Dati bibliografici
Autore: Nicolò Mineo
Tratto da: Dante
Editore: Laterza, Roma-Bari
Anno: 1970
Pagine: 194-197
In Dante, l’attività artistica, come quella politica, fu sempre associata all’esigenza dell’elaborazione teorica. Dai suoi scritti si può ricavare una sintetica e sommaria storia della letteratura italiana del Duecento e dei primi del Trecento, come si può ricavare una teoria della letteratura e della poesia, una retorica e una poetica appunto. La coscienza artistica e la riflessione di poetica in lui procedono in stretta connessione con lo svolgersi e il maturarsi della sua poesia. Dalla Vita Nuova al Convivio, al De vulgari eloquentia, alla Divina Commedia, egli elaborò una serie di giudizi e di teorizzazioni (la maggior parte dei quali abbiamo riferito occupandoci del De vulgari eloquentia) sulla tecnica della poesia, dall’aspetto metrico al retorico, allo stilistico, dalla scelta dell’argomento alla scelta del linguaggio. Il teorizzare dantesco è mosso e diretto unitariamente dalla convinzione che vero poeta possa essere solo colui che abbia eguagliato il livello dei poeti latini, «regulati», che hanno poetato secondo norme e con ponderato giudizio. In siffatto «classicismo» consiste, come si è detto, una delle novità più notevoli della poetica dantesca. Il grande poeta deve quindi possedere non solo genialità, ma anche esperienza tecnica e dottrina. Questo egli aveva appreso da Brunetto Latini. Contro la svalutazione tomistica infatti, Dante, con un concetto ispirato al platonismo medievale, ritenne la poesia o almeno la grande poesia destinata ad esprimere contenuti di alto livello, anche quelli di ordine etico-filosofico. Ne derivava ovviamente, nella sua prospettiva, la destinazione didascalica dell’arte. Egli ammirò e studiò i poeti provenzali proprio in quanto modelli di accostamento alla «regolarità», tuttavia giudicò solo la propria poesia all’altezza di quella classica: «Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m'ha fatto onore » (Inf. I, 85-7); «e più d’onore ancora assai mi fenno, [Omero, Ovidio, Lucano, Orazio e Virgilio], / ch'e? sì mi fecer de la loro schiera, / sì ch'io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV, 100-2).
Quanto alla natura della poesia, alla sua qualità come tipo di messaggio linguistico, è ben nota la definizione del De vulgari eloquentia: «[poesis] nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita» (II, iv, 2). L'espressione viene tradotta e interpretata così: «La poesia è finzione (allegorica), ossia ficto, elaborata in versi, ossia poita, secondo l’arte retorica e musicale» (Schiaffini); oppure: «[la poesia] non vuol dir altro che composizione poita (cioè appunto “composta”) con il concorso della retorica e della musica» (Paparelli). La seconda traduzione non si pronuncia sul problema della polisemia.
Fin qui giungono il De vulgari eloquentia e il Convivio. La Divina Commedia, implicitamente, giunge ad una concezione assai più alta della poesia, alla poetica dell’ispirazione. È importante capire che cosa sia una poesia ispirata, chi la ispiri, come si realizzi, secondo Dante. È famosissima la definizione (ispirata al riccardiano Tractatus de quattuor gradibus violente charitatis oppure direttamente all'Epistola de charitate del bernardiano frate Ivo, fonte di Riccardo) da lui stesso data a Bonagiunta da Lucca del proprio poetare: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV, 52-4). Il termine «spira» era usato sia per indicare l’ispirazione poetica che quella profetica e mistica. Il termine «dittare» si riferisce sia alla composizione di opere poetiche di alto stile sia all’atto dell’ispirazione divina. Anche il termine «notare» può aver riferimento all’atto dell’accoglimento di un messaggio divino. Colui che ispira è Amore, che può essere sia il sentimento d'ordine religioso-morale ipostatizzato nella Vita Nuova sia l’Amor divino, lo Spirito santo. Che sia quest’ultimo sembra provato dal fatto che, nello stesso canto, colui che «ditta» è chiamato «dittatore» e questo è un termine adoperato da Dante quest’unica volta in volgare; pure una sola volta egli ha adoperato, nella Monarchia (III, iv, 11), il corrispondente termine latino, dictator, e in questo caso come predicato di Dio e alludendo all’ispirazione della sacra scrittura. Si può vedere in tutto ciò una dichiarazione, in forma velata, dell’ispirazione divina della propria poesia. La distinzione poi dei due momenti sia dello «spirare» e «dittare» che del «notare» e «significare» sembra denunciare una tipica situazione di ispirazione profetica, visto che in questa divinamente suggerito è non solo il contenuto — come nell’ispirazione degli altri testi sacri — ma anche, in gran parte, il linguaggio.
Non contrastano con la realtà di una poesia di tal natura né l’attenzione rivolta da Dante all’aspetto tecnico del fare poetico, che è un momento personale in cui è l’autore a decidere, né l’intento in sé, in Dante indiscutibile, di realizzare valori specificamente formali. Non è necessario appellarsi al fatto (pur ammesso) che il De vulgari eloquentia non può dichiarare completamente la poetica esplicita ed implicita del poema. In realtà, momento ispirato e momento tecnico-letterario-individuale, in base alle concezioni medievali, si conciliano. Il profeta biblico infatti non è considerato un registratore del tutto passivo della rivelazione divina, ma si riconosce una sua partecipazione all’atto della comunicazione, in quel che riguarda la disposizione dei materiali e l'elaborazione linguistico-stilistica. Egli inoltre non è alieno dalla ricerca dell'eleganza formale e usa un linguaggio poetico per la frequenza di membri metrici e di figure. Per altro verso, e come controprova, bisogna tener conto del fatto che, sempre in base ai riconoscimenti dell’esegesi medievale, anche il poeta pagano può apprendere i suoi contenuti per divina ispirazione. La figura del poeta finisce quindi col coincidere con quella del profeta. Il personaggio di Virgilio, nella Commedia, è un «esempio» di poeta-profeta ispirato di sapienza umana, vale a dire in cui si innesta la luce dell’ispirazione. i
La natura ispirata della poesia del poema è ulteriormente dimostrata dalla funzione di Minerva, di Apollo, delle Muse, nelle invocazioni d’apertura delle cantiche. Essi simboleggiano, oggettivamente e soggettivamente, la sapienza divina ispirante, l'entusiasmo dell’intendere e del riferire, il divino afflato operante anche nel momento letterario-tecnico. Poesia ispirata era anche quella stilnovistica della lode, «trovata» per divina ispirazione: «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa» (Vita Nuova XIX, 2).
Non sono queste le sole coincidenze-identità di poeticità e profeticità: esiste una precisa e riconosciuta identità di tipo di costruzione e procedimento. I profeti infatti hanno usato assai spesso l’allegoria «poetica». Tale, in modo particolare, è l’allegoria dell'Apocalisse di Giovanni. Si possono trarre le conclusioni ultime. La Divina Commedia, come si è detto nel paragrafo precedente, è costruita allegoricamente, secondo l’allegoria «dei poeti» nel suo intreccio. La poesia, secondo Dante, se accogliamo l’interpretazione data della sua definizione dallo Schiaffini, è «finzione (allegorica)». Il suo messaggio tuttavia ha ugualmente la più alta significazione, poiché è ispirato sia nel contenuto che nella forma. Il suo allegorismo è «poetico», ma è «ispirato», proprio come tanti luoghi dei profeti e come l’Apocalisse, e quindi, pur come lettera, come significante, è indiscutibile nelle sue indicazioni. Resta Si d’altra parte (si è visto nel § 184) che molti momenti e oggetti dell’opera, così come avviene negli stessi libri profetici e nella grande poesia pagana, sono «teologicamente» allegorici.
Un'opera di tale complessità non poteva facilmente esser catalogata e analizzata, dal punto di vista della struttura e del linguaggio, secondo gli schemi letterari derivati dalle poetiche classiche e medievali. Dante nell’Inferzo la chiamò due volte «comedìa» (XVI, 128; XXI, 2; cfr. Epist. XIII, 28, 37). Secondo il De vulgari eloquentia, come si è visto, alla «commedia» corrispondono uno stile inferiore e un linguaggio a volte medio a volte umile. Secondo le teorie retoriche e poetiche tardo-latine e medievali, su alcune delle quali si fonda l’Epistola XIII, la «commedia» si distingue dalla «tragedia», perché, al contrario di questa, comincia tristemente e finisce lietamente, tratta di persone di condizione comune, consiste nell’arte di biasimare. Queste caratteristiche, sia di stile che di contenuto, si ritrovano nel poema. In esso però non mancano né le lodi, né i personaggi di alta ed altissima condizione, né lo stile alto. Non bastava l’autorizzazione oraziana, ricordata nella lettera a Cangrande, ad immettere nella «commedia» modi tragici, per giustificare le presenze «tragiche» nel poema, ché queste non vi sono eccezioni, ma elementi costitutivi. Per di più, non si capisce perché Dante chiamasse «tragedia» (Inf. XX, 113) l’Eneide, che ha pure inizio triste e conclusione lieta. È logico pensare che «comedìa» il poema gli apparisse, per ragioni soprattutto stilistiche, al tempo della composizione della prima cantica. Poi, egli userà, per definire la sua opera, ben altre espressioni, simili a quelle che Macrobio aveva usate per l’Eneide: «Sacrato poema»; «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XX, 62; XXV, 1-2). È un poema sacro, vorremmo concludere, non solo perché religioso nella sostanza, ma proprio perché (se è consentita un'interpretazione non tradizionale del verso sopra citato) per Dante ha contribuito a comporlo anche il «cielo».
Egli ha dato così alla poesia un compito e un'altezza che né prima né poi le sono stati riconosciuti. Si comprende perché quello di poeta gli sembrasse il «nome che più dura e più onora» (Purg. XXI, 85).