Dati bibliografici
Autore: Pierluigi Lia
Tratto da: Poetica dell'amore e conversione. Considerazioni teologiche sulla lingua della "Commedia" di Dante
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 2015
Pagine: 1-11
L'aspetto su cui si concentra l’attenzione di questo studio è quello della lingua della Commedia. La lingua è forma originaria dell’itinerario dell’umanizzazione, ma Dante ha fatto della lingua oltre che la materia della sua opera, il tema e la forma propria della verità che si dà a conoscere all’uomo, attestandosi nella narrazione poetica. I regni dell’oltretomba, i personaggi, le emozioni non ci giungono semplicemente mediante una lingua, ma nella forma che questa lingua via via assume, nei suoi ritmi, nelle sue sonorità, nelle sue reticenze e preterizioni, nelle allitterazioni, nelle metafore, nell’articolazione delle rime e dei rimanti. Linguistica è la forma dell’Inferno, nella lingua si svolge il cammino di umanizzazione purgatoriale, linguisticamente Dante ‘trasumana’ in Paradiso, lì dove non si trovano parole per tradurre il verbo (‘trasumanare’) che predica questa misteriosa vocazione di cui, tuttavia, proprio nelle parole si sperimenta il miracolo. Nella fatica dell’inizio delle nostre considerazioni diciamo schematicamente che alla domanda scolastica se Dante vuole farci credere di essere stato davvero all’Inferno, che sottintende se vuole farci credere di essere stato fisicamente in un luogo geografico che s’inabissa sotto la crosta terrestre così come il testo della Commedia relaziona, dobbiamo avere il coraggio di rispondere che la domanda non è pertinente. Per l’uomo ogni esperienza ‘fisica’ si realizza linguisticamente. È la narrazione che ciascuno si fa, più o meno consapevolmente, dei propri vissuti che dà forma alla nostra esperienza; il profilo propriamente spirituale, quindi autenticamente umano, delle nostre esperienze affettive e fisiche si definisce solo linguisticamente. Solo la narrazione, poi, consente quella forma qualificata dell’esperienza umana che si realizza nella comunicazione, con l’altro così come con sé. Dunque ‘il reale’ non è un buco sotto la crosta terrestre che la lingua rappresenta, raddoppiandolo con i propri segni verbali o grafici. L'esperienza della discesa nel mistero del male che Dante ha fatto ha la propria realtà unica in un’esperienza linguistica e come tale si comunica nel racconto del testo che titola Inferzo. Esperienza linguistica che, per quanto assolutamente singolare, plasmata com’è dalla poderosa imaginativa del poeta, è nondimeno debitrice dell’immensa opera della lingua degli uomini, che Dante ha ereditato. Nella lingua stava tutta la realtà della vita, delle esperienze, della fede, dell’immaginario, del mondo umano fino a lui. Fuori della lingua nessuna realtà umana, nulla che si potesse ereditare e comunicare, nulla per la memoria e la speranza. Nessuna forma del presente.
La forma del viaggio oltremondano era tipica dei racconti didattico-edificanti diffusi nel 1150-1200; in un secondo tempo, a questa si sostituisce la testimonianza più o meno reticente di esperienze estatiche della realtà sovrannaturale con la descrizione di visioni potentemente immaginifiche. Valga per tutte il corpus delle visioni di Hildegard von Bingen. A uno sguardo superficiale Dante sembrerebbe inscriversi nel primo tipo, in realtà la sua opera compone i due piani accogliendo con competenza grata e intelligenza critica l’intera tradizione precedente e rifondendola in una fattispecie nuova. Con la novità della sua opera linguistica, attesta in modo originalissimo la determinante esperienza personale di Dio, profondamente emotiva ed erotica, che assume, trasfigura e compie l’intero della sua esistenza storico-affettiva. La ‘realtà’ ultima della visione dantesca è esattamente quella che si dà nel testo del suo poema (che attinge all’immenso repertorio della spiritualità cristiana) così come ha preso forma nella lingua che Dante ha ereditato e che ha riplasmato nel proprio immaginario linguistico e con la propria ineguagliata arte poetica.
In Dante la strutturale attitudine linguistica dell’uomo trova una realizzazione di eccellenza. Letterato lucidamente consapevole della singolarità del confronto in atto tra il latino e le parlate correnti, Dante si era posto criticamente la questione della lingua e, come pochi altri, si era assunto il compito di valorizzare l’opera della lingua al di là delle sue dinamiche implicite, facendo di questo uno dei compiti qualificanti della sua vita. Con la Commedia ecco che questa prospettiva non solo giunge all’apice della sua realizzazione stilistica, ma viene assunta come tema qualificante la sua definitiva responsabilità etica e quindi la sua compiuta identità morale. Dopo una determinante esperienza mistica — stando a ciò che leggiamo —, Dante diviene consapevole della portata teologica della questione della lingua e del rilievo salvifico del cimento dell’uomo con l'immaginario. Questa consapevolezza determina il suo ingaggio con un’opera di testimonianza cristiana che ha nella fatica della lingua e della scrittura il suo qualificante profilo etico. Il pellegrinaggio che Dante personaggio compie è figura letteraria, linguistica, del pellegrinaggio esistenziale di Dante poeta a partire da quella decisiva esperienza religiosa che egli colloca nella Pasqua del 1300. Pellegrinaggio in cui si misura con il male in tutta la sua concretezza corporea, con la fatica della conversione, e giunge a sperimentare Dio come lo sperimenta misticamente un corpo d’uomo vivo. Ma appunto, un corpo d’uomo si definisce sempre nell'esperienza di sé realizzata linguisticamente, e la Commedia attesta questa esperienza corporea del poeta Dante che ha per questo strumenti eccezionali, dando attualità testuale a quanto la sua «alta fantasia» ha avuto la grazia di configurare. La lingua è il corpo del poema, forma dei suoi sentimenti, delle sue passioni, dei suoi affetti, corpo dei suoi personaggi e corpo delle relazioni che si stabilirono tra questi e il pellegrino e dunque tra questi e l’autore che dà corpo al testo, riconoscendovi il proprio corpo. Corpo, quindi, dell'autore stesso nel lungo cammino in cui dà corpo al testo, vivendo in esso la sua vita. Corpo paradossale che va via via guadagnando perfezione umana per poi ‘trasumanar’, a dispetto dell’invecchiamento biologico, e che, proprio in questo paradosso cristiano, attinge alla pienezza della propria vita quando si appresta fisicamente a perderla, a riconsegnarla in uno con la consegna del testo-corpo del suo poema, forte della speranza cristiana.
Fin dalle prime terzine la comparsa di Virgilio come guida è indicazione preziosa in merito a questa prospettiva che ordina il poema. Per Dante, Virgilio rappresentava la più alta humanitas sul piano poetico, impersonava come nessun altro quell’ideale di saggezza che egli – poeta – assume a proprio ideale per un’opera la cui missione dovrà realizzarsi nella forma della parola poetica. Dante riconosce infatti una virtus del poeta che riguarda la forma singolare della sua comprensione della verità. Questa virtus comporta una configurazione altamente consapevole delle passioni, che non si risolve in ragione teoretica, ma che è pur sempre ragione, se è vero quello che aveva scritto nel Convivio e cioè che «manifesto è che vivere ne li animali è sentire [...] ne l’uomo è ragione usare». La superficiale equazione scolastica, che vuole Virgilio rappresentazione della ragione, chiede almeno si espliciti che si tratta innanzitutto della ragione poetica e della sua virtus, e che questa ragione è corporea, indissolubile dal corpo poetico di Virgilio, quindi dalla sua identità storica che la parola poetica ha affrancato dalla caducità biologica a favore di una consistenza tale che Dante ha potuto farne il proprio ‘maestro e autore’. Con questa consistenza umanamente corporea anche i nostri corpi di lettori lo incontrano nel corpo di questo testo, indissolubilmente legato, ormai, al corpo del discepolo Dante. L'etica, la teologia, la mistica caratteristiche di Dante e della sua Commedia chiedono — mi pare — di essere comprese a partire da questo sfondo.
Non è questo il luogo per richiamare neppure per titoli le acquisizioni delle varie teorie linguistiche, ma certo dal libro della Genesi a Georg Steiner non riusciamo a pensare l’uomo se non come qualificato dal linguaggio, e la questione lasciata aperta da Monod se non sia stato il linguaggio a creare l’uomo così come lo conosciamo non può escludere la risposta positiva più agevolmente di quella contraria. Ma soprattutto, connotativamente linguistica è la coscienza storica dell’uomo, la sua memoria, la sua capacità di guardare al futuro, di sperare, di dare alla propria esistenza una tensione profetica. «L’asse passato-presente-futuro è una caratteristica grammaticale che percorre tutta la nostra esperienza dell’Io e dell’Essere come una palpabile spina dorsale. Le modulazioni dell’induzione, della provvisorietà dell’ipotesi, della speranza tramite la quale la coscienza ‘si traccia la strada’, sono fatti grammaticali.» Il viaggiare dell’uomo e l'assunzione di un'attitudine da pellegrino, della storia o del cosmo o dei cieli di Dio, è possibile solo linguisticamente, nel corpo della lingua. L'opera della lingua nel suo complesso fa tutt'uno con la forma della visione, con l’esperienza esistenziale, con la responsabilità testimoniale che a diversi livelli qualifica l’umano. Oltre a tutto questo, che vale per ogni uomo, Dante è uomo del medioevo, erede della grande tradizione dei grammatici e dei retori latini non meno che di quella che si era andata evolvendo dalla rinascita carolingia al XII secolo, ed è artefice consapevole dell’opera unica ed entusiasmante della definizione di una lingua nuova, degna delle più alte aspirazioni intellettuali, affettive e religiose. La Commedia, capolavoro della sua vita, opera indissolubilmente di Dio e dell’uomo ch'egli fu, è realizzazione del suo sogno linguistico, della sua profezia linguistica. Nel De vulgari eloquentia egli aveva posto il linguaggio, nel suo singolare profilo storico, sul piano stesso dell’agire nel rapporto etico, in quello civile e sociale, in quello dell’appartenenza a una identità nazionale. C'è, a suo modo di vedere, una radice linguistica che identifica la nazione e cui tutte le parlate partecipano senza che nessuna meriti titolo di eminenza. Si tratta di una sorta di essenza comune alla varietà linguistica, che sostanzia la materia grezza dei dialetti. In riferimento a questa radice egli si è adoperato a qualificare il volgare illustre identificandolo nell’ideale di finezza e di nobiltà che si attua nella lingua della lirica d’arte e precisamente nella canzone. L'opera della scrittura concorre alla istituzionalizzazione di questa lingua che, se certo non è lingua del parlare spontaneo, ma opera di definizione intenzionale e magisteriale, tuttavia assume di potersi giovare della vitalità delle molteplici parlate che accredita in una comune appartenenza, e grazie alle quali riesce a servire docilmente le esigenze della vita attuale, degli affetti, della politica, della religione. Una lingua capace di corrispondere responsabilmente all'opera attuale della vita, della consapevolezza, della dedicazione all'impegno civile. La monumentalità della lingua latina — ben vedeva Dante — mancava ormai della necessaria «obbedienza», rivelandosi inadatta a un’opera di servizio.
[Il Latino sarebbe non] subietto ma sovrano, e per la nobiltà e per vertù e per bellezza. Per nobiltà, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile [...]. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati.
Ritengo quindi che l’attenzione alla lingua della Commedia e a quanto Dante stesso ci dice più o meno esplicitamente in proposito sia un accesso particolarmente qualificato per accostare l’opera, l’intenzione del suo autore, la forma singolare della sua responsabilità storica e della sua esperienza mistica. La convinzione che guida queste pagine è quella illustrata da Teodolinda Barolini, in particolare nel saggio che apre il suo prezioso volume The undivine Comedy. Detheologizing Dante. La studiosa dà indicazioni rilevanti per un approccio alla Commedia che renda ragione della qualità del suo autore e delle implicazioni della sua visione linguistica. Introduce la sua prospettiva componendo, in un modo che ritengo decisamente convincente, l’annosa querelle che oppone le tesi di Nardi e Singleton e i rispettivi discepoli ed epigoni. Mi permetto di richiamare qui con qualche glossa alcuni nodi delle sue considerazioni. Innanzitutto, la lettura della Commedia pone in primo piano la figura del poeta che in essa si presenta come testimone della verità, riconoscendosi un’identità profetica in senso ampio. Questa autorappresentazione fa cadere a priori la schematica distinzione tra allegoria e profezia che per Dante sono una cosa sola: «ciò che potremmo chiamare la maniera profetica dantesca corrisponde all’allegoria dei teologi di Singleton o all’interpretazione figurale di Auerbach». A Dante non interessa produrre un testo destinato ai metodi consolidati dell’ermeneutica praticati dai teologi a lui noti, il suo testo è una sorta di ‘tutto compiuto’ che custodisce in sé segni sufficienti e chiari, per chi li voglia riconoscer, del modo in cui desidera essere letto.
Dante poeta, insomma, approfitta di tutti i mezzi letterari a sua disposizione, della ricchezza e plasmabilità della lingua e della finzione letteraria, per attestare una visione della verità di cui egli era profondamente convinto, sia quanto ai suoi contenuti, sia quanto alla sua origine teologica. Questo secondo una prospettiva linguistica che proveremo a considerare. Le tecniche e le risorse della lingua sono dunque partecipi della verità teologica che in essa prende la forma di un «ver c'ha faccia di menzogna» (Inf XVI, 124). Del resto, segnala la Barolini, già Agostino aveva screditato l’equivoco secondo cui un profeta non potesse essere anche un poeta e che l’uomo ispirato non dovesse occuparsi di lingua e di retorica.
Nell’essere contemporaneamente poeta e theologus, nell’uso, cioè, di linguaggio metaforico, con i suoi pericoli inerenti, e nel dichiararsi a conoscenza di un ordine soprannaturale, l’autore della Commedia non è un'eccezione isolata; qualunque profeta, visionario o mistico che cerchi di rendere linguisticamente la verità rivelata è costretto a lottare con i limiti insiti nel mezzo stesso.
Sono i limiti della comprensione, dell’imaginativa dell’uomo rispetto alla verità. Nelle pagine successive considereremo con calma il profilo teologico della formazione del lessico della verità misticamente contemplata, qui cominciamo però ad annotare che la «lotta con i limiti insiti nel mezzo» assume per Dante poeta un profilo del tutto particolare, in ragione della consapevolezza della propria grandezza e del rilievo ben più che letterario della propria opera a favore del volgare illustre, oltre che della risonanza linguistica dell'amore: nocciolo della verità antropologica che aveva progressivamente polarizzato negli anni il suo cimento letterario. La lotta con i limiti insiti nel mezzo è, per lui, la lotta determinante della vita e della sua identità stessa, della sua vocazione storica. Non è quindi semplicemente la lotta per asservire al meglio il mezzo linguistico a una poderosa vocazione teologica di profeta. E la lotta a favore della lingua come forma eminente dell’uomo nella sua originaria identità teologica e nella sua vocazione a ‘trasumanar’: a compiere la propria identità corporea nell’intimità trinitaria. Lotta affinché l’uomo, tutto intero, fin dal profondo nucleo della sua identità affettiva che è l’amore, possa realizzare appieno la sua identità corporea nell’intimità stessa di Dio. Questa realizzazione corporeo-affettiva non può che essere linguistica. La portata della ‘tenzone’ è enorme, esistenziale, e non può che esigere l’intero della vita di Dante, che la visione mistico-profetica riconsegna al compito della sua esistenza.
Coinvolgendo senza reticenze il lettore nel pàthos del cantiere linguistico, il cui esito gli è originariamente destinato (appunto non solo come esito narrativo, ma come forma dell’umano nella sua lotta di umanizzazione e ‘trasumanazione’), Dante non si limita ad allertarlo sul «ver c'ha faccia di menzogna», suggerendo così che la verità profetica assume per la pro] propria. verace comunicazione la ‘menzogna’ letteraria quale forma della verità stessa, ma dichiara la propria Commedia un ‘non falso errore’ (Pg. XV, 117), prevenendo con questo tanta critica successiva, col ‘dire che non si tratta di una finzione che finge di essere vera, ma di una finzione che è vera. La verità profetica — di nuovo —è infallibilmente tale nella finzione poetica. Per questo la finzione non deve fingere di non essere tale, ma può limpidamente dichiararsi tale, chiedendo al lettore di riconoscere ì un'attestazione della verità. Una, non l’unica, appunto. Perché la verità trascende ogni sua attestazione, ma si dà sempre e solo nella singolarità delle sue attestazioni. Tra queste, l’attestazione narrativa e l’attestazione poetica sono quelle che eminentemente fanno della lingua la questione della verità.
«Per tirare le somme, propongo di accettare l’insistenza di Dante e di credergli quando sostiene di aver detto il vero», prendendo atto che lo fa con la stessa determinazione con cui la Sacra Scrittura pretende di accreditare la vera profezia. Coraggiosamente, Dante rivendica per la sua opera la veridicità della Sacra Scrittura stessa, quale opera attuale della Parola di Dio nella storia degli uomini.
In sintesi, non solo dobbiamo lasciare che sia la Commedia a dirci tutto quello che c'è da dire in forza della sua stessa forma linguistica, dei suoi intrecci, dei suoi rimandi, della sua struttura, ma soprattutto dobbiamo ritenere che l’immane fatica linguistica che, si attesta nella Commedia sia esattamente quello che la Commedia dice: l'itinerario spirituale, intellettuale, politico, umano di Dante Alighieri dal mezzo del cammino della sua vita fino alla fine. Che il cammino di redenzione e di salvazione che il testo attesta sia esattamente quello che il poeta ha compiuto nella realizzazione del testo, esperienza integrale del proprio corpo indissolubile dalla lingua in cui questo cammino-testo ha preso forma. Dunque, non la lingua come strumento per comunicare al lettore delle immagini, ma la lingua che realizza quelle immagini, dando corpo all’esperienza del pellegrino poeta e scrittore. Questi, come ogni scrittore e come accade in ogni autentica esperienza linguistica, sa di non identificarsi semplicemente con la propria lingua, con i propri personaggi, neppure con il personaggio di se stesso, con i sentimenti che evoca e intende raccontare, né con quelli che lo animano all’atto della scrittura. Ma sa nondimeno di essere tutto questo insieme, nel gioco di tutti i legami che così si generano proprio nel corpo del testo. Tanto più se l’opera cui ha posto mano è opera che ha la pretesa di assumere riscattare e portare a compimento tutto ciò che è stata la sua vita, attorno a un asse riconosciuto ormai come esclusivo: l’opera della scrittura in uno con l’opera di affinamento di una lingua. In questo, paradossalmente, la lingua è l’aspetto più rilevante della Commedia, il corpo in cui s’incarna l’intera vicenda spirituale di Dante, il progresso che lo ha portato da un evento centrale di conversione fino alla fine dei suoi giorni.