Dati bibliografici
Autore: Saverio Bellomo
Tratto da: Dizionario dei commentatori danteschi. L'esegesi della "Commedia" da Iacopo Alighieri a Nidobeato
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 2004
Pagine: 26-44
Il Boccaccio così individuava il compito del commentatore del poema: «spiegare l’artificioso testo, la moltitudine delle storie e la sublimità de’ sensi nascosi sotto il poetico velo». Proprio in questi tre elementi Dante aveva posto tutte le cure per evitare una immediata — si intenda ‘senza mediazione’ — comunicabilità: non è qui il caso di indagare a fondo i motivi, poiché l'argomento porterebbe troppo lontano, ma solo, per ora, di verificare l'affermazione.
«L'artificioso testo», tradotto in termini moderni, non è che il linguaggio poetico con il suo ben noto scarto rispetto alla lingua non solo parlata, ma anche prosastica: che Dante abbia posto i suoi sforzi alla nobilitazione e caratterizzazione di tale linguaggio a tutti i livelli, lessicali, morfologici, sintattici, retorici è fatto ben noto al lettore del De vulgari eloquentia. Del resto potrebbe trovarsi conferma in una esplicita ammissione del poeta, che ha tutta l’aria di essere autentica, udita dalla sua viva voce dall’autore dell’Ottimo commento: «Io scrittore udii dire a Dante, che mai rima nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento; ma ch’elli molte e spesse volte facea li vocaboli dire nelle sue rime altro che quello ch’erano appo gli altri dicitori usati di sprimere».
«La moltitudine delle storie», di cui parla Boccaccio, potrebbe essere tradotta in termini linguistici con ‘enciclopedia’, cioè quell'insieme di nozioni che il lettore deve condividere con l’autore per la comprensione del testo. È stato notato con finezza da Giovanni Nencioni, che Dante rappresenta la propria esperienza senza curarsi della sua comunicabilità al lettore, nel senso che egli può riferirsi a personaggi, a luoghi o a avvenimenti, non solo noti a pochi, ma a pochissimi o talvolta a lui solo, con la stessa alludibilità con cui si parla di cose notissime. Basti pensare a Attila o Sesto Pompeo accanto a Rinier da Corneto e Rinier Pazzo; Pier della Vigna e l’innominato che fece giubbetto a sé delle sue case; oppure all’arzanà dei Veneziani, alla pina di S. Pietro o a Ponte Vecchio, accanto agli Slavini di Marco, «la ruina che nel fianco di là da Trento l’Adice percosse». Un simile atteggiamento non può che essere interpretato, tra l’altro, che come una richiesta di un commento a cui è delegato implicitamente il compito di acclarare ciò che non è parte dell’essenziale baricentrico della poesia.
Da questo punto di vista i commentatori antichi sono insostituibili. Da loro proviene la quasi totalità delle informazioni su fatti, luoghi e personaggi ricordati nella Comedia. L’esegesi posteriore ha infatti aggiunto pochissimo. Senza di loro non sapremmo neppure il cognome di Beatrice e magari dubiteremmo, come si è fatto, fin della sua esistenza.
Il terzo e ultimo compito che assegna Boccaccio al commento è quello di spiegare «la subilmità dei sensi nascosi», che corrisponde, come è chiaro, all’allegoria che il poeta stesso esplicitamente induce ad indagare:
O voi che avete li ’ntelletti sani,
mirate alla dottrina che s’asconde
sotto ’l velame delli versi strani.
(Inf. IX 61-63)
Insomma il testo è aperto e va in qualche modo completato. Dante è assolutamente consapevole della necessità di un commento per la lettura del suo poema e l’Epistola a Cangrande ne è la prova più chiara. Questa consapevolezza sta a indicare anche qualcosa d’altro: che il commento non solo è utile per la lettura della Commedia, ma è da questa postulato. Cioè a dire che il commento è previsto da Dante già a livello dell’ispirazione e che il poema nasce con questo presupposto. In questo gioca un ruolo decisivo il modello del libro per eccellenza, cioè la Bibbia, che nel Medioevo non è concepibile senza la glossa.
Per quanto ben nota ai primi commentatori che la utilizzarono ampiamente, l’Epistola a Cangrande, la quale diceva a chiare lettere che il settore filosofico in cui andava inserita la Comedia era il «morale negotium» e il suo fine era «non ad speculandum sed ad opus», non fu in grado di evitare che la Commedia venisse recepita prima di tutto come opera didattica e scientifica, come summa di tutto il sapere. Già l’epitafio di Giovanni del Virgilio descriveva Dante come il filosofo a cui nulla è ignoto («nullius dogmatis expers, / quod foveat claro phylosophya sinu») e Iacopo Alighieri, un anno dopo la morte del padre, iniziava così le sue Chiose:
Acciò che del frutto universale novellamente dato al mondo per lo illustro filosofo e poeta Dante Allighier fiorentino con più agevolezza si possa gustare per coloro il cui lume alquanto risplende sanza scientifica apprensione, io Iacopo suo figliolo per material prosa dimostrare intendo [...] in quattro stili ogni autentico parlare si conchiude: de’ quali il primo ‘tragidia’ è chiamato [...]; il secondo ‘commedia’, sotto il quale generalmente e universalmente si tratta di tutte le cose, e quindi il titol del presente volume procede.
E così, a distanza di pochissimo tempo, il bolognese Graziolo de’ Bambaglioli:
Etsi celestis et increati principis investigabilis providentia mortales quam plurimos prudencia et virtute beaverit, profunde tamen et inclite sapientie virum, philosophye verum alumpnum et poetam excelsum, Dantem Alagherii, Florentinum civem et huius mirandi singularis et sapientissimi operis autorem, interiorum bonorum ac scientiarum quasi omnium felicitate preclarum in populis et urbibus orbis terre, tam utili quam probabili ratione perfecit, ut omnis superiorum et inferiorum sciencia in hoc notorio athleta prudentie difusius aggregata per eum, tanquam per sublimis sapientie testem, humanis desideriis mostraretur [...]. Ex quibus lucido documento mostratur auctorem prefatum non una dumtaxat sciencia vel virtute, sed sacre theologie, astrologie, moralis et naturalis philosophye, rectorice ac poetice cognitionis fuisse peritum.
Si noti l'insistenza sulla sapienza di Dante e come il figlio identifichi la materia dell’opera in tutto lo scibile umano. La posizione critica non è indebita, perché effettivamente dobbiamo riconoscere che alla costituzione della Commedia non è affatto estranea l’aspirazione tipicamente medioevale all’enciclopedismo, che si manifesta in particolare nelle molteplici e compiaciute tratta- zioni dottrinali su temi diversi: dalle macchie lunari, alla generazione dell’uomo, al libero arbitrio, all'essenza del voto. Poi facevano aggio a tale interpretazione i modelli cui si poteva, pur con non poche difficoltà e distinzioni, ricondurre la Commedia, vale a dire i poemi medio latini didascalici e allegorici: si pensi all’Anticlaudiano di Alano da Lilla, non per caso tenuto ben presente da Pietro Alighieri, di più raffinata cultura del fratello. L’altro modello di riferimento, ineludibile perché indicato da Dante fin dall’inizio con la scelta di Virgilio, «il savio gentil, che tutto seppe», in qualità di guida, è l’Eneide, che, grazie all'industria ermeneutica dei suoi commentatori, schiudeva anch'essa le porte di un sapere universale.
Ma accanto alla profusione di superlativi a descrivere la quantità e profondità di contenuti filosofici, compare anche, da subito, pur in gradi molto diversi, che vanno dalla perplessità fino alla vera e propria disapprovazione, lo sconcerto per la scelta linguistica con la connessa scelta di genere, la quale programmaticamente definisce l’opera fin dal titolo. Per questo gli esegeti antichi accompagnarono quest’ultimo con un aggettivo che riqualificasse il poema sul piano dello stile: ne venne fuori quel vero e proprio ossimoro che è «alta Comedìa», inaugurato proprio da Iacopo, il quale emblematicamente utilizzò l'aggettivo destinato dal padre alla tragedìa di Virgilio. Non vale la pena di illustrare qui, perché sono cose anche troppo note, come il dissenso nei confronti della scelta del volgare fu direttamente proporzionale allo sviluppo della cultura umanistica, la quale — sarà bene notarlo — già cominciava ad affermarsi Dante vivente. In questa prospettiva va letto il carme inviato a Dante da quello stesso Giovanni del Virgilio che di lì a poco stenderà l’epitaffio riferito sopra, laudativo per necessità di genere, ma che non rinuncia ad accennare all’anomalia di questo autore, che, per quanto grande filosofo, fu nondimeno «vulgo gratissimus».
Lo stridente contrasto tra altezza di contenuto e bassezza della forma richiamò anche alla mente un altro modello, anzi il modello per eccellenza: la Bibbia. Qui la parola di Dio si fa sermo humilis perché è rivolta a tutti gli uomini. Non ci stupisce allora constatare che Boccaccio usi, per definire la Commedia, un'espressione che s. Gregorio aveva riferito alla Bibbia: «fiume piano e profondo, nel quale l’agnello puote andare e il leofante notare». Se questa espressione, dal punto di vista del primo allievo di Petrarca, era volta a giustificare prima di tutto la possibilità di fruizione di un’opera in volgare da parte dell’élite degli intellettuali, d’altra parte riconosceva anche le potenzialità pedagogiche e didascaliche dell’opera per quel pubblico borghese che non conosceva il latino, «nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati» (Conv., I ix 5).
Di fronte a tali potenzialità non poteva restare indifferente la cultura laica universitaria, che in effetti accolse il poema prestissimo (prima del 1328) con il primo commento esteso alle tre cantiche, in volgare, del bolognese Iacopo della Lana, «licentiatus in artibus et theologia». Di questa accoglienza però la Commedia pagò uno scotto: il testo in sé perse la centralità che gli era dovuta e divenne in parte il “pretesto” per sviluppare autonome trattazioni sui temi più vari. Era la consacrazione del poeta come auctor e del suo testo come autorevole punto di partenza per una lectio universitaria che attualizzasse tutte le potenzialità della parola poetica, sia intenzionali, sia preterintenzionali, purché contribuissero all’acclaramento della verità. In tal modo la poesia, grazie alle sue peculiarità espressive di concisione e memorabilità, veniva ad assumere quasi la funzione di supporto mnemotecnico per i contenuti del commento. È questo un processo tipico del medioevo, derivante dalle modalità di lettura dei testi che, come è noto, non prescinde mai dal commento. Francesco Mazzoni, nel tentativo di disegnare un percorso storico della prima critica dantesca, ha ritenuto di ravvisare nell’opera di Iacopo della Lana, appunto per questo, un momento di «crisi nell’interpretazione della Commedia», come fin dal titolo recita un suo importante saggio. E visto che da allora l’affermazione è passata in giudicato, e solo ribadita dallo stesso critico nella “voce” dell’Enciclopedia dantesca, pare opportuno, a distanza di quasi quarant'anni, sottoporla nuovamente a un vaglio critico, prendendo in esame partitamente le due accuse sulle quali si fonda questa vera e propria stroncatura. Vale a dire, l'una, la frammentarietà del commento che si disnoda «in lezioni e questioni autonome, preso com'è nell'atmosfera di una enciclopedia didascalica o di una Summa dottrinale» perdendo di vista il dettato dantesco; l’altra, l'utilizzo di un allegorismo, genericizzante secondo cui Dante personaggio rappresenterebbe l'umana specie, Virgilio la ragione, Beatrice la teologia.
Alla prima accusassi può obiettare che, se di crisi si tratta, dovremmo considerarla crisi di durata tanto lunga, quanto perdurò la sua fortuna, che fu il primo e unico commento dantesco a raggiungere i torchi di stampa, prima di quello di Landino. Se verso la metà del ’300 il giurista Alberico da Rosciate lo rinverdì traducendolo in latino e parzialmente rielaborandolo, ciò sta a indicare che la Commedia resta fonte di sapere scientifico ben oltre la metà del secolo XIV anche in ambiti culturali elevati, fino a quando cioè entra in crisi il sapere enciclopedico medioevale lasciando il posto a una più proficua specializzazione delle scienze. L'opzione linguistica di Lana presuppone in effetti un pubblico di non elevata cultura e, per meglio dire, analogo a quello, ignaro del latino, a cui si rivolgeva Dante nel Convivio. Ad esso il chiosatore doveva fornire con ampiezza, e con modalità che oggi si potrebbero definire ipertestuali, l'enciclopedia delle nozioni utili alla comprensione del testo. Se «l’acutissimo Bambaglioli» (Mazzoni, p. 294) non si disperde nelle autonome trattazioni e questioni, dipende dal fatto che le sue chiose sono essenziali e si limitano quasi esclusivamente all’interpretazione letterale, cosa che in Lana non manca, e anzi è anche più sviluppata.
Quanto alla seconda accusa di Mazzoni, quella relativa all’interpretazione allegorica, è opportuno chiarire subito che il punto di partenza della disamina è una ben precisa linea interpretativa della Commedia che, benché sia fondata su testi danteschi (Monarchia e Epistola a Cangrande) e per molti aspetti possa essere condivisibile, non consente un giudizio articolato, ma solo la verifica se l’interpretazione dell’antico commentatore si adegua o non si adegua ad essa. Sennonché questa non è l’unica possibile. Che Dante possa rappresentare l’umana specie, e dunque il suo viaggio configurarsi come un percorso di purificazione, che dovrebbe compiere tutta l’umanità, dai vizi i quali le impediscono il raggiungimento della felicità primigenia, è pur sempre una interpretazione accettabile, e accettata in tempi recenti da dantisti del peso di Singleton. Ma anche a volervi leggere una sostanziale debolezza, non si potrà negare che l’esperienza del personaggio Dante, in quanto esemplare, dilata la sua valenza dal singolo uomo alla categoria, giustificando l’attribuzione del sovrasenso allegorico indicato da Lana, imputabile semmai di schematicità semplificatoria, ma non di ottusità. Del pari schematica può essere giudicata anche l’interpretazione di Beatrice come scienza teologica, ma non del tutto fuori luogo, se a lei pertengono i misteri della verità rivelata.
Se Lana non attribuisce alcuna storica realtà a Beatrice, tanto che la sua presenza nella candida rosa viene ritenuto un espediente di Dante «per ornare la sua poetria», ciò dipende dal fatto che non conosce la Vita nova. Né, se anche la conoscesse, potrebbe, da lettore medievale attento al principio retorico della convenientia, riconoscere a cuor leggero, nella stessa donna che fu oggetto della poesia lirica amorosa, l’alta funzione che l’Alighieri, sovvertendo le regole, le aveva riservato. Bambaglioli, portato a esempio di correttezza e collocato da Mazzoni sulla traccia del genuino pensiero dantesco, ancora una volta si guadagna la lode per reticenza, più che per competenza, e perché non giunge a commentare il canto XXX del Purgatorio. A suo merito va detto che egli conosce l'identità storica di Beatrice, ma ciò non gli impedisce di attribuirle un senso allegorico, contrariamente a quanto si afferma (p. 279), perché infatti per lui rappresenta la virtù. Ecco come chiosa i versi 76-78 del secondo canto:
[O donna di virtù, sola per cui / l’umana specie eccede ogni contento / di quel ciel c'ha minor li cerchi sui] ‘o domina virtutis’, hoc est o summa virtus, ‘per quam scilicet solam virtutem humana species extollitur [...]. Et hoc est verum, quia per solas virtutes et operationes bonas homo Deo coniungitur.
Dove è chiaro che la nozione bonaventuriana dell’analogia entis, per la quale dalla creatura si conosce il creatore, qui non c'entra affatto.
Perché il testo dischiuda tutte le sue potenzialità, l'interprete deve sapere penetrare «sotto ’l velame» della lettera, scoprire cioè l’allegoria: esplicita raccomandazione dantesca, ma anche dato ovvio ricavabile dallo stesso statuto di poema didattico, e per ciò stesso allegorico. Appunto perché assimila la Commedia ai poemi didascalici mediolatini e romanzi, Iacopo non coglie appieno la novità dell’opera paterna e crede che i personaggi altro non siano che mere ipostasi di vizi o virtù, laddove essi, come si sa, mantengono con ciò che rappresentano un più complesso rapporto, che si dovrebbe definire esemplare. Dell’esemplarità meglio si accorse, forse grazie alla frequentazione, per motivi professionali, della letteratura parenetica, entro cui larghissimo spazio era dedicato agli exempla, un altrettanto precoce esegeta, frate Guido da Pisa, che scrive questo preciso avvertimento:
De illis autem personis quas ibi ponit hoc accipe, quod non debemus credere eos ibi esse, sed exemplariter intelligere quod, cum ipse tractat de aliquo vitio, ut melius illud vitium intelligamus, aliquem hominem qui multum illo vitio plenus fuit, in exemplum adducit.
Al di là di una non trascurabile diversità quanto a raffinatezza di strumenti esegetici, bisogna notare che forte è l’insistenza, in tutti i primi lettori, sulla presenza dell’allegoria. Una delle principali ragioni si individua nella volontà di scongiurare una interpretazione letterale della Commedia da parte di un pubblico ingenuo e non ancora educato al linguaggio figurato della letteratura, per giunta ingannabile dalle modalità eccezionalmente realistiche della rappresentazione. Di tale ingenuità ci parla la favoletta, probabilmente inventata da Boccaccio, ma non per questo meno significativa, delle donne veronesi che credevano di vedere nella barba crespa e bruna di Dante il segno delle bruciature dell’inferno. Il pericolo era proprio questo: che si potesse pensare a un effettivo viaggio nell’aldilà del poeta. Tanto più che, per un cristiano del tempo, si sarebbe trattato di una esperienza ammissibile, in un luogo la cui esistenza non era messa in dubbio. Ecco allora anche la ragione dell’insistita distinzione, nei commenti, tra inferno essenziale e inferno morale e tra i rispettivi descensus.
L’interpretazione allegorica si intensifica e diventa più invadente e lambiccata con il passare degli anni. Contro gli eccessi interpretativi insorse con equilibrio Pietro Alighieri, avvertendo, sulla scorta di s. Agostino, che non tutto è allegorizzabile. Curiosamente sullo stesso autorevole passo, sul finire del secolo, richiamava l’attenzione Filippo Villani, il cui commento segna giustappunto il massimo dell’aberrazione in tal senso, in quanto rintraccia nel poema un significato recondito del tutto additizio, atto però ad avallare, per quanto forzatamente, da una parte una analogia tematica con l’Eneide letta in chiave cristiana, dall'altra una teoria della poesia in genere, sia classica sia moderna, come portatrice di verità assolute e divine, ma nascoste ai lettori non preparati. Era la linea della nuova cultura umanistica, la stessa che, di pari passo, approfondiva le critiche nei confronti della lingua utilizzata da Dante. Per questo bisogna convenire con l’osservazione di Mattalia, secondo cui l’insistenza sul significato allegorico «fu anche un mezzo per sanare almeno parzialmente la nozione di una degradazione artistico-letteraria» implicita nella opzione linguistica e per circoscrivere, si aggiunga, la fruizione dell’opera a un pubblico selezionato di iniziati.
L'attenzione prestata dagli interpreti ai contenuti che si riferiscono all’etica è proporzionale alla preponderanza della tematica entro il poema. Per questo aspetto la Commedia venne ben presto fruita come repertorio di massime morali e come autorità. Donde la sua precoce fortuna presso i predicatori. Inoltre è indicativo leggere, nel documento con cui si istituivano le pubbliche lecturae affidate a Boccaccio, che il Comune di Firenze con ciò si prefiggeva lo scopo di indurre gli uditori «tam in fuga vitiorum quam in acquisitione virtutum».
Non poteva sfuggire ai primi lettori che il messaggio ultimo del poema sul piano del «morale negotium» non era affatto generico, ma mirato a una ben precisa situazione politica. Per questo il poema dell’autore della Monarchia attirò, prima di tutto l’attenzione dei simpatizzanti con le sue stesse posizioni: Giovanni del Virgilio, Lana, l'anonimo autore delle Chiose Berlinesi, in parte forse anche Bambaglioli, sono tutti accomunati da propensioni ghibelline. Ma perle stesse ragioni dovette incontrare anche alcune resistenze provenienti dalla parte avversa. Vi sono infatti indizi della diffusione di interpretazioni tendenziose del Veltro volte a far apparire il salvifico personaggio, in cui molti riconoscevano un imperatore, come l’incarnazione dell’Anticristo e di conseguenza il suo profeta, Dante, come l’araldo del demonio. Tuttavia tali riserve, dai dati a disposizione, appaiono meno forti e frequenti di quanto ci si potrebbe aspettare, perché le stesse affermazioni contestate nella Monarchia, assumendo veste poetica nella Commedia, perdevano la loro carica eversiva. Lana, che pur condivideva le posizioni dantesche, commenta l’ultima profezia di Beatrice, densa di significati politici, con queste parole:
Or qual fosse la ragione delle preditte [parole] e qual abbia più del vero e di ragione si può giudicare chi ammanta l’autore del pallio de’ poeti, alli quali è concessa diversa materia per supplere e compiere suoi dittati e stile.
L’antidantismo politico culminò con la condanna della Monarchia del 1328. Dopo di che la polemica si placò in parallelo con la perdita di attualità delle due fazioni contendenti: dagli anni Trenta in poi, le alleanze del papato con l'impero svuotarono progressivamente la tradizionale antitesi tra guelfi e ghibellini. Benvenuto da Imola, una quarantina di anni dopo o poco più, ringraziava Dio che tali nomi fossero del tutto dimenticati: anche dalla memoria storica, bisogna aggiungere con rammarico, se Guglielmo Maramauro confondeva guelfi e ghibellini con Bianchi e Neri. Se poi, proprio a partire da Benvenuto che per primo riprovò la condanna di Bruto e di Cassio nel fondo dell'inferno, la concezione politica dantesca tornò ad essere oggetto di discussione fu nell’ambito di una più vasta problematica del primo Umanesimo circa il cesarismo, entro la quale Dante non era l’oggetto del contendere, ma solo lo spunto.
L’epitaffio di Giovanni del Virgilio, sul quale ora conviene ritornare, esordisce con le parole «Theologus Dantes». L’epiteto attribuito al poeta non va disgiunto, pena l’incomprensione dell’ideologia sottesa, dall’altro che inaugura il terzo verso, «gloria musarum», in quanto forma con esso il noto binomio teologia-poesia, sul quale si accesero le discussioni tra proto-umanisti e cattolici conservatori (prevalentemente domenicani): il pensiero va al primo atto di quella querelle circa il valore della poesia che, attorno al 1315, vide schierati su fronti contrapposti Albertino Mussato e fra Giovannino da Mantova. Che a questa discussione, o comunque a questa problematica, pensasse l’autore dell’epitaffio, è fuori di dubbio, anche perché sono ben documentati i rapporti tra lui e Mussato. Quest'ultimo, con argomenti non nuovi perché mediati da Aristotele, sosteneva l'equazione tra poesia e teologia, vale a dire tra la letteratura antica e la Scritture sacre, riconoscendo nell’una delle verità oggettive, e cioè cristiane, e nell’altra una non dissimulata forma letteraria. Fra Giovannino, portavoce dell’antica diffidenza del cristianesimo nei confronti della cultura pagana, riteneva al contrario che le favole antiche fossero portatrici solo di menzogne e inducessero all’immoralità. Sorvolando sui particolari e sulle ingegnose argomentazioni addotte dalle due parti, bisogna chiederci quali fossero le finalità che si prefiggevano i difensori della poesia. Esse erano essenzialmente due: l’una era l’esigenza di definire le competenze del nuovo intellettuale laico, che si incarnava nella figura del poeta; l’altra era quella di guadagnare una posizione eminente alla poesia come disciplina nella gerarchia delle artes, per assicurare al relativo cultore, l’auctorista, un proporzionato prestigio (e conseguente retribuzione) nell’ambito delle istituzioni.
Ma torniamo a Dante, ai suoi lettori e alla curiosa e, per certi versi, paradossale situazione che si viene a creare. La nuova cultura umanistica, dopo avere propugnato, per difendere se stessa, l’identità di poesia e teologia, non poteva non riconoscere nel poema dantesco la sua attuale e più alta realizzazione, perché contesto di altissima poesia e, a un tempo, di assolute verità cristiane. Con due gravi contraddizioni: il mancato impiego del latino e la cultura dantesca, la quale, nonostante alcuni aspetti comuni, è per molti versi difficilmente assimilabile a quella umanistica. Si capisce ora perché i rappresentanti della nuova cultura, come Giovanni del Virgilio, Boccaccio, Benvenuto da Imola, Filippo Villani, da una parte cerchino giustificazioni all’uso del volgare, al limite dando credito a favole come quella dell’originario inizio latino della Commedia, dall’altra insistano nel definire Dante poeta e cristianissimo, cioè portatore di verità. C’è chi ha sottolineato questa insistenza enfatizzandone il tono apologetico e leggendovi la volontà di esorcizzare un’interpretazione del poema in chiave profetica, inaccettabile dalle autorità ecclesiastiche. Ingegnosa ricostruzione di un mosaico cui mancano troppe tessere. Invece, alla luce della polemica di cui si è detto, dobbiamo pensare che l’apologia non sia a favore di Dante in particolare, ma della poesia in generale.
Il motivo del poeta teologo trova un importante anello di congiunzione tra Giovanni del Virgilio e Boccaccio in Guido da Pisa, uno dei più intelligenti e fraintesi interpreti di Dante, sulle cui parole è necessario ora fare chiarezza. Anzitutto noteremo che la massima aristotelica circa l’identità di poesia e teologia gli è presente fin dal proemio del commento, quando scrive: «ab antiquis doctoribus ponitur poesia in numero theologie». Poco sopra, tuttavia, Guido aveva paragonato Dante alla penna dello Spirito Santo, talché la critica ha creduto di vedere in lui il sostenitore di un’interpretazione della Commedia come verità rivelata e del suo autore come autentico profeta. Atteniamoci alle parole del commentatore, inserite però nel loro contesto.
Est autem principalis eius intentio removere viventes a statu miserie, relinquendo peccata, et sic composuit Infernum; reducere ad virtutes, et sic composuit Purgatorium; ut sic cos perducat ad gloriam, et sic composuit Paradisum. Fines vero alii qui possunt assignari in hoc opere sunt tres: Primus, ut discant homines polite et ordinate loqui; nullus enim mortalis potest sibi in lingue gloria comparari. Re vera, potest ipse dicere verbum prophete dicentis: «Deus dedit michi linguam eruditam»; et illud: «Lingua mea calamus scribe velociter scribentis». Ipse enim fuit calamus Spiritus Sancti, cum quo calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et gloriam beatorum. Ipse etiam Spiritus Sanctus per istum aperte redarguit scelera prelatorum et regum et principum orbis terre. Secundus finis est ut libros poetarum, qui erant totaliter derelicti et quasi oblivioni traditi, in quibus sunt multa utilia et ad bene vivendum necessaria, renovaret, quia sine ipsis ad cognitionem sue Comedie accedere non valemus. Tertius finis est ut vitam pessimam malorum hominum, et maxime prelatorum et principum, exemplariter condemnaret, bonorum autem et virtuosorum, per exempla que ponit, multipliciter commendaret. Et sic patet que est causa finalis in hoc opere.
Va sottolineato il fatto che il passo si trova nell’accessus ad auctorem, luogo cioè massimamente formalizzato secondo luoghi comuni, tra i quali è prevista anche la laudatio dell'autore che si sta per commentare: donde la ragione delle espressioni iperboliche utilizzate, in cui il riferimento biblico assolve solo al compito di elevare lo stile. Si legga per convincersene il proemio del commento di Graziolo Bambaglioli, lontanissimo da ogni sospetto di interpretazione fideistica, eppure infarcito di riferimenti biblici in funzione elogiativa di Dante.
[...] et sic, huius universalis et abtrahentis materie nova dulcedine ad sui cognitionem audientium animos demulcente, cum habena mortalium linqueretur, nedum ad tanti auctoris virtutes et gratias cognoscendas, verum etiam ad maiores et altiores gradus sciencie pervenirent. De illo igitur dici potest quod ex libro Sapientie legitur «Si voluerit, magnus Dominus spiritu suo replebit illum et ipse tanquam ymbres emittet eloquia». De ipso.etiam potest exponi quod scribit Egegiel: «Aquila grandis magnarumialarum, longo membrorum ductu, plena plumis et varietate, venit ad Libanum et tulit medullam cedri, et summitatem eius evulxit et transportavit eam in terram Canaan»; quoniam sicut inter volatilia universa solius est aquile ad altiora trascendere, sic iste venerabilis auctor accessit ad Libanum, hoc est ad divine intelligentie montem, et ad omnium scientiarum fontem ex intellectus sui profunditate pervenit; et non stricte, non breviter, sed per magnalium autoritatum et eloquiorum suorum mi- steria non aliqua scienciarum accepit principia, non particulas, set universalis sapientie et virtutis veram intelligentiam et subiectum. Et ex huiusmodi sapientie tante medulla et profunditate sublimi huius mirande inventionis flores et fructus elegit, quos ad|delectationem et doctrinam viventium de prudentissimis et occultis materiis scientiarum translatos in publicum voluit demostrare; quod siquidem per istius triplicis Comedie sue probabile testimonium evidenter aparet.
Si osservi che in Bambaglioli, come in Guido, tali espressioni servono a illustrare proprio le capacità poetiche di Dante: la gloria della lingua e la dolcezza dei versi. Nel pisano inoltre l’affermazione dell’Epistola a Cangrande — a lui ben nota nella seconda parte e per altro tenuta in gran conto -, secondo cui fine della Commedia «est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (§ 39), come si vede, è dislocata in terza posizione, dopo altre due finalità legate al suo statuto poetico: insegnare agli uomini l’eloquenza volgare e rinnovare lo studio degli antichi poeti. Siamo invece proprio nel bel mezzo di una problematica squisitamente letteraria e intrisa di presentimenti umanistici. E se ancora non bastasse, a escludere ogni interpretazione fideistica in Guido da Pisa, basti leggere, nell’analisi delle caxsae canoniche negli accessus, quanto dice della causa agens, che riguarda chi compose l’opera. Infatti, mentre nei commenti ai testi profetici e sacri veniva immancabilmente riconosciuto quale autore Dio stesso, per la Commedia Gui- do non esita ad affermare «quod agens sive autor huius operis est Dantes».
Vero è che una curiosa interpretazione del «mezzo del cammin» come ‘sonno’, lo induce a parlare di «visio». Ma di che tipo di visione si tratta? Non certo mistica, come mostra il passo seguente:
Anno enim Domini MCCC, quo scilicet anno fuit Rome generalis remissio omnium peccatorum, sedente in Sacrosancta Sede Romana Bonifatio papa VIII, sacro autem Romano vacante Imperio, de mense Martii, die veneris sancti, hoc est illa die qua mortuus fuit Christus, in aurora iste poeta more poetico fingit se istam Comediam, hoc est universa que continentur in ea, in visione vidisse. Unde ait in textu: Nel mezzo del cammin di nostra vita. Medium namque vite humane, secundum Aristotilem, somnus est.
Non pare sussistano dubbi sul fatto che tale «visio» sia per Guido una finzione «more poetico», dotata di un significato allegorico, come si evince dalla prima redazione del commento conservata nel manoscritto Laurenziano 40. 2, di cui si riferisce la chiosa a Inf, I 11:
[tant'era pien di sonno in quel punto...] Hic manifeste apparet quod hic auctor habuit Comediam in sompno, idest in imaginatione suttilis et profundi ingenii composuerit.
Perplessità anche maggiori potrebbe dare l’opinione circa la natura della visione dantesca espressa da Benvenuto da Imola, alieno da ogni sospetto di ingenua credulità per cultura, oltre che per innato buon senso:
Ad primam ergo partem generalem dico, quod autor describit suam visionem; et primo tangit quo tempore apparuerit sibi ista visio, scilicet in medio cursu humanae vitae. Sed antequam descendam ad expositionem litterae, oportet praenotare quod autor noster fingit se habuisse hanc mirabilem salutiferam visionem in MCCC anno, scilicet Iubilaei, in quo erat generalis indulgentia peccatorum, et in die Veneris sancti, in quo facta est redemptio peccatorum, ita quod merito autor poterat bene sperare in sui conversionem et operis prosperationem. Describit autem hanc suam visionem distincte per tempora, quam tamen totam simul habuerat, sicut Moyses describit Genesim, et Ioannes Apocalypsim. Quod pro tanto dixisse velim ut multa puncta elucescant, quae viderentur obscura hoc ignorato. Autor enim describit multa facta post istud tempus, et saepe per multos annos, et sic quasi propheta videtur praedicare futura, cum tamen noverit illa iam facta cum scripsit, sed fingit se illa praevidisse in illa visione sua in praedicto millesimo, quae tamen postea diversis temporibus scripsit.
Pare di capire che per Benvenuto una iniziale folgorazione, avuta nel 1300, venne poi rielaborata e arricchita di particolari relativi ad avvenimenti posteriori, introdotti fittiziamente sotto specie di profezie. La Commedia, insomma non è il resoconto di una visione, ma il frutto di uno stimolo creativo, non molto dissimile da quello mistico del Genesi o dell’Apocalisse, che ha costituito il punto di partenza per un’invenzione fantastica, e dunque poetica.
Non sarà allora una mera coincidenza se alla parola “visione” si attribuisce l'aggettivo, “mirabili”, il medesimo che, alla fine della Vita nova, definisce l'avvenimento che determinò un estremo cambio di poetica: «apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di le». Lo statuto della sacra scrittura è così riavvicinato a quello della poesia, in conformità al concetto umanistico di poetica theologia. Ma forse in questi affanni esegetici non si nasconde altro che il tentativo di definire l’ineffabile origine della poesia, ciò che ora chiamiamo “ispirazione”.
Quello che preme a Benvenuto è distinguere il tempo della composizione da quello della visione, cioè del viaggio nell’aldilà. Il suo seguace, Filippo Villani, dedica alla questione una intera rubrica, posta come premessa fondamentale all’inizio dell’accessus, intitolata «De tempore quo incepit et prosecutus est poeta opus suum». In essa spiega lucidamente che «de tempore vero distinctio debet haberi: quo scilicet poeta excogitando materiam invenerit et, qua inventa, metrice modulando atque expoliendo ediderit». La precisazione non è immotivata, poiché i primi interpreti di frequente paiono confondersi. Persino Boccaccio, maestro e punto di riferimento di Benvenuto come di Villani, chiosando il primo verso, afferma che l’autore aveva trentacinque anni «quando mostra d’avere la presente opera incominciata», accordandosi con un’opinione che circolava almeno da Graziolo Bambaglioli. Ma si tratterà proprio di un’ingenuità da sprovveduti lettori? Pare improbabile. Piuttosto bisogna sforzarsi di comprenderne la logica: se l’inizio dell’avventura nell’aldilà coincide con quello della stesura dell’opera, il viaggio dello scrittore si configura anche come storia della scrittura, rappresentazione dell’apprendistato artistico di Dante poeta, attraverso l’amore per Beatrice.
In termini più espliciti, per quanto appena abbozzati, tale interpretazione affiora già nei commentatori della prima ora, come Iacopo della Lana, il quale, alla domanda di Cavalcante «Mio figlio ov’è? perché non è teco?» (Inf. X 60), chiosa: «Quasi a dire: Guido mio figliolo, come non fa comedia anch’egli?». Più oltre, ai versi «Da me stesso non vegno: / colui che attende là per qui mi mena» (vv. 61-62), ribadisce lo stesso concetto, riferendo una delle prime interpretazioni del disdegno di Guido: «Qui mostra che trasse da Virgilio questa Comedia, e che Guido preditto non seppe Virgilio, e però non la può fare». Ancora, sulla natura del viaggio dantesco, si legga la chiosa a Purg. II 90-91:
Qui domanda il Casella Dante di tale viaggio. Qui risponde al Casella Dante e dice che per tornare lie fa tal viaggio; quasi a dire: io merito di questa poetria che compogno, tanto che la benignità di Dio mi sortirà questo luogo all’obito mio.
La linea prospettata da Lana non è isolata, perché trova riscontri più tardi in Benvenuto da Imola, come si può vedere dalla chiosa seguente:
[Inf. IX 16-21: In questo centro della trista conca / discende mai alcun del primo grado] Hic Dantes ad declarandum se de dubio quod conceperat ex verbis suspensivis Virgili, statim movet sibi quaestionem circa hoc, et breviter petit: si unquam aliquis poetarum qui sunt in limbo cum eo, intravit unquam dictam terram? et vult dicere: si aliquis poeta paganus descripsit unquam infernum, sicut ipse christianus facere intendebat.
Per concludere si può allegare una interessante notazione dell’Anonimo fiorentino, in cui la fatica del viatore per l’ascesa è interpretata come la fatica del poeta nella scrittura.
[Inf. XXIV 43-45: La lena m'era del polmon sì munta ...] Dice ch'era si lasso che dal polmone, ch’era vinto, non prendea più rifrigerio; et benché questo affannare che pone qui l’Auttore sia del corpo suo, che s'era affaticato, et questo fa per seguitare la sua fizione, ché vuole mostrare che corporalmente sia ito allo ’nferno, debbesi intendere intellettualmente che questa fatica, che l’Auttore dice che prese, fu nel comporre di tanto libro; ché non senza fatica il fece et compose, però che conviene che, non che nel comporre di tante opera quanto fue questa, ma nel comporre d’una piccola operatta, si sudi più volte ch’ella venga a perfezione et che si legga; pensi, immagini, innanzi che uno poeta componga solamente un verso, et la cosa letta rilegga più volte nell’animo, et sopra a quella pensi di giungnere alcuna cosa di nuovo, et cancelli.