Dati bibliografici
Autore: Fabrizio Franceschini
Tratto da: Nuove inchieste sull'"Epistola a Cangrande"
Editore: Pisa University Press, Pisa
Anno: 2020
Pagine: 77-104
Questo contributo presuppone e integra un recente lavoro su Guido da Pisa, l’«Epistola a Cangrande» e i primi “accessus" a Dante, dedicato alla cronologia relativa degli accessus alla Commedia nei più antichi commenti che ne sono dotati . Non ne riprendo dettagliatamente le argomentazioni ma ne riassumo le conclusioni, cui si riallacciano queste nuove riflessioni.
Conviene partire dal commento del bolognese Iacomo della Lana , la cui datazione fu stabilita da Karl Witte e Luigi Rocca in base a elementi interni : il riferimento a Tommaso d'Aquino come «sancto canoneçato», nel proemio a Pd. X. e «quello sancto benedicto», già nell’ultima chiosa all'Inferno, indica che il testo è successivo alla sua canonizzazione (18 luglio 1323), mentre la glossa a If. XX 94-96, che ricorda come vivente Passerino Bonacolsi signore di Mantova, dev'essere anteriore al 16 agosto 1328, data del suo assassinio.
Il prologo anteposto a certi codici del commento dell’Ottimo all’Inferno, iniziante Intendendo di sponere le oscuritadi , corrisponde strettamente al proemio del Lana e anzi ne è praticamente una toscanizzazione, mentre il proemio dell'Ottimo La natura delle cose aromatiche e quello del cosiddetto «amico dell'Ottimo» dipendono pure dal Lana, ma con una autonoma elaborazione .
Il proemio della redazione definitiva del commento di Guido da Pisa, conservata nel ms. di Chantilly, Musée Condé, 597 (1335-40 = Cha), e quello in gran parte corrispondente della redazione, precedente e più povera, del ms. di Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana. Plut. 40 2 datato 1372 (= Laur) , manifestano ampie convergenze col proemio del Lana, e la direzione del prestito è dal bolognese al pisano, per cui il proemio di Laur va considerato posteriore al 1328, se assumiamo convenzionalmente questo come anno di diffusione del commento lanèo .
Il manoscritto già Ginori Conti, ancor prima Poggiali-Vernon e oggi a Ravenna — databile all'ultimo quarto del Trecento e comprendente le più antiche chiose d’autore in volgare, quali un volgarizzamento del commento latino all'Inferno di Graziolo Bambaglioli, le Chiose all'Inferno di lacopo Alighieri e il commento del Lana sino a Pd. X— contiene anche, dopo il testo d’apertura del Bambaglioli, una versione volgare delle chiose di «frate Guido pisano de’ frati del Carmino», sino a If. XXIV compreso (= V) , che corrisponde nel complesso alle chiose guidiane di Laur, ma presenta un proemio e un commento al primo canto meno elaborati e presumibilmente anteriori . Questo proemio, e solo questo proemio nell’esegesi più antica , corrisponde strettamente all’accessus dell’Epistola a Cangrande sia sotto il profilo strutturale, in quanto articolato secondo lo schema dei sex inquirenda e non delle quattuor causae poi affermatosi, sia sotto il profilo testuale, a parte la veste volgare ed errori di lettura o interpretazione ; vi si nota però l’assenza di EC §§ 29, 30 e 31 relativamente al modus loquendi. I contenuti corrispondenti, quando non identici, all'Epistola sono preceduti da, e in parte intrecciati con, sezioni di indiscutibile autorialità guidiana. Il proemio presenta infatti, in apertura, l’identificazione figurale ed etimologica tra la mano inviata da Dio, che secondo il libro di Daniele scrive mane thecel fares (Dn 5, 23-34), e Dante che scrive Inferno Purgatorio Paradiso, con l'implicita corrispondenza tra il ruolo ermeneutico del profeta biblico e quello di Guido: questa fondamentale idea esegetica caratterizza tutte le fasi del commento, sino allo straordinario complesso testuale e iconografico che apre Cha. c. 31r. Inoltre, a tacere di altri aspetti, l'assenza dei §§ 29, 30 e in parte 31 è controbilanciata dalla caratterizzazione tipicamente guidiana dell'autore come colui che ha resuscitato e superato la tradizione classica: questo è un punto chiave di V («la poisia, la quall’è lungho tempo istata morta, la risucitò in questa opera»), della Declaratio volgare di Guido («’l grande doctore / per cu’ vive la morta poesia»: I, 14-15), della relativa autoesegesi («per istum enim poetam resuscitata est mortua poesis»: ed. cit. p. 987) e, con ulteriori sviluppi, dei proemi successivi. Dato che questo proemio di Guido non fruisce dell’accessus laneo, come invece quelli successivi, dev'essere stato scritto prima del 1328 . Proprio il fatto che nei successivi prologhi Guido mantenga, salvo arricchimenti, il nucleo esegetico indiscutibilmente suo, e contamini invece con materiali di provenienza lanéa (vedi sotto) la componente che corrisponde all’Epistola, rende improbabile che quest’ultima spetti a Guido stesso. Va dunque abbandonata l'ipotesi che Guido abbia scritto un «Proto-Accessus», confluito poi nell’Epistola a Cangrande , e si deve invece pensare che V, o meglio il primo proemio latino di Guido alle spalle di V, dipenda da un proemio anonimo, scorporato dall’Epistola o altrimenti prodotto. L’onere di ricercare un autore operante a quest'altezza e diverso da Dante spetterebbe comunque a quanti negano l’autorialità dantesca dell'Epistola non meno che a chi contesta motivatamente l’autorialità guidiana delle parti “epistolari” nei proemi di V, Laure Cha .
Quando Guido, diciamo nel 1328-29. ha potuto conoscere il proemio del Lana, si è misurato con (e in parte ha accolto) eli aspetti che lo differenziano dall’accessus dell’Epistola e che risultano, sotto alcuni profili, corrispondenti a tratti interni al commento laneo : sostituzione dello schema dei sex inquirenda con quello aristotelico delle quattuor causae; triplice articolazione della prima causa (causa materialis o subiectum) secondo la divisione del poema in Inferno, Purgatorio e Paradiso; trattazione del titolo in rapporto con la «segonda cosa» ossia la causa formalis («dalla quale forma ello tolse lo nome overo titolo, çoè Comedia»); triplice suddivisione della causa finalis (con prima finalità quella di «manifestare polida parladura»), cui si collega il genus phylosophie («si è sottoposta a filosofia morale»); infine, esemplificazione dei quattro sensi della Commedia non con l'esempio In exitu Israel de Egipto etc, ma, dopo la presentazione delle quattuor causae, tramite la figura di Minosse . Come ho indicato nel citato contributo, Guido risponde a tali innovazioni del Lana da un lato accogliendole con modifiche e dall’altro potenziando, nel confronto con esse, gli aspetti qualificanti e specifici della propria esegesi . In questa sede, a integrazione di quanto già proposto, intendo mostrare come tale dinamica si sviluppi rispetto al subiectum della Commedia indicato, nel suo duplice senso letterale e allegorico, dall’Epistola a Cangrande.
La definizione del subiectum fornita dall’Epistola è semplicemente riprodotta nel primo proemio guidiano come attestato dal volgarizzamento, salvo la veste linguistica, banalizzazioni o errori; riporto i due testi unendovi il proemio di Laur (con varianti di Cha), depurato dai riflessi del proemio lanéo e da ulteriori spunti di Guido, discussi più sotto:
EC §§ 23-25: Hits visis [...] duplex oportet esse subiectum [...], prout ad litteram accipitur: deinde [...] prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitri libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.
Guido, V: Vedutto questo, breviemente è da vedere quest[e] coss[e] che ssi conte[n]gono in questa Comedia. La prima si è il sugietto di questa opera, in due modi, cioè quello della letera e l'alegoricho. Ma pigliamo pure quello della letera: dicho che ‘l subi[e]to presso ['preso'] sempriciemente [è] lo stato dell’anime dopo la morte, e inperciò che il prociesso de l’autore si rivolce intorno a quello tuta la sua opera. Se fosse presso l’alegori[co], dicho che il subi[e]to è l'uomo, il qual è punito overo remunerato per la giusticia, si com'egli a, per la libertà dello albitrio, meritato overo demeritato .
Guido, Laur: Hiis visis, sex in ista Comedia breviter indagemus: primo subiectum [...]. Circa primum nota quod subiectum huius operis est dupplex, scilicet literale et allegoricum. Si enim accipiatur literaliter, dico quod subiectum huius operis est status animarum post mortem simpliciter sumptus [...], nam de illo et circa illum totius huius operis versatur processus. Si vero subiectum accipiatur allegorice, dico quod subiectum [...] est ipse homo prout merendo vel demerendo pro arbitri libertate [Cha: per arbitri libertatem] iustitie premiandi vel [Cha: et] puniendi obnoxius est .
Il Lana invece, innovando sensibilmente, assimila la prima definizione del soggetto e la seconda, prima con l’espressione un altro modo — resa dall’Ottimo (che cita Lana tramite le espressioni «alcuno chiosatore [...] il ditto chiosatore») con overo — e quindi con l'inserimento di a l’altro mondo .
Lana: La materia overo subiecto della presente overa [...] si é lo stado delle aneme dopo la morte [...]. Un altro modo pò essere considerando la materia overo subiecto d’essa çoè l’omo lo quale per lo libero arbitrio pòe meritare overo peccare; per lo quale merito overo colpa ello gli è attribuido gloria overo punido a l'altro mondo [corsivi aggiunti] .
Ottimo: Fue la materia overo subgetto della presente opera li costumi delli uomini, overo li vitii e lle virtudi; o secondo che alcuno chiosatore dice, lo stato delle anime doppo la corporale morte [...]. Overo il subgetto di questa opera, come dice il ditto chiosatore, è ll’uomo, il quale per libero albitrio puote meritare e puote peccare: per lo merito consegue gloria, per lo peccato pena .
Il primo senso perde così forza e finisce per essere assorbito dal secondo, come Lana esplicita più avanti. l’Ottimo anche qui lo segue e anzi porta a specifico esempio le prime anime dannate incontrate da Dante nel canto V:
Lana: Quando [Dante] fae mentione d'alcuna persona [...] non se dé entendere che quella persona sia perçoe in interno od altroe, perch'è ignoto e secreto ali mondani, ma spirituale se intende che quello vicio ch'è attribuido a colui, overo vertude, per tale modo è purgado overo remunerado per la çustixia di Dio .
Ottimo: Quando fa menzione d'alcuna singulare persona, come [...] Semiramis, [...] Elena, [...] Francesca [...], non si dee intendere che quella persona sia perciò in inferno o altrove in luogo diterminatamente qui posto — però che questo è occulto e segreto alli mondani — ma spiritualmente s’intende che quello vizio ch'é attributo a colui, overo vertù, per tal modo sia punito o purgato o remunerato per la iustizia di Dio .
Insomma Lana e sulle sue orme l'Ottimo negano che Dante abbia davvero incontrato Francesca, e cosi Farinata, Ugolino ecc., e che il soggetto del poema possa avere una duplice interpretazione, letterale e allegorica, essendo solo la seconda accettabile perché lo stato delle anime dopo la morte «è ignoto e secreto a li mondani». Iacomo qui rinvia implicitamente a Tommaso, Sententia Libri Ethicorum, III, 14: «quae pertinent ad praesentem vitam […] nobis sunt nota; ea enim quae pertinent ad statum animarum post mortem non sunt visibilia nobis»; che questa autorità sia per lui fondamentale lo indicano la conclusione dell’Inferno nel suo nome (ultima glossa: «frà Tommaxo [...] quello sancto benedicto») e il fatto che nel complesso del commento l’Aquinate è il secondo autore più citato, dopo Aristotele . In nome dell'autorità di Tommaso viene dunque sacrificata, in definitiva, l’asserzione dell’Epistola (§ 24) che, rinviando implicitamente allo stesso passo con la formula statums animarum post mortem, afferma al contrario che tale soggetto può essere e di fatto è stato trattato, in quanto effettivamente conosciuto, da parte di Dante .
Vediamo ora come Guido, nel proemio di Laur sostanzialmente ripetuto in Cha, fa i conti col Lana. Il primo inquirendum, che in V come nell’Epistola è sempre e semplicemente il subiectum (V: sugietto, subi[e]to), in Laur, Cha — per la sovrapposizione dello schema aristotelico delle quattro cause a quello originario a sei — diviene «subiectum idest causam materialem» nella prima enunciazione, e quindi «subiectum sive materia» («la materia overo subiecto» del Lana) a proposito del soggetto allegorico, ferma restando la predilezione guidiana per il semplice subiectum, variamente ripetuto. Per il resto Guido si mantiene fedele al dettato del suo primo proemio e dell’Epistola, non accogliendo le innovazioni del Lana in altro modo e a l'altro mondo , e invece aggiunge alla fine un’altra asserzione, che evidenzio in corsivo e su cui tornerò:
Laur: Si enim accipiatur literaliter, dico quod subiectum huius operis est status animarum post mortem simpliciter sumptus [...], nam de illo et circa illum totius huius operis versatur processus. Si vero subiectum accipiatur allegorice, dico quod subiectum sive materia est ipse homo prout merendo vel demerendo pro arbitri libertate [Cha: per arbitra libertatem] iustitie premiandi vel [Cha: et] puniendi obnoxius est, propter quod meritum sive culpam tribuitur ipsi homini gloria sive pena. Nam de pena sive gloria ipsi homini attributa nobis narranda sive manifestanda intentio versatur autoris [corsivo aggiunto] .
Accogliendo poi dal Lana la trattazione del quadruplice senso rispetto alla figura di Minosse (vedi oltre, § 3.2), ne riprende le parole finali, con però l’omissione (nel luogo segnalato sotto da ***) della citazione lanéa da Tommaso, che sottolineo in corsivo:
Lana: Quando fae mentione d'alcuna persona [...] non se dé entendere che quella persona sia perçoe in inferno od altroe, perch ‘è ignoto e secreto a li mondani, ma spirituale se intende che quello vicio ch'è attribuido a colui, overo vertude, per tale modo è purgado overo remunerado per la çustixzia di Dio.
Guido: De illis autem personis quas ibi ponit hoc accipe: quod non debemus credere eos ibi esse, ***, sed exemplariter intelligere quod cum ipse tractat de aliquo vitio, ut melius illud vitium intelligamus, aliquem hominem qui multum illo vitio plenus fuerit, in exemplum adducit .
Eliminando l’asserzione tomistica della inconoscibilità dello status animarum post mortem, Guido, se non rifiuta apertamente l'approccio del Lana, lo depotenzia e al contempo, in un luogo precedente di questo proemio, trova il modo di ribadire, in rapporto a un’altra tesi dell’Aquinate, che la Commedia deve essere interpretata in tutti i sensi riscontrabili nelle Sacre Scritture. Tommaso aveva sostenuto che
in nulla sciencia humana industria inventa, proprie loquendo, potest inveniri nisi litteralis sensus, set solum in illa Scriptura cuius Spiritus sanctus est actor, homo vero instrumentum tantum, secundum illud Psalmiste «Lingua mea calamus scribe» (Quaestiones de quolibet VIL qu. 6. art. 3 [16]. resp.)
Guido, per affermare l’inarrivabile eccellenza linguistica di Dante («nullus enim mortalis potest sibi in lingue gloria comparari») e insieme fortificare il tema di apertura del suo primo proemio, ossia Dante come agens e insieme mano inviata dal Cielo secondo il libro di Daniele, richiama proprio il salmo 44 citato da Tommaso, «lingua mea calamus scribe velociter scribentis» e aggiunge che lo stesso Dante «fuit calamus Spiritus Sancti, cum quo calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et gloriam beatorum» (ed. cit. IL p. 1056. e I p. 242). Se lo stato delle anime dopo la morte «è ignoto e secreto a li mondani», come vogliono Tommaso e quindi Lana, è però noto allo Spirito Santo, e un’opera da esso scritta mediante una mano o una penna umana deve essere interpretata, al pari delle scritture bibliche, in tutti e quattro i sensi canonici.
Secondo un giudizio assai diffuso, riecheggiato anche nel presente volume ed espresso nel modo più alto da Bruno Nardi, la definizione del soggetto letterale del poema come status animarum post mortem sarebbe fuorviante e riduttiva. Infatti
il senso letterale di tutto il poema è un altro, e cioè il viaggio, il «fatale andare» di Dante, smarrito, attraverso l'Inferno e il Purgatorio fino alla «selva antica» del Paradiso terrestre, sulle orme d'Enea, sotto la scorta di Virgilio; e quindi l'ascesa attraverso le sfere celesti sulle orme di S. Paolo, sotto la guida di Beatrice .
Nessuno può negare che Dante narri un viaggio, ma è anche vero che nessuno tra i primi commentatori indica nel viaggio il soggetto del poema. Ciò potrebbe spiegarsi, oltre che con l'autorevolezza dell’accessus contenuto in EC, col fatto che tale tema, variamente modulato all’interno della Commedia , non è caratteristico di essa. Le visioni o rappresentazioni dell’aldilà difatti presuppongono o comportano, generalmente, la dislocazione del protagonista in mondi inferi o superi o altri, come mostrano appunto, a tacer di altri testi cristiani o islamici, il «viaggio all’oltretomba del libro VI» dell'Eneide, «la parte più bella dell'intera opera» alla quale «dobbiamo la Commedia dantesca» , e l'ascesa al terzo cielo di s. Paolo, cui la Misio Sancti Pauli, nelle sue plurime versioni, collega un viaggio in Paradiso e all'Inferno, con talora passaggi nel Paradiso Terrestre e in zone analoghe al Purgatorio .
Certo, anche per altre visioni tardo-antiche e medievali si può indicare come soggetto lo stato delle anime dopo la morte, ma c’è, mi sembra, un punto di discrimine molto netto, come mostra la citata Visio Sancti Pauli. Qui, il soggetto in questione è chiaramente indicato al pellegrino dall’angelo che lo guida nel viaggio oltremondano:
ego autem incedebam ducente me angelo [...] et dixit mihi, «veni et sequere me, et ostendam tibi animas iustorum et peccatorum, ut cognoscas qualis locus»;
il viaggiatore incontra dunque, in certi luoghi di salvezza, i profeti e i patriarchi:
et vidi illic Isaiam, et Iheremiam, et Hezechiel, et Amos, et Micheam, et Zachariam, prophetas maiores et minores, et salutaverunt me [...] et vidi illic Abraham, Isaac et Iacob, et Loth et Iob et alios sanctos et salutaverunt me;
giunto però ad altri luoghi di salvezza dei giusti e di punizione dei peccatori, riceve l'indicazione delle virtù o dei vizi da essi praticati e talora anche una loro individuazione socio-culturale, ma l’identità personale delle anime (come invece si fa per profeti e patriarchi) non è rivelata:
vidi thronos aureos, et in ipsos diademas et zonas positas [...]. «Qui sunt qui sessuri sunt super thronos?» Et respondit angelus et dixit mihi, «Hii sunt throni eorum qui bonitatem et innocentiam habent et intellectum cordis [...], nescientes scripturas multas neque psalmos plures [...], qui nihil amplius sciunt [...]; a Deo meruerunt tantum et talem indumentum et tantam gloriam propter innocentiam»;
et vidi alterum [...] quem adducebant cum festinatione currentem quattuor angeli maligni, et dimerserunt eum usque ad ienua in flumine igneo; et lampades igneae percutiebant faciem eius sicut procella; et non permisserunt dicere, «Miserere mei». Et interrogavi, «Qui est hic, domine?» Et respondit angelus et dixit, «Hunc quem vides episcopus fuit, et non consumavit bene episcopatum suum, sed quidem nomen accepit magnum et non est egressus in sanctitate eius qui donavit ei nomen; et in omini vita sua non fecit iudicium iustum, et viduis et pupillis non misertus est. Nunc autem retributum est ci secundum opera sua» .
Si profila così una tipologia degli incontri dei viaggiatori oltremondani: si va dalle varie classi di giusti o peccatori definite solo, rispettivamente, da meriti o colpe, a peccatori tipizzati socialmente — come nella visione di Thurchill, di inizio sec. XIII «il cattivo prete, il cavaliere ingiusto, l’uomo di lesse corrotto, il contadino malvagio, il mugnaio ladro e il mercante imbroglione» — a tipi meglio individuati ma ancora anonimi (il vescovo che «non consumavit bene episcopatum suum, sed quidem nomen accepit magnum») sino, secondo la chiosa lanéa, a persone citate per nome ma poste in un determinato luogo oltremondano solo a simboleggiare «quello vicio ch'è attribuido a colui, overo vertude, per tale modo [...] purgado overo remunerado per la çustixia di Dio». Più oltre c'è una soglia decisiva, e Dante coraggiosamente la supera. La sua Commedia non è una fictio letteraria o un poema allegorico ma narra invece, a livello letterale o storico, la sua effettiva esperienza dello stato delle anime nell'aldilà, o meglio di quelle determinate anime da lui incontrate .
Si tocca così una sfera delicata sotto il profilo non solo teologica ma anche giuridico-amministrativo. Si consideri, sulla scorta di Claudia Villa , la missione compiuta in Italia settentrionale nel 1317-18, su mandato del papa Giovanni XXII, dal francescano Bertrando de Turre (Bertrand de La Tour) e dal domenicano Bernardo Guidonis ossia Gui , il quale in quegli anni attendeva alla sua Practica Inquisitionis heretice pravitatis, conclusa nel 1323 o all’inizio del 1324 . I due inquisitori valicano le Alpi, entrano in Piemonte e si spingeranno a est sino a Venezia e a sud sino a Pisa . Al centro della missione stanno la nomina e il ruolo dei vicari imperiali su cui. «vacante imperio» dopo la morte di Enrico VII, il pontefice rivendica i propri diritti. Da un lato, rafforzando una scelta già operata da Clemente V, Giovanni XXII nomina Roberto d'Angiò «partium Italie Romano subiectarum imperio vicario» (16 luglio 1317) ; dall'altro fa chiedere dai suoi autorevoli rappresentanti che i vicari creati da Enrico rinuncino al titolo e ai connessi poteri giurisdizionali. «Matheus de Vicecomitibus de Mediolano» abbandona la carica di vicario ma ne mantiene i poteri: «Canis de Lascala et Raynaldus dictus Passarinus de Mantua» respingono sdegnosamente le richieste del papa argomentate dai suoi due emissari: il 6 aprile 1318 segue per tutti e tre i vicari imperiali la scomunica . Senza insistere su queste vicende, si può rilevare che, secondo la stessa Practica inquisitionis di Bernard Gui, agli inquisitori era stato conferito il potere di intervenire nell’elezione delle pubbliche cariche («possunt Inquisitores Lombardie eligere officiales et sindicatores»), sollecitare le autorità locali a inasprire la lotta antiereticale («possunt compellere rectores civitatum altorumque locorum in Lombardia ad faciendum [...] observari constitutiones apostolicas et leges imperiales contra hereticos, credentes, fautores et receptatores et defensores editas») e persino «excommunicare laycos disputantes de fide catholica publice vel privatim» . Nella sezione V della Practica inquisitionis, che tratta De sortilegis et divinis et Invocatoribus demonum, tra le più varie pratiche magiche e divinatorie — tutte equiparate agli atti eretici e sottomesse alla giurisdizione inquisitoriale da Giovanni XXII — figura anche la conoscenza dello stato delle anime dopo la morte:
Sortilegus aut divinator aut demonum invocator examinandus interrogetur que et quot sortilegia aut divinationes aut invocationes ipse novit et quibus didicit. Item, descendendo ad particularia [...] poterunt formari interrogatoria de his que secuntur, videlicet quid sciunt aut sciverunt aut fecerunt de pueris seu infantibus fatatis seu defatandis; item de animabus perditis seu dampnatis; [...]; item de statu animarum defunctorum; item de prenuntiatioribus futurorum eventuum [...] .
Senza che qui si possa discutere a fondo la questione. tale semplice cenno basterà a mostrare che negli anni a cavallo del 1320 il tema de statu animarum defunctorum era di drammatica attualità, tanto più a Verona ove erano stati compresenti nel giugno 1317, in un clima di aspre discussioni, l’inquisitore Bernardo Gui, Cangrande e forse Dante .
Possiamo davvero pensare che l’individuazione di un tale soggetto della Commedia sia stato un espediente di qualche «scaltro teologo», rivolto «a sviare l’attenzione del lettore dal senso letterale dell’opera, [...], il viaggio di Dante Alighieri fiorentino» , o che l'intento del «caudatario dell’Epistola» fosse «proprio quello di scagionare il Poeta dalle accuse di eresia che, da diverse parti, gli “invidi” gli avevano mosse»? .
Questo intento difensivo in realtà è individuabile non nell’Epistola, bensì nella riduzione allegorizzante e moralizzante del poema inaugurata dal Lana, consolidata dal gruppo fiorentino che tra il 1334 circa (Ottimo) e 11 1341-43 (Andrea Lancia) commenta «’l nostro poeta Dante Alleghieri fiorentino» e decisamente sancita da Pietro Alighieri, entro il 1340-41 . Del testo «che scrisse l’autore medesimo a messere Cane della Scala» abbiamo all’epoca la sola, benché molto significativa, menzione del Lancia , seguita all’inizio del Quattrocento da quella di Filippo Villani ; i diversi proemi di Guido — conservativi, con compromessi e autonomi spunti esegetici, dell’accessus di EC — sono attestati da una decina scarsa di testimoni. Invece il numero di codici col pro-logo lanéo a noi pervenuti supera i cinquanta , e a essi si aggiungono quelli dell’Ottimo aperti dai proemi Intendendo di sponere le oscuritadi oppure La natura delle cose aromatiche. A partire dall’ampia diffusione di tali testi nei primi centocinquant'anni dopo la morte di Dante, la linea allegorizzante e moralizzante si è imposta a tal punto che lo «stato delle anime dopo la morte», in quanto soggetto letterale ossia storico del poema, è apparso sempre meno credibile.
La formulazione di EC § 25,
si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et pumiendi obnoxius est,
ha suscitato molte obiezioni e discussioni, come anche questo volume documenta. Un'interpretazione oggi assai diffusa è stata formulata da Filippo Villani, che integra cosi il testo dell’Introductorio a Cangrande a lui noto:
si vero ad allegoriam mentis oculos inflectamus, subiectum atque materia erit homo viator prout merendo vel demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi erit obnoxiius .
L'idea che il senso allegorico si riferisca alla giustizia retributiva su questa terra può riposare solo sulla «fiducia nel ritorno sulla terra di Astrea / Giustizia», una «fiducia eccezionale da parte di Dante se confrontata con la sua esperienza» e con le condizioni del secolo, che spesso contraddicono tale aspettativa . Invece Brugnoli — memore delle parole del Nardi («la visione dello stato delle anime dopo la morte. secondo la lettera, e la giustizia divina nel punire e premiare le opere dell’uomo, secondo il senso allegorico») — traduce, integrando un aggettivo assente nel testo, «l’uomo [...] ha conseguito premi o punizioni da parte della giustizia divina» (corsivo aggiunto) . Per sua parte, e con orientamento favorevole all’autenticità di EC, Pastore Stocchi scrive «per arbitrii libertatem: esercitando il libero arbitrio che lo rende responsabile dinanzi al divino giudizio» . Infine Bellomo, discutendo la diffusa convinzione che «dei tre sensi allegorici» ricordati in EC § 20-21 qui «si attribuirebbe al poema il solo senso morale» , vi intravede «anche il senso anagogico [...] il quale è riferito al destino ultimo dell’uomo, sta individuale, sia collettivo, costituito dal riferimento al premio o al castigo impartiti dalla giustizia divina» . Forse perché la definizione da cui siamo partiti appariva «compendiosa» già ai lettori antichi, e certo perché non corrisponde all’interpretazione a quattro livelli di In exitu Israel de Egipto (EC § 21). Lana e quindi Guido hanno affiancato alla definizione di EC § 25 — ripetuta dal pisano e invece modificata come si è visto dal bolognese — un nuovo esempio di interpretazione a quattro livelli, stavolta in riferimento diretto al testo della Commedia :
Lana: lo primo senso si è lo litterale [...], si como quando elli pone Minos in lo inferno per uno demonio zudicadore delle aneme. Lo segondo senso si é alegorico [...] come ad i[nter]petrare lo ditto Minos la zustixia, la quale zudica le aneme secondo sua condicion. Lo terço senso si è ditto tropologico, zoè morale, per lo quale s‘interpetra lo dito Minos si como uno re che fo in Crede, fo zusto e vertudioxo, [...] che si moralmente se pone uno zudixe in inferno, lo qual decerne per la condicione de l'anema lo logo e la pena che se gli avene. Lo quarto senso si è dito senso anagogico, per lo quale s’interpetra spirtualmente li exempli et comparacioni della dicta Comedia .
Guido (Laur, Cha): ad licteram [...] accipimus Minoem iudicem et assessorem Inferni, qui diiudicat animas descendentes. Secundus intellectus est allegoricus, per quem intelligo quod lictera sive hystoria unum significat in cortice et aliud in medulla, et secundum istum intellectum allegoricum Minoes tenet figuram divine iustitie. Tertius intellectus est tropologicus sive moralis, [...] et secundum istum intellectum Minos tenet fieuram rationis humane, que debet regere totum hominem, sive remorsus conscientie, qui debet malefacta corrigere. Quartus vero et ultimus intellectus est anagogicus, [...] et secundum istum intellectum Minos tenet figuram spei, qua mediante penam pro peccatis et gloriam pro virtutibus sperare debemus .
Riformulando così l'esempio del Lana, Guido tiene ben distinti i sensi letterale e allegorico, definisce il senso morale in rapporto non a «lo dito Minos» ma alla dimensione umana («tenet fisruram rationis humane») e offre una specifica illustrazione del senso anagogico. Su questa base, come sembra suggerire l’esegeta pisano, si può riarticolare su quattro livelli la dichiarazione «compendiosa» di EC § 25, ove il termine allegorice comprende tutti i sensi «a litterali sive historiali diversi» (§ 22):
- la lettera o realtà storica del poema è l’esperienza, veramente fatta da Dante, dello stato delle anime dopo la morte (o meglio di quelle da lui incontrate);
- questo senso letterale rinvia, rendendolo accessibile, al senso più generale e profondo, cioè la «iustitia premiandi et puniendi» o «divina iustitia» , intesa come sistema astratto, stabilito da Dio, dei peccati e delle pene, dei meriti e delle ricompense;
- tale sistema si proietta sul mondo degli uomini, cui si riferisce in senso morale questo poema teso a «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (EC § 39) e composto appunto «non ad speculandum sed ad opus» (EC § 40); tuttavia la scelta di una direzione o dell'altra dipende dall'uomo che agisce in base al libero arbitrio («merendo et demerendo per arbitri libertatem»); la missione assegnata a Dante, «viro predicante iustitiam» (Ep. XII § 3) , è quella di diffondere la consapevolezza del sistema della giustizia divina e quindi, nei termini di Guido, il meccanismo della ragione e del rimorso. Per questo — come Guido aggiunge dopo «iustitie premiandi et puniendi obnoxius est» — «de pena sive gloria ipsi homini attributa nobis narranda sive manifestanda intentio versatur autoris» ;
- il senso anagogico, secondo Guido (o modernamente Bellomo), è quello dell’aspettativa (spes) circa il destino ultimo dell’uomo, in riferimento al premio o al castigo impartiti dalla giustizia divina.
L'interpretazione ora proposta nasce da una riflessione sulle mosse esegetiche originali di Iacomo della Lana e Guido da Pisa, che rivestono un loro significato a prescindere dalla paternità dantesca o meno dell’accessus a loro noto. Il termine “mosse” vuol proprio alludere a una sorta di partita a scacchi tra i primi interpreti di Dante, dove Guido può anche sacrificare qualche pezzo, ripetendo nelle ultime righe del suo accessus la tesi del Lana («quod non debemus credere» ecc.), per salvaguardare e potenziare, oltre e contro certe posizioni tomistiche, le sue basilari idee sull’Alighieri come mano di Dio o calamo dello Spirito Santo e sulla sua Commedia come opera di valenza biblica.
L'interpretazione del valore profetico e agonistico della Commedia propugnata dal Nardi, e da me pienamente condivisa, si oppone giustamente alla riduzione allegorizzante e moralizzante del poema, di cui si è detto, ma non mi pare in contrasto con l'indicazione dello status animarum post mortem quale suo soggetto, dato che proprio la conoscenza di questo stato ne costituisce la base. Si ricordi la considerazione generale di Jerome Baschet, che solo alla fine porta su Dante:
L'altro mondo è il luogo della verità sull'uomo. In terra il bene e il male st mescolano; lo scellerato trionfa mentre il giusto soffre. Nell'aldilà, invece, la giustizia divina separa il bene dal male, ricompensa la virtù e castiga il vizio. Il mondo dei vivi è intessuto di apparenze ingannevoli, mentre nel mondo dei morti si rivela la vera natura degli esseri e delle azioni. È per questo motivo che Dante, volendo parlare del mondo degli uomini, ha descritto l'aldilà .
Ancor più significative, per la nostra argomentazione, le parole di un grande interprete di Dante quale Erich Auerbach:
L'unità del poema [...] riposa sull'argomento complessivo [die Einheit des Gedichts [...] beruht auf dem Gesamtgegenstand]: lo status animarum post mortem. Esso deve, come giudizio finale di Dio, costituire un'unità perfettamente ordinata, tanto come sistema teoretico quanto come realtà pratica, e dunque anche come creazione estetica; deve rappresentare in una forma più pura e più attuale l'unità dell’ordine divino che il mondo terrestre o quanto in questo accade [...]: la comunità dei beati nella candida rosa dell’Empireo è nello stesso tempo anche il termine della storia della salvazione, secondo il quale si dispongono tutte le teorie storico-politiche e si debbono giudicare tutti i fatti storico-politici .
Allo stesso modo. per fare un altro esempio, l'ordinamento dell’Inferno secondo la gravità dei peccati e delle pene, che indica quali peccatori massimi i traditori e colloca i tre peggiori in assoluto, traditori di Cristo e di Cesare, nel più profondo dell’abisso e nelle fauci di Satana, è esso stesso un riferimento divino in base al quale si debbono disporre «tutte le teorie storico-politiche e si debbono giudicare tutti i fatti storico-politici».
Si consideri ora una rappresentazione pittorica datata tra 11 1336 e il 1340-41 , coeva quindi alla redazione finale del commento di Guido (1335-1340) e legata a esso sotto i profili storico-artistico e testuale, ossia il Giudizio universale-Inferno del Camposanto di Pisa oggi attributo, come gli affreschi connessi, a Buonamico Buffalmacco, ma a lungo assegnato allo stesso Francesco Traini che dipinge la contigua Crocifissione (1330-1335) e illustra il codice guidiano di Chantilly . Le più rilevanti novità iconografiche di quest'affresco, dalla «innovativa espansione dell'Inferno rispetto ai Giudizi tradizionali», alla «raffigurazione di Satana tricefalo», alle «pene infernali ora distribuite per “bolge” e precisamente descritte», si debbono certo alla «suggestione è del poema dantesco» , da cui provengono (anche col complemento di glosse guidiane) citazioni ancor più puntuali sul piano sia iconografico che testuale . Se sotto questi profili già il Vasari poté ravvedervi l’«Inferno secondo che è descritto da Dante» , il sistema dei peccati e delle pene raffigurato nell’affresco pisano è ben diverso. Nel dipinto, attorno al gigantesco Lucifero, sono disposti tre ordini suddivisi ciascuno in due comparti, ove sono puniti sei peccati capitali: nell'ordine inferiore, a destra la lussuria (che include i sodomiti) e a sinistra l’avarizia; nell'ordine intermedio a destra la gola e a sinistra l'ira (con due appiccati micidiali di loro medesimi), nel terzo ordine verso l'alto a destra l'invidia e a sinistra l'accidia. Sopra alla testa di Lucifero, in una galleria più elevata, è punita la superbia in quanto, secondo un epigramma posto probabilmente sotto l’affresco e ispirato alle parole di s. Gregorio, e quindi del domenicano Bartolomeo di San Concordio. «Superbia d’ogni male è la radice / come sancta Scriptura dice / et ha con seco sei crudel sorelle» . Baschet dubita che i peccatori di quest'ordine siano associabili alla superbia e parla piuttosto di «registro consacrato ai nemici della Chiesa» , ma la sostanza è la stessa. Qui per superbia si intende appunto una sfida contro Dio, i suoi veri profeti e la sua Chiesa cattolica, secondo le parole di Tommaso «ad superbiam enim pertinet cuicumque superiori nolle subiici, et precipue nolle subdi Deo» .
In tale prospettiva, propuenata da Giovanni XXII e riflessa nella Practica inquisitionis di Bernardo Gui, indovini e machi sono qui riuniti con eretici, simoniaci, scomunicati, apostati e seminatori di discordie . A prescindere da altri dettagli discussi altrove, qui alcuni dannati sono indicati per nome, e anche questo rinvia forse al modello dantesco. Nella parte sinistra abbiamo un'indovina con gli occhi coperti dalle spire di un serpente — come contrappasso per aver voluto antivedere con occhi umani il futuro stabilito dalla Provvidenza divina — e con un vessillo su cui si lesse Ericon indovina et suoi seguaci, endecasillabo che riecheggia If. IX 128 e presenta Ericon per Eriton (Erittone) come l'Inferno di Chantilly a IX 23. Accanto a lei, a ulteriore conferma del rapporto tra divinazione, eresia e disseminazione di discordie, sta un dannato che in una mano regge la sua testa mozza, come il Bertram dal Bormio di If. XXVIII 118-142, e nell'altra inalbera un vessillo indicante Ariano heretico et ogni autro (vedi If. IX 127-128 e «Arrius princeps Arrianorum» nella relativa glossa di Guido) . Nel quadrante destro, in posizione centrale e in primo piano spiccano, quali peccatori massimi. tre dannati: uno, disteso da sinistra a destra, porta in testa una tiara ed è indicato come Anticristo da una la scritta che esce dalla sua bocca; contrapposto a lui sta un dannato con barba e turbante, sopra alla cui testa si legge Macometto; in piedi tra i due, un terzo dannato è orrendamente mutilato da un diavolo con una scimitarra — al pari di Ali e degli scismatici di If. XXVIII 32-40 — e una didascalia d'impronta guidiana dice che Questi amaestrò Macometto, mentre un'altra lo indica come Nicola[o], nome spesso attribuito appunto al maestro di Maometto . D'altra parte, secondo una proposta di Joseph Polzer da me corretta e sviluppata, ad altro livello storico-attuale le tre figure rappresentano nemici della chiesa di più fresca memoria. La tiara portata da Anticristo è analoga a quella di Enrico VII nel monumento funebre erettogli a Pisa da Tino di Camaino (1313-1315) e suggerisce quindi un’identificazione del dannato col successivo Rex Romanorum Ludovico I Wittelsbach, rifiutato dal papa quale imperatore e bollato come Antichristus mystichus. Allo stesso modo il turbante e la barba di Macometto richiamano gli analoghi attributi di Averroè nel Trionfo di san Tommaso — dipinto nella chiesa pisana di Santa Caterina attorno al 1323, anno di canonizzazione dell’Aquinate — e per questo tramite sono evocati i filosofi Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun, legati a Ludovico e in odore di averroismo. Infine il nome di Nicolao assegnato al dannato fatto a pezzi dai diavoli richiama Niccolò V ossia Pietro da Corvara, eletto nuovo papa grazie a Ludovico, in opposizione a Giovanni XXII . L'affresco. voluto e ispirato dall'arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli e dai domenicani pisani, tra i quali anzitutto Domenico Cavalca, esprime così «il desiderio di far dimenticare, da parte dei pisani, la benevolenza di un tempo verso l’antipapa» e il Bavaro . Nella complessiva differenza di struttura rispetto all'ordinamento infernale della Commedia, la scelta di questi peccatori massimi è proprio opposta a quella dantesca di Giuda, Bruto e Cassio, legata a quei principi della Monarchia che proprio Ludovico e i suoi intellettuali ripresero per fortificarsi contro il papa di Avignone, tanto che nella successiva reazione il cardinal legato Bertrando del Poggetto, secondo il Boccaccio, condannò al rogo il trattato e con esso i resti mortali del suo autore.
Per contrastare le idee radicali della Commedia — piuttosto che decretarne la condanna o limitarne la lettura, secondo i dettami del capitolo domenicano di Firenze (1335) — gli auctores intellectuales degli affreschi, e per sua parte il pittore, ne accolgono aspetti significativi e fortemente icastici, insieme con spunti esegetici del carmelitano Guido da Pisa, ma sempre al fine di rafforzare, con questi stessi inserti, l’ortodossa visione tomistica. Allo stesso modo. l’aspra lotta politica e culturale scatenatasi con la venuta del Bavaro viene chiusa con una simbolica collocazione all'Inferno di Ludovico, dei suoi filosofi averroisti e del suo antipapa francescano, senza contraddire con ciò l’asserita inconoscibilità dello stato delle anime dopo la morte poiché, anche qui, si tratta di persone non destinate con sicurezza all'Inferno , ma assunte a simboleggiare il peggiore dei peccati: lo scisma della Chiesa e la messa in discussione dell’autorità del papa e del clero anche sulle cose del mondo.
Se consideriamo il poema di Dante una fictio e/o le anime da lui incontrate nel viaggio ultraterreno dei simboli, e non individui reali dannati, purganti o beati, l'Inferno di Dante e quello del Camposanto di Pisa sono “solo” due costruzioni artistiche, beninteso di altissimo valore. Ma in base a cosa potremmo dire che il sistema astratto presentato da Dante, con una forte originalità rispetto alle visioni teologiche e religiose dell’epoca. è più vero o più valido di quello proposto dall’Inferno del Camposanto? La risposta è che gli ispiratori di questi affreschi, i domenicani Simone Saltarelli (fratello del dantesco Lapo) e Domenico Cavalca, presentano un sistema astratto della giustizia divina basato sulla patristica, sui documenti di Giovanni XXII e sulla pubblicistica guelfa. Invece il sistema astratto e i paradigmi di comportamento morale rivelati all'umanità dalla Commedia — ci dice l’accessus contenuto nell’Epistola a Cangrande, coi complementi esegetici di Guido — si basa sulla reale conoscenza dello stato delle anime dopo la morte acquisita da Dante , che riceve contestualmente, e assolve col suo poema, la missione di narrare o manifestare a noi la pena sive gloria ipsi homini attributa .