondo:
quae cum secta duos motum glomeravit in orbes,
in semet reditura meat mentemque profundam
circuit et simili convertit imagine caelum.
(De Cons. III, IX, vv. 15-17)
Dante è andato oltre i versi del poeta latino e s'è riportato alla fonte: l’espressione da lui usata nel commento ai succitati versi della terza canzone non è traduzione del boeziano in semet reditura, ma del timaicocalcidiano revertens in semetipsam (vedi Glosae, XCII, p. 174). Desidero citare direttamente dal capitolo II del IV trattato il paragrafo diciottesimo:
E dice: Per ch’ella di se stessa s'innamora, però che essa Filosofia, che è, si come detto è nel precedente trattato, amoroso uso di sapienza, sé medesima riguarda, quando apparisce la bellezza de li occhi suoi a lei; che altro non è a dire, se non che l’anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa (corsivo mio) e di se stessa innamorando per la bellezza del suo primo guardare. (Conv. IV, ii, 18; p. 134)
Non penso che ci sia alcun dubbio che la splendida immagine di donna creata da Dante nel Convivio sia tramite Boezio e Guillaume, di estrazione platonica.
Non è la rappresentazione di Filosofia offerta da Boezio nel De Consolatione l’ispiratrice di Dante nella creazione della donna gentile del Convivio; Maria Corti osserva nel suo studio La felicità mentale, citando Maurice de Gandillac: “Colei che appare (nel De Consolatione), nonostante gli occhi splendenti, è una ‘nourrice d’age canonique,’ piuttosto estranea a qualunque ruolo di figura d’amore.” Ciò nonostante, sostengo io, è nel De Consolatione che Dante ha trovato le radici della sua splendida metafora dell’innamorarsi intellettuale: di quel rivolgersi della mente su se stessa.
Il dialogare fra l’anima e il cuore del sonetto ventiduesimo della Vita Nuova, quel “Gentil pensero che parla” all'anima di Dante della “donna gentile, bella, giovane e savia” (VN, XXXVIII; p. 128) e “ragiona d’amor sì dolcemente,” è eloquente termine di paragone dello scontro drammatico fra “l’anima trista” e “lo spirto che contra lei favella” della prima canzone del Convivio:
L’anima dice al cor: “Chi è costui,
che vene a consolar la nostra mente,
ed è la sua vertù tanto possente,
ch’altro penser non lascia star con nui?”
(VN, son. XXII, vv. 5-8)
Questi mi face una donna guardare,
e dice: “Chi veder vuol la salute,
faccia che li occhi d’esta donna miri,
sed e’ non teme angoscia di sospiri.”
(Conv, canz. I, vv. 23-26)
Se il paragone tra le rime pre-allegoriche e quelle del Convivio rivela contrasto e distanza nella significazione più profonda dei componimenti poetici, che è poi anche quella ‘destinata’ ad essi a posteriori dall’autore, ciò nonostante emerge e s'impone anche tutta una folla di riecheggiamenti di moduli linguistici e d’immagini del passato poetico di Dante:
e ragiona d’amor sì dolcemente,...
(VN, son. XXII, v. 3)
Amor, che ne la mente mi ragiona...
(Conv. canz. II, v. 1)
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare...
(VN, son. XV, vv. 5-6)
E puossi dir che ’l suo aspetto giova
a consentir ciò che par maraviglia...
(Conv. canz. II, vv. 51-52)
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma se è necessario riconoscere che il linguaggio e le immagini poetiche dantesche del Convivio affondano le loro radici nell’esperienza poetica anteriore, a livello Convivio immagini e parole poetiche sono riassorbite nell’ambito d’un codice nuovo di poesia. È così che abbiamo la creazione poetica della donna gentile della poesia allegorica, la quale sussume in sé sia i moduli poetici e fantastici della “donna gentile, bella, giovane e savia” della Vita Nuova che i moduli stilistici della poesia della lode.
Le due canzoni dichiaratamente allegoriche del Convivio (I e II) pur rifacendosi ad immagini del passato, le utilizzano in un contesto nuovo. Se la favola dell’insorgere del nuovo amore si rifà ai termini del contrasto drammatico del XX sonetto della Vita Nuova (“Gentil pensero che parla di vui”), il dramma inscenato nella prima canzone del Convivio è di diversa natura: il vocativo che dischiude la canzone, si rivolge alle Intelligenze del cielo di Venere. Se “il gentil pensero” del XXII sonetto “altro penser non lascia star con nui” (VN, son. XXII, v. 8), il pensiero della donna gentile della prima canzone del Convivio segnoreggia l’anima con tal virtute, “che’l cor ne trema che di fuori appare” (Conv, canz. I, v. 22): il gentil pensero del sonetto della Vita Nuova trae “la sua vita, e tutto ’l suo valore” dagli occhi di quella pietosa, il pensiero nuovo della donna gentile del Convivio è tramite alla salute, attingibile solo attraverso gli occhi della donna.
Nella seconda canzone del Convivio la donna è oggetto di contemplazione diretta da parte di Dio e delle intelligenze celesti (“Ogni intelletto di la sù la mira”) ed è assimilabile all’equilibrio e alla pace dell’anima, attingibili solo sporadicamente attraverso l’esercizio dell’amoroso uso di Sapienza (Conv, canz. II, vv. 23-26).
L’amore di cui parlano queste canzoni del Convivio è “quel signore / ch’a la mia donna ne li occhi dimora, / per ch’ella di se stessa s'innamora” (Conv. canz. III, vv. 18-20). Quest’amore che vive e s’alimenta della contemplazione di se stesso, non è certo l’amore della donna pietosa della Vita Nuova, ma è:
Amor, che ne la mente mi ragiona
de la mia donna disiosamente,
(Conv., canz. I, vv. 1-4)
Se ora ci volgiamo al commento allegorico di questa seconda canzone, e precisamente ai paragrafi del capitolo xii del m trattato che commentano i versi 19-22 della stessa, siamo ricondotti ancora una volta al codice timaico, che attraverso le Glosae è stato sorgente ispiratrice del linguaggio e del pensiero dantesco: “Dico adunque che Iddio che tutto intende (ché suo ‘girare’ è suo ‘intendere’), non vede tanto gentil cosa quanto Elli vede quando mira là dove è questa Filosofia” (Conv, m, xii, 11; p. 112). L’assimilazione del moto fisico al moto spirituale deriva a Dante dal linguaggio platonico e ritornerà nei mirabili versi del xxv del Purgatorio, ove parlando dell’insorger dell’attività spirituale dell'anima del feto, in cui Dio ha spirato “spirito nuovo, di vertù repleto” (Purg. XXV, v. 72), l’immagine poetica usata è ancora quella del girare e del rivolgersi dell'anima su se stessa: “... e fassi un’alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira” (Purg. XXV, vv. 74-75).
Nel parallelismo poetico del girare del sole col divino alluminare con luce intellettuale (“… così Dio prima sé con luce intellettuale allumina, e poi le creature celestiali e l’altre intelligibili” (Conv, III, xii, 7; p. 111), in questo parallelismo si riflette la rispondenza cosmica tra i moti del firmamento e quelli dell'anima, che sostanzia il discorso timaico e che è alle radici della calcidiana Laus videndi e delle esemplari riflessioni esplicatrici di Guillaume de Conches nelle Glosae, sull’organo della vista e sulla sua funzione.
L'utilità grandissima dell’organo della vista, il dono maggiore largito dagli dei ai mortali, deriva dal suo ruolo di conditio sine qua non, perché sia possibile un qualunque discorso dell’uomo sull’ universo:
... nessuno di questi discorsi, che diciamo intorno all’universo, sarebbe stato detto, se non avessimo veduto né gli astri, né il sole, né il cielo. Ora l’osservazione del giorno e della notte, dei mesi e dei periodi degli anni hanno fornito il numero e procurato la nozione del tempo e la ricerca intorno alla natura dell’universo. Di qui abbiamo acquistato il genere della filosofia, della quale non venne nessun bene maggiore, né mai verrà al genere mortale, come dono largito dagli dei. Io dico che questo è il più grande benefizio degli occhi… (Platone, Timeo, 47A-B)
Siamo ricondotti dal discorso platonico sugli occhi ad un'immagine centrale del Convivio, gli occhi della donna. Nel commento allegorico ai versi 23-26 della prima canzone: “Questi mi face una donna guardare, / e dice: “Chi veder vuol la salute, / faccia che li occhi d’esta donna miri, / sed e’ non teme angoscia di sospiri,” gli occhi della donna sono assimilati alle demonstrazioni della filosofia, “le quali dritte ne li occhi de lo ’ntelletto, innamorano l’anima, liberata de le condizioni. O dolcissimi e ineffabili sembianti, e rubatori subitani de la mente umana, che ne le mostrazioni de li occhi de la Filosofia apparite, quando essa con li suoi drudi ragiona! Veramente in voi è la salute, per la quale si fa beato chi vi guarda, e salvo da la morte de la ignoranza e da li vizii” (Conv, II, xv, 4-5; pp. 67-68).
Il commento dantesco al verso “sed e’ non teme angoscia di sospiri,” “se elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni, le quali dal principio de li sguardi di questa donna multiplicatamente surgono…” (Conv. II, xv, 5, p. 68), riconduce alle Glosae di Guillaume, che commentando il Platone calcidiano osserva:
Est enim visus causa maximi commodi, id est philosophie, iuxta meam sententiam, etsi non secundum vulgi opinionem. Sed ne videretur hoc commodum commune omnibus, et ita vilesceret, addit: plerisque. Sed ne iterum plerisque ociosis et negligentibus, addit non ociose natis. Sine enim maximo labore et studio tale commodum haberi non potest. (Glosae, CXLIX; p. 252)
Ritorniamo così alla dantesca “angoscia di sospiri” e al dantesco “se elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni.”
In questi occhi cioè le mostrazioni de li occhi de la Filosofia è la salute per la quale si fa beato chi li guarda, e salvo da la morte de la ignoranza e da li vizii. “E così acciò che sia filosofo, conviene essere l’amore a la sapienza... Per ché sanza amore e sanza studio non si può dire filosofo, ma conviene che l’uno e l’altro sia” (Conv. III, xi, 8; p. 108).
Nel XIII capitolo commentando il verso ventitréesimo della seconda canzone, “Ogni Intelletto di là su la mira,” Dante specifica che “di là su” si riferisce solo a Dio e perciò esclude le “Intelligenze che sono in essilio de la superna patria, le quali filosofare non possono, però che amore in loro è del tutto spento, e a filosofare, come già detto è, è necessario amore” (Conv. III, xiii, 2; p. 113). Nelle riflessioni dantesche si afferma progressivamente l’equazione socratico-platonica: sapienza-beatitudine, ignoranza-inferno.
“Nessuno degli dei conosce quell’amoroso uso di sapienza che filosofia si chiama; un Dio neppure aspira a diventar sapiente. Sapiente egli è invece... Del resto nemmeno gli ignoranti fanno filosofia, e nessun desiderio di diventar sapienti muove gli ignoranti” (Platone, Convito, 203E-204A). Questa citazione è da un testo, il Convito platonico, che Dante non conobbe, ma il cui linguaggio e le cui idee penetrarono profondamente, sia pure per via indiretta, il suo pensiero e la sua fantasia poetica. È attraverso Boezio, ma soprattutto attraverso Guillaume de Conches e in particolare attraverso le Glosae super Timaeum Platonis, che la ricchezza delle idee platoniche, ripensate da un filosofo cristiano, ma non piegate al cristianesimo, è giunta a Dante. La documentazione di ciò è compito che si esaurirebbe solo attraverso una lettura ed esegesi completa delle opere in questione, ed in particolare delle Glosae, al fine di illuminare la lettura del testo dantesco. Ma io penso che a questo punto sia sufficiente, e più stimolante, limitarsi ad indicare nel testo del filosofo di Chartres una lettura indispensabile e fondamentale per l’intelligenza del pensiero e della fantasia poetica di Dante.
Il Timeo è il testo sotteso dal codice poetico e fantastico del Paradiso, ma è anche il testo che Dante ripetutamente ripudia. La penetrazione del linguaggio metaforico e della filosofia platonica è avvenuta in Dante a livelli profondi, attraverso l’innamoramento intellettuale del Convivio, l’opera che è testimonianza della vivacità del travaglio filosofico del poeta: ché essa ci introduce nel cuore delle letture formative dantesche e del mondo intellettuale in cui si forgiò la sua intelligenza poetica. Ciò che ha influito su Dante a livello profondo è la lenta e indiretta penetrazione nei meandri di una possente fantasia poetica e coscienza filosofica, mi riferisco al mondo metaforico di Platone: ciò di cui è traccia più evidente ma spesso esteriore nel Convivio sono le citazioni e le idee accettate dalla cultura e dal clima filosofico dominante la scena culturale del tempo.
Leggiamo nel capitolo CXXXII delle Glosae: “Si negliget doctrinam rationis, serpens, non incedens sed terre adherens, iter vite claudum id est imperfectum sapientia et opere, demum, id est in fine, revocabitur ad inferna ut ibi torqueatur cum familiari id est propria stultitia que erit causa illius pene.”
La rilevanza di tale passo in rapporto sia alla lettura del Convivio che a quella della Commedia è evidente e superflua da rilevare. La conclusione del capitolo cxxxt1, come del resto l’inizio del successivo capitolo, sono d'importanza fondamentale in rapporto al primo capitolo del primo trattato del Convivio: ché l’argomento trattato è quello degli impedimenti al conseguimento di scienza e di dottrina:
Et nota quod hanc penam predicit negligenti doctrinam et non carenti doctrina: multi enim sunt qui carent, vel quia non sunt vel in loco vel in regione convenienti ad hoc, vel quia conditio sua non patitur ut servi vel captivi, vel fortuna ut sunt pauperes. (Glosae, CXXXIII; p. 232)
Ma come ho già detto non penso che sortirebbe alcun effetto stabilire un’esatta corrispondenza dottrinale tra le Glosae e il Convivio: ciò che emerge attraverso una lettura attenta del testo dantesco e delle Glosae super Timaeum Platonis son le radici di immagini poetiche e concetti filosofici che vivranno di vita propria già a livello Convivio, ma più potentemente a livello Commedia.
Non è solo l’immagine poetica e filosofica del superno essemplo che confluisce nel Convivio a sostanziare la fantasia poetica e allegorica di Dante, ma è lo stesso rapporto di limitazione delle possibilità conoscitive umane nei confronti dell’archetipo divino.
Se il creatore ha conferito all'uomo “essentiam indissolubilem, scientie perfectionem, arbitrii libertatem” (Glosae, XXXIV; p. 100), tuttavia il concetto di scientie perfectio si configura in Guillaume negli stessi termini danteschi, come perfezione naturale, ché la scienza attingibile è quella basantesi sull’attività della ragione umana:
Ratio vero est vis anime qua diiudicat homo proprietates corporum et differentias eorum que illis insunt. Hec habet principium ab imaginatione et sensu: de eis enim que vel sentimus vel imaginamur discernimus. (Glosae, XXXIV; p. 101)
Laddove la conoscenza intellettuale, che pure si radica in quella razionale, è conoscenza non pienamente attingibile dall'uomo. Il discorso di Guillaume batte l’accento sui limiti delle possibilità conoscitive umane e riconduce a quei pochi che secondo Dante “a l’abito da tutti desiderato possano pervenire” (Conv I, i, 6; p. 2). “Intellectus vero est vis qua percipit homo incorporalia cum certa ratione quare ita sit” (Glosae, XXXIV; p. 101). La sapienza non appartiene però a nessuna creatura. Infatti:
Sed circa Creatorem intellectus pauca percipiens deficit quia quantitas illius angustias nostri pectoris excedit.
Et sic, ducente ratione, ad intellectum incorporeum homo pervenit. Et ut causaliter se precedunt, sic et tempore. Primum enim habet homo sensum ut in infantia, deinde imaginationem, postea rationem, deinde intellectum si Deus illum concedat quia, ut ait Plato, intellectus solius Dei est et almodum paucorum hominum. (Glosae, XXXIV; pp. 101-102).
La distinzione di ragione e intelletto permea in forma esplicita l’opera di Guillaume, laddove non è enfatizzata nello stesso modo e con la stessa chiarezza nel commento calcidiano al Timeo. Ed è distinzione che seppure non scolasticamente enunciata, permea l’intero Convivio ed è fondamentale per un’esegesi accurata del testo dantesco. Il mondo archetipo, l’etteno essemplo dantesco, e la prima materia de li elementi, l’ile platonica e calcidiana, son da ultimo inattingibili per l’intelletto umano:
Denique cum animo intuemur intelligendo id scilicet ilen et ideas, patimur quod somniantes. Ut enim somnians rem non videt perfecte, nec nos ilen perfecte intelligimus. (Glosae, CLXXIII; p. 285)
Nel capitolo CLXXIV leggiamo:
Dixerat superius homines non posse consistere propter quedam somnia in consideratione archetipi mundi et iles. Sed, forsitan diceret aliquis, non est mirum si homines non consistunt in eius consideratione quia non est ratio qua illud possit considerari. Ideo subiungit qualiter possit intelligi, scilicet per elementorum transformationem. Quomodo vero ile per eam intelligatur, superius ostensum est. Forme vero oculis possunt discerni in opere, sed idee illarum ex eis possunt probari. Quidquid enim est in opere, ante est in artificis mente. Unde idee ante sunt in archetipo mundo quam forme in sensili. (Glosae, CLXXIV; p. 286)
Sia l’ile che le idee si conoscono solo attraverso i loro effetti secondo la dottrina platonica di Guillaume, che non differisce poi dal dantesco:
Onde è da sapere che di tutte quelle cose che lo ’ntelletto nostro vincono, sì che non può vedere quello che sono, convenevolissimo trattare è per li loro effetti; onde di Dio, e de le sustanze separate, e de la prima materia, così trattando, potemo avere alcuna conoscenza. (Conv. II, viii, 15; p. 98)
È dalle Glosae che siamo ricondotti da ultimo alla dantesca limitazione dell’intelletto umano, che è soverchiato da quelle cose che non può intendere; commentando il verso 59 della seconda canzone, Dante osserva:
Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può (cioè Dio e la etternitate e la prima materia); che certissimamente si veggiono e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo: se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza e non altrimenti. (Conv. II, xv, 6; p. 121) .