Dati bibliografici
Autore: Nicolò Mineo
Tratto da: Dante
Editore: Laterza, Roma-Bari
Anno: 1970
Pagine: 182-188
Si deve agli studi degli ultimi decenni l'aver imposto l'attenzione al vasto campo del simbolismo e dell'allegorismo (polisemia) medievale, che investiva l'intera sfera dell'esperienza umana. Per la mentalità cristiano-medievale, la realtà e la verità essenziali sono trascendenti rispetto al mondo sensibile e all'esistenza terrena. Questi ultimi però non sono destituiti di senso e valore, anzi, nella loro realtà contingente, sono (per una sorta di cristiano platonismo) e «specchio», segno del trascendente. La natura e la storia contengono tutto un sistema di messaggi per l'uomo e così certe «scritture» (quelle sacre e alcune di quelle profane), imitando natura e storia, posseggono una articolata e organica polisemia. Il creato da una parte e i testi biblici dall'altra sono i due «libri», con cui, secondo la concezione medievale, Dio ha parlato e parla agli uomini, palesando in forma sensibile le verità superiori e all'intendimento umano in genere e all'intendimento dei più. Le verità più profonde, attraverso i vari gradi della polisemia dei «due libri», erano offerte all'intuizione più che al ragionamento.
Nell'ambito della polisemia letteraria in particolare, gli esegeti medievali distinguevano due ordini di testi e di interpretazioni allegoriche: quelli « poetici » e quelli « teologici », Al primo ordine appartengono certi testi poetici (sia classici che medievali, modellati sui primi), che ammettono l'allegoria e poetica », Hanno come caratteristica la non veridicità e non storicità della lettera o «figurante» (involucrum, integumentum, velamen) e la verità dell'allegoria o «figurato», che ha due sensi: quello propriamente allegorico (verità dottrinali o storiche) e quello morale. Al secondo ordine appartengono i testi sacri, che ammettono l'allegoria «teologica». Hanno per caratteristica la verità e storicità della lettera o figurante e la verità dell'allegoria o figurato, che ha tre sensi (e spirituali e): quello propriamente allegorico (verità di fede e storiche), quello morale o «tropologico» (derivante dalle predette verità), quello anagogico (che si riferisce alle realtà del mondo trascendente).
Ma, a proposito dei testi sacri è da osservare che taluni (come il Cantico dei Cantici e l’Apocalisse) sono in un certo modo avvicinabili ai testi «poetici» poiché sono veri nel figurato, ma non nella lettera. Per la maggior parte dei testi sacri poi, è da distinguere tra quelli del Vecchio e quelli del Nuovo Testamento. I libri vetero-testamentari contengono verità storiche nella lettera che son dette «figurali» (o anche «tipologiche»), perché allegoricamente significano verità che si sarebbero compiute con l'avvento di Cristo. Persone, cose e situazioni dei libri vetero-testamentari, senza nulla perdere della propria concretezza individuale e storica, possono essere «figure», «tipi», di future persone, cose, situazioni, che si sarebbero verificate, con l'incarnazione, in Cristo e nella Chiesa. I libri neotestamentari, a loro volta, contengono verità storiche nella lettera (la quale è realizzazione di quanto già prefigurava il Vecchio Testamento), ma sono allegorici solo in singoli fatti, nei quali si possono vedere significate realtà, che si sarebbero compiute nel corso della storia della Chiesa: quel che avverrà dopo Cristo altro non sarà che la copia, l'imitazione, di realtà già prefigurate in Cristo e nel suo mistero.
In questo modo di lettura della tradizione medievale fu introdotta o ribadita una precisazione da Tommaso. Egli sostenne che allegorici dovessero essere ritenuti solo i testi sacri, non quelli dei poeti, e mostrò come certe forme espressive comuni all'uno e all'altro ordine di testi (come la metafora e la parabola) non siano ascrivibili ai sensi allegorici, bensì alla lettera, che, in tali casi, ha un senso «parabolico».
Un altro modo di significare di tante scritture medievali (e che si ritrova ampiamente nella Commedia), non allegorico ma allusivo, è l'analogia. Questa consiste nella voluta somiglianza del senso letterale o figurato di uno scritto con fatti, cose o persone di testi biblici. Con questi può anche esserci somiglianza formale, di distribuzione cioè ed organizzazione della materia, le quali possono anche alludere, per analogia, al simbolismo della natura, riproducendone, ad esempio, quelle simmetriche rispondenze, quell'ordine matematico-geometrico, che la scienza e la teologia del tempo vi riconoscevano.
Anche la Divina Commedia è costruita in armonia ai predetti sistemi di simboli. Infatti, un viaggio nell'oltretomba compiuto per divina volontà non è cosa che appartenga allo svolgimento ordinario delle cose «mondane», non può quindi essere considerato alla stessa stregua delle infinite forme di invenzione letteraria, immaginate per rispecchiare la realtà: non può cioè rappresentare direttamente ed esclusivamente verità umano-terrene. Il viaggio o è una verità nell'ordine delle verità sovrumane e la Commedia ne è quindi il resoconto, o è una «finzione», se è a una realtà mondana che vuole alludere. In ogni caso, seguendo i metodi dell'esegesi cristiana dei libri sacri, il testo della Commedia deve essere ritenuto polisemo. Dato l'argomento, d'altra parte, è da escludere che il motivo del viaggio possa essere un puro divertimento fantastico a fini di «intrattenimento». La polisemia faceva sì che le verità essenziale che l'opera vuol comunicare potessero essere accessibili anche ai lettori non dotti. Nel senso letterale infatti è un contenuto di verità che, anche se non inteso e approfondito ai livelli figurati, basta di per sé a realizzare il compito profetico-didattico impostosi dall'autore.
Dante era, naturalmente, a conoscenza della polisemia dei testi sacri e profani. Aveva anzi, come si è visto, composto canzoni allegoriche o, comunque, aveva interpretato allegoricamente sue canzoni. Era anche a conoscenza di un modo di intendere l'allegoria da parte dei teologi diverso da quello dei letterati (Conv. II, i, 2 sgg.; cfr. sopra § 175, I). Aveva non poche volte letto allegoricamente i testi dei poeti latini (Conv. IV, xxiv, 9; xxvi, 8-15) e quelli biblici (Epist. XIII, 7). Sapeva anche della precisazione tomistica, di cui si è detto sopra (Par. IV, 40-8). Era anche modernamente e correttamente orientato, in quanto affermava la necessità di un preliminare sicuro intendimento del senso della lettera prima di procedere all'intendimento degli altri sensi (Conv. II, i, 8-14) e avvertiva l'opportunità, anzi l'obbligo, di non forzare i sacri resti trovando in ogni luogo di questi, arbitrariamente, un senso riposto o dando ad essi un senso diverso da quello dovuto (Mon. III, iv, 6 sgg.).
Oggi ci si chiede quale tipo di allegoria si debba riconoscere nel poema, se quella poetica o quella teologica. Dante nel brano del Convivio, dicendo della: struttura allegorica delle canzoni per la «gentile», intendeva chiaramente parlare di allegoria poetica. Non sappiamo però se questa definizione possa valere anche per la Commedia. Di questa trattava l'Epistola XIII a Cangrande e, per spiegare l'allegorismo del poema si avvaleva come esempio di polisemia di un passo dei Salmi, di cui è indubbiamente vero anche il significato letterale. È facile scorgere una analogia e dedurre che anche la lettera della Commedia sia vera e che il suo allegorismo sia pertanto di tipo «teologico». Il che porterebbe immediatamente a dover ammettere che Dante abbia creduto davvero di aver fatto il viaggio in oltretomba in corpo ed anima, oppure che abbia solo voluto far sì che il lettore credesse alla realtà di esso viaggio. Nel secondo caso avrebbe sfiorato l'empietà. Il primo caso non riusciamo a vedere come potesse verificarsi.
Tuttavia (a prescindere dal problema dell'autenticità) le indicazioni dell'’Epistola XIII non contrastano con quelle del Convivio. L'esempio dell'epistola in realtà non si riferisce a tutta la Commedia, ma ad una sua componente, la rappresentazione dello «stato» delle anime dopo la morte, che ne costituisce proprio la componente oggettiva, l'apprendimento. Invece, il passo dell'epistola (par. 28), in cui si parla di Dante, vuol solo dimostrare la possibilità di un conoscere sovrumano. La stessa Epistola XIII per di più definisce il modus tractandi del poema, tra l'altro, come «poetico» e «fittizio» (par. 9). Questa definizione deve ovviamente riferirsi alla strutturazione della visione come apprendimento mediante un viaggio. Inoltre, nei luoghi del poema in cui si raccomanda al lettore di non lasciarsi sfuggire o di non travisare il secondo senso (Inf. IX, 61-3; Purg. VIII, 19-21), sono usati, per indicare la lettera, i termini «velame», «velo», che, evidentemente, traducono il termine velamen con cui - si è visto - veniva indicata la lettera «poetica».
Per altro verso, è la stessa nozione di allegoria teologica a dimostrare che il dilemma è, se non altro, mal posto. La polisemia del poema, anzitutto, non può essere analoga a quella dei libri vetero-testamentari, poiché (è fin troppo ovvio) trattando di cose avvenute dopo l'incarnazione, non può alludere a fatti che dovranno realizzarsi con l'incarnazione. Non può neanche essere analoga a quella dei libri neo-testamentari, poiché nessun elemento del poema può esser ritenuto vero in sé e contemporaneamente allusivo ad eventi che dovranno realizzarsi nel corso della storia dell'umanità cristiana.
Perveniamo così alla conclusione. Nella Commedia vanno tenuti distinti i due momenti, quello oggettivo e quello soggettivo, per dir così; vale a dire, quello costituito dai dati che sono oggetto di apprendimento e quello costituito dalla esperienza d'eccezione di Dante. Il primo può essere vero anche nella lettera, il secondo può esserlo solo nel senso «riposto». Poiché è il secondo momento che costituisce l'intreccio del poema, è chiaro che questo, nel suo insieme, è un poema costruito secondo l'allegoria «dei poeti» e che non possono essere considerati veri tutti quei passi che hanno diretto rapporto col motivo del viaggio e non sono pensabili indipendentemente da questo. I due momenti sono ben definiti nella loro qualità dalle due serie di modi tractandi attribuiti alla Commedia dalla Epistola XIII: «poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus» (serie poetico-retorica); «diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus» (serie filosofica). Per la componente favoloso-allegorica del poema, Dante autore può essere annoverato tra i poeti «filomiti» o «teologi», cioè inventori di miti significanti le massime verità filosofico-teologiche.
È possibile però, come accennavamo, ritenere «vera» e «storica» una parte cospicua della lettera, quella ascrivibile al momento «oggettivo» cioè. In proposito è da dire che Dante in molti luoghi del Convivio non solo riconosce nei testi dei poeti (Lucano, Stazio, Virgilio) la presenza di quattro sensi e non di tre soltanto, come si faceva di solito, ma anche ne ammette la veridicità storica e, contemporaneamente, il simbolismo. Il che vuol dire che un testo poetico, per Dante, può contenere verità letterali e insieme allegoriche e che, di conseguenza, anche il suo poema può contenere di siffatte verità. Su questo punto torneremo (cfr. § 186). Quanto poi all'impegno di Dante (del resto comune a gran parte dei narratori) di imporre al lettore come verità tutto quanto egli narra, si può capire che l'illusione realistica serve soprattutto al fine di garantire le verità effettive contenute sia nella lettera che nell'allegoria.
Bisogna perciò che il primo senso della Commedia, quello «letterale» nel suo momento «soggettivo», il motivo del viaggio cioè, venga chiarito intendendone anche gli altri sensi che esso contiene, l'«allegorico», il «tropologico» e, l’«anagogico», che nel loro complesso costituiscono il significato «spirituale» o «mistico» del poema; bisogna altresì che si comprenda come siano costruiti i personaggi più strettamente legati al motivo del viaggio, cioè lo stesso Dante e le guide. Questi sensi debbono essere colti (in base all'avvertimento dello stesso Dante) dopo un sicuro accertamento della lettera e senza forzature esegetiche.
Il secondo senso, o «allegorico» appunto, è suggerito dalla lettera stessa sia attraverso la rappresentazione del progressivo apprendimento di Dante e dell'innalzarsi delle sue capacità di conoscenza sia dai nodi fondamentali dell'intreccio: l'iniziale invito ed autorizzazione al viaggio, la spiegazione a Catone (nell'antipurgatorio) del senso del viaggio, il riconoscimento di Virgilio ( alla soglia del paradiso terrestre) della raggiunta libertà, giustizia, sanità da parte di Dante, la scena di pentimento, confessione ed assoluzione (nel paradiso terrestre) e la finale visione di Dio. Siamo facilmente indotti a capire che il viaggio non è che una metafora di un itinerario interiore, un itinerario appunto che si è svolto in una dimensione interiore, nella mente e nella volontà del protagonista, ed è consistito in un ordine di atti intellettuali, etici ed affettivi in stretta interazione: la presa di coscienza di una situazione di errore, la decisione di riscattarsi, la riflessione sul male e sul bene, la riconquista del libero arbitrio, la riconciliazione con Dio, la conoscenza dei massimi veri e la contemplazione finale di Dio.
È il classico itinerario contemplativo e ascetico fatto di conoscenza e Nella Commedia esso è rigorosamente strutturato secondo schemi che il riconoscimento sempre più sicuro e attento delle fonti autorizza a far cercan di stabilire. Il processo contemplativo consiste nell'ascesa lungo i «gradi» indicati dalla teorizzazione di Riccardo da San Vittore soprattutto (che «a consideran fu più che viro»: Par. X, 132) e anche di Bernardo e Bonaventura, che Dante fa sua pur conservando ampia libertà di contaminazione con nozioni tratte da altri scritti mistico-ascetici e di personale innovazione. Il processo ascetico (intendendo il termine in senso limitato), contemporaneo e dialettico a quello contemplativo, consiste nella parallela realizzazione, attraverso tre fasi, delle tre «conversioni, delle tre «vie», purgativa, illuminativa, unitiva, contemplate dalla trattatistica cristiana, e delle condizioni di «carità incipiente», «carità proficiente», «carità perfetta». Seguiremo in sede di lettura del poema le fasi dei due processi. L'ultima condizione di Dante sarà quella conclusiva del rapimento: la cessazione di ogni lavorio intellettuale e l'appagamento del desiderio, la morte mistica.
L'itinerarium in Deum di Dante è però eccezionale, se non unico, e lo suggerisce la lettera del poema. Questa rappresenta il protagonista in una condizione di esistenza non abituale, sollevato appunto in una condizione visionaria. Questa è un'indicazione che non deve essere trascurata, altrimenti tutto il senso del poema risulterebbe alterato. Se è «finzione» la condizione di visione corporale del mondo di là, non può essere «finzione» (per la gravità che non potevano non assumere indicazioni siffatte nel Medioevo) l'indicazione in sé di una eccezionalità di condizione. Si deve dunque dedurre che l'itinerario interiore si è svolto in condizioni di divina illuminazione, quando non anche di visione divinamente spirata. Dalla verità dell'illuminazione divina discende la verità dell'apprendimento di Dante, cioè dei fatti, delle nozioni e delle profezie che egli dovrà comunicare, insomma la verità del messaggio profetico. È per questo che il viaggio non può essere considerato assolutamente un viaggio di tutti i cristiani. È il viaggio di quanti furono o saranno dotati di grazia per una particolare missione, il viaggio di Mosè, di Enea, di Paolo (figura del viaggio di Cristo uomo).
Soggetto dell'itinerario non è infatti l'uomo cristiano in astratto, ma un individuo esistenzialmente determinato. Se fosse diversamente, non avrebbero senso né la destinazione profetistica del protagonista, emergente dal racconto letterale, né la serie di relazioni in questo stabilite con le anime in un certo modo sol perché l'eroe è un certo uomo (cioè un fiorentino del Due-Trecento, un guelfo bianco, un uomo di dottrina e un poeta, ecc.). Così il personaggio Dante è in sé solo nel figurato. È un tipo di personaggio che discende forse dal virgiliano Enea, medievalmente e dantescamente interpretato. La sua funzionalità di personaggio però, occorre aggiungere, ha anche un implicito simbolismo (o allegorismo teologico, in un certo senso). La sua eccezionalità infatti non esclude che in lui, in quanto uomo e per quel che di universale è nella sua particolare vicenda, si rispecchi e ripeta anche la vicenda di pentimento e santificazione cui ogni cristiano deve tendere. Ancora, e contemporaneamente, egli può simboleggiare la cristianità senza guida e smarrita in terra.
Nel terzo senso del poema, quello «morale» o «tropologico», risiede il finalismo del messaggio dantesco. L'esperienza interiore del protagonista, cioè il suo itinerario contemplativo-ascetico, pur nella sua eccezionalità, è inscrivibile in schemi universali. I momenti di esso quindi possono essere validi come modelli o esempi di comportamento per ogni cristiano: vi è implicito tutto un sistema di indicazione di ordine disciplinare e morale.
Il quarto senso, l'«anagogico», può esser dedotto dalla vicenda di Dante e nel suo senso letterale e in quello allegorico, visto che questi rappresentano anche il tendere dell'anima verso i destini ultimi. Assomigliano a Dante personaggio, dal punto di vista della costruzione letterario-allegorica, le figure delle e «guide». Il loro allegorismo però è ancora più affine (ma non identico) a quello di tipo e «teologico», per la verità e storicità del loro essere non solo nel mondo terreno ma anche nell'oltremondo (e quindi come figuranti). Esse non sono rappresentate appunto come astrazioni personificate (come era proprio della tradizione dei poemi allegorici, da Prudenzio ad Alano, a Jean de Meung), ma come persone storicamente e biograficamente individuate. Proprio in quanto tali, per quel che esse hanno fatto ed operato in vita, per quel che è stato il senso della loro vita terrena e che rimane il senso della loro vita oltremondana, possono incarnare un significato, che in un certo senso le trascende. Senza perdere nulla della propria individualità, anzi attuandone il senso più autentico, esse possono simboleggiare, oggettivamente, i diversi tipi di divino intervento predisposti per l'attuazione dell'itinerario di Dante. Possono inoltre avere questa funzione, perché in vario modo la assolsero già storicamente nei confronti di Dante, nelle tappe della sua vita terrena. Beatrice, che muove tutta la macchina del poema, è la guida del tempo della Vita Nuova e colei che anche dopo morta (come sappiamo dall'operetta giovanile e dal canto XXX del Purgatorio) indirizzò Dante al bene con ispirazioni in sogno e in visione. Virgilio, suo «maestro» e suo «autore», la cui Eneide egli aveva studiato con «lungo studio» e «grande amore» (Inf. I, 84-5), non solo gli rivelò la grande poesia classica, ma in quanto cantore dell'impero di Roma e (interpretato allegoricamente) della parabola mondana dell'anima, è assai probabile che, intorno al tempo della visione o al tempo dell'inizio del poema, gli abbia offerto veramente luce spirituale e conforto morale. Così in rapporto storico-spirituale con Dante possono essere entrati e Catone, con la suggestione della sua esemplarità (si pensi a quanto ne dice in Conv. IV, xxviii, 15-8), e Lucia, di cui egli si dice «fedele» (Inf. II, 98), e Stazio, di cui forse leggeva allegoricamente la Tebaide, e Bernardo, di cui aveva seguito nei giovani anni la teoria sulla carità e ora forse scopriva quella sulla visione e sui doveri del pontefice. Queste figure anche, nella loro assenza archetipica di simboli del trascendente, erano proiezioni del profondo, figure paterne e materne compensative di biografiche assenze o delusioni. Del loro specifico significate simbolico diremo nel corso della lettura del poema.
Si deve chiarire infine se tutto quel che nel poema è letteralmente «vero», cioè l'oggetto dell'apprendimento ispirato, il momento oggettivo (della cui possibile veridicità si è già detto poco più su), abbia un senso riposto. Molte delle verità dei sistemi, si capisce, non hanno e non possono avere se non senso letterale. Un loro simbolismo hanno invece le realtà di ordine precisamente escatologico: animali, cose, situazioni, anime. Tutti possono ricavare dalla lettura del poema, oltre agli insegnamenti espliciti (i sistemi dell'apprendimento), anche un insegnamento implicito di ordine specificamente morale. La rappresentazione delle pene e dei premi, della condizione delle anime e della loro parabola terrena, contiene gli elementi per una riflessione sul buono e cattivo comportamento e per un convincimento interiore a sfuggire l'uno e a perseguire l'altro. Così spiegava già l'Epistola XIII. Questi significati di ordine etico si collegano al terzo senso della funzione del viaggio e lo integrano. Così il quarto senso del viaggio è integrato da tutto il momento escatologico riguardante la gloria del Paradiso, che rientra totalmente nel senso anagogico («le superne cose de l'etternal gloria»: Conv. III, i, 6). Ma questo rapporto tra figurante e figurato non è riconducibile né all'allegoria «poetica» né a quella «teologica» e, in ogni caso, sarà bene parlare di simbolicità o di allusività o di esemplarità delle verità escatologiche. Le anime, bisogna però aggiungere, nel momento in cui entrano in contatto con Dante e compiono gesti che hanno valore in rapporto a lui, sono coinvolte nel motivo soggettivo del viaggio, nella «finzione», e quindi agiscono ed hanno funzione come figuranti dell'allegoria poetica del poema.
In tanta parte del simbolismo del poema è offerto al pellegrino il contenuto di un ulteriore apprendimento, un apprendimento implicito (dei cui momenti più importanti diremo in sede di lettura del poema).