Dati bibliografici
Autore: Marco Signori
Tratto da: Nuove inchieste sull'"Epistola a Cangrande"
Editore: Pisa University Press, Pisa
Anno: 2020
Pagine: 49-75
L’interpretazione dei §§ 23-25 dell’Epistola a Cangrande [EC] non è in alcun modo limpida, nonostante l'apparente linearità del testo. I paragrafi in esame, in effetti, dovrebbero fornire le linee-guida dell’esegesi dell'intera Commedia [subiectum totius operis], tanto in relazione al suo senso letterale [litteraliter], quanto in connessione al suo sovrasenso, che viene qui specificato come allegorico [allegorice].
[23] Hiis visis, manifestum est quod duplex oportet esse subiectum. circa quod currant alterni sensus. Et ideo videndum est de subiecto huius operis. prout ad litteram accipitur; deinde de subiecto, prout allegorice sententiatur.
[24] Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus.
[25] Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitri libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.
Tuttavia, il testo appare prima facie quanto meno insoddisfacente, sotto diversi rispetti. In primo luogo, il senso letterale proposto dall’EC — ancorché difeso come tale in molti studi, e apparentemente passato in giudicato all’interno della dantistica — offre di per sé motivo di dubbio al lettore della Commedia, data la completa rimozione di Dante pellegrino e del suo viaggio oltremondano dalla discussione — un’operazione certo non innocua dal punto di vista concettuale, e non solo perché mostrerebbe una forma mentis diversa da quella degli interpreti moderni, ma perché misconosce, mi pare, un carattere strutturalmente cruciale del poema dantesco .
Definire il soggetto della Commedia come uno “stato”. in effetti. attenua fin quasi ad annullarlo il valore intrinsecamente dinamico del poema, ovvero il suo porsi fin dal principio («Nel mezzo del cammin») come poesia narrativa, e narrazione poetica di un movimento . E anzi, il cammino ascensionale del poeta sembra acquisire consistenza proprio nella misura in cui attraversa nei fatti la condizione delle anime, e ne mostra via via lo «status» appunto grazie ad un movimento di ascesa verso Dio: ciò che viene narrato nel poema è insomma in modo essenziale e inderogabile il viaggio di Dante — «anima» individuale, alla quale peraltro non si può di certo applicare la specificazione post mortem, il che aggiunge difficoltà a difficoltà —; ed è anzi proprio il fatto che, per descrivere la Commedia, appaia necessario l’uso del verbo «narrare» a caratterizzarne il contenuto come sequenza di fatti dinamica e mobile. in opposizione ad un presunto “stato” cristallizzato e immobile . Naturalmente, è d'obbligo ricordare che Dante stesso avrebbe potuto — e in modo legittimo — voler evitare l’autoriferimento implicato nell’identificazione del senso letterale della Commedia con il viaggio oltremondano del suo autore, e sarebbe potuto giungere. per questa via. a formulazioni potenzialmente affini a quella dell'EC, che, da questo punto di vista, non è dunque affatto da respingere a priori.
Tuttavia, ciò che colpisce è che questo aspetto dinamico e in fieri del poema, assente come tale dalla formulazione dell’epistola, è considerato comunque cruciale dalla più parte degli interpreti moderni, e, nello specifico, è riconosciuto nella sua importanza fondativa non solo da un avversario dell’autografia dantesca dell’EC come Bruno Nardi, ma anche — e con la massima chiarezza — da un suo sostenitore illustre come Charles Singleton. Vale la pena citare per intero il passo-chiave a questo proposito, sia per la sua assoluta rilevanza nella storia degli studi, sia per il ruolo che riveste in questa sede nella mia argomentazione.
And then just as the event of the Exodus, being wrought by God, can give in turn a meaning, namely, our Redemption through Christ; so, in the event of this journev through the world beyond (an event which, as the poem sees it, is also wrought by God) we see the reflection of other meanings. These, in the poem, are the various reflections of man's journey to his proper end, not in the life after death, but here in this life, as that journey was conceived possible in Dante's day — and not only in Dante's day. The main allegory of the Divine Comedy is thus an allegory of action, of event, an event given by words which in its turn reflects, (in facto), another event. Both are journeys to God .
[Quindi, proprio come l'evento dell’Esodo. essendo creato da Dio, può dare a sua volta un significato, ossia la nostra redenzione attraverso Cristo: così, nell'evento di questo viaggio attraverso l'aldilà (un evento che, per come lo vede il poema, è pure creato da Dio) vediamo il riflesso di altri significati. Questi, nel poema, sono i vari riflessi del viaggio dell'uomo al suo fine proprio, non nella vita dopo la morte, ma qui in questa vita, nella misura in cui quel viaggio era ritenuto possibile ai tempi di Dante — e non solo ai tempi di Dante. L'allegoria principale della Divina Commedia è, così, un'allegoria di azione, di evento, un evento reso da parole che a sua volta riflette, in facto, un altro evento. Entrambi sono viaggi verso Dio].
Come si sa, la tesi fondamentale di Singleton è che — nell’ambito della distinzione avanzata nel Convivio tra due tipi di allegoria — la Commedia sia costruita secondo il meccanismo dell’allegoria dei teologi, e non secondo quello dell’allegoria dei poeti . Si tratterebbe, cioè, di un'allegoria in factis e non in verbis, o — per usare la terminologia di Singleton — un'allegoria del «this and that» e non del «this for that» : una costruzione poetica, insomma, in cui ad esser veri non sono soltanto i significati riposti tra le pieghe della lettera, ma anche i fatti stessi narrati sulla superficie letteral-istoriale dell’opera. Inoltre, Singleton pone nella sostanza l’intero problema esegetico relativo all’interpretazione allegorica del poema come se si trattasse di un'alternativa esaustiva tra due casi: o la Commedia va intesa secondo l’allegoria dei poeti (e allora bisogna dismettere l’epistola), oppure essa va letta secondo l’allegoria dei teologi (e allora bisogna salvare l’epistola). In altri termini, per Singleton o si preserva la possibilità di assegnare un valore veritativo alla lettera del poema sacro insieme all’epistola a Cangrande, o si dismettono entrambe le cose con un unico atto, cadendo nell'errore del «multa mentiuntur poetae» . A me sembra, al contrario, che questa connessione teorico-argomentativa così stretta possa essere spezzata, e in più punti, a tutto vantaggio della nostra intelligenza di ciò che EC realmente sostiene .
Per quanto riguarda specificamente il problema del senso letterale che stiamo ora esaminando, per far tornare i conti della propria fedeltà all’epistola Singleton è costretto per esempio ad un piccolo salto logico, che è perfettamente ragionevole se si considera la dimensione in gran parte narrativa della poesia della Commedia, ma che sarebbe in realtà illegittimo a norma dell'EC: è costretto, cioè, a trasformare sia la lettera sia l’allegoria del poema in eventi, in azioni che si svolgono, in viaggi («journeys»); insomma in qualcosa di diacronico e non di sincronico, in eventi e non in “stati”. Se è vero che «the main allegory of the Divine Comedy is thus an allegory of action, of event, an event given by words which in its turn reflects. (in facto), another event» — i corsivi aggiunti evidenziano l'enfasi posta da Singleton sull’intrinseco dinamismo del poema — dovremmo insomma rigettare proprio in forza di questa tesi il § 24 dell'EC, che di questi moti e di questi eventi non fa per nulla menzione, limitandosi a registrare invece la staticità di una condizione data una volta per tutte .
Analogamente, seppure in modo meno immediatamente evidente, anche il senso allegorico subisce sotto la penna di Singleton una moderata torsione nella direzione dell'evento e del viaggio. Riconoscere nel sovrasignificato del poema «the various reflections of man's journey to his proper end» implica infatti senza dubbio un maggior grado di dinamismo ascensionale — e dunque di plausibilità, dato il carattere specifico della Commedia — rispetto alla formulazione del § 25 dell’epistola, per la quale il soggetto allegorico è, al nocciolo, «homo prout... iustitie premiandi et puniendi obnoxius»: ossia, ancora una volta, una caratteristica ineliminabile dell’uomo — il suo essere eternamente soggetto alla giustizia divina che lo premia e lo punisce — il cui immobilismo è appena temperato dalle sfumature introdotte con l’inciso «merendo et demerendo…» .
Qualcosa di molto simile a quanto visto fin qui accade anche, nell’interpretazione di Singleton, per quanto riguarda il problema cruciale della distinzione tra il senso letterale e il senso allegorico all’interno dell’EC. Ad una prima ispezione, in effetti, si direbbe che i due sensi che l’EC tenta di distinguere siano in realtà lo stesso, e che lo stato delle anime dopo la morte sia virtualmente indisgiungibile dalla situazione dell’uomo sottoposto alla divina giustizia, che ne stabilisce il premio e la punizione sulla base di meriti e peccati . È possibile però in realtà — come fa appunto Singleton, con istintiva finezza esegetica — rendere ragione di questa difficolta valorizzando la clausola «merendo et demerendo per arbitrii libertatem» all’interno della presentazione del senso allegorico, e accentuando per questo tramite la separazione tra lettera e allegoria . La distinzione tra i due piani sarebbe in questo caso quella tra un aldilà descritto letteralmente e un aldiquà cui si allude allegoricamente; oppure — per impiegare una terminologia corrente nel medioevo — tra la condizione dell'uomo in patria e la sua precedente collocazione in statu viae. In effetti, l’uomo è in senso stretto dotato del libero arbitrio solo mentre vive, perché solo allora è chiamato a compiere, giorno dopo giorno, le scelte che ne connotano nel presente la vita etica, e ne decideranno, da ultimo, il destino escatologico.
Se torniamo ora al modo in cui Singleton parafrasa il senso allegorico che si ritroverebbe nell’epistola, questa contrapposizione viene appunto fortemente enfatizzata: «the various reflections of man's journey to hus proper end, not in the life after death, but here in this life». Sennonché l’epistola, come abbiamo visto, caratterizza il significato allegorico del poema innanzitutto e da un punto di vista generale in riferimento all'uomo sottoposto alla giustizia del premio e della punizione; giustizia che, è evidente, non è data affatto su questa terra, luogo di retribuzioni inique in cui, al contrario, i buoni e i giusti spesso devono soccombere ai malvagi e agli ingiusti — come, all’interno del poema, è testimoniato oltre ogni dubbio dal caso paradigmatico di Piccarda Donati e degli altri spiriti mancanti ai voti non per propria volontà, ma per una costrizione sopraggiunta dall'esterno . Se ci si attiene al § 25 dell’epistola, insomma, si può in effetti essere tentati di intendere il senso allegorico del poema nella direzione della vita morale degli uomini, che lottano con il bene e con il male durante il corso della propria esistenza terrena, ma non si può del resto fare a meno di riconoscere che quel senso allegorico immanente si ricongiunge subito, appena si cerchi di afferrarlo, ad un aldilà trascendente: perché è solo lì, oltre appunto la libertas arbitrii dell'uomo, che la iustitia premiandi et puniendi di Dio può esercitarsi senza ostacoli e in pienezza.
L'inciso di Singleton «not in the life after death» è dunque, come si vede, quanto mai necessario se si vuole conservare la distinzione tra lettera e allegoria sovrapponendola a quella tra patria ultraterrena e iter mondano dell’uomo: ma è anche quanto mai in contraddizione con quello che l’epistola effettivamente dice, dal momento che — nella formulazione del § 25 — la dimensione della via è al massimo allusa nel riferimento alla libertà dell’arbitrio, ma non certo esplicitamente affermata. Detto altrimenti, il senso allegorico che Singleton riconosce sembra ancora una volta racchiuso soltanto nella clausola «merendo et demerendo per libertatem arbitri», e non nell'intero passo che dovrebbe spiegare, preso globalmente, il sovrasenso della Commedia. L'operazione di estrazione ad hoc del significato voluto da una frase unitaria, tuttavia, non è certo metodologicamente corretta, e bisognerà allora riconoscere semmai che il testo dell’EC ha effettivamente in sé i germi della confusione che ha travagliato per lungo tempo gli interpreti, dato che cerca forzosamente di distinguere due sfumature di senso che in ultimo non possono invece che convergere.
Da questo punto di vista l’identificazione, nel commento di Iacomo della Lana, del supposto senso allegorico distinto nell’EC con un semplice «altro modo» di intendere la materia letterale della Commedia dovrebbe probabilmente essere guardata con occhio critico più benevolo rispetto a quanto è stato fatto finora . Quando il Lana espone questo secondo modo d'intendere il senso letterale del poema, e scrive che il soggetto può essere
lu uomo lo quale per lo libero albitrio può meritare overo peccare; per lo quale merito overo colpa ello gli è atribuita gloria overo punito all'altro mondo
egli introduce in effetti una precisazione assente nel testo dell’epistola, ma non per questo fuori luogo. In effetti, dato che per converso nel testo laneo manca il riferimento alla giustizia (divina) che retribuisce escatologicamente gli uomini, specificare che l'attribuzione di gloria e punizione (sulla base dei meriti e delle colpe) avverrà «all’altro mondo» sembra un completamento concettualmente esatto , che serve anzi a esplicitare proprio quanto nell’epistola rimane fumoso e — forse volutamente — indeterminato. La reprimenda di Luca Azzetta, che considera l'inserzione del Lana inappropriata e priva di logica , è dunque particolarmente ingiusta: non solo infatti il testo è arricchito e non impoverito dalla precisazione, che è perfettamente valida dal punto di vista dottrinale, ma essa addirittura non fa che disambiguare la pericope nella stessa direzione in cui va anche il testo dell’EC, qualora lo si legga linearmente e al netto dell’incongrua separazione tra lettera e allegoria che esso pretende di postulare.
Inoltre, come già notato da Alberto Casadei in diversi contributi , è cruciale per quanto qui ci riguarda che la formulazione piana e non problematica del Lana si collochi all’inizio della trafila dei commenti a noi noti, e questo non solo cronologicamente, ma — quel che più conta — anche logicamente: trovandosi di fronte le presentazioni concorrenti (i) del Lana (due sensi letterali alternativi, entrambi trascendenti), (ii) di Guido (un senso letterale e un senso allegorico, con omissione della pur ovvia collocazione trascendente del secondo) e (iii) dell’estensore dell’epistola, sembra infatti di gran lunga più economico ipotizzare la sequenza del rapporto proprio secondo quest'ordine di sviluppo, che — eventualmente attraverso il rimando comune ad un Ur-commento oggi perduto — permette di spiegare con difficolta ben minori le complicazioni esegetiche che ritroviamo oggi nell’EC. Se infatti la trafila fosse quella inversa, e l’epistola fosse davvero il capostipite della tradizione, dovremmo supporre che il suo immediato successore (il Lana) abbia ritenuto deficitaria la sua formulazione del rapporto tra lettera e allegoria, e l'abbia dunque corretta in questo luogo specifico: mentre Guido, che pure per il resto segue dettagliatamente il testo laneo anche nel segmento che l’epistola non riporta («per lo quale merito overo colpa ello gli è atribuita gloria overo punito»), avrebbe deciso idiosincraticamente e in questo solo punto di ripristinare la distinzione — e una distinzione per giunta errata — per come la le leggeva invece nell’accessus a Cangrande. Questa seconda ipotesi impone, come si vede, un vero e proprio arabesco interpretativo, un longus circuitus ben difficile da giustificare nei termini della più elementare economia ermeneutica. L'ipotesi contraria, che dalla semplicità aproblematica del Lana discende alle successive complicazioni di Guido e dell’autore dell’epistola è evidentemente preferibile, e sotto questo rispetto è dunque la storia della tradizione stessa a suggerire in un certo senso una collocazione a valle dell’epistola. incompatibile con l’autografia dantesca.
Se però decidiamo di accettare la distinzione dei due sensi per come sembra proporla l’epistola, e proviamo a svolgerne con coerenza le implicazioni, nuovi problemi non meno gravi dei precedenti finiscono per emergere. In primo luogo, l’allegoria finisce in questo caso per coincidere quasi totalmente con un senso morale: il valore allegorico rimanderebbe in effetti, come si è visto, agli uomini in statu viae, impegnati nella costruzione della propria vita etica, e la Commedia aspirerebbe appunto ad insegnare ad ogni suo lettore «quid agat» . La difficoltà qui non è tanto quella dello scambio, solo parzialmente improprio, tra i due sensi “allegorico” e “morale”, dato che la semantica medievale di «allegoria» è abbastanza vasta da contemplare, accanto all’accezione ristretta che la identifica con il primo dei sovrasensi scritturali, anche l’accezione ampia di significato genericamente «altro» rispetto alla lettera . Rimane, certamente, l’imprecisione di indicare uno specifico sovrasenso “allegorico”, quello morale, con il termine che nella migliore delle ipotesi li designa tutti insieme; ma la sineddoche non costituisce certamente un ostacolo insormontabile.
Tuttavia, il brano riassuntivo di Singleton risulta affascinante e persuasive proprio nella misura in cui non prende in considerazione in modo rigoroso questa distinzione. L'analogia che lo studioso istituisce tra l’allegoresi biblica, esemplata sul modello — sempre tratto dall’epistola, ma non applicato direttamente al poema — del salmo In exitu Israel de Aegypto, e l'allegoria attiva nella Commedia è valida, in effetti, solo se si prende il senso allegorico distinto nell’epistola (§ 25) nella sua accezione propria e ristretta, e non nel suo valore traslato di senso morale, che pure risulta innegabile. Nel conferire plausibilità alla propria lettura del valore allegorico della Commedia per come sarebbe presentato dall’epistola, Singleton trasceglie infatti accuratamente solo l'esempio di interpretazione allegorica del salmo fornito nel § 21 dell’epistola («si ad allegoriam, significatur nobis nostra redemptio facta per Christum»), e trascrive dunque così il primo membro della propria analogia: «[a]nd then just as the event of the Exodus, being wrought by God, can give in turn a meaning, namely, our Redemption through Christ...». A questo punto, con un salto non piccolo dall’allegorico al morale, e dal § 21 al § 25 dell’epistola, Singleton chiude l'analogia paragonando l’evento dell’Esodo all'evento del viaggio dantesco nell’aldilà, e la redenzione dell'umanità in Cristo al viaggio morale dell'uomo sulla terra. Ma se nel salmo— e in Ep. § 21 che lo descrive — è davvero un evento ad essere allegoria in factis di un altro evento (perché l’uscita di Israele dall'Egitto è l’analogo della redenzione dell'umanità, che esce dal peccato tramite Cristo), nella Commedia (secondo Ep. § 25) abbiamo a che fare piuttosto — come si è vista sopra ad abundantiam — con degli stati: letteralmente le anime così come sono dopo la morte, e allegoricamente (dobbiamo pensare per simmetria) le anime così come sono in questa vita. Ma allora il passaggio alla sfera morale, che è appunto essenzialmente una sfera di azioni, è ben più arduo: Singleton finisce sì per farlo apparire naturale, ma più in profondità vi si cela un’indebita transizione dal piano dell’ontologia a quello della deontologia, dall'essere al dover essere, che nel caso dell’allegoria figurale della Sacra Scrittura — che dovrebbe fornire linearmente il paradigma per l’interpretazione in factis della Commedia — è invece assente. Nel caso dell’allegoria che si inarca tra Antico e Nuovo Testamento, in effetti, gli eventi voluti da Dio sono entrambi, congiuntamente, fatti storici e reali. Cristo ci ha redenti nella storia, così come il popolo di Israele è fuggito nella storia dall'Egitto: non si dà insomma, in quel modello, alcun piano prescrittivo che scaturisce indebitamente da un livello meramente descrittivo, ma semmai due piani storici, entrambi in concreto descrittivi — anche se, certamente, il factum evangelico si colloca ad un grado metafisico incomparabilmente più alto rispetto al proprio corrispettivo veterotestamentario .
Singleton, certamente, avrebbe potuto utilizzare piuttosto l'esempio di interpretazione morale fornito dal § 21 dell’epistola («si ad moralem sensum, significatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie», peraltro non troppo dissimile dal valore anagogico enunciato subito oltre) ; ma avrebbe avuto, in questo caso, difficoltà ben maggiori nel giustificare in modo plausibile l'applicazione di un’esegesi allegorica in factis alla Commedia. La via scelta da Singleton, ossia quella di interpretare anche il § 25 dell’epistola alla luce del solo senso allegorico ristretto proposto al § 21, è insomma davvero l’unica praticabile se lo sforzo critico dev'essere quello di salvare contemporaneamente il valore del poema come allegoria in factis (che rivaleggia in autorità con la pagina sacra) e la ben più limitante esegesi allegorico-morale che ne fornisce (nel solo § 25) l'estensore dell'EC. Andrà infatti ricordato a questo punto, con Albert R. Ascoli, il fatto fondamentale che il § 21 dell’epistola, con la distinzione scolastica dei quattro sensi e l’esempio biblico fortemente valorizzato da Singleton, «claims not, as is usually argued, to describe the “mode of signifying” of the Commedia, but rather to exemplify the meaning of the word “polysemous”» . È dunque semmai il solo §25 — con la sua interpretazione morale, “statica” e a tratti (occorre riconoscerlo) semplicemente confusa — a dover fornire agli interpreti moderni il proprium dell'esegesi del poema avanzata dall’estensore dell’epistola; mentre ogni tentativo di mescolarne le idee con la più limpida (ma anche più scolastica) presentazione teorica del § 21 è destinato ad offuscare la nostra comprensione degli sforzi esegetici dell'autore della lettera.
Il § 21 spiega infatti come interpretare allegoricamente la Scrittura, mentre il § 25 chiarisce come interpretare allegoricamente la Commedia, in entrambi i casi secondo la mera opinione dell’estensore dell’EC. È solo se aggiungiamo a questo fatto basilare, e di per sé incontrovertibile, due precomprensioni teoriche — e cioè (i) che l’estensore dell’epistola sia Dante stesso, e (ii) che l’esegesi descritta nel § 21 debba per forza di cose riflettersi nell’esegesi descritta nel § 25 — che possiamo giungere all'idea di Singleton secondo la quale è l’epistola, e solo l’epistola, ad avvalorare la tesi della Commedia come un’allegoria in facts. Se eliminiamo invece per un istante i due pregiudizi, e leggiamo l’EC per quello che effettivamente dice, non possiamo non riconoscere che il modello allegorico invocato nel § 25 per il poema verte al massimo sul secondo dei sensus mystici, quello morale, e non può dunque affatto sorreggere di per sé l’ingombrante castello dell’allegoria dei teologi, che richiederebbe per il suo funzionamento ben altra forza fattivamente allegorica, ben altro supporto teorico, e una formulazione decisamente meno aperta a fraintendimenti e obiezioni. Detto altrimenti, in questa sezione dell’epistola non ci sono affatto elementi probanti che avvalorino l’idea che il suo autore possa aver inteso in senso forte l’allegoria della Commedia come un nuovo esempio di allegoria biblica ; se ne trovano invece alcuni che puntano, in modo significativamente conservatore e forse persino reazionario, nella direzione opposta.
Come si è visto, il dettato dell’EC sembra autorizzare in effetti, da ultimo, solo due interpretazioni: o una goffa conflazione di piano letterale e piano allegorico, del tutto insoddisfacente dato che avrebbe luogo proprio mentre si tenta di distinguere i due livelli: oppure, all’opposto, una decisa torsione del livello allegorico nella direzione di un senso puramente morale. L'«allegoria» descritta nell’epistola, dunque, avrebbe — anche nell'ipotesi più caritatevole — un significato ben lontano dalle vette teoriche dell’allegoria in factis, che pure sembrerebbe da un certo punto di vista l’unico modo adeguato di render conto dell'eccellenza artistica della Commedia, e dell’autocoscienza teorica di Dante stesso .
In effetti, è proprio la riduzione del senso allegorico al mero senso morale che sembra rimandare, per l’epistola, ad un quadro teorico non solo poco dirompente, ma neppure in alcun modo originale . Una volta ammessa, come unica possibile. la lettura morale, il testo dell’epistola ci rimanda infatti incontrovertibilmente ad un quadro di corrispondenza fra i tre regni dell’oltretomba e tre (ipotetiche) condizioni dell’uomo in statu viae. L'EC, in effetti, non si accontenta di presentare un «subiectum totius operis» nella lettera (§ 24) e nell’allegoria (§ 25), ma aspira anche ad applicare il medesimo schema alla sola pars obiata, cioè all'ultima cantica. Qui, nel § 33, l’autore fa dunque riferimento ad un senso letterale contractus, applicabile al solo Paradiso, che identifica con lo «status animarum beatarum», e analogamente istituisce anche un senso allegorico contractus, ossia «homo prout obnoxius est iustitie premiandi». Ora, se prendiamo alla lettera e seriamente il dettato dell’epistola, dovremmo supporre per simmetria che i sensi letterale e allegorico «contratti» si ritrovino anche nel caso dei due regni precedenti, l'inferno e il purgatorio, che pure sono giocoforza assenti dall’esegesi epistolare, limitata al solo Paradiso. Il senso letterale dell'inferno sarebbe dunque, in questo quadro. lo stato delle anime dannate post mortem, mentre il suo valore allegorico non potrebbe che coincidere con l'uomo soggetto, nel suo peccare, alla giustizia che lo punisce (*homo prout deinerendo obnoxius est iustitie puniendi).
Ma che fare allora del purgatorio, con il suo statuto di oltremondo temporaneo, anfibio ed intermedio? L'EC non sembra ammettere vie di mezzo tra il premio e la punizione, e l’espiazione purgatoriale, nella lettera del viaggio ultraterreno, potrebbe in effetti intendersi come descrizione di anime che vengono in un primo tempo punite, ma solo per ricevere, poi, il premio eterno del paradiso. Il valore allegorico terreno, tuttavia, sembra ben più difficile da articolare: ogni singolo atto umano è in effetti, eticamente, buono o malvagio, e come tale dunque costituisce un inerito o un demerito; e anche se esistono atti neutri, sembra molto improbabile che il corrispettivo terreno del purgatorio possa ridursi allo stato — proprio in realtà secondo Dante degli ignavi puniti nell’Antinferno— di chi è «sanza ‘nfamia e sanza lodo». Insomma, l'articolazione simmetrica dell’allegoria “morale” comincia di per sé a vacillare non appena si esca dall’alveo, più sicuro, del Paradiso, e si cerchi di applicarne i principi alle altre cantiche; ma non si può del resto sfuggire alla necessità di questa estensione dell’esegesi, perché è l’epistola stessa a richiedere l'operazione applicando meccanicamente il proprio schema generale (§ 24-25) al caso particolare dell’ultima cantica (§ 33).
Analogamente, difficoltà teoriche inaggirabili emergono anche quando si tenti di applicare il valore allegorico-morale dell’EC a casi più specifici all’interno della Commedia. Nonostante il fatto, di per sé ovvio, che non tutti i passi e gli episodi del poema possono disporre dello stesso quoziente di interpretabilità allegorica , sembra lecito fare questo ragionamento: se il senso letterale dell’intera opera è lo stato delle anime dopo la morte, i casi di anime post mortem descritti nel corso del viaggio dantesco dovranno per forza essere casi pertinenti, allegorizzabili almeno in linea di principio secondo il sistema dell’analogia, e in accordo a quanto suggerisce l’epistola stessa. Insomma, almeno in teoria sarebbe indispensabile riuscire a trovare dei paralleli tra lo stato delle anime nell'aldilà e «qualcosa» — e lascio volutamente indeterminata la definizione del cosa — che avvenga invece in statu vige, e al quale la lettera ultraterrena possa ragionevolmente rimandare . Esistono però casi, e non solo marginali, in cui questo è platealmente impossibile, e il sistema di lettera/allegoria non può che implodere su se stesso: quale sarebbe, in effetti, il senso di versi come «Cotal vantaggio ha questa Tolomea, / che spesse volte l’anima ci cade / innanzi ch'Atropòs mossa le dea» (If. XXXIII 124-126), con le successive spiegazioni di frate Alberigo sul fato suo e di Branca Doria, il cui corpo mortale è retto e animato da un demonio, mentre l’anima peccatrice soffre già le pene dell’inferno? Si potrebbe dire che l’allegoria — ossia, a norma dell’epistola, il rimando al mondo di quaggiù — in questo caso è davvero, e idiosincraticamente, sia in verbis sia in factis, ma è forse più onesto riconoscere semplicemente che in questo contesto non si dà più invece alcuna allegoria: il mondo terreno e il mondo ultraterreno qui davvero si toccano (come si toccheranno, all'estremo opposto della scala della beatitudine, nei versi 37-39 di Pd XXXI: «io che al divino da l'umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano») , senza lasciare alcuno spazio per la distinzione — che pure, non serve ripeterlo. sarebbe imprescindibile a norma dell’epistola — tra lettera e allegoria .
Non sono però soltanto le tensioni interne dell’esegesi a suscitare dubbi circa l'effettivo valore dell’interpretazione della Commedia consegnataci dall’epistola. ma la sua stessa collocazione nel contesto del «secolare commento». Se allarghiamo lo sguardo al contesto dell’esegesi trecentesca, ci accorgiamo infatti di somiglianze teoriche che sembrano allontanare l'EC dallo spazio intangibile di originalità dottrinale che i dantisti hanno provato a ritagliarle. La prima redazione del commento di Pietro Alighieri, per esempio, caratterizza il senso letterale del poema come «de Inferno, Purgatorio, cum Paradiso terrestri e Paradiso coelesti, prout localiter et realiter possunt et debent intelligi» , e prosegue poi identificandone — simmetricamente — un triplice valore allegorico, «nobis viventibus vitiose» per l'inferno, «vel viventibus nobis separatis a vitils, nos de eis purgando» per il purgatorio, «ac nobis sancte et virtuose et perfecte viventibus» per il paradiso . Il concetto è reso ancora più chiaramente. anche se con la consueta maggiore prolissità, dalla terza redazione del commento di Pietro, che indagini recenti ritengono peraltro non d’autore e che appartiene in ogni caso con ogni evidenza ad una fase del secolare commento per così dire più scolastica, e ancora più mediana e moderata, rispetto all’esegesi— già di per sé non innovativa — contenuta nella prima redazione.
Secundario ventamus ad aliam partem dicte rubrice, in qua de descensu Interni mistice auctor se tractaturum dicit, circa quam occurrit de duobus querere: primo ubi sit ipse essentialis Infernus, secundo quomodo ad illum se descendisse dicit, et quia hunus auctoris intentio fuit mistice de Inferno tractare, scilicet de essentiali [(a)] et allegorico [(b)]. [...] [(a)] Infernum essentialem esse sub lunari spera, veritas est ipsum esse in abisso terre cum suis demonibus et spiritibus dampnatis [...] [(b)] Alius vero Infernus in isto mundo allegorice est ipse status malorum, videlicet crucians eos, si bene consideratur, ut quoddam esse infernale. [(a)] Ad Infernum primum predictum essentialem descenditur tribus modis: [(a.1)] veraciter, scilicet dum anima mala a corpore migrans descendit ad eum in eternum debite punienda; item [(a.2)] ficte et fantastice, et hoc modo hic noster auctor dicendus est ad eum descendisse, item [(a.3)] negromantice, quando scilicet quis per colloquia et sacrificia superstitiosa et prophana ad responsa dictorum demonum descendit, ut de Enea Virgilius senibit in vi° predicto sui Eneidos. Secundum unum intellectum. [(b)] ad allegoricum predictum Infernum descenditur duobus modis: uno modo [(b.1)] virtuose, alio [(b.2)] vitiose. [(b.1)] Virtuose quando quis ad cognitionem terrenorum ut ad Infernum quendam contemplative descendit, ut, cognita natura temporalium et eorum mutabilitate et miseriis, spernet ea et creatori deserviat, et ex hoc moti sunt nostri poete ad dicendum ad talem cognitionem, ut ad Infernum quendam descendisse Herculem, Orpheum et Eneam predictum, secundum alium intellectum, ac Theseum et Perithoum et alios quosdam, et inde remeasse ut vutuosos et non attractos fisse a delectationibus mundanis, ac etiam hunc nostrum auctorem, auxiliante Virgilio, supersequenti capitulo. Item et [(b.2)] vitiose ad hunc descenditur Infernum, quando scilicet aliqui descendunt ad dictam cognitionem inefficaciter tamen ut instabiles in proposito bono, et ab eius statu attrahentium, et remanet in eo ut in Inferno quodam, ut de Eurydice, uxore dicti Orphei, et de Castore legitur, de quibus misticis duobus Infernis tacite et expresse voluit tangere Psalmista dicendo: Meniat mors super illos et descendant in Infernum viventes [...] .
Nonostante la sua lunghezza, il brano si presta ad essere schematizzato facilmente. Trattare dell'inferno «mistice» significa infatti, per l'estensore della terza redazione del commento di Pietro , parlare sia dell'inferno «essenziale» [(a)] sia dell’inferno «allegorico» [(b)]. Il primo è l'inferno reale, il luogo dei dannati che si trova «in abisso terre»; il secondo, invece, si trova «in isto mundo» ed è caratterizzato tout court come «ipse status malorum». Come si vede, la vicinanza all’interpretazione allegorico-morale che abbiamo riconosciuto all'opera nell’epistola è concettualmente stringente, anche se non si danno in alcun modo dei paralleli intertestuali precisi, che possano giustificare la dipendenza di un testo dall'altro . Siamo semmai in presenza, mi pare, di un modo culturalmente diffuso (ma non universalmente applicato: se ne discosta per esempio, già in antico, Guido da Pisa) di interpretare la Commedia: un modo, cioè, che riporta immediatamente alla vita etica dell’uomo in itinere quel che Dante narra a proposito dell’aldilà, a prescindere dal valore di verità di quel racconto . E che le cose stiano precisamente così è testimoniato in effetti dal prosieguo del brano, in cui Pietro passa ad analizzare tutte le possibili modalità del descensus ad Infernum. All’inferno allegorico si può giungere [(b.1)] «virtuose» (e così ci è giunto Dante, che ha contemplato i vizi di questo mondo senza viverli — già di per sé una chiara apologia) oppure [(b.2)] «vitiose». Quel che più conta è capire però quali siano le modalità di descensus all'inferno essenziale, perché è questo il piano su cui si gioca il valore della lettera del poema, indispensabile anche per ricavare il possibile significato del suo senso allegorico. Pietro elenca tre di queste modalità: [(a.1)] «veraciter», [(a.2)] «ficte et fantastice», oppure [(a.3)] «negromantice»; ma è solo la maniera fittizia, poetica e fantasiosa descritta in [(a.2)] ad applicarsi, secondo lui, al viaggio infernale del padre («et hoc modo hic noster auctor dicendus est ad eum descendisse») .
Il contesto di queste precisazioni è chiaro: si tratta di indicazioni nella sostanza apologetiche, che mirano a discolpare Dante da ogni accusa di eterodossia che potesse derivargli da affermazioni troppo audaci circa la veridicità della sua visione . Pietro è molto attento a chiarire fin da subito che la discesa all'inferno del padre è avvenuta esclusivamente «ficte et fantastice», e non certo «veraciter», né «negromantice»: un viaggio reale all'inferno, infatti, per il figlio di Dante può significare solo la dannazione, e l'alternativa che Pietro contempla— per poi ovviamente rigettarla — è soltanto quella di praticare «sacrificia superstitiosa et prophana», e discendere così all’oltretomba tramite una sorta di catabasi esoterica. L'idea di una visio e di un viaggio reali, presupposto dell’allegoria in factis e, con essa, di molte interpretazioni moderne del poema, neppure lo sfiora. Le cautele dimostrate dalla terza redazione del commento di Pietro, così come quelle già presenti nella prima e sicuramente autentica versione, derivano insomma tutte, come si vede, da preoccupazioni di ortodossia proprie di una cultura media, in nulla audace : e colpisce dunque straordinariamente che sia proprio una spiegazione morale e in fondo normalizzante come quella di Pietro ad avvicinarsi più di altre (pur tra le ovvie differenze) al dettato — più conciso ma anche più confuso — dell’EC .
Sembra dunque acclarato che sia proprio l’interpretazione allegorico-morale ad essere associata, sul piano storico, ad una riduttiva riconduzione dell'intera esperienza della Commedia ad allegoria in verbis, da intendere nel senso esclusivamente morale che si attribuiva, per tradizione invalsa, alle fabulae e alle «belle menzogne» dei poeti: mentre la dimensione istoriale, veritativa, della lettera del viaggio dantesco viene, in queste esegesi, sistematicamente negata. Ritrovare i chiari segni concettuali di questa linea interpretativa — l'insistenza sull’allegoria come elucidazione di un rapporto vizio/virtù, l’idea implicita di un «inferno dei viventi», l’idiosincratico abbassamento ontologico del senso allegorico rispetto a quello letterale — nell’esegesi dell’EC significa dunque riportarne il contenuto ad una temperie diffusa tra i primi commentatori, che appare oggi quanto meno limitativa rispetto alle analisi contemporanee più avvertite . È molto difficile quindi supporre che un’esegesi tanto riduttiva della Commedia possa provenire dallo stesso autore del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra», che della propria assoluta novitas teorica e concettuale fa invece orgogliosa bandiera . L'interpretazione morale dell’epistola sembra anzi appartenere ad un milieu apologetico e normalizzante che, nella tradizione a noi nota, comincia a emergere soltanto a valle del commento di Guido, e più o meno contestualmente alla prima redazione di quello di Pietro. Ma quand’anche il testo dell’epistola risultasse invece da ascrivere ad una fase anteriore, bisognerebbe concluderne in ogni caso che— almeno per quanto riguarda la valutazione del senso allegorico — il suo contributo esegetico è nella migliore delle ipotesi troppo circoscritto, e nella peggiore decisamente fuorviante: e si tratterebbe allora di un'ulteriore conferma che, anche nel panorama dei commenti alla Commedia, recentiores non sunt deteriores .