Dati bibliografici
Autore: Pieramrio Vescovo
Tratto da: Nuove inchieste sull'"Epistola a Cangrande"
Editore: Pisa University Press, Pisa
Anno: 2020
Pagine: 27-48
Tra le due istanze opposte del lungo dibattito sull’Epistola a Cangrande — la ricerca di un diavolo che. come recita il proverbio. avrebbe fatto le pentole ma non i coperchi: la rivendicazione di argomenti culturali troppo forti per non riferirli a Dante in persona — vorrei in questo intervento rivolgermi agli studiosi collocati nell’una e nell'altra posizione. Tenterò quindi di concentrare il discorso su due nuclei forti, però a partire da alcuni riscontri testuali considerati dal punto di vista della storia della tradizione: gli esempi utilizzati per l'illustrazione dei “sensi” o “livelli” testuali tra lettera e allegoria: l’allegorizzazione del plot del genere commedia. Allego, infine, due brevi note, relative a due altri luoghi dell'Epistola .
Ripercorrerò anzitutto in estrema sintesi alcuni dati universalmente noti. Un'Epistola «che scrisse l’autore medesimo a messer Cane della Scala», vera o falsa la si ritenga viene esplicitamente nominata, nella Firenze dei primi anti ‘40, da Andrea Lancia (Azzetta: 453), che riprende da essa dall'expositio, un elemento peraltro ovvio, a proposito della divisione della terza cantica in un «prologo» e in una «parte executiva» (l’espressione quasi in mezzo riferita al primo canto, sembra riconducibile al quasi im medio del §43).
Una seconda menzione esplicita di un «introductorio suo super cantu primo Paradisi ad dominum Canem de la Scala destinato» spetta circa mezzo secolo dopo a Filippo Villani (Azzetta: 467) con un ampio impiego del testo e soprattutto dell’accessus. L'accessus in questione, ma senza riferimenti di sorta a una paternità di Dante e a una destinazione a Cangrande, viene silenziosamente utilizzato da commentatori della prima ora, come Iacomo della Lana e Guido da Pisa e in anni più prossimi a Villani da Boccaccio. Si è supposto anche, invertendo il rapporto da fonte a derivato, che viceversa sia un falsario ad aver attinto a Guido da Pisa una cospicua parte del proprio materiale di riferimento per la costruzione dell’Epistola .
Un dato di piena visibilità si offre tuttavia a una possibile osservazione: il differente esempio impiegato per l'illustrazione dei sensi o livelli testuali tra lettera e allegoria, dove l’Epistola richiama il Salmo 113 («In exitu Israel de Aegypto») e Iacomo della Lana e Guido da Pisa fanno invece riferimento alla figura di Minosse. Si ritiene Iacomo aver composto il suo commento a Venezia, forse tra il 1324 e 11 1328, quindi davvero poco dopo la morte di Dante, e Guido scrivere probabilmente a Genova (come mostra il rapporto col dedicatario Lucano Spinola) prima la Declaratio super “Comediam” Dantis e poi le Expositiones et glose alla medesima negli anni ‘30 (la prima già alla fine degli anni ‘20, forse verso il 1328, la seconda tra il 1335 e il 1340). Secondo la collocazione cronologica dei due testi ipotizzata dalla critica Guido avrebbe, dunque, ripreso questo particolare da Iacomo, oppure i due dipenderebbero insieme da una fonte comune.
Si riconsiderino, dunque, il paragrafo relativo dell’Epistola e i passi di Iacomo e Guido (cito dalle Expositiones, il testo della prima redazione risulta sostanzialmente uguale):
Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polysemos, hoc est plurium sensuum: nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. (§ 20)
[...] si è da savere che universalmente la ditta Comedia pò avere quattro sensi: lo primo si e lo litterale overo ystoriale, lo quale senso no sse extende plùe inanzi ca como sona la littera et quelli termini in li quali ella è posta, si como quando ello pone Minos in lo inferno per uno demonio zudigadore delle aneme. Lo segondo senso si è alegorico, per lo quale lo termene de la litteratura significa altro ch'ello no sona come ad impetrare lo ditto Minos la zustixia, la quale çudica le aneme secondo sua condicion. Lo terço senso si é ditto tropologico, zoè morale, per lo quale s‘interpetra lo dito Minos si como uno re che fo in Crede, fo zusto e vertudioxo donando a li viciosi pena et a li virtuduosi merito, che si moralmente se pone uno zudixe in inferno lo qual decerne per la condicione de l’anema lo logo et la pena che se gli avene. Lo quarto senso si é dito senso anagogico, per lo quale s'interpetra spiritualmente li exempli et comparacioni della dicta Comedia [...] (Azzetta: 427)
[...] ista Comedia continet quatuor sensus, quemadmodum et scientie sacre theologie: currit enim poesia cum theologia, quia utraque scientia quadrupliciter potest exponi. [...] Primum, dico, intellectus est hystoricus. Iste intellectus non se extendit nisi ad licteram, sicut quando accipimus Minoem iudicem et assessorem Inferni, qui diiudicat animas descendentes. Secundus intellectus est allegoricus, per quem intelligo quod lictera sive hystoria unum significat in cortice et aliud in medulla, et secundum istum intellectum allegoricum Minoes tenet figuram divine iustitie. Tertius intellectus est tropologicus sive moralis, per quem intellico quomodo me ipsum debeo iudicare; et secundum istum intellectum Minos tenet figuram rationis humanae, que debet regere totum hominem, sive remorsum conscientie, qui debet malefacta corrigere. Quartus vero et ultimus intellectus est anagogicus, per quem sperare debeo digna recipere pro commissis, et secundum istum intellectum Minos tenet figuram spei, qua mediante penam pro peccatis et gloriam pro virtutis sperare debemus. (Azzetta: 443)
Se si pensa l’Epistola a Cangrande un testo dantesco saremmo di fronte a un depotenziamento di un riferimento teologicamente più forte operato da un ramo della tradizione indiretta. Se si pensa che essa sia un falso, e che dunque Minosse preceda e il Salmo 113 segua, la sostituzione apparirebbe nel senso di una maggiore complessità e corrispondenza alla cultura di Dante, dunque a carico di un falsario che conosca il Convivio o, quanto meno, abbia ben presenti le implicazioni di quel salmo nel poema dantesco. Purtroppo il manoscritto che ci trasmette il commento di Andrea Lancia manca della parte iniziale e non possiamo quindi verificare questo punto essenziale.
Si può coinvolgere un altro, e ancora diverso, campione di riscontro: il Comentum di Pietro Alighieri. Ovviamente non una prova ma un utile termine di paragone è offerto dal fatto che in esso non si richiami esplicitamente il Salmo 113, ma si ponga comunque, più in generale, Gerusalemme a referente dell’illustrazione quadripartita: «civitas terrestris» per il senso letterale, «civitas pro Dei militanti» per quello allegorico, «anima fideli» per quello tropologico e «coelestis et triumphans ecclesia» per l’anagogico. Innegabile la maggiore prossimità al richiamo del Salmo 113, e, in ogni caso, la totale distanza dall’implicazione di Minosse.
Anche qui si aprono due scenari: la testimonianza parallela di una diminuzione meno pesante del riferimento scritturale, con allargamento del campo ma senza una sostituzione totale; quella di una tappa nella trafila di sostituzione per innalzamento teologico da Minosse al Salmo 113, che troverebbe forse la sua stazione intermedia nel ricorso a Gerusalemme.
Jean Pépin — che giustamente Alberto Casadei mi ha invitato a riconsiderare — ha offerto una serie di importanti riscontri relativi al peso dell'esempio del Salmo 113 nella tradizione patristica che ispira Dante . Si può certo proporre che un esegeta di qualche cultura abbia sostituito Minosse con un luogo più opportuno, ma sta di fatto, in ogni caso, che nell'economia allegorica del poema, e anche senza considerare il passo dedicato all’allegoria dei teologi nel Convivio che si serve del medesimo salmo, quell’esempio biblico viene prima richiamato per le anime purganti che intonano in coro «In exitu Israel de Aegypto» la mattina di Pasqua (salvo per chi non crede all’ambientazione del viaggio nella settimana santa: peraltro nel 1300 con la coincidenza della Pasqua mobile cristiana e della Pasqua ebraica) , e poi, coinvolgendo il livello più propriamente “figurale” o tropologico, riferendolo al ruolo o destino singolare del personaggio Dante, nella presentazione del suo itinerario che Beatrice riepiloga in Paradiso XXV 55-57: «però li è conceduto che d'Egitto / vegna in Ierusalemme per vedere. / anzi che ‘l militar li sia prescritto». E si potrebbero citare poi altri passi, a partire dalle dichiarazioni come sommersi di coloro che costituiscono il soggetto della prima canzon (Inf., XX, 1-3), con un possibile riferimento a quanto la Glossa ordinaria riferisce al medesimo salmo: «Si vis ascendere ad canticum canticorum, necesse est de Aegypto egredi. ut post transitus maris Rubri, submersi inimicis. primum possis canere canticum» (PL 113: 1127-1128) . In questa direzione «anzi che ’l militar li sia prescritto» mi sembra inoltre collegabile all'indicazione di Gerusalemme quale città «pro Dei militanti», con cui abbiamo visto Pietro Alighieri esemplificare il livello allegorico inteso nel senso ristretto e specifico del termine.
Due, a questo punto, le possibilità: a) il testo dantesco a cui fa riferimento Andrea Lancia o un accessus apocrifo richiamava il Salmo 113, poi sostituito in un ramo della tradizione coll’esempio del re Minosse; b) un rimaneggiatore ha introdotto ex post il riferimento al Salmo 113, perché canonico o perché dantesco, in luogo del re Minosse di Iacomo e Guido.
In ogni caso non si tratta di presumere che il rinvio originale al salmo 113— ripeto, per essere chiaro su questo punto — risulti particolarmente ardito ed isolato da poter essere riferito al solo Dante, quanto, più semplicemente, che l’accessus dell’Epistola si allinea pienamente all'utilizzo dantesco, e alle sue ragioni di dettaglio, pur se presente nella tradizione. Semmai, rispetto all’impiego che le pagine di Pépin documentano. non risulta canonico nella tradizione, invero, l'investimento che riguarda, con immenso ardire, il transito per la Gerusalemme celeste di Dante “in persona propria”, prima della morte.
Un piccolo supplemento di analisi può offrirsi osservando la questione anche dal punto di vista delle testimonianze degli ultimi decenni del XIV secolo. Boccaccio certo ricalca nelle sue Esposizioni — siamo ormai nel 1373-1374, quasi alla fine della sua vita — l’accessus che leggiamo nell’Epistola a Cangrande. Nemmeno lui, però, presumibilmente conobbe l’Epistola completa, perché non ne utilizza altre parti e soprattutto perché vi avrebbe letto, nero su bianco, i nomi di Dante e di Cangrande, completando molti ragionamenti che nelle Esposizioni sono offerti in forma congetturale e, presumibilmente, evitandosi l'impegno di discutere l'attendibilità di quelle che egli presenta come interpretazioni correnti, da vagliare e tra cui scegliere. Una cosa è rielaborare liberamente, contaminare a piacere fonti diverse, come fanno i precedenti commentatori, secondo costume; altra cosa paragonare interpretazioni ed opinioni — quanto appunto fa Boccaccio di fronte all’accessus — al fine di stabilire la liceità di intendere allegoricamente il titolo di Comedia, a partire dalla disposizione del plot movement o della “materia” caratterizzanti quel cenere. Questo se Boccaccio era, ovviamente, in buona fede, poiché non sono mancate ipotesi critiche che abbiano addebitato a lui in persona il “falso”. Ipotesi, anche recentemente riproposte, però evidentemente non compatibili con la collocazione del falsificatore in tempi prossimi alla morte di Dante e comunque, necessariamente, al di qua della testimonianza di Andrea Lancia. Andrebbe, inoltre, tenuto in conto il fatto che le Esposizioni non sono un'opera compiuta, ma una raccolta di materiali di lavoro, tra il supporto servito alle letture fiorentine in Santo Stefano in Badia e la redazione di un commento scritto. Si veda la descrizione dell’autografo, anzi degli autografi, trasmessa da un documento relativo all'eredità di Boccaccio:
24 quaderni e 14 quadernucci tutti in carta bambagia, non legati assieme, ma l'uno l’altro diviso, d'uno iscritto overo isposizione sopra 16 capitoli e parte del 17 del Dante, il quale scritto il detto mess. Giovanni non compié .
In ogni caso, se si pensa a Boccaccio come responsabile del falso, egli avrebbe presumibilmente avvalorato in questo iscritto overo isposizione, rimasto allo stato provvisorio e parziale. una sua precedente creazione in tale direzione. facendo riferimento all’Epistola come a un testo dantesco. e dunque autorevole, senza discuterne l'affidabilità interpretativa.
Boccaccio, peraltro, conduce nella lettura introduttoria l’esemplificazione dei “sensi” secondo il medesimo “ritagliamento lungo” della citazione del Salmo 113 che appare nell’Epistola, nella forma in cui noi la leggiamo, cioè fino alle parole «potestas eius», non nella citazione abbreviata presentata da altri commentatori che a lui seguono, che si arresta a «de populo barbaro» (così in Filippo Villani e Francesco da Buti):
Fu adunque il nostro poeta, sì come gli altri poeti sono. nasconditore, come si vede, di così cara gioia, come è la catolica verita, sotto la volgare corteccia del suo poema. Per la qual cosa si può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di più sensi. De’ quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cose significate per la littera, sì come voi potete aver di sopra, nella esposizione litterale, udito: e chiamasi questo senso “litterale” e così è. Il secondo senso è “allegorico”, o vero “morale”: il quale, acciò che voi comprendiate meglio, essemplificando vel dichiarerò in questi versi: «In exitu Israel de Egypto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius. Israel potestas eius». De’ quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente, vedremo esserci significato l'uscimento de’ figliuoli d'Israel d'Egitto, al tempo di Mosse, e se noi guarderemo alla allegoria, vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo: e se noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la conversione dell'anima nostra dal pianto e dalla misera del peccato allo stato della grazia, e se noi guarderemo al senso anagogico, vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dalla corruzione delia presente servitudine alla libertà della gloria eternale. (Azzetta: 459-460).
Certo è che attraverso Boccaccio, o in rapporto diretto con l’accessus nella forma in cui noi lo leggiamo, il Salmo 113 diventa l'elemento fondamentale dell’interpretazione del significato del titolo di Comedia nei suoi successori, e ancora ai nostri giorni, per traslazione al piano allegorico della disposizione del plot “comico” in opposizione a quella del plot “tragico”.
La prima direzione del nostro bivio di partenza — ma i due stradoni si sono ristretti alle dimensioni di due piccoli sentieri — ci mette di fronte all'evidenza di un accessus presumibilmente circolante in forma parziale e senza traccia del nome del poeta, giudicato (almeno da una parte dei testimoni) testo di altri o apocrifo. In questo accessus appariva il richiamo al Salmo 113. sostituito da Iacomo e da Guido o da un loro precedente che entrambi li condiziona col riferimento a Minosse. La seconda direzione, a questa alternativa, deve supporre l’edificazione nel tempo di un “falso” a più mani, con una serie di passaggi plurimi. A rigore la prima apparizione (se non si tratta di una riapparizione) dell'esempio del Salmo 113 si situa però non all'altezza degli anni ‘30-‘40, ma nelle Esposizioni di Boccaccio, in data estremamente avanzata e non prima del 1373. Vale a dire in anni lontanissimi da quelli in cui — come abbiamo detto — è stata ipotizzata una confezione del falso, più probabilmente scaligera, con lo scopo combinato di accrescere la fama di Cangrande e di attenuare l’ardire teologico dell'impresa dantesca.
Resta, ipotesi che può essere comunque enunciata pur se assai poco probabile, la possibilità che spetti a Boccaccio la sostituzione dell’esempio riferito a Minosse con un luogo di maggiore, anzi singolare, pertinenza dantesca, cosa che in fondo si potrebbe più facilmente concedere a lui piuttosto che a un ignoto “caudatore”. Spetterebbe a Boccaccio, di conseguenza, l'introduzione stessa del termine poliseno (cioè di più sensi). Strana però la generazione — se si segue tale congettura — da poliseno di polisemos (con la glossa dichiarativa: «hoc est plurium sensuum») che leggiamo nell’Epistola, hapax alla greca, giudicato indeclinabile. Percorso quantomeno tortuoso.
Il secondo, completamente differente, contesto su cui volevo richiamare l’attenzione si situa nell'ampia sezione dell’accessus — oltre la parte dedicata ai sei inquirenda e ai quattro “sensi” — che resta praticamente ignorata dalla cosiddetta “tradizione indiretta”. Boccaccio ne riprende l’argomento dell’allegorizzazione del plot comico, ma non ne utilizza completamente i dettagli.
Certo, l’ipotetico falsificatore, o uno dei falsificatori, avrebbe potuto giovarsi di strumenti diffusi, per esempio le Derivationes di Uguccione da Pisa e l'Ars poetica di Orazio, magari fornita di un congruo commento (ciò che per noi rappresenta una ricostruzione difficile e problematica — riagganciare Orazio ai suoi commentatori medievali — era ovviamente operazione a portata di mano nella cultura di scuola di allora). Ma vediamo di ragionare a partire da una verifica relativa alla sola collocazione di alcuni elementi nell’uno e nell'altro testo.
Partiamo dal passo dell’Epistola in cui si offre un inquadramento più ampio intorno ai generi o alle “forme” dette tragedia e commedia, con una sintetica rassegna di quelli che vengono qui definiti alia genera narrationum poeticarum, che non interessano l’argomentazione:
Sunt et alia penera narrationum poeticanum, scilicet carmen bucolicum, elegia, satira, et sententia votiva, ut etiam per Oratium patere potest in sua Poetria; sed de istis ad presens nihil dicendum est. (§ 32)
Si risalga al contesto di riferimento nell’Ars poetica:
Res gestae recumque ducumque et tristia bella
quo scribi possent numero monstravit Homerus.
Versibus impariter iunctis querimonia primum,
post etiam inclusa est voti sententia compos.
Quis tamen exiguos elegos emiserit auctor,
grammatici certant et adhuc sub iudice lis est.
Archilochum proprio rabies armavit iambo;
hunc socci cepere pedem srandesque cothumi,
alternis aptum sermonibus, et populares
vincentem strepitus et natum rebus agendis.
[Musa dedit fidibus divos puerosque deorum
et pugilem victorem et equum certamine primum
et iuvenum curas et libera vina referre.]
(vv. 73-85)
Ora è evidente, si ritenga o meno il testo dantesco, che il passo risulta nella sintesi dell'Epistola tagliato in un punto preciso (la prosecuzione è nella citazione indicata tra parentesi quadre), escludendo così dall’implicazione altre forme poetiche e altri generi citati di seguito da Orazio: precisamente il campo della lirica in cui si cantano gli dei e i loro figli, gli incontri di pugilato, le gare ippiche, le pene giovanili d'amore e gli effetti del vino.
Il passo va inteso, evidentemente, come una dichiarazione sommaria degli “altri generi” o forme di “narrazione poetica” che, differenti da commedia e tragedia, non interessano il discorso ora in atto, incentrato solo sull’opposizione del plot o struttura di commedia e tragedia. Non si tratta però di tutti i generi o di tutte le forme possibili (infatti la poesia lirica è stata lasciata da parte), e il taglio esclude chiaramente altri riferimenti, che si collocherebbero nella casella dei genera poeticarum ma non dei genera narrationum.
Lirica riappare, curiosamente, nella lista che Boccaccio offre nelle Esposizioni, e ha tutta l’aria di essere un'aggiunta indebita, mossa da un desiderio di completare il quadro che, mi sembra, indica la non compressione delle ragioni dell'esclusione di partenza:
A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche narrazioni sono di più e varie maniere, si come è tragedia, satira e comedia, buccolica, elegia, lirica ed altre.
Boccaccio, mentre reintegra lirica, lascia invece da parte la citazione, evidentemente più particolare e difficile, di sententia votiva. Ovviamente il recupero e l'esclusione non testimoniano, a rigore, la sicura appartenenza del testo che Boccaccio aveva davanti a Dante ma, eventualmente, l’indubitabile competenza di dettaglio del falsificatore, non compresa, infatti, dai commentatori a seguire.
La rassegna delle forme o dei generi che si legge in Orazio principia con Omero, inventore dei “numeri” dell’epica. trasmessi poi all'eredità latina; prosegue con l’elegia e la “sentenza votiva” (exiguos elegos, voti sententia, forse richiamati nel votivo grido di Par., VII 4-6: «per che non pur a lei [Venere] faceano onore / di sacrificio e di votivo grido / le senti antiche ne l'antico errore»); indica nel giambo di Archiloco la fondazione dei metri propriamente drammatici di commedia e tragedia (la fortuna medievale del metro proprio in applicazione alla commedia, la cosiddetta “commedia elegiaca”, risulta questione che importerebbe un'analisi complessa, nel campo della tradizione e fuori da Dante, che qui non possiamo ovviamente coinvolgere). Due “forme” o “generi” presenti nella lista di sintesi dell’Epistola non appaiono però affatto in quella originale, anche se di esse l’Ars poetica parla diffusamente (o, meglio, un uomo dell'età di Dante credeva l’epistola ai Pisoni parlasse diffusamente, come si ricava dai commenti): il carmen bucolicum e la satira . Boccaccio le conserva entrambe.
La verifica diventa forse più congrua di fronte al fatto che si tratta del punto di più vistoso distacco tra l’accessus dell’Epistola e quello offerto da Guido da Pisa Questi si limita addirittura a una quadripartizione per “generi maggiori”, che comprende poesia lirica, satira, tragedia e commedia; ciascuno descritto con una certa ampiezza, ma senza alcuna implicazione di forme o generi come buccolica ed elegia e tanto meno sententia votiva. Guido, infatti, dopo aver richiamato il principio dispositivo della commedia («in principio est horribilis, sed in fine delectablis»), introduce tale descrizione, che termina appunto con l'illustrazione dei caratteri specifici della commedia. Si tratta di un dato rilevante: la commedia viene alla fine del ragionamento dichiarata non la categoria che davvero definisce il senso complessivo del poema dantesco, ma solo una delle sue componenti, nella conclusione che Dante è poeta totale:
Dantes autem potest dici non solum comicus propter suam Comediam, sed etiam poeta liricus, propter diversitatem rithimorum et propter dolcissimus et mellifluum quem reddunt sonum, et satiricus, propter reprehensionem vitiorum et commendatione virtutum quas facit, et trasedus propter magnalia sesta que narrat sublimium personarum.
Insomma, laddove l’accessus dell’Epistola e Boccaccio concordano in un'integrale riconduzione del significato del poema alla categoria di commedia, nell’opposizione alla tragedia per la disposizione del suo plot, Guido riconosce una pertinenza non totalizzante della commedia, all’interno del campo complessivo dei generi (un po’ quello che si ritrova nella tradizione dei secoli seguenti, fino alla formula di Contini, certo suggestiva, che vedeva nel poema dantesco un'enciclopedia degli stili intitolata al suo gradino più basso). Una descrizione a tutto campo, peraltro, sbilanciata tra la varietà del poema e la rappresentatività complessiva del resto dell’opera dantesca.
Guido e Boccaccio trascurano senza dubbio — ciò che più conta rilevare — il principale capo oraziano offerto dall’accessus dell’Epistola, ovvero il richiamo della teoria del congruo loqui, che complica ed arricchisce il rapporto tra tragedia e commedia, nella libertà stilistica “situazionale” rispetto agli elementi di definizione dei due generi.
Provo a riassumere sinteticamente: l'orizzonte comico additato dall’Epistola è caratterizzante. si oppone nella materia e nella disposizione del plot a quello della tragedia . ma contempla la possibilità di ascesa e di discesa nel linguaggio o stile tra l'una e l’altra. concessa ai poeti eccellenti. appellandosi ad Orazio . In buona sostanza: nel rispetto della disposizione e della sua allegorizzazione, la determinazione stilistica, non ovviamente la definizione strutturale, può variare in rapporto ai singoli contesti e personaggi, soprattutto nel dare la parola a questi. L'orizzonte comico additato dalle Esposizioni di Boccaccio risulta integrale. inquadrato nel senso complessivo dell’allegorizzazione del plot dall'inizio “orribile” al fine lieto, ma non considera specificamente questo punto. In Guido la dimensione o prospettiva comica si accompagna alle altre, privilegiando la copertura totale dei generi e delle forme da parte dell’excelsus poeta, comicus nec non et satirus et liricus atque tragedus, con un'evidente dispersione dei caratteri specifici e individualizzanti della scelta comica.
Una serie di dati esterni, inoltre, può indicare la centralità di questo stesso contesto oraziano nell’elaborazione coeva più rilevante da affiancare ed opporre al sistema “comico” cui fa riferimento l’Epistola, guardacaso quella del tragedus Albertino Mussato e dei suoi sodali e commentatori. La rinascita padovana della tragoedia, intorno al caso dell’Ecerinis, e alla laurea del poeta “storico e tragedo”, aveva infatti riportato all'attenzione un approfondimento senza precedenti delle forme metriche dell’epica e del teatro antichi, proprio a partire dallo stesso contesto oraziano, e in occasione della riscoperta delle tragedie di Seneca (Seneca è citato esplicitamente dall’Epistola a Cangrande come referente del cenere tragico nella sua determinazione di base, cosi come Terenzio in rapporto alla commedia, intesa nella sua forma di partenza).
Certo qualche notizia su Archiloco quale autorità di riferimento poteva essere offerta, a Dante o al suo falsificatore, dai commenti oraziani correnti, ma spicca in questo panorama, per le tracce che ne abbiamo. la rivendicazione di un patronato sub feritate metri posta proprio al centro dell’autocelebrazione relativa all’incoronazione “tragica” di Mussato, in una densa riformulazione che muove sempre da Orazio, nell’epistola dedicata alla laurea padovana del 1315:
Materiam tragico fortuna volubilis auget
quo magis ex alto culmine regna ruunt;
illaque conclamans per tristia verba coturnus
personat Archiloci sub feritate metri.
(vv. 101-104)
«Edidit Archilocis impia sesta metri», con ampia illustrazione della forma e delle ragioni d'impiego del giambo, si legge del resto nell’accessus all’Ecerinis, nella confezione “di lusso” della tragedia realizzata da Guizzardo da Bologna e Castellano da Bassano.
Dante non nomina mai Mussato né Mussato nomina mai Dante, ma le rifondazioni di commedia e tragedia, oltreché competitive, sembrano fortemente intrecciate nei rispettivi argomenti, oltre che ovviamente nell’opposta collocazione politica dei poeti, che trova in Cangrande la figura centrale di riferimento (fino al poema dedicato, nel 1321, da Mussato all'assedio di Padova da parte del signore veronese), e naturalmente in un accessus parallelo e contrario che in un siro d'anni non lontano — si ritenga vero o falso quello dell’Epistola a Cangrande — accompagna l'uno e l’altro testo. Il cenno evidentemente tagliente alle acque del Musone in rapporto a quelle dell'Arno, nell’egloga di risposta di Giovanni del Virgilio a Dante (presumibilmente nel medesimo 1321), dopo che il secondo ha declinato l'onore di una laurea bolognese, risulta una chiara, indubitabile, allusione a Mussato e al fatto che Dante lo avesse presente e potesse essere provocato nel vivo da una simile evocazione .
I dettagli per una più compiuta restituzione del quadro sono tuttavia assai più numerosi. Per esempio, una corrispondenza certo spiegabile secondo una comune e indipendente discesa da fonti precedenti, relative all'idea medievale di tragedia, si potrebbe proporre osservando l’insieme l’“epigramma” di Guizzardo (con lo stesso termine impiegato nell’Epistola) e un passo della Vita Senece di Mussato, composta più in là nel tempo ad incremento del sistema dell’autocelebrazione in rapporto al genere tragico. Si tratta proprio di una definizione della tragedia come «alte materie stilus», che non può non ricordare la celeberrima formula che Dante mette in bocca a Virgilio nel XX dell'Inferno, e che riflette un riferimento comune se non addirittura — pur nel sistema di reciproca apparente ignoranza tra i due poeti di cui si è detto, ma in rapporto a date indubitabili — un'impronta del luogo dantesco, anche perché Virgilius risulta qui esplicitamente nominato, pur nella distinzione tra l’impiego del giambo e del metro eroico offerta:
Dicitur itaque tragedia alte materie stilus, quo dupliciter trasedi utuntur: aut enim de ruinis et casibus magnorum regum et principum, quorum maxime exitia, clades, cedes, seditiones et tristes acius describunt — et tunc utuntur hoc genere tambicorum, ut olim Sophocles in Trackinis et hic Seneca in his decem tragediis— aut regum et ducum sublimium aperta et campestria bella et triumphales victorias — et tune metro herovco ea componunt, ut Ennius, Lucanus, Virgilius, ac Statius.
Altre spie lessicali si potrebbero raccogliere, a partire dall’indicazione dei tristia (a monte ovviamente si pone il verso oraziano: «Res gestae resumque ducumque et tristia bella»), che individua un’altra fondamentale, e mi pare sottostimata, implicazione dell'orizzonte del genere tragico nel poema dantesco, nella domanda che il maestro Virgilio rivolge al discepolo Stazio, nel XXII del Purgatorio, prima di uscire di scena (si badi, non come tragedo ma come il cantor de’ buccolici carmi). È evidente — nel dominio di Clio, musa della Storia — che la perifrasi riassume la Tebaide, senza nominarla per titolo, come una tragedia: «quando tu cantasti le crude armi / de la doppia trestizia di Giocasta» (55-56), eleggendo a rappresentante del genere il personaggio più tragico che si possa in assoluto immaginare: madre di Edipo e dal figlio resa madre dei “fratelli nemici” Eteocle e Polinice (quelli che Dante aveva, peraltro, creduto essere divorati per l'eternità dalla doppia fiamma che rivela poi contenere Ulisse e Diomede). Per questa ragione Giocasta rappresenta una trestizia o una “catastrofe” addirittura “doppia”. «Tristes actus describunt», abbiamo letto come definizione della materia dei tragici antichi da parte di Mussato, e Guizzardo si intrattiene nel suo commento proprio sui tristia bella.
Ancora, e per chiudere provvisoriamente questo excursus, ci si può chiedere se Mussato, scrivendo l’epistola dedicata alla sua laurea padovana del 1315, nel definire la totale impermeabilità di tragico e comico (dunque esattamente contro la teoria del congruo (ogni di Orazio), avesse presente la profonda. Radicale, commistione delle due direzioni o componenti offerta dall’Inferno, a quella data comunque diffuso o “pubblicato”, eleggendola dunque a proprio preciso idolo polemico. Si può ritenere che ciò sia probabile, visto che l'irruzione del comico nel campo della tragedia è definita, senz'altro, obscena:
Non amat obscenos irata tracedia risus
versibus alludit fabula mulla suis.
Gaudet enim nulla gravitate tragedia vinci,
virtutes amimi sic dominantis habet.
(73-76)
Anche qui Dante avrebbe potuto affermare, come davanti alle obiezioni di Giovanni del Virgilio alle prime due cantiche del suo poema, che a Mussato non piacevano i comica verba, in una forma enormemente più radicale di quella che si rivela in risposta alla comunque affabile confidenza del corrispondente bolognese, che aveva fatto visita al magister a Ravenna e gli aveva sottoposto le sue prove poetiche. Che l’Ars poetica risulti poi il testo essenziale di riferimento, attraverso plurime allusioni, nell’epistola metrica che Giovanni invia a Dante è perfettamente pertinente, a marcare il fatto che Orazio si poteva leggere in direzioni diverse, e, come in questo caso, anche radicalmente opposte, tuttavia come patrimonio condiviso.
Certo il richiamo della teoria oraziana del congruo loqui, se l'Epistola a Cangrande è di Dante, apparirebbe un'ottima risposta, proprio impiegando l'Ars poetica, relativamente alla dimostrazione, teste Orazio, della permeabilità e dello scambio incrociato tra commedia e tragedia. Se l’epistola non fosse dantesca essa verrebbe, in ogni caso, a porsi come documento essenziale nell’esegesi del poema della prima metà del XIV secolo: questo falsario, piuttosto che al diavolo della falsificazione non compiuta fino ai dettagli, sembra assomigliare al Mefistofele di Bulgakov: quello che desidera il male e finisce inevitabilmente per operare il bene. Bene qui inteso, ovviamente, nel senso della riconduzione a dati culturali profondi.
Tra i sei inquirenda dell’Epistola mi sembra poi meritare — spostando l'osservazione ad altre, più minute, questioni — una riconsiderazione proprio alla luce di una storia della “tradizione indiretta” del termine agens, del tutto particolare nel formulario del tipico accessus ad auctorem, e che tanto inchiostro ha fatto versare.
Iacomo della Lana ricorre sinteticamente alla più consueta definizione di “causa efficiente” e glossa il termine con quello, più piano ancora, di “autore”:
La terça cosa, zoè la caxione efficente, ch'è da notare si fo l'auctore de quella, zoé Dante Aligieri da Florenza, dello quale testimonia la presente scriptura che fo homo de grande scientia et de honesta et verecondiosa vita. (Azzetta: 426)
In Guido da Pisa il primo riferimento alla “causa agente” risulta seguito dalla dittologia agens sive autor, che conserva dunque, anche se lo mescola ad altri, il primo e “più difficile” termine:
Circa tertium vero, id est circa causam agentem. noto quod agens sive autor huius operis est Dantes. Fuit autem Dantes natione florentinus. nobili et antiquo sanguine natus, descendens de illis gloriosis Romanis qui civitate Florentie; destructis Fesulis. fundaverunt... (Azzetta: 438)
L'inquadramento della figura dell’autore — secondo il formulario normalmente inteso, cioè riferito agli autori classici, per cui si fornivano estremi biografici di riferimento — presenta in entrambi i testi l'aggiunta di “notizie” sulla figura storica di Dante Alighieri. Questa ha l’aria di un ampliamento in una direzione tradizionale piuttosto che di un tratto originale, eliminato dall'Epistola a Cangrande, posto che in essa risulta una definizione estremamente sintetica, senza presenza della parola auctor e senza diretta declinazione di generalità e dati biografici:
Agens igitur totius et partis est ille qui dictus est, et totaliter videtur esse (§ 37)
Qui il nome di Dante non è nemmeno presente. ma compreso semplicemente nel rinvio a «ille qui dictus est». Mi sembra molto difficile sia stata operata una sintesi tanto radicale, scegliendo il termine più difficile e allegando una formula che ripete due volte la stessa affermazione. Se i richiami a totius et partis vanno alla cantica e al poema, nell’identica ripetizione formulare offerta per ciascuno degli inquirenda, soprannumeraria appare, posta tale estrema brevità, appunto la ripetizione in forma passiva dell’affermazione “attiva”. Ripetizione che non si trova, peraltro. negli altri inguirenda, dove la formula risulta univoca e declinata solo al modo attivo. Che la categoria di agens sia l’unica a rendere pertinente o necessario un siffatto, duplice, richiamo potrebbe dunque richiamarsi a una valenza specifica.
Non possiamo, purtroppo, come si è già rimarcato, confrontare l’introduzione all’Inferno, che funzionava forse da proemio per l’intera opera, nel commento di Andrea Lancia, posta la perdita delle carte iniziali del manoscritto che ce lo trasmette. Possiamo però rintracciare nell’introduzione alle cantiche seguenti la ripresa delle illustrazioni iniziali.
Azzetta — offrendo una lista dei luoghi di “tangenza” tra il commento di Lancia e quello di Pietro Alighieri che lo influenza — si sofferma su un passo in cui lacomo sembra sintetizzare una davvero ampia definizione che egli reperisce in Pietro. lacomo dichiara «Dante delli Alleghieri cittadino di Firenze [...] cagione efficiente e compilante». Si tratta di una ripartizione che potrebbe condurre, se fondata, a una ricomprensione dei ruoli di personaggio e autore, posta la differenza tra una “causa efficiente” e una “causa compilante” e a riprendere la considerazione del bambino forse buttato via quando Bruno Nardi ha vuotato la tinozza dell’identificazione dell’agens col personaggio proposta da Francesco Mazzoni. Ma andrà prima valutato il dettagliato svolgimento — senza pari, credo, nella restante tradizione esegetica — dell’illustrazione offerta da Pietro:
Causa efficiens im hoc opere, velut in domo fienda aedificator, est Dantes Allegherii de Florentia, [...]: quae causa efficiens non agit misi in quantum movetur a fine, de quo infra dicam, et qui finis non movet nisi secundum quod est in intentione: et ideo respectu illius effectus, qui est in intentione, est efficiens causa per se. Unde si quid in actione contingint, quod non fuerit in intentione agentis illius, erit causa per accidens, non per se .
Qui si vede la testimonianza di una distinzione — di fondamento evidentemente aristotelico — tra una causa efficiens per se e una causa efficiens per accidens, ovvero tra un'azione che procede da “intenzione” di chi la compie e un'azione provocata o “mossa”.
Nardi ha giustamente mostrato l'impossibilità di identificare l’agens con il personaggio. salvo a non calcolare come pure la riduzione dell’agens all’auctor, quale noi lo intendiamo, potesse risultare diversamente depotenziante e banalizzante. La categoria di “causa efficiente” risulta evidentemente più ampia e complessa di quella di “autore”, nel senso moderno di chi detiene la paternità intellettuale di un’opera.
Un inquadramento pienamente soddisfacente, fuori dal caso dantesco, è offerto dall’importante lavoro di Minnis, nell'illustrazione dettagliata di un prologo o formulario di tipo, appunto, “aristotelico” nella sua differenza dal comune accessus ad auctores, determinato dalla sua applicazione alla Sacra Scrittura, o potremmo dire per chiarezza nel suo impiego nella Patrologia, àmbito in cui la definizione di un “autore” nel senso comune del termine perde di pertinenza o richiede una doppia distinzione, tra colui che ha materialmente scritto il libro (per esempio Giobbe) e colui che lo ha ispirato (Dio come “causa movente”) . Il capitolo del saggio in questione, intitolato The human auctor as efficient cause, offre un sicuro panorama di riferimento per comprendere i termini della questione e la necessità di una distinzione di ruoli o funzioni rispettive (per esempio: Ugo di St. Cher, Parigi 1230-36 ca, che indica per il Vangelo di Marco sia l'autore-scrittore che “Cristo e le sue opere”, o San Bonaventura che analogamente distingue Luca come auctor dallo Spirito Santo e dalla Grazia divina che lo ispirano, oppure Thomas Walevs che per il De civitate Dei indica Agostino come causa effectiva librorum e Dio quale causa movens ad scribendum: il “compilatore” di Pietro Alighieri diventa così riferimento più chiaro) . In tale panorama si trovano indicazioni, addirittura, di triplex o quadruplex causa efficiens: per la documentazione prendo solo un esempio tra i molti addotti da Minnis, quello di John Russel, che divide addirittura per quattro le responsabilità in rapporto all’Apocalisse: Dio, Cristo, gli angeli che visitarono San Giovanni a Patmos e San Giovanni in persona; esempio interessante anche — senza specularci qui troppo — per l’implicazione degli angeli, che assumono quasi il ruolo di “personaggi” .
La totalità dell’ascrizione a ille Dantis si chiarisce, dunque, decisamente rispetto alla divisione dei ruoli o delle parti nella tradizione dell’applicazione alla Scrittura, intesa nel senso lato della pertinenza alla materia sacra (appunto, non solo i libri della Bibbia o i Vangeli, ma anche, per esempio, il De civitate Dei): vale a dire, per dirla nei termini del Convivio, dell’ascrivibilità conseguente alla casella dell'allegoria dei teologi. Dante viene dichiarato nell’Epistola totalmente “causa efficiente” o agens dell’opera, posto che essa non è, in ogni caso, una “comune” opera letteraria. Ciò che, tra parentesi, doveva spiacere molto a Bruno Nardi.
Il Convivio offre un passo sulla questione che potrebbe essere utilmente confrontato allo svolgimento di dettaglio offerto da Pietro nel suo Comentum. In IV 4— dunque in un campo del tutto estraneo al formulario di rito del prologus o accessus a un'opera — Dante dichiara di intendere la categoria di causa efficiens con stretta relazione alla sua riformulazione nella Summa theologiae di Tommaso, da cui egli cita. L'implicazione riguarda la discussione se l’“autorità” dell’imperatore romano derivi dalla forza o dalla ragione (nel senso che essa sia stata voluta da Dio), e mette in campo a tal fine un paragone con l’azione “fabrile” dell’artigiano (precisamente quello che il poema chiama artista, nel senso del fabbro: il paragone torna identico in Par. II 127ss.): «la forza non fu cagione movente, si come credeva chi gavillava, ma fu cagione instrumentale, si come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l’anima del fabbro è cagione efficiente e movente; e cosi non forza. ma ragione, e ancora divina, conviene esser stata principio del romano imperio» (IV 4) . Ecco, dunque, una doppia azione combinata o un dispositivo specifico, che però riduce ciò che accade in terra all’intenzione del “fabbro” divino. Dante, secondo lo stesso formulario d’inquadramento, ma dunque con prospettiva ribaltata, sarebbe invece per la sua opera insieme — potremmo parafrasare — il martello che forgia e l’anima del “fabbro”: agens est et totaliter videtur esse.
Credo, dunque, che la sintetica doppia formulazione dell’Epistola a Cangrande testimoni precisamente, come dicono i filosofi di oggi, questo dispositivo specifico. Se un Dante personaggio — nozione certo implausibile nell’identificazione totale con agens, ma non priva di pertinenza nel regime del “doppio dispositivo” — si possa comprendere in questa doppia azione combinata, è questione ovviamente da meditare altrove, ma credo ben pertinente .
Un'altra possibile, piccola. impronta digitale, pure non segnalata dai commenti. Certo, ancora una volta, un dettaglio che non richiede la necessaria identità di Dante e del falsificatore, ma che individua una corrispondenza d'uso di qualche rilievo o interesse e che si aggiunge in questo senso alla lista dei luoghi segnalati. Si tratta della frase «Ad expositionem littere secundum quandam prelibationem accedendum est» (§ 42).
«Sex omnino, inquam, magistri in omni expositione praelibant», in Boezio (In Isag. I 4), risulta ben confrontabile a due occorrenze del Paradiso e a una dell’Epistola, dove il verbo prelibare sarebbe però stato dislocato rispetto all’accessus vero e proprio nell’“antipasto” o “assaggio” del commento che segue, riferito alla sola parte proemiale della terza cantica.
Significativo, anche se chiaramente non esclusivo, il caso che due persone diverse — il cosiddetto “caudatore” e Dante in persona — usino il verbo prelibare per l'offerta in anticipo a un lettore rispetto all'intera imbandigione testuale: «Ad expositionem littere secundum quandam prelibationem accedendum est» somiglia infatti molto all'appello al lettore di Par. X, cui Dante ha già imbandito in tavola l'antipasto (messo t'ho innanzi, significa certamente questo) e che viene invitato a cibarsi da solo e a immaginarsi il resto a partire da «ciò che si preliba». Esattamente quello che Dante farebbe con Cangrande per il saggio di commento. Un'ipotesi sulla prossimità cronologica di questi due luoghi appare tutt'altro che irragionevole. Certamente, in ogni caso, il canto X fu scritto a Verona.
La Patrologia Latina offre varie attestazioni — su cui non mi posso qui soffermare — di pr(a)elibare, inteso non quale semplice atto che “premette” alcune vivande al banchetto completo, nell'esposizione testuale, ma prevalentemente inquadrate sul versante della praelibatio eucaristica, come appunto in Par. XXIV, dove è Dante personaggio a prelibare qualche briciola dell’imbandigione dell’Agnello, soggetto che “mette in tavola”, anzi che si mette in tavola («se per grazia di Dio questi [Dante] preliba / di quel che cade de la vostra mensa, / prima che morte tempo li prescriba»: ovvero prima del militare, quando gli è concessa un'uscita per anticipazione dal suo Egitto verso Gerusalemme: vv. 4-7). Dunque questo passo — maggiormente inscritto nella tradizione patristica — si stacca dal significato di Par. X, che concorda invece con quello dell’Epistola e con Boezio, chissà se nell'apertura di un'altra prospettiva.
Una plausibile connessione a un altro passo di Boezio, dell’opera maggiore e ampiamente praticata da Dante, cioè la Consolatio, è stata proposta recentemente e concerne, curiosamente, l'esposizione della dottrina della Provvidenza, non come un assaggio di cibo ma come un sorso ristoratore della sete (haustum), in attesa di essere completamente dissetati: «Sed video te iam dudum et pondere quaestionis oneratum et rationis prolixitate fatigatum aliquam carminis expectare dulcedinem: accipe icitur haustum. quo refectus firmior in ulteriora contendas» (IV, 6, 57). Qui è assai interessante il fatigatum, ben avvicinabile allo stanco dell'appello di Par. X, che si riferisce a un lettore che deve farsi lieto pensando a ciò che seguirà alla prelibazione offertagli, che soddisfa un po’ l'appetito, e che gli permette di superare, dunque almeno momentaneamente, la stanchezza e la fatica. Ma ancora permette di raccordare forse la sete di Dante desideroso di servire Cangrande, pure indicata nella prima “urgenza” manifestata al signore di Verona: «sed zelus eratie vestre. quam siflo cuncta parvipendens. a primordio imetam prefixam urget ulterius».